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Autore: muffin12    21/08/2021    1 recensioni
Uno studente in cerca di lavoro, un neo ristoratore che vuole avviare la sua attività, tre panchinari in attesa di un'occasione per svoltare entrano in un bar. Solo che il bar è Onigiri Miya e la barzelletta è troppo vicina alla realtà per essere veramente divertente.
Finite le superiori si entra nel mondo reale. E il mondo reale è pronto per ucciderti.
Storia di come Sakusa sia riuscito a superare l'università, di come Osamu abbia messo in piedi il suo marchio e di come Atsumu, Suna e Komori siano diventati titolari.
Pairing: SakuAtsu, OsaSuna e accenni di inizio OsaSunaKomori.
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Motoya Komori, Osamu Miya, Rintarō Suna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Anno 3
 
“Ho sentito Wakatoshi. Si sta allenando duramente.”
 
Atsumu aggrottò le sopracciglia, continuando ad annusare il collo di Omi e poggiando le labbra sulla sua pelle sottile. Poteva sentire il suo cuore scandire regolarmente i battiti e le vibrazioni della sua voce dritte sul viso e pensò che, se il suo ragazzo aveva la voglia di parlare di Wakatoshi del cazzo mentre stavano sul divano a far finta di guardare la televisione, forse non stava facendo un così buon lavoro. Fece scivolare le mani sotto la sua maglia senza salire oltre la cinta, accarezzandogli i fianchi con dita leggere e sentì il suo respiro tremare leggermente. Ghignò.
 
Cominciò a lavorare di bocca, lentamente, baciandogli la colonna del collo con sole labbra, pennelli umidi e lascivi, poggiando i polpastrelli più aderenti sulla pelle calda della vita. “Ha detto che ha intenzione di … di provare una cosa e … e …” Aprì la bocca e gli fece sentire un lieve accenno di denti, raschiando piano. Lo sentì inspirare forte e muoversi in avanti con il torace, avvicinandosi a lui. “Puoi smetterla?” Sibilò, portandogli una mano sul retro del collo e stringendo leggermente, spingendolo contro di lui in completo contrasto con le sue parole.
 
“No, continua.” Gli mormorò Atsumu dritto sulla pelle bagnata di saliva, vedendola reagire immediatamente al suo respiro. Strofinò il naso sotto la sua mandibola, facendosi scappare un sorriso soddisfatto. “Sono veramente preso da Ushiwaka in questo momento. Sai che non riesco a diventare duro se non lo nomini minimo tre volte ogni cinque minuti.” Gli morse leggero la spalla ancora coperta dalla maglia, con suo sommo dispiacere, e Omi gli tirò una ciocca di capelli senza cattiveria.
 
“È una cosa importante.” Gli disse direttamente sulla tempia, baciandola di scuse. “Potrebbe essere utile.”
 
Atsumu si staccò da lui per guardarlo in faccia, l’espressione esasperata. “Omi, credimi, puoi dirmelo dopo.” O mai, davvero. Non gli fregava assolutamente niente di Ushiwaka, avrebbe passato la sua intera vita in maniera completa ed appagante senza parlare di Ushiwaka. Per quanto lo riguardava, poteva tranquillamente andarsene a quel paese insieme a Tobio-kun e lasciarlo in pace ad approfittarsi bassamente del suo ragazzo.
 
“Dopo saresti inutile o ti metteresti a dormire.” Lo rimproverò piano, passandogli l’indice sulla fronte rapito da chissà che cosa.
 
“Ti giuro, non ho intenzione di dormire.” Un sorriso malizioso gli si allargò in faccia e vide Omi arrossire leggermente, imbronciandosi per l’allusione. “Fidati, ho programmi.” Aveva aspettato che Samu se ne andasse da Suna per tutti gli ultimi giorni di dicembre, e ora che aveva casa completamente libera per una settimana intera aveva intenzione di battezzare tutte le stanze dell’appartamento e vedere, sistematicamente, la totalità delle sue fantasie andare in frantumi davanti il categorico rifiuto di Omi. Sì, ormai prevedeva le risposte e si adattava di conseguenza.
 
Il sesso, però, non sarebbe mancato, almeno in posti approvati dal suo ragazzo rompicoglioni.
 
Lo avrebbe convinto diversamente, prima o poi. Era questione di tempo. Doveva solo trovare la leva giusta.
 
“Non mi fiderei di te nemmeno per tenermi una matita.”
 
“Sappiamo entrambi che è una bugia.” Gli prese le labbra con le sue, muovendosi pigramente su di loro e toccandole appena con la lingua. Si allontanò di pochi millimetri e si godette il suo sguardo languido. “Mi hai dato ben più di una matita.”
 
Questo sembrò non piacere ad Omi, che aggrottò la fronte e l’espressione guadagnò di lucidità. “Fai schifo.”
 
“Andiamo, era una battuta! Era una battuta!” Omi gli prese le mani e le allontanò da lui. “Omi, cazzo, era per ridere!”
 
“Devo parlarti. Seriamente.”
 
Atsumu si fermò, poggiandogli però le mani sui lati delle cosce, massaggiandole leggermente. Non era il caso di sfidare la fortuna andando oltre in quel momento, ci sarebbe stato tempo. “Non mi stai lasciando per Ushiwaka, vero?” Domandò comunque con tono cauto, gli occhi stretti di sospetto. “Perché avrei tutto il diritto di staccargli le palle con delle forbici arrugginite e farti una scenata tale da svegliare tutto il quartiere.”
 
“Ti sembra di operare sullo stesso livello?”
 
“Omi, che domande, tu mi servi intatto, non ci sarebbe divertimento altrimenti.” Lo beccò sulle labbra e gli sussurrò piano. “Mi stai davvero lasciando per Ushiwaka?”
 
Sakusa sospirò con dolore, strizzando le palpebre. “Smettila di dire stronzate, perché mi fate tutti la stessa domanda?”
 
Tutti chi? Avrebbe voluto chiedere Atsumu sconvolto, ma Omi lo zittì con un bacio decisamente accessoriato e il cervello si spense per qualche secondo. Sì, aveva imparato velocemente un metodo molto efficace per farlo tacere. Potevano esserci controindicazioni, ma Omi non era niente se non dedicato al suo scopo.
 
Atsumu era a conoscenza che, nel momento in cui la lingua di Omi avrebbe toccato timidamente la sua, sarebbe andato, partito, la sua capacità di pensiero avrebbe fatto le valigie e sarebbe tornata solo a cose finite, mentre erano ansimanti sul letto in mezzo a lenzuola spiegazzate e tanta voglia di ricominciare da capo. Era già successo varie volte. Non si lamentava per niente.
 
“Sta perfezionando il suo mancino.” Gli sussurrò Omi dritto sulle labbra, baciandogli un angolo con tocco delicato. Atsumu stava avendo difficoltà a concentrarsi sulle sue parole. “Sta perfezionando il suo mancino e dovremo lavorare il triplo per tenerlo in gioco.” Si spostò sulla mandibola, leccando piano e muovendosi languido. Non stava aiutando per niente con la sua già provata capacità d’attenzione.
 
“Asp-aspetta.” Atsumu lo prese per le guance e lo riportò dritto, guardandolo negli occhi. No, non andava bene, aveva un’espressione troppo morbida e avrebbe ceduto ad ogni cosa avrebbe chiesto. Mantenendo la faccia di Omi in posizione, strizzò forte le palpebre e parlò di nuovo. “Ora va bene, dimmi. Che sta facendo quel bastardo?”
 
“Perché hai gli occhi chiusi e mi tieni la faccia?” Domandò Omi, la voce che usciva stretta tra le guance schiacciate. “O, meglio, chi ti ha detto di toccarmi la faccia?”
 
“Sei distraente. E pericoloso. E stavamo pomiciando fino a tre secondi fa, non ci ho pensato, ti da fastidio?”Atsumu lo sentì sorridere leggermente in risposta e sospirò, cercando di darsi un contegno. “Quel cazzo di mancino può davvero diventare più infame?”
 
“Sembra di sì.” Omi gli staccò le mani dal viso e sbuffò dal naso, appoggiandosi allo schienale del divano con un fianco. “Tu cosa hai intenzione di fare?”
 
Cosa aveva intenzione di fare? “A quanto pare non sesso.” Brontolò, aprendo gli occhi e guardandolo un po’ male. Omi fece un sorriso piccolo e divertito e questo lo riportò nel giusto stato d’animo. “Niente?”
 
“Devi dirlo alla squadra. Dovete essere preparati, è diventato più combattivo dopo i mondiali.”
 
Ah, sì, il mega flop in diretta televisiva. Atsumu ancora ghignava quando ci ripensava.
 
Omi lo giudicò severamente. “Smettila. Sarebbe potuto succedere a chiunque.”
 
“Ma è successo a lui e la cosa mi riempie di gioia e letizia.” Rispose ridacchiando. “Dirò a Wan-san di darsi da fare di più, che ti devo dire.” E spostò lo sguardo sullo schermo della TV, su cui ancora andava avanti la soap coreana che piaceva tanto a Omi e al signore strambo di ottocento anni, cliente fisso del ristorante di suo fratello.
 
Sakusa lo valutò tranquillamente, studiandolo con calma. Osservava Atsumu guardare la televisione con un trasporto che non aveva mai avuto per Kyung-Soon e le sue avventure francamente imbarazzanti. Era rapito per il monologo della madre della protagonista, una signora infame che tramava ogni volta per una cosa diversa, ma poteva vedere i suoi occhi muoversi in piccolissimi scatti per controllarlo con quello che credeva essere un incredibile esempio di furtività.
 
Sakusa sospirò. Atsumu non era mai stato un ottimo attore, né un investigatore quantomeno decente. “Hai qualcosa in mente, vero?” Gli domandò con tono leggero, facendolo sussultare. Sì, davvero, era pessimo.
 
“Cosa vorresti dire?”
 
“Non mi devi dire cosa, lo capisco. Siamo rivali.” Allungò la mano verso la sua e intrecciò i mignoli con tenerezza. Atsumu cominciò a sentire sudore freddo formarsi sul retro del collo, fiutando il pericolo. “Mi accontento di sì o no.”
 
“Biscottino alla panna acida, guardi troppi drama.”
 
Sakusa ignorò la punta di irritazione al nomignolo deficiente e senza senso, perché era una tattica bella, buona e consolidata distogliere la sua attenzione facendogli saltare i nervi con cazzate del genere.
 
Non avrebbe ceduto. Voleva giocare? Lo avrebbe fatto.
 
Sarebbe stato ancora più meschino.
 
“Sì o no, Atsumu.” Atsumu lo guardò con gli occhi spalancati e la bocca aperta. Quel grandissimo bastardo.
 
“Non puoi fare così.” Mormorò a voce bassa, inspirando forte. No, non poteva, non poteva. Se avesse parlato Meian lo avrebbe scuoiato vivo. “È scorretto.”
 
“Così come, Atsumu?”
 
“È meschino anche per te, dovresti vergognarti.”
 
Atsumu?
 
Atsumu strizzò forte le palpebre. “Non puoi chiamarmi per nome perché vuoi sapere delle cose.” Scattò, spalancando poi gli occhi con aria accusatoria. “Non vale, è una tecnica che non puoi usare quando ti pare.”
 
Invece sì. Lo sapeva lui e lo sapeva Omi.
 
Omi gli afferrò meglio la mano, portandosela vicino e cominciando a giocare con le dita. Gli erano sempre piaciute le mani di Atsumu, era con quelle che controllava in maniera così splendida e precisa ogni movimento della palla, ogni singolo scatto, ogni vibrazione. Da quando andavano a letto insieme, gli piacevano anche per altre cose, trovandole ugualmente talentuose. Avrebbe preferito essere morto prima di ammettere davanti a lui qualsiasi cosa.
 
Trascinò il dito sul suo palmo, seguendo la linea della vita con riverenza. “Non posso chiamarti Atsumu?” Domandò con tono di voce basso e molto accattivante, abbassando le palpebre sugli occhi liquidi. Avvertì lo sguardo pieno di panico e fame insieme di Atsumu su di lui e si sentì decisamente potente. “Mi piace chiamarti per nome.”
 
“Non è vero.” Atsumu respirò più forte. “Non mi chiami mai per nome.”
 
Questo non è vero.” Sentì il gemito appena trattenuto di Tsumu al ricordo improvviso del contesto in cui a Sakusa piaceva chiamarlo, o urlarlo quasi quando era particolarmente investito, e le labbra si alzarono leggermente. Aveva praticamente vinto. “Mi ricorda cose.”
 
“Cose?” Si ritrovò a chiedere Atsumu d’istinto con voce strozzata e si morse la lingua per zittirsi. “Dio, pensavo fosse bello poterti toccare senza che scattassi con disinfettante e cattiveria, ma non volevo mi si ritorcesse contro.”
 
“Le pensi anche tu?”
 
Ovvio che sì, era un pensiero fisso ogni volta che immaginava anche solo il nome di Omi. La sua mente era piena di occhi lucidi e vogliosi, di calore e profumo, di mani che artigliavano e imprecazioni schiacciate contro la pelle nuda, ma non era giusto che lo usasse a suo vantaggio in quel modo. “Sei cattivissimo.” Borbottò, sentendo il respiro farsi più veloce e qualcosa muoversi interessato nel bassoventre. Omi aveva cominciato a diventare più rosa sulle guance e quello stava a significare che stava avendo idee.
 
Erano belle, le sue idee. Portavano sempre ad orgasmi grandiosi.
 
“Cosa pensi?” Chiese Atsumu, portando la mani sulle sue gambe, tracciandone la lunghezza con pressione lenta e appena accennata. Il suo ragazzo era investito quanto lui e ne avrebbe approfittato in modo vergognoso per ribaltare la situazione a suo favore.
 
Ma non aveva fatto i conti con la capacità di concentrazione assoluta di Omi, che si alzò appena sulle ginocchia affondando nei cuscini del divano e sporgendosi verso di lui, quasi toccando il naso con il suo. “Sì o no, Atsu?” Sussurrò piano, languido. Sentiva il respiro sulla sua bocca ed era così vicino che avrebbe potuto prendere le sue labbra senza nemmeno muoversi.
 
Atsumu chiuse le palpebre e sospirò. Era morto.
 
“… Sì?” Omi sorrise vittorioso e si allontanò, riportando il sedere al suo posto e ricominciando a guardare la televisione, un ghignetto soddisfatto stampato in faccia. Atsumu piagnucolò. “Non vale!”
 
“Non ti chiedo cosa, non ci sarebbe gusto, voglio solo essere preparato per la tua prossima giocata infame.” Atsumu allungò le mani verso il suo interno coscia con fare deciso e Omi lo fermò bloccandogli la strada. “Non ci provare.” Sibilò.
 
“Sei tu che mi hai sedotto, è la conseguenza delle tue deprecabili decisioni.” Ghignò, afferrandolo come un sacco di patate e sistemandoselo a cavallo sulle gambe. Omi si fece maneggiare facilmente con sguardo torvo, ma il fatto che glielo permettesse e non lo prendesse a testate era di per sé una dichiarazione bella e buona. “Sei bello così. Ti va di provarlo?” Propose con un sorriso allungato un po’ troppo furbo.
 
Omi lo guardò con espressione pizzicata ma decisamente meno combattiva del solito. “Più tardi.” Accettò con grazia, segno che era non vedeva l’ora quanto lui. Atsumu esultò interiormente. “Sono stato convocato per delle prove di reclutamento.” Gli raccontò, strofinandosi le mani sulle gambe e storcendo un attimo il naso.
 
Quella non era una cosa di cui Atsumu parlava volentieri. Sapeva che Omi era ricercato in lungo e in largo dalle squadre professionistiche, ma non gli piaceva pensare di avere meno di un anno da passare nella sua stessa città. A meno che, certo, i Jackals non lo avessero chiamato per dei provini e Omi accettasse di presentarsi, ma erano variabili a cui non voleva pensare troppo. Ci sarebbe rimasto troppo male. “Dove?” Chiese quindi con tono forse troppo leggero.
 
“Hiroshima. E Tokyo.”
 
Ah. Kiryuu e Ushiwaka. “Non pensare ai giocatori, pensa a me.” Lo rimproverò Omi, stringendolo tra le cosce in maniera poco sensuale e decisamente aggressiva. Era bello che potesse leggerlo come un cazzo di libro, ma non voleva essere trasparente in quel preciso momento. “Che ne pensi?”
 
“Penso che saresti grande ovunque, Omi.” Pensava che voleva godersi quei giorni e non perdere tempo ad immaginare il futuro. Non gli piaceva quel futuro. “Surclasseresti tutti con i tuoi tiri a effetto e gli Adlers hanno Romero. So quanto vorresti giocare con Romero.”
 
“A te piacerebbe giocare con Romero.” Sì, ma lui non era Sakusa Kiyoomi. E lui aveva giurato fedeltà ai Black Jackals da quando l’allenatore Foster lo aveva avvicinato durante l’ultimo Interhigh, puntando tutto su un ragazzino arrogante con una tinta di capelli discutibile, vedendolo crescere ad ogni allenamento e ad ogni partita, spronandolo a rialzarsi ad ogni sconfitta e a mostrare il suo talento con orgoglio.
 
“Come faresti con l’università?” Domandò piano. “Hai ancora un anno.”
 
“È una cosa di cui parleremo dopo. Non smetto di studiare solo perché lo vogliono loro.” Atsumu se lo schiacciò addosso, stringendolo tra le braccia e appoggiando la fronte contro il suo petto. Sentì le sue mani sulla nuca, intrecciandosi con i capelli biondi e massaggiando la cute piano con unghie e polpastrelli. “Atsu …”
 
“Omi, saresti la fottuta star ovunque tu vada.” Però aspetta, cercò di dirgli senza successo, aspetta noi, aspetta i Black Jackals. Dacci una possibilità.
 
Non lasciarmi.
 
Le dita di Omi passarono ad un movimento rotatorio, lente e precise. “Smettila di pensare cose stupide.” Mormorò e la voce rimbombò nel petto dritta sulla testa di Atsumu. “Ho un anno e qualche mese per decidere cosa fare dei miei polsi strani.”
 
“Un anno passa in fretta.”
 
“Appunto.” Lo afferrò per i capelli e lo costrinse a piegare il collo all’indietro, facendolo strillare. “Vuoi stare qui a piagnucolare o vuoi scopare?” Sistemò meglio la presa, facendogli vedere stelle di dolore.
 
“Si chiama fare l’amore.” Se ne uscì Atsumu con tono gracchiante, facendogli roteare gli occhi. “Chiamalo come ti pare, andiamo a letto sì o no?”
 
Atsumu passò le braccia sotto il suo sedere e, con un grugnito animalesco e un ottimo lavoro di addominali, si alzò in piedi, portandoselo dietro e sistemandolo su una spalla come un sacco molto poco collaborativo. “Che cazzo fai?” Lo sentì strillare, mentre afferrava l’aria per istinto, artigliandogli poi i capelli con una mano e la maglia con l’altra, non trovando nient’altro di solido a cui aggrapparsi, piantandogli per sbaglio un ginocchio nell’addome. “Non peso quaranta chili e sono più alto di te, vuoi farti uscire un’ernia?”
 
“Omi, tiro su roba più pesante di te.” Gli rivelò con voce un po’ sofferente, assestandogli una pacca sul sedere un po’ per dispetto e un po’ per farlo stare fermo. Omi fece uscire un suono indignato. “Andiamo a letto, oggi ti faccio urlare.”
 
 
 *
 
 
Osamu sapeva di avere un problema.
 
Aveva preso coscienza di questa situazione da un po’ di tempo, in effetti. Un anno o giù di lì.
 
Era iniziato tutto come se un peso invisibile si fosse attaccato alla sua schiena. Una sottospecie di koala maniaco che era strisciato su per la sua spina dorsale, aggrappandosi con quelle manine dalle unghie oscenamente lunghe e dure alle sue spalle, masticandogli addosso e facendo probabilmente altra roba schifosa sulla sua maglietta pulita.
 
Lo aveva avvertito a malapena i primi giorni. Era una presenza leggera, quasi volatile, una cosa che non sapeva spiegare ma che si sentiva appiccicato tra le scapole e lo spingeva leggermente giù, mandandogli all’aria il baricentro. Era una punta più acuta di fastidio a fine giornata, quando rimaneva solo nel locale ad aspettare Atsumu e si guardava intorno con la sensazione di aver combinato poco o nulla. Ma era uno stato d’animo talmente irrisorio e fugace, temporaneo, da non farci nemmeno caso. Non gli lasciava addosso nessuna preoccupazione inutile, solo un senso di disagio generale.
 
Dopo aver parlato con Rin, inoltre, le cose avevano preso una piega più propositiva e, pian piano aveva ingranato diversamente, riempiendo la testa di altri pensieri.
 
Pensava a pubblicità, ad esempio, a piattaforme social, a tessere sconto e menù di degustazioni. Le giornate si erano riempite diversamente, affollando le ore con proposte ed esperimenti, cercando di studiare i margini economici ed osando con azzardi che a volte si erano rivelati deludenti, ma altre avevano dato soddisfazioni indescrivibili.
 
Non aveva tempo per qualsiasi marsupiale emotivo avesse deciso di abitargli addosso. Sicuramente, alla fine, si sarebbe stufato e sarebbe scomparso da solo.
 
Insomma, alla fin fine aveva un curriculum di tutto rispetto per situazioni che richiedevano una certa stabilità mentale.
 
Aveva fatto parte di una team di pallavolo di pazzi scatenati (Kita-san in primis, lui e il suo bisogno spasmodico di pulire ogni angolo di qualsiasi cosa. Il rispetto che nutriva per lui non era quantificabile ma, dopo anni, ancora si svegliava nel cuore della notte con i sudori freddi dopo aver sognato solamente i suoi occhi galleggianti in un niente di buio, giudicanti e delusi dal suo comportamento generale. Di solito metteva a sbrinare il freezer quando succedeva, conscio che non sarebbe più riuscito a dormire).
 
Era sopravvissuto ad una squadra capitanata da Atsumu. Atsumu, cazzo. Solo uno squilibrato in libertà avrebbe nominato Atsumu capitano (a conferma dei suoi pensieri su Kita-san. E facendogli fare qualche seria domanda sul loro allenatore). Era stata un’esperienza che solo un orrendo trip di allucinogeni tagliati male avrebbe potuto eguagliare.
 
Aveva il ricordo nitido di Kosaku-kun che guardava con occhi scevri di voglia di vivere il cesto in metallo dei palloni, lo prendeva per i bordi e lo alzava, tentando di batterlo sulla testa piena di ego di suo fratello, bicipiti gonfi e un cieco moto omicida che lo spingeva avanti e non gli faceva sentire la fatica. Salvare la vita di Atsumu era stato un lavoro a tempo pieno.
 
Sì, avevano raggiunto risultati considerevoli sotto la sua guida, ma non lo avrebbe augurato al suo peggior nemico.
 
Kosaku-kun era diventato il suo commercialista, tra l’altro. E salutava suo fratello con entrambe le dita medie alzate. Osamu lo incoraggiava. Sakusa approvava. Atsumu piagnucolava.
 
Era corso incontro a lezioni di cucina ed economia aziendale contemporaneamente, riuscendo a terminare i corsi ottimamente in un singolo anno (e qualche mese), tirando su un dannato ristorante dal nulla e mantenendo detto ristorante alto nel suo nome, strofinando il suo orgoglio in faccia a tutti quelli che non ci avrebbero scommesso mezzo yen, investitori in primis.
 
Era capitato qualche periodo di sconforto ovviamente, in fin dei conti non poteva andare sempre liscio, ma era sempre riuscito a risollevarsi con forza, mento in alto e spalle indietro, avanti tutta a rompere culi.
 
Il koala, però, aveva avuto l’ardire di ingrassare.
 
Pesava sempre più sulla sua spina dorsale, diventava ogni giorno più ingombrante e presente e si stava trasformando, con suo enorme disappunto, in Jiaozi nel momento cruciale in cui decise di scoppiare addosso a Nappa. 
 
Ora, sapeva che lui non sarebbe esploso. In fin dei conti neanche Nappa l’aveva fatto, rendendo del tutto inutile lo scenografico sacrificio di Jiaozi, ma i suoi nervi non avevano tutta quella resistenza.
 
Quel cazzo di peso gravava sul suo stato d’animo come un mostriciattolo odioso, alimentandolo di insofferenza e condendo le sue giornate con picchi di irritazione che lo facevano scattare per un nonnulla.
 
Faceva di tutto per arginare il nervoso, cercando di non portarlo al lavoro e di non farlo vedere, ma più andava avanti e più era difficile.
 
Sakusa era nel suo ultimo anno di università e doveva dividersi tra il suo ruolo di asso confermato e quello nuovo di vice capitano, tra provini per squadre professionistiche in tutto il paese, lezioni e futuri esami, allenamenti, partite ufficiali e amichevoli. Era decisamente stressato e lo aveva avvertito che, se avesse avuto la brillante idea di urlargli contro per stronzate al lavoro, gli avrebbe fatto molto male. Intanto, quando vedeva che l’umore generale non era dei migliori, tendeva a stargli lontano e continuare con le sue mansioni senza nemmeno guardarlo due volte.
 
Osamu aveva ringhiato tra i denti per l’affronto, ma era stato silenziosamente d’accordo con la sua decisione. Anche perché Sakusa aveva quell’aura indipendente da gatto selvatico che l’aveva sempre circondato e ormai non aveva più bisogno di essere seguito e guidato all’interno del ristorante, quindi tanto meglio.
 
Inoue-san, invece, incassava la testa tra le spalle e si beccava sproloqui senza fiatare. Sapeva che non era rivolto contro di lui personalmente, quindi aveva deciso di lasciar sfogare il suo capo e intanto occupava il tempo pensando alle faccende che aveva lasciato in sospeso a casa.
 
Osamu, in fin dei conti, non era uno di quei titolari che si divertiva ad umiliare davanti la clientela. Era abbastanza padrone di sé da scattare in privato dove nessuno l’avrebbe visto e sentito, quindi lo faceva sgolare per bene, consapevole che alla fine si sarebbe scusato fino alle lacrime e gli avrebbe regalato qualche leccornia buonissima per lui e la sua ragazza.
 
Osamu sapeva che era profondamente sbagliato un comportamento del genere. Gli dispiaceva tantissimo e non riusciva più a sopportarlo. Poteva soprassedere dal prendersela con Atsumu a casa, che comunque era la sua fonte costante di irritazione privata, ma non doveva in alcuna maniera permettersi di sfogare i nervi contro altre persone.
 
Nel grande schema delle cose, era consapevole si trattasse di un problema stupido in confronto a molti altri. Davvero, lo sapeva. Era qualcosa di assolutamente risolvibile e per lo più temporaneo. Doveva solo mettersi l’anima in pace e darsi a fare, attendere qualche anno e tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi.
 
Il problema, infatti, era quello: Osamu era stufo. Non riusciva più ad accettarlo, non voleva più accettarlo.
 
Aspettare qualche anno, come preventivato inizialmente, era sembrato semplice. Cosa sarebbe cambiato, in fondo? Avrebbe dovuto solo rimboccarsi le maniche e fare del suo meglio, cercando di incanalare tutte le frustrazioni e i pensieri negativi nell’attività che gli dava più soddisfazione al mondo.
 
Ma, doveva ammetterlo, era arrivato ad un punto in cui era stanco di aspettare in generale. Aveva la sensazione che tutta la sua vita si fosse basata sull’attesa, come un enorme blocco statico che rimaneva tale e non andava né avanti né indietro e non ce la faceva davvero più.
 
Il nocciolo del suo malumore era semplice: doveva trovare il modo di riavvicinarsi a Rintarou.
 
Passare le uniche vacanze che si concedeva per tutto l’anno e qualche finesettimana occasionale insieme al suo ragazzo era stupendo. E non parlava solo di sesso. Anzi, era arrivato ad un punto in cui il sesso era solo una cosa in più da poter fare insieme.
 
Fino a qualche tempo prima sembrava la più importante, l’unico modo in cui poteva sentirlo vicino dopo mesi di lontananza, il solo mezzo con cui potergli far capire quanto gli fosse mancato, una sorta di ripristino dell’energia vitale di cui non riusciva a fare assolutamente a meno. Era arrivato al punto in cui era diventato solamente un elemento del suo rapporto. Non perché non fosse spettacolare, tutt’altro, ma aveva bisogno di altro.
 
Aveva bisogno di sentirlo lamentarsi del suo ruolo di lavapiatti designato ogni volta che si finiva un pasto, borbottando contro l’acqua saponata che colava lungo tutto il braccio e gli finiva nelle maniche del maglione.
 
Aveva bisogno del suo ghigno derisorio per le sue litigate con quel catorcio di lavatrice che lui e Motoya si rifiutavano di sostituire, asserendo che The Black Hole (Holly per gli amici) fosse ormai parte integrante della famiglia. Il nome, ovviamente, lo aveva dato Motoya, che stava allargando i suoi oscuri gusti cinematografici anche su di lui. Era particolarmente bravo a nominare le cose: Osamu era arrivato da loro con sette paia di calzini, era tornato a casa con cinque elementi in meno e, dopo tre mesi e mezzo, ancora non aveva idea di dove fossero finiti.
 
Aveva bisogno di sentire Rin e Motoya canticchiare i jingle discutibili delle pubblicità in momenti topici, come quando stava per girare una frittata dalla nascita sfortunata, o quando era il momento di stirare le camicie, o quando cercava di capire che fine avessero fatto le mutande che aveva messo a lavare il giorno prima, brandendo il manico della scopa con il desiderio di vedere la lavatrice fare una bruttissima fine, o, ancora, quando Rin usciva fuori dallo sgabuzzino con l’aspirapolvere in mano per costringere Motoya a ripulire il macello che aveva creato cercando di rinvasare Fury, attività che lo spingeva ogni volta a sporcare di terra e fertilizzante l’intero appartamento.
 
Aveva bisogno di partecipare alla lotta all’ultimo sangue ai videogames ogni volta che si doveva designare il perdente costretto a scendere a buttare la spazzatura, o caricare l’asciugatrice, o andare a fare la spesa, scontri epici che terminavano ogni volta con accuse di alto tradimento e i ricatti più infimi.
 
Aveva bisogno di sentirlo vicino per ascoltarlo raccontare dei suoi allenamenti, infervorarsi per le partite, lamentarsi delle gelatine che non aveva trovato al konbini in fondo alla strada, borbottare contrariato riguardo gli appuntamenti di Motoya, che inizialmente non capivano perché non riuscissero mai a passare la loro approvazione, prendere in giro Washio-kun, ultimo interesse amoroso (non ricambiato, perché Washio-kun era un gentiluomo rispettoso della legge e della decenza) della sorellina di Motoya, Maki-chan.
 
Erano cose cretine, cose di tutti i giorni. Ma erano stranamente importanti, erano diventate la routine di Rintarou e sentiva che la sua assenza al suo fianco era pesante.
 
Anche Motoya faceva ormai era entrato a far parte di quel circolo di abitudini.
 
Era diventata una consuetudine piacevolissima arrivare al loro appartamento e trovarlo sdraiato sul divano a guardare programmi su pesca mostruosa in televisione, osservando con espressione oltraggiata l’aspetto orribile della fauna ittica recuperata con metodi astrusi, salutandolo con un sorriso enorme e facendogli trovare sempre qualche snack curioso che era sicuro gli sarebbe piaciuto.
 
Quell’anno, inoltre, era la prima volta che passava le vacanze di Natale e Capodanno con loro perché, a suo dire, “Sono stato abbandonato crudelmente da tutta la mia famiglia per l’Hokkaido. Ah, e da Kiyoomi. Che problema ha Kiyoomi? Perché mi ignora? È il cugino più cattivo del mondo. Mi manca la sua faccia incazzosa.”
 
(Osamu non sapeva esattamente come avesse passato Sakusa quelle vacanze ed era sicurissimo di non volerlo scoprire. Atsumu era stato anche troppo sfuggente e sua madre gli aveva assicurato che l’aveva visto a casa per le feste obbligate, accompagnato oltretutto, poi era scomparso per farsi vivo solamente per le classiche telefonate serali.
 
La mamma insisteva stesse frequentando qualcuno che si divertiva a chiamare Omi e che le piaceva molto. Osamu era sicuro che avesse semplicemente passato quei giorni ad affinare le sue capacità di stalker dando il tormento a Sakusa, ovunque fosse finito a far danni.
 
La mamma aveva riso e gli aveva detto che era un idiota, attaccandogli il telefono in faccia.
 
L’ignoranza, alla fine, era stata praticamente una scelta obbligata.)
 
Motoya era stato carinamente attento a lasciare loro spazio personale e, doveva ammetterlo, non se lo aspettava con il suo carattere particolarmente furbo.
 
A sua discolpa, era abituato ad Atsumu che entrava in camera urlando stronzate ogni santa volta si ritrovava con le mutande abbassate ad avere del tempo privato con Rin. Aveva standard molto bassi.
 
Inoltre, con somma preoccupazione, gli era dispiaciuto. Motoya era diventato qualcuno da cui difficilmente lui e Rin riuscivano a staccarsi.
 
Ne avevano parlato, ovviamente.
 
Non era stata una chiacchierata facile, anche se alla fine si era rivelata un po’ piacevole: rendersi conto che Motoya si era insinuato nella loro esistenza con il suo solo sorriso (e l’atteggiamento bastardo, dovevano ammetterlo) e ci stava benissimo, li aveva spaventati come nient’altro al mondo.
 
Era stato difficile affrontare l’argomento con Rin.
 
Il dubbio che la lontananza aveva spinto la scintilla di interesse verso qualcuno che non era il suo ragazzo lo portò a dubitare di tutto: di sé, dei suoi sentimenti, della sua vita. La sola cosa che lo teneva ancorato alla sanità mentale era che l’amore per Rin non era appassito, tutt’altro. Lo cercava con un bisogno primordiale, lo spingeva a mettere tutto sé stesso nella sua attività, ne sentiva la necessità come se fosse aria.
 
Solo che Motoya si era aggiunto all’equazione con una naturalezza che non si spiegava. O forse sì.
 
Rin l’aveva preceduto, come succedeva sempre per le cose importanti. Era stata la conversazione più difficile e più cruda che avessero mai affrontato, perché avevano bisogno di organizzare i passi da compiere. Scoprire che Rin non era indifferente al suo compagno di squadra, e che, anzi, finalmente riusciva a capire perché non voleva uscisse con altre persone, gli sollevò l’animo tanto da farlo piangere.
 
Settimane di discussioni portarono alla decisione di andarci con i piedi di piombo. Solo che, con il suo fare assolutamente privo di tatto (lo riconosceva, era un problema di famiglia) e la parlata maliziosa e ammiccante di Rin quando aveva un obiettivo, la situazione poteva scoppiargli in mano da un momento all’altro.
 
Senza contare la capacità di Motoya di tenerli in punta di piedi e non fargli capire granché.
 
La soluzione, quindi, era fare qualcosa per accelerare i tempi. O, se era fortunato, i tempi erano giusti ed era il momento di fare il grande passo.
 
In qualche modo, però, doveva saltare.
 
Osamu sospirò, strofinandosi le palpebre con dita forti e mugugnando suoni inarticolati. “Spara.” Pregò con tono di voce distrutto. Si portò le mani ai capelli, tirandoseli all’indietro ed affondando la faccia tra le braccia, gli occhi strizzati fino a farsi male. “Come sono messo?”
 
Kosaku-kun, davanti a lui, lo guardò da sopra le lenti dei suoi occhiali da vista, le sopracciglia talmente alzate da sfiorare l’attaccatura dei capelli, ammirando quella squisita dimostrazione di teatralità che tanto piaceva ad entrambi gemelli Miya, malgrado la conoscenza comune. Ticchettò qualcosa sulla tastiera del portatile con agilità, premendo la barra spaziatrice e il tasto INVIO ogni volta come se volesse sfondarli, mosse velocemente le dita sulla calcolatrice e si fermò un secondo, assimilando il numero sullo schermo e facendo un po’ di ragionamento veloce. Prese un respiro profondo e si portò la mano alla gola, allargando la cravatta con gesti rapidi e automatici. “Sei povero.” Esalò svelto, grattandosi la fronte con una smorfia.
 
Osamu aggrottò le sopracciglia, aprendo le palpebre di qualche millimetro. “Questo è sbagliato.” Lo bloccò con voce dura.
 
Kosaku-kun si schiarì la voce. “Sei povero per Tokyo.” Chiarì.
 
Oh, ecco, aveva più senso.
 
Osamu si bagnò il labbro inferiore con la lingua e lo prese tra i denti, affondandoli nella carne, il cervello per lo più vuoto dopo quell’informazione feroce.
 
Povero per Tokyo.
 
Povero per Tokyo.
 
“Sei sicuro?” Domandò inclinando la testa. “Perché le entrate sono state parecchie, le spese sono ben bilanciate. Sì, ok, il tonno del cazzo è sempre un macello prenderlo a prezzi decenti ma mi hanno assicurato che devo solo essere ostinato, anche perché sto praticamente litigando con Satou-san ogni giorno per questo e sa che non sono proprio fiori e arcobaleni alle quattro di mattina, non so che succede se …”
 
“Satou-san?”
 
“Il giudice d’asta. Al mercato.” Osamu si grattò la testa pensoso. “Senti, non c’è davvero niente da fare?”
 
“Osamu, Tokyo è cara.” Kosaku-kun si sistemò gli occhiali sul naso e digitò velocemente qualcosa al computer. “Parti dal presupposto che ti stai allargando, quindi senza pensare a immobili o altro concentrati sulle questioni fiscali.” Prese un foglio e una penna e cominciò a scrivere.
 
“Spese giuridiche. Controlli. Tasse come se non ci fosse un domani. E queste sono solo tre delle cose prima di sistemarti, le prime a cui ho pensato. Aggiungi in contemporanea l’affitto, eventuali spese immobiliari, a meno che non cerchi un locale da solo, le imposte, acqua luce e gas, telefono e linea ADSL. Assicurazione. Arredamento. Fornitori.”
 
Ad ogni punto dell’elenco, la penna sul foglio tracciava linee con movimenti sempre più aggressivi e scattanti, una spada che affondava senza pietà in quelle fibre di cellulosa e nell’animo di Osamu, facendolo irrimediabilmente a pezzi. Le spalle crollarono sconfitte.
 
“E non sarà facile come per il primo ristorante: il marchio adesso ce l’hai. Devi mantenerlo.” Continuò Kosaku-kun spietato. “Devi trovare lo staff giusto, persone di cui ti puoi fidare sia qua che là, perché non puoi stare ovunque contemporaneamente. E diciamocelo, fra un po’ Sakusa-kun se ne andrà e rimarrai solo tu con Inoue-san.” Kosaku-kun fece una smorfia. “Un po’ pochino.”
 
“Sono povero.” Accettò mestamente Osamu con una voce da funerale. Aveva gli occhi sul bancone, dritti sulle venature del legno lisce di fissante senza vederle davvero. Aveva la vista piena dei suoi sogni sfumati, dei suoi progetti in fumo, del suo amore a pezzi. Sospirò profondamente. “Sono povero e non posso fare un cazzo.”
 
“Non sei povero.”
 
Osamu alzò la faccia e guardò malissimo Kosaku-kun. Gli stava rovinando il momento. “Hai appena elencato tutto quello che non riuscirò mai a pagare, l’hai detto tu.”
 
Kosaku-kun ridacchiò. “Ho detto che sei povero per Tokyo.” Lo vide puntare i suoi occhi severi su di lui e fece un sorrisino storto. “Mira ad altro, per ora.”
 
Osamu batté le palpebre. “Cosa intendi?”
 
“Hai i soldi, punta su un’altra città.”
 
“Quindi non sono così povero.” Lo accusò puntandogli il dito contro. “Mi hai spaventato a morte!”
 
“Osamu, cambiamo vita. Io vengo qua e mi prendo i tuoi soldi e tu vai a pregare il padrone di casa di darti una settimana in più per l’affitto. Così capirai veramente cosa significa essere poveri.”
 
“Il padrone di casa è tua madre. Ti fa lei la spesa. E ti prepara pranzo e cena.”
 
“Quella donna è una megera. Sta sempre a controllare a che ora rientro.” Kosaku-kun fece una smorfia. “E con chi.”
 
Osamu ricordava benissimo la madre di Kosaku-kun. Una donna slanciata con la sua stessa espressione severa, ammorbidita da un sorriso sincero pronto sia per le vittorie che per le sconfitte. Ricordava che portava sempre il limone zuccherato per tutti ad ogni partita e costringeva l’allenatore a distribuirli tra un set e un altro con un sibilo terrificante. Atsumu e Osamu l’avevano sempre chiamata Oba-san.
 
Kosaku-kun esagerava sempre quando parlava di lei. Forse Oba-san non voleva semplicemente che la casa che aveva affittato al suo unico figlio fosse occupata da persone estranee. Oppure era il fatto che lo facessero esclusivamente di notte a farle storcere il naso.
 
Certo, anche la madre di Osamu si comportava diversamente quando portava Rin a casa, come se venisse esorcizzata momentaneamente da tutti i demoni che abitavano quel piccolo corpo energetico per tutto il resto del tempo, quindi forse si trattava solamente di una cosa da mamme.
 
“Per un po’ dimenticati di Tokyo.” Continuò Kosaku-kun con piglio professionale. “O trova un modo per avvicinarti senza vendere i tuoi organi al mercato nero.” Osamu si risollevò sulle braccia, guardando il suo ex compagno di squadra con occhi riflessivi. “Studiati la situazione e guardati un po’ intorno. Ci sono scelte sicuramente più economiche e intanto ampli il tuo business e il tuo portafogli.” Kosaku-kun gli fece un sorrisino. “Suna-kun non ha intenzione di scappare.” E rise, vedendolo arrossire con sommo dispiacere.
 
“Sta’ zitto.” Brontolò Osamu sentendosi la faccia in fiamme. “Non è solo per quello.”
 
“No, infatti.” Kosaku-kun chiuse il portatile con uno scatto non propriamente etereo e lo mise nella sua valigetta. “Senti, invece di raccontarmi stronzate regalami degli onigiri.”
 
“Andrò fallito a forza di non farvi pagare.” Ma si mise all’opera, perché Kosaku-kun era corso in suo aiuto dopo una giornata piena e senza appuntamento, glielo doveva. “Come li vuoi?”
 
“Maiale e zenzero.” Osamu lo vide riflettere mentre prendeva la vaporiera. “Puoi farli a forma di cuore? Devo ingraziarmi mia madre, magari mi fa saltare l’affitto questo mese se me la gioco bene.”
 
 
*
 
 
Il brodo borbottava piano sul fuoco come un vecchio brontolone. Bolle lucide salivano in superficie a gonfiarsi lente, scoppiando con un suono pieno piacevolmente familiare, spargendo il ricco odore speziato in tutto il locale.
 
Osamu buttò un’occhiata rapida alla pentola sul fuoco, girando il liquido con il mestolo un paio volte prima di immergere le mani nella ciotola sul piano lì vicino e afferrare una grossa manciata di funghi shiratake, strizzandoli dall’acqua in eccesso e buttandoli nel liquido gorgogliante. Sorrise per l’aroma salato che si alzò dai fornelli, incantandogli le narici.
 
“Merda merda merda merda!”
 
Prese la grattugia sporca di zenzero e la mise a lavare, bagnandola velocemente per staccare la polpa più superficiale. Si chinò velocemente per controllare la lonza di maiale nel forno, vedendola luminosa di luce calda e lucida di grassi e oli naturali. Si stava cuocendo perfettamente, costante e succosa, la crosticina superficiale dorata ed invitante era da sola un capolavoro.
 
“Cazzo, mi hai rubato tutto? Dov’è il cucchiaio?”
 
Il brodo cominciò a bollire con intenzione, rumoroso e chiacchierone. Osamu girò il mestolo al suo interno un altro paio di volte, soddisfatto del colore profondo e del profumo caratteristico, abbassando la fiamma di poco per non eccedere con il calore.
 
Era nel suo elemento.
 
“Non si può lavorare così, dove hai messo i coltelli?”
 
“Tsumu, non muoverti così velocemente, verrai sfocato nel video.”
 
I suoi ingredienti avevano bisogno di attesa, quindi Osamu si permise di poggiarsi al piano con i fianchi con un ghigno derisorio, ammirando suo fratello andare avanti e indietro con utensili più o meno pericolosi in mano, la faccia sconvolta e un atteggiamento nervoso.
 
Seduti agli sgabelli del bancone, Rintarou aveva il cellulare stretto tra le mani e un sorriso appagato in bocca, Motoya nascondeva le posate sotto tovaglioli e dietro le bottiglie facendo andare Atsumu completamente fuori di testa.
 
Sakusa si muoveva in giro per la sala, sistemando i tavoli per la clientela della sera e facendo un controllo generale delle stanze di servizio, buttando un’occhiata divertita ad Atsumu ogni volta che passava vicino alla cucina, guardandolo borbottare maledizioni con frequenza preoccupante.
 
Osamu aveva deciso di chiudere il locale per il pranzo, quel giorno. Un suo capriccio per poter stare tutti quanti insieme, per una volta, per mangiare riuniti e godere della reciproca compagnia in completa tranquillità. Inoue-san era tornato a casa sua, ma erano riusciti ad incastrare Sakusa con l’inganno più basso e con un placcaggio degno di nota di Motoya. Motoya era un po’ preoccupato per suo cugino, lo vedeva stanco e non gli piacevano le occhiaie che stavano cominciando a formarsi sul suo viso. Una pausa ci voleva.
 
Non si sapeva come, era finita in una sfida culinaria tra lui e suo fratello.
 
“Samu, togliti, devo vedere la mia roba.”
 
“Intendi quella cosa anemica che sta cuocendo senza controllo?” Atsumu lo fulminò con lo sguardo, alzando il coperchio della sua pentola. Al suo interno, l’acqua aveva appena cominciato a scaldarsi seriamente. Sistemò il fuoco ad un livello più alto, come avrebbe dovuto fare inizialmente, e controllò la casseruola posta più avanti, contenente un liquido ricco più scuro che bolliva allegramente. Lo spense. “Intendo quella cosa strabuona per cui piangerai.” Rispose con aria spavalda.
 
“Perché dovrebbe piangere?” Motoya si allungò velocemente per afferrare il coltello puntato da Atsumu e metterlo dietro un piatto.
 
“Komo-kun, cazzo, smettila di farmi sparire le cose!”
 
“Hai messo il tofu a marinare?” Domandò di sfuggita Sakusa, avvicinandosi cauto per prendere la carta assorbente.
 
“Sì, Omi, ho messo il fottuto tofu a ma …” Motoya tirò fuori da sotto un canovaccio una ciotola. Conteneva il tofu in ammollo. Sunarin rise diabolico. “No, non ho messo il tofu a marinare.” Ringhiò Atsumu, cominciando a muoversi per afferrare coltello e tagliere. “Mi state rendendo le cose difficili.”
 
“Osamu ha trovato ogni cosa.” Lo prese in giro Komori.
 
“Questa è la sua fottuta cucina, se non trova qualcosa ne prende un’altra. Sa dov’è tutto.” Prese il tofu e cominciò a tagliarlo a strisce uniformi, concentrato e preciso. “Omi, ti piace il tofu vero?”
 
“Lo mangia a colazione, certo che gli piace.” Rispose Osamu per Sakusa, facendosi guardare malissimo da suo fratello. Ghignò. “Che c’è, non lo sapevi?”
 
“Lo prendo a colazione solo all’università, ho altri gusti la mattina.” Intervenne Sakusa pieno di insperato buonsenso, sedendosi accanto a suo cugino ed impedendogli di spostare il sale con un’occhiataccia. Le spalle di Atsumu si rilassarono quasi impercettibilmente.
 
“Buuu Sakusa-kun, non potevi aspettare?” Lo rimproverò Suna aggiustando la messa a fuoco. “Sarebbe stato più divertente vederlo infastidito.”
 
“Sunarin, vai a giocare in autostrada.” Lo ringraziò Atsumu.
 
“Solo se vieni con me.”
 
Era bello essere tutti insieme nello stesso momento a scherzare, ridere e prendersi in giro. Non capitava mai, per una cosa o per l’altra. Ad Osamu ricordava i tempi dopo gli allenamenti, quando si riunivano tutti e intasavano il konbini più vicino entrando ogni volta insieme, beccandosi le sgridate dei gestori, tutto cameratismo e cibo veloce. Era il momento più bello della sua vita studentesca. Beh, vincite a pallavolo e spuntini rubati a parte.
 
“Ma di solito non si prepara il tofu prima della zuppa?” Domandò Motoya con un tono di voce falsamente ingenuo.
 
“Faccio il cazzo che mi pare.” Rispose scortesemente Atsumu finendo con il coltello.
 
“Se è per questo, il tofu si taglia in triangoli.” Intervenne Suna utilmente, rubandone una striscia e portandosela davanti gli occhi. “Questo non mi sembra un triangolo.” E lo mise in bocca velocemente, prima che Atsumu riuscisse ad afferrarlo.
 
“Te lo stai inventando!” Lo accusò infastidito.
 
“La maggior parte dei ristoranti lo fa.” Sakusa scoccò un’occhiata severa al duo rompiscatole. “Ma non è una regola, puoi tagliarlo come vuoi.” Si alzò e allungò una mano fin sotto il bancone con quelle sue braccia ridicolmente lunghe, prendendo una piccola casseruola e porgendola ad Atsumu, che la prese rivolgendo al resto del gruppo un ghignetto soddisfatto. “Stai andando bene.” Lo rassicurò con convinzione, vedendo Atsumu cominciare a pavoneggiarsi.
 
“Woooh Kiyoomi, cos’è questo?” Esclamò Motoya stupito, dimenticando di nascondere la salsa di soia.
 
“Lo state massacrando.” Li accusò, sistemandosi con le braccia sul bancone e poggiando il mento. “Fatelo respirare altrimenti diventerà orribilmente odioso e petulante.”
 
Osamu scoppiò a ridere mentre Atsumu si sgonfiava, mettendo un muso da competizione e poggiando sul fuoco la marinatura. “Ed ecco ripristinato l’ordine cosmico.” Mormorò Suna, scattando una foto al broncio Atsumu. “Perfezione. Questa la mando ad Aran-san.”
 
“Siete tutti stronzi. Tranne Omi.”
 
“È stato lui ad offenderti.” Convenne Motoya.
 
“Sì, ma mi ha anche detto che sto facendo un buon lavoro, quindi bilancia.” Prese con le bacchette una striscia di tofu e cominciò a masticare un boccone con fare pensoso. Si girò verso Sakusa e allungò il braccio verso di lui. “Secondo te è buono o mi hanno fregato?”
 
Le facce di Suna e Osamu anticipavano già una serie di prese in giro da manuale in previsione della sicura risposta al vetriolo di Sakusa. Le bocche cominciarono a stirarsi di un sorriso malvagio e già assaporavano il momento topico in cui sarebbero riusciti a smontare Atsumu della sua sicurezza inconsistente.
 
Erano certi di questo.
 
Finché non videro Sakusa allungare il collo e prendere con la bocca, dalle bacchette usate di Atsumu, il tofu rimasto dal precedente morso di Atsumu.
 
Dire che rimasero tutti e due allibiti non si avvicinava nemmeno alla quantità di stupore manifestato effettivamente dalle loro facce.
 
Il più sconvolto di tutti era Motoya, che guardava suo cugino masticare a bocca chiusa con le sopracciglia aggrottate di ragionamento, fino ad ingoiare e dire, noncurante. “A me sembra tutto a posto.”
 
Nessun conato. Nessuno strillo. Nessuna richiesta urlata di disinfettante, di alcool denaturato con cui fare i gargarismi, di acido muriatico, tamponato, citrico. Nulla.
 
“Cosa sta succedendo?” Domandò Motoya confuso, guardando Sakusa come se non lo riconoscesse. “Perché l’hai messo in bocca? Perché l’hai mangiato?”
 
Sakusa batté le palpebre. “Mi ha chiesto un parere.” Rispose semplicemente.
 
“Komo-kun, qual è il problema?” Chiese Atsumu con tono leggero, ritornando alla sua casseruola che aveva cominciato a bollire con insistenza. Inserì svelto le strisce di tofu e abbassò di nuovo la fiamma dell’acqua.
 
“L’ha mangiato.” Constatò Osamu avvicinandosi cauto, come se dirlo a voce anche un minimo più alta l’avrebbe resa una situazione più normale. Non lo fece.
 
Suna continuava a guardarlo con occhi persi, senza capacitarsi.
 
“L’ha mangiato.” Accettò Atsumu mentre Sakusa sbuffava. “E?”
 
“E un cazzo, non ha mai voluto nemmeno le caramelle che gli davo!” Strillò Komori alzandosi in piedi con foga. Suna si riprese dal suo stato di trance. “Che cazzo è successo?” Mormorò piano guardando un Osamu ugualmente sconvolto.
 
“Scartavi le caramelle, poi me le offrivi con quelle dita sporche che mettevi ovunque per essere certo che non le avrei volute e che potessi mangiarle tu.” Brontolò Sakusa guardando male suo cugino.
 
“Ma non l’hai fatto adesso!” Ribatté Komori mentre Atsumu scoppiava a ridere. “Non metti in bocca cose del genere! Senza offesa.” Disse svelto rivolto ad Atsumu, che scosse la testa ridendo.
 
Osamu e Suna cercavano ancora di capire.
 
Sakusa sbuffò. “Non essere ridicolo, ho avuto di peggio in bocca.”
 
“Kiyoomi, provare il dentifricio allo zenzero invece che alla menta non è proprio la stessa cosa.”
 
“Ah, no Komo-kun.” Intervenne Atsumu con uno sguardo diabolico e un ghigno cattivissimo in faccia. “Intendeva il mio cu-“
 
“NO!” Strillarono Suna, Osamu e Komori sconvolti mentre Sakusa gli scoccava uno sguardo maligno.
 
“Che immagine orribile.” Esalò Suna accasciandosi al bancone come se avesse l’energia completamente evaporata. “Non volevo scoprirlo in questo modo.”
 
“Hai deviato mio cugino!” Se ne uscì Komori guardando Atsumu accusatorio. Il suo ghigno divenne solo più cattivo.
 
“Sei sicuro di questo Komo-kun?” Domandò Atsumu con sfida, la voce bassa e soave. “Ne sei veramente certo?”
 
“Atsumu.” Lo avvertì secco Sakusa con una voce lugubre.
 
“Oh mio Dio, lo chiami per nome.” Mormorò Osamu. Poi si sedette sulla prima sedia libera, gli occhi larghi e la faccia sconvolta. “Lo chiami per nome.” Ripeté come un mantra.
 
“Perché non dovrei?” Ribatté Sakusa finalmente stufo.
 
“Beh, Omi, non mi chiami quasi mai per nome.” Atsumu gli fece un occhiolino malizioso. “Non vedo roba sexy in giro per avere questo onore.” Komori gemette distrutto.
 
“Continua così e non lo farò più.” Promise Sakusa ferreo. Le implicazioni di quella frase servirono ad Atsumu per mandargli un bacio volante (non accettato) e ritornare ai fornelli a far finta di cucinare.
 
“Quando è successo?” Si riprese Suna con un interesse rinnovato. “Quest’anno?”
 
“A dicembre, vero?” Rincarò Komori decidendo velocemente di non voler combattere contro qualunque cosa fosse ormai successa e di puntare, invece, su cose notevolmente più importanti dell’attività sessuale di suo cugino. Lo sguardo maniacale rendeva tutto solo più strano. “Me lo dovete, deve essere dicembre.”
 
“Perché?” Chiese Sakusa, gli occhi stretti di sospetto.
 
“Kiyoomi, rispondi e basta!”
 
“Mi spiegate dove avete passato le vacanze di Natale?” Domandò invece Osamu, lo sguardo ancora perso nel vuoto ma la mente che andava per conto proprio, decidendo in quel momento di mettere insieme tutti quei pezzi che non credeva riuscissero ad incastrarsi nel breve periodo.
 
“A casa tua.” Rispose Sakusa seccato.
 
Osamu sbuffò. “Sakusa-kun, che cazzo! Non c’è bisogno di rispondere così.”
 
“No, Samu, davvero.” Intervenne Atsumu esilarato. “Siamo andati a casa, ad Amagasaki. L’ho presentato a mamma e papà.”
 
Suna cominciò a sogghignare. Osamu e Komori erano doppiamente sconvolti. Atsumu alzò le spalle, un luccichio malvagio negli occhi. “Poi siamo tornati qua a Osaka e abbiamo finito le vacanze a casa nostra.” Fece l’occhiolino a suo fratello e per poco non si ritrovò una forchetta in mezzo agli occhi.
 
“Mamma e papà sanno tutto?” Domandò isterico Osamu.
 
“Certo che sanno tutto.” Atsumu riaccese il fornello dell’acqua. “Gli piace.”
 
“Perché l’unico a non sapere niente ero io?”
 
“Siamo in due.” Ringhiò quasi Komori.
 
“Komo-kun, stai calmo.” Atsumu gli passò un bicchiere d’acqua più per prenderlo in giro che per aiutarlo. Komori artigliò il vetro come se potesse spezzarlo in ogni momento. “Sono solo i miei genitori.”
 
“Persone squisite, tra l’altro.” Intervenne Sakusa guardando i due gemelli con sguardo un po’ schifato. “Da dove siete usciti voi?”
 
“Vero?” Suna si accodò, guardando il suo ragazzo con il naso arricciato. “È come se avessero trovato delle uova infernali chissà dove e avessero deciso di covarle per vedere cosa usciva fuori. Per poi tenersele.”
 
“Omi, te l’ho già spiegato, mamma ha un demone che abita dentro il suo corpo.” Atsumu era serissimo e Osamu si ritrovò ad annuire, forse per la prima volta in vita sua d’accordo. “Cambia completamente anche quando c’è Suna, non la vedrai mai al suo stato naturale.”
 
“Penso si tratti di educazione.” Spiegò Sakusa velenoso.
 
“E le siamo più simpatici di voi.” Terminò Suna.
 
“Fatemi capire bene.” Komori era stato zitto fino a quel momento, le rotelle del cervello che andavano in cortocircuito. “Nelle vacanze di Natale ti ho sentito per due minuti contati al giorno.”
 
“Avevo da fare.” Sakusa lo guardò confuso. “Ed eri occupato anche tu.” Notò gli sguardi evasivi di Osamu e Suna e batté le palpebre, non capendo immediatamente. Sapeva che avevano passato quei giorni insieme.
 
“Ma adori parlare con me!”
 
“Questa è una tua convinzione.” Komori sbuffò e agitò la mano come per scacciare una mosca particolarmente insistente.
 
“Quindi, da quanto va avanti?” Domandò Osamu strofinandosi la fronte. Si sentì il fuoco sfrigolare e, girandosi, trovò il brodo uscito dalla pentola, invadendo in un attimo il piano cottura come fosse lava. “Merda!” Imprecò, correndo ad abbassare la fiamma e controllare lo stato degli ingredienti, girando il mestolo all’interno velocemente. “Perché non mi hai avvertito?” Aggredì Atsumu dandogli un pugno sulla spalla.
 
“Eri occupato a farti gli affari nostri, sembrava giusto.” Rispose, colpendolo di nuovo e spingendolo per buona misura. Osamu ribatté il colpo. “Se brucia qualcosa scatta l’allarme antincendio, deficiente! Vuoi ritrovarti tutto allagato con i vigili del fuoco che ti fanno il culo?”
 
“A me piacerebbe!” Si inserì Komori battendo gli occhioni. “A quanto pare, sono l’unico qua dentro che potrebbe ottenere qualcosa.” Mentre Atsumu scoppiò a ridere, Osamu si rigirò ai fornelli continuando a mescolare. Suna portò gli occhi sul cellulare, toccando lo schermo insistentemente senza che succedesse nulla.
 
Sakusa osservò la scena in silenzio, pensoso.
 
Motoya ciarlava riguardo muscoli e prestanza, ma il tono era troppo leggero per poterlo convincere del tutto.
 
Osamu gli dava le spalle, ma a parte un irrigidimento generale non poteva capire granché. Aveva, però, la facciata di Suna libera da ogni ostacolo e poteva vedere la sua guancia guizzare leggermente, come se la stesse mordendo dall’interno.
 
Erano diventati improvvisamente strani.
 
Sakusa sospirò, rassegnato. L’unica fortuna era che Atsumu non si era accorto di nulla.
 
 
*
 
 
Kiyoomi entrò in camera con un sospiro, aprendo la porta con i gesti un po’ rallentati e accendendo l’interruttore della luce. Era stanco, si vedeva dalle palpebre cadenti e i muscoli leggermente irrigiditi, ma Motoya sapeva che non aveva il turno al ristorante di Osamu, quella sera, quindi non si sentiva troppo in colpa per aver invaso il suo dormitorio. O il suo letto, precisamente.
 
Non si era accorto della sua presenza. Guardava in basso per togliersi le scarpe, la mascherina ancora alta sul naso e i capelli vaporosi e lucidi della doccia post allenamento. Il manico del borsone gli slittò dalla spalla e cadde a terra con un tonfo pesante, ma non gli diede troppa attenzione. Sicuramente aveva già diviso per gravità di igiene gli indumenti sudati dalle cose pulite, quindi non sentiva il bisogno di sbrigarsi a separare la biancheria sporca.
 
Si tolse la mascherina facendola pendere da un orecchio mentre litigava con i lacci di una scarpa. Era concentratissimo.
 
“Hai un buon odore.” Cinguettò Motoya con un sorriso divertito, guardando suo cugino alzare la testa di scatto con gli occhi allargati di panico e vedere i suoi lineamenti rilassarsi e le sue sopraciglia aggrottarsi un secondo dopo averlo riconosciuto. “Hai cambiato shampoo?”
 
“Che ci fai qua?” Domandò Kiyoomi brusco, alzandosi lentamente ed entrando finalmente in camera, buttando la mascherina in un secchio vicino la porta e lasciando il borsone abbandonato per terra. “Come sei entrato?”
 
“Sono tuo cugino, le porte sono sempre aperte per me.” Motoya lo vide togliersi la giacca, passarsi una spruzzata di disinfettante tra le mani e prendere gli indumenti che usava come pigiama senza guardarlo una seconda volta. Erano piegati in modo maniacale, ma la maglia aveva qualcosa di familiare che non riusciva a visualizzare del tutto. “La gente mi ama.”
 
“Con cosa hai pagato il portiere?”
 
“Sono un raggio di sole, l’ho graziato con il mio sorriso.”
 
“Ha voluto soldi?”
 
“Un fazzoletto autografato di Iizuna-san.” Rivelò con fare svelto. “La figlia è una fan e, beh, Iizuna-san è un gran bel pezzo di ragazzo con una firma facilmente riproducibile.”
 
“Sono secoli che gli dico di cambiarla.” Accettò facilmente Kiyoomi togliendosi la maglietta. “Non dovresti essere in albergo?”
 
“Ho il permesso dell’allenatore. Devo ritornare tra …” Controllò l’orologio del cellulare a terra sporgendosi dal materasso. “… tre ore. E qualcosa. Potrei fare un sonnellino.”
 
“No.” Lo vide mettere il pezzo sopra del suo pigiama con un numero e un nome preciso stampato bianco su nero, insieme alla stampa stilizzata di uno sciacallo selvatico e un’artigliata dorata sfrontata che gli accese le lampadine nel cervello tutte insieme. “Atsumu ti ha dato la sua divisa ufficiale?” Domandò stupito. “Può farlo?”
 
“Non essere ridicolo.” Kiyoomi lo guardò malissimo, ma l’improvviso rossore sulle guance la raccontava lunga e imbarazzante. “È merchandising.”
 
“Quando ti ha regalato questo esempio di megalomania e bassa autostima tutto insieme?” Batté le palpebre. “Non dirmi che te lo sei comprato da solo. Potrei offendermi.”
 
“L’ha preso per il mio compleanno.” Era ufficiale: Miya Atsumu faceva regali discutibilissimi. Sembrò pensarlo anche Kiyoomi, che fece una smorfia ma accarezzò distrattamente il logo dei Black Jackals sul suo petto con uno sguardo affettuoso. Rivoltante.
 
“E lo usi come pigiama?”
 
“Quando non mi vede sì.” Fece spallucce ma evitò il suo sguardo. Motoya notò la punta delle sue orecchie praticamente andare a fuoco da quanto erano diventate rosse. “È comodo.”
 
“Siete così schifosi.” Si lamentò Motoya buttandosi di schiena sul materasso, prendendo il cuscino e schiacciandoselo sugli occhi. “Davvero, neanche Chibi-Maki con il poster di chissà quale cantante slavato è mai stata così melensa.”
 
Kiyoomi non rispose nemmeno, mettendosi i pantaloni con gesti veloci e mandando un messaggio sul cellulare chissà a chi con un mezzo sorriso sulle labbra. La vibrazione lo informò che la persona del mistero si era sbrigata a rispondere e dal broncio arrossato di suo cugino non era un messaggio tale da poter essere letto ad alta voce.
 
Motoya aveva sempre saputo che uno come Atsumu avrebbe fatto solo che bene a Kiyoomi. Era troppo abituato ad essere infallibile e perfettino, troppo concentrato ai suoi scopi ed occupato a raggiungere il picco delle proprie possibilità. Il comportamento sfrontato di Atsumu lo avrebbe smosso abbastanza da fargli cominciare veramente a vivere la sua vita e a scioglierlo un po’, farlo finalmente divertire.
 
Kiyoomi spense la luce con uno sbuffo e si avvicinò per pungolarlo. “Togliti. Voglio dormire.”
 
“Hai già mangiato?” Lo ignorò Motoya con una leggerezza che sapeva di abitudine. “Ho cenato all’hotel ma posso prendere qualcosa con te.”
 
“Sono a posto.” Lo spinse di nuovo piano. “Voglio dormire.” Ripeté con tono acido.
 
“Accomodati.” Motoya si spostò di lato, in quel letto stranamente grande per uno studente, e Kiyoomi si sedette vicino a lui dopo un lungo minuto con il sospiro più stanco del mondo. “Se ti muovi troppo ti butto fuori dal letto. Ti sei lavato almeno?”
 
“Mi sono cambiato con la tua roba pulita e mi sono disinfettato da cima a fondo, tranquillizzati.” Il materasso affondò e Kiyoomi si mise sotto le coperte leggere, infagottandosi fino al mento come se non fosse giugno e stesse invece nevicando.
 
Da piccoli si ritrovavano sempre a sonnecchiare insieme nel letto di Motoya dopo il pranzo nei giorni in cui non c’era scuola, faccia contro faccia a sussurrare stupidaggini finché non crollavano per stanchezza e pancia piena.
 
Sonno di crescita, lo chiamava la mamma, costringendoli sotto le coperte con piglio da generale. Se ne pentì quando entrambi arrivarono al metro e ottanta all’imbarazzante età di quattordici anni, sembrando precisi a due piante di fagioli con gli arti sproporzionati, goffi all’inverosimile. Lui almeno aveva avuto la decenza di fermarsi, ma Kiyoomi aveva continuato fino a diventare il lampione musone che conoscevano tutti. Fortunatamente aveva messo un po’ di massa muscolare dalle superiori per compensare la sua linea allampanata.
 
Era rilassante starsene così, con la presenza confortante di suo cugino vicino, un calore familiare e piacevole. Era come tornare ad avere sei anni, nessun problema al mondo se non la pioggia che minacciava di bloccarli dentro casa,  costringendoli a passare il pomeriggio a sorbirsi Chibi-Maki che sgambettava in giro con le sue gambette cicciotte, toccando di tutto e mettendo qualsiasi cosa in bocca con velocità impressionante, la possibilità di allenarsi nei palleggi sfumata inesorabilmente.
 
Sembravano pensieri così importanti, all’epoca.
 
Sentiva il respiro di Kiyoomi calmo e paziente e sapeva che non avrebbe dormito finché non avesse detto qualcosa. La cosa bella di Kiyoomi era che era intuitivo: sapeva che la sua presenza nel dormitorio era dovuta a qualcosa che lo aveva sconvolto, ma gli avrebbe lasciato comunque il suo spazio, pronto ad ascoltarlo quando lo era lui a parlare, senza mettergli pressioni.
 
“Gli zii sanno di Atsumu?” Domandò Motoya da sotto il cuscino, la voce attutita dal contatto con la federa e strati di lattice.
 
Kiyoomi bloccò il suo respiro per un attimo. “Sì.”
 
“Glielo hai detto a Natale?”
 
“Erano in Hokkaido con i tuoi genitori e Maki-chan.” Gli ricordò piano. “Ho presentato Atsumu a marzo, siamo andati a Tokyo per il mio compleanno.”
 
Quasi tre interi mesi e lui l’aveva scoperto solo qualche tempo prima. “Da quanto va avanti?”
 
“Perché queste domande?”
 
“Sento che ti stai allontanando.” Gli rivelò a voce bassa, schiacciando di più il cuscino contro la faccia. “Non ci parliamo più come prima e ho scoperto tutta questa cosa grazie ad un pezzo di tofu.” Spostò il cuscino e lo guardò. Il buio della camera era rischiarato dalla luce del lampione esterno che entrava dalle fessure delle persiane, i vetri della finestra liberi dalle tende leggere. Gli occhi di Kiyoomi erano aperti e lo guardavano fisso, serio. “È una cosa importante.”
 
“Pensavamo l’aveste capito.” La voce di Kiyoomi era pacata e Motoya si sentì stupido per chissà quale motivo. “Continuavate a prenderci in giro e l’avevamo presa come un modo per farci sentire accettati.”
 
“Saremmo dovuti essere morti per smettere di prendervi in giro, voglio dire, facevamo a gara a chi vi faceva arrossire di più.”
 
“Stronzi.”
 
“Ha vinto Osamu, per la cronaca, ma gioca sporco.” Si girò di fianco per ritrovarsi faccia a faccia. “Opera sul vostro stesso territorio.”
 
Motoya mosse la testa sul cuscino, spostandolo per farci entrare anche Kiyoomi. Lo sentì mordicchiare il labbro inferiore, massaggiandolo con la lingua con un suono umido. “Non mi ero accorto che …”
 
“Sì, lo so.” Lo bloccò Motoya e lo vide stringere la bocca in una linea sottile. “Tendi a farlo quando hai la testa piena.” Portò una mano sotto il collo, mettendosi più comodo. “Qual è il problema?”
 
Kiyoomi si fece sfuggire un lungo sospiro e chiuse le palpebre. Poteva vedere le ciglia tremare leggermente. “È stupido.”
 
“Sicuramente è stupido, si parla di te.” Si beccò un calcio leggero allo stinco e ridacchiò.
 
Atsumu è stupido.”
 
“Ancora, niente di nuovo.”
 
“Ha questa idea deficiente che lo lascerò non appena firmerò con qualche squadra.”
 
Komori sentì un sorriso spingere gli angoli delle labbra, ma non poteva farlo vedere a Kiyoomi quando era di quell’umore: si sarebbe offeso e non avrebbe più detto niente. E, davvero, gli era un po’ mancato parlare così con lui. “Te l’ha detto lui?”
 
Kiyoomi sbuffò. “Certo che no, ma non sa dire una bugia nemmeno a pagarlo.”
 
“Gli hai detto che si sta inventando le cose?” Domandò. “Magari pensa che per te non sia troppo importante, non sei mai stato molto espressivo in fondo.”
 
“L’ho portato a Tokyo.” Sbottò con tono scocciato. “È questa la portata della mia serietà, l’ho presentato in famiglia.” Sbuffò dal naso, forte. “Ho sopportato le occhiate divertite di papà ogni volta che Atsumu cercava di fare lo splendido, le battutine stronze di Chieko, Daiki che lo prendeva da parte e lo minacciava con quel suo maledetto atteggiamento passivo-aggressivo da psicopatico e mamma che cercava di ingozzarlo per ogni complimento alla sua cucina.”
 
Non ce la fece più e scoppiò a ridere, vedendolo imbronciarsi. “Smettila, mi sono vergognato a morte. I suoi genitori sono stati fottutamente normali, è stata una giornata piacevolissima.”
 
“Perché non c’era Osamu, probabilmente.” Ridacchiò piacevolmente. Kiyoomi, alla fine, era il cucciolo di famiglia. Avevano fatto lo stesso con Chibi-Maki, che cambiava interesse tanto quanto lavava i denti. Anche se era un po’ preoccupato per la fissa per Washio-kun, durava da troppo tempo. Moriko-chan la incoraggiava, stranamente. “Atsumu cosa ha detto?”
 
Il broncio di Kiyoomi si ammorbidì e, benché la luce fosse spenta, Motoya poté giurare che la sua faccia fosse diventata rosa. “Era felicissimo.” Rivelò piano, più tranquillo. “Ha avuto questo sorriso enorme per giorni. Finché l’allenatore non mi ha informato di essere stato contattato dalla VC Kanagawa per organizzare un provino.”
 
Motoya poteva capirlo. Le relazioni a distanza erano difficili, piene di ostacoli. Lo vedeva ogni giorno con Rintarou e Osamu: aveva sotto gli occhi il dispiacere nel suo compagno di squadra ad ogni appuntamento in cam mancato, sia da una parte che dall’altra, la gioia di quando si incontravano e l’umore pesante di quando dovevano ripartire, le telefonate fino a notte fonda, la mancanza, la rabbia per le cose più stupide.
 
Era una questione di fiducia, dopotutto, sia nel futuro che in loro, e Rin e Samu stavano insieme da secoli in confronto a Kiyoomi e Atsumu. Era una relazione troppo fresca per poterla mettere sotto torchio da subito.
 
“Siamo insieme da quasi un anno.” La voce di Kiyoomi era bassa e pensosa e lo risvegliò dai suoi pensieri. “Ufficialmente.” Precisò.
 
Un anno poteva sembrare tanto, ma non lo era. Erano solo all’inizio.
 
“Hai avuto delle offerte dai Jackals?”
 
“No.” Si spostò più sul cuscino e premette la coperta sulla bocca. “Non hanno bisogno di uno schiacciatore. O, forse, non sono semplicemente interessati a me.”
 
“O stanno aspettando, che ne sai?”
 
“Non voglio scegliere i Jackals solo per Atsumu.” Precisò Kiyoomi severamente. “Non voglio pentirmi per una relazione che andrà avanti comunque.”
 
“Pentirti di cosa?” Motoya aggrottò le sopracciglia. “È una cosa egoista da dire.”
 
“Atsumu ha potuto scegliere, senza condizionamenti.” Stavolta la voce di Kiyoomi era più dura, più ferma. Quasi come per convincere sé stesso. “Siamo professionisti, quanto potremo andare avanti? Un’altra decina di anni? E se non rimanesse nella stessa squadra? Perché è dannatamente bravo, lo sappiamo tutti. Sarebbero ciechi a non fargli offerte più allettanti, anche all’estero.”
 
Aveva paura, capì Motoya stupito.
 
Kiyoomi era la persona più testarda che avesse mai conosciuto, prendeva una decisione e andava avanti per la sua strada schiacciando ostacoli senza guardarsi indietro due volte. Ma nella relazione con Atsumu aveva il terrore di fare un passo sbagliato, qualcosa che lo avrebbe fatto rimpiangere delle sue decisioni, qualcosa che non poteva prevedere.
 
Lo sentì respirare un po’ più velocemente, poteva vedere la luce dei lampioni riflettersi parzialmente in quegli occhi scuri e spaventati. Sentì una scintilla di irritazione salirgli su per la gola.
 
“E se non lo facesse?” Domandò semplicemente e sentì il respiro di suo cugino cominciare a rallentare leggermente. “Se invece rimanesse per sempre nei Black Jackals? O, ancora, che ti importa se anche cambiasse squadra? Affrontereste comunque la questione, più vicini e più maturi.” Avvertì la testa di Kiyoomi affondare di più nel cuscino. “Non puoi cercare di prevedere questo futuro. Non puoi leggere nella mente della gente.”
 
“C’è l’istinto …”
 
“Si fotta l’istinto, il tuo istinto ora ti sta urlando si scappare, con il rischio di mandare tutto a quel paese. E non vuoi farlo, credimi.”
 
Kiyoomi non rispose, continuando a cercare di regolarizzare gli sbuffi rapidi che gli uscivano dal naso, lo sguardo puntato una spanna oltre la sua spalla e le labbra strette così forte che si chiese se le stesse mordendo.
 
C’era altro, capì immediatamente Motoya.
 
“Non è questo, vero?” Gli chiese piano e vide gli occhi di suo cugino spostarsi nei suoi. “Non solo, almeno.”
 
Kiyoomi aprì la bocca lentamente e la richiuse dopo un secondo. Passò la lingua sul labbro, prendendo tempo. “Entrare nei Jackals significherebbe mandare all’aria tutto ciò per cui ha lavorato.” Rivelò con un sussurro e Motoya sentì per la prima volta di aver vinto. “E ha lavorato tanto, cazzo, così tanto. Lo metterei in una situazione di merda con stampa, con allenatori, compagni. Non se lo merita. Non è giusto.”
 
Ed eccolo, come al solito il suo cervello si arrovellava per cose inutili, pensando troppo e male. “Siete due coglioni. Glielo hai detto?”
 
“Certo che no, farebbe di tutto per non far veder-”
 
“Cosa? Che ha già fatto tutto questo? Che ha fatto di tutto per mettervi in una botte di ferro?” Kiyoomi aggrottò le sopracciglia e Motoya sbuffò. “Parlane con lui, cazzo, e fagli capire che non vuoi lasciarlo. In qualsiasi maniera.”
 
“Ha bisogn-”
 
“Oh mio Dio, Kiyoomi zitto e lascia parlare le persone con il cervello!” Sbottò stufo. “Perché stai in una situazione da Dio in confronto a tanti altri e non vuoi rovinare un cazzo, me lo devi!”
 
Kiyoomi si rabbuiò. “Non ti devo proprio niente.”
 
“Oh oh oh, signorino, qua sbagli!” Motoya sembrava isterico, cominciando a gesticolare con la mano libera come se non riuscisse a tenerla ferma. Lo vide contrarre la bocca in quello che conosceva come un sorriso. “Luglio? Seriamente? Sai quanti soldi ho perso per i cazzi vostri? Non potevi aspettare dicembre, noooooo, ti avrebbe ucciso farmi questo favore!”
 
“Signorino?” Lo prese in giro divertito.
 
 “L’unica cosa positiva è che questa scommessa del cazzo non l’ha vinta nessuno, altrimenti giuro avrei pubblicato sui social le foto del tuo tentativo di capelli lisci del primo anno delle superiori.”
 
“Ti avrei ucciso prima.” Mormorò con un piccolo sorriso. “Quale scommessa?”
 
“Non sei un addetto ai lavori, non ti interessa.” Motoya mise il broncio, perché quella era un’ingiustizia bella e buona. Aveva fatto da spola tra suo cugino e gli scommettitori per cercare di carpire informazioni preziose da letterali secondi di silenzio, perché Kiyoomi aveva l’espressività emotiva di un sasso affogato nel fango e non avrebbe scucito il suo reale pensiero nemmeno a pagarlo. Se li era guadagnati quei soldi.
 
Invece no. Luglio.
 
Motoya strizzò gli occhi così forte che cominciò a vedere lampi bianchi dietro le palpebre, inspirando per non cominciare a sputare improperi. Kiyoomi non se lo meritava un cugino come lui, assolutamente.
 
“La stai facendo troppo lunga.”
 
“Zitto.” Sibilò. “So che mi hai raccontato tutto solo perché ti sentivi in colpa, ora lasciami in pace.”
 
“Lo farò se mi dici perché sei venuto veramente.”
 
Motoya rilassò le palpebre e arricciò in naso. “Te l’ho detto.” Disse velocemente. “Mi mancava parlare con te.”
 
“E?” Motoya sospirò. Maledetta perspicacia di famiglia.
 
“E niente. Eri troppo occupato a fare cosacce con Miya per degnarti di chiamarmi.”
 
Kiyoomi sbuffò forte dal naso e Motoya notò che il suo livello di irritazione stava raggiungendo nuovi picchi di isterismo. Ottimo, se lo meritava. “E?” Ripeté però, calcando il tono come se pensasse che Motoya fosse stupido.
 
“Non voglio parlarne.” Mormorò tra i denti.
 
“È mancato anche a me parlare con te.” Motoya lo derise. “Fottuto bugiardo.” Kiyoomi non si degnò neanche di usare una voce convincente per dire quella stronzata.
 
“Va bene, a volte mi mancava.” A questo poteva credere un po’ di più. “Sei sempre stato più bravo di me con le persone.”
 
“Non ci vuole tanto.” Bofonchiò e si beccò un altro calcio sullo stinco.
 
“È il mio turno per toglierti fuori dai guai.”
 
Motoya aprì gli occhi e si beccò lo sguardo sicuro di suo cugino, fisso sulla sua faccia con una determinazione che conosceva anche troppo bene.
 
Sospirò. “Non mi lascerai deprimere da solo, vero?”
 
Kiyoomi si avvicinò di più, il ginocchio che toccava con il suo da sotto la coperta. Lo aveva sempre fatto quando, da piccoli, si svegliava dagli incubi che lo lasciavano sconvolto e senza fiato. Nelle nottate passate ad inzuppare le federe di lacrime per partite perse. Nei giorni pieni di depressione per la prima cotta non corrisposta.
 
Un tocco di ginocchio e Kiyoomi era lì, pronto per lui. Ad ascoltarlo, a trattenerlo, a farlo respirare.
 
“Ho una … situazione.” Sussurrò quasi. “E mi sta dando problemi.”
 
Kiyoomi annuì leggermente e una scintilla di vittoria illuminò i suoi occhi. “Vuoi parlarne?”
 
“No.”
 
“Vuoi parlarne con loro?”
 
Di nuovo, bastardo perspicace. Si chiese oziosamente quando e quanto effettivamente avesse capito. Non lo voleva veramente sapere, sarebbe stato umiliante. “ … No. Voglio che rimanga così all’infinito.”
 
“Non ti fa bene uscire con chiunque.”
 
“Beh, cazzo, non mi fa neanche male.” Non avrebbe bruciato la sua possibilità di incontrare qualcuno che facesse per lui, qualcuno che lo facesse sentire a posto, a suo agio e voluto come facevano loro.
 
C’era voluto un del tempo per arrivare a capire che non era dovuto tutto alla sua mente. Rin e Samu volevano veramente che stesse lì con loro quando passavano le vacanze insieme, erano più che felici a passare il loro tempo con lui e quando organizzavano qualcosa lo includevano sempre, non per dovere come aveva immaginato inizialmente.
 
Non era stato facile pensare che l’atteggiamento scontroso e sarcastico per ogni suo appuntamento, il mezzo sorriso e gli occhi luminosi per la fine delle sue relazioni, le battute e i flirt involontari che scappavano dalle loro bocche, erano tentativi di … qualcosa.
 
Ha fatto veramente fatica ad accettarlo, nella sua testa. Ma non era sicuro di volerlo, non in quel modo. “Non faccio lo sfascia famiglie.”
 
Kiyoomi aggrottò lo sguardo. “Dici sul serio? Sfascia famiglie?”
 
“Senti, non cominciare.” Motoya sospirò ed era stanco, davvero. Non faceva altro che pensare a quella situazione e si stava esaurendo. “Stanno benissimo insieme, la lontananza è già un ostacolo per loro, non voglio aggiungermi a qualunque cosa tu stia pensando. Non sono interessato.”
 
Kiyoomi si fece uscire un verso di scherno e Motoya non ci vide più. “Cosa ne vuoi sapere? Sei stato quasi in grado di far naufragare una relazione perfettamente funzionante con letteralmente nulla all’attivo!”
 
“Non dire stronzate.”
 
“Non dirle tu! Ti fai problemi inutili e pensi di sapere meglio di me cosa voglio e di cosa ho bisogno!”
 
Non doveva dirlo, lo capì nel momento in cui gli scappò di bocca.
 
Vide la mascella di Kiyoomi guizzare leggermente, a trattenere una rispostaccia che, ne era consapevole, si meritava totalmente. Socchiuse gli occhi, inspirando lento. “Scusami.” Mormorò, liberando gradualmente i polmoni. “Non dovevo scattare così.”
 
“Ti odierò per alcuni minuti, se per te va bene.”
 
Ridacchiò. Kiyoomi permaloso. “Fai pure, me lo merito.”
 
“Comunque, per me stai vedendo tutto sbagliato. Sei più allegro, quando sei con loro.” Gli rivelò con sguardo affettuoso. “Hai sempre il sorriso. Fai bene ad essere cauto e a salvaguardarti, ma dovresti dargli il tempo di capirlo ed il beneficio del dubbio.” Kiyoomi lo toccò di nuovo con il ginocchio e Motoya si rilassò quasi senza accorgersene. “Si comportano come idioti troppo attenti attorno a te. E fidati, ne so qualcosa.”
 
 
*
 
 
Suna sospirò, sdraiato sul divano a vedere la televisione. Una gamba era piegata sotto l’altra, sistemate in modo tale da non muovere la schiena più del necessario. La mano che teneva il telecomando era appoggiata sullo schienale con pigrizia, l’altra ciondolava nel vuoto, toccando terra con suo disappunto.
 
Non avrebbe dovuto appollaiarsi sul divano, c’era stato un divieto categorico da parte del preparatore atletico in merito con tanto di minacce annesse, ma sinceramente non vedeva come starsene un’oretta su quei cuscini deformi avrebbe dato ulteriori problemi alla sua spina dorsale già sapientemente martoriata da anni. Si stava annoiando e voleva vedere la tv.
 
“Peggiorerai la situazione.” Aveva ringhiato il preparatore atletico mentre compilava su un foglio il suo regime di recupero, scoccando alla sua faccia da schiaffi un’occhiata che avrebbe fatto piangere chiunque. Ma non lui.
 
Lui era cresciuto con gli occhi morti di Kita-san, che ti guardavano in faccia e ti facevano sapere immediatamente che erano delusi da te. Non sapevano ancora perché, ma Kita-san aveva questo sguardo giudicante ed estenuante che ti informava che era a conoscenza di tutti i tuoi movimenti e ti rimproverava prima ancora che riuscissi anche solo a pensare a qualcosa da combinare, quindi, davvero, il preparatore atletico sarebbe andato incontro ad una grossa delusione.
 
Il fatto era che Kita-san conosceva perfettamente i suoi polli ed era una scommessa vincente immaginare un guaio a caso combinato da un compagno di squadra a caso, ciò non significava che si meritasse quell’espressione disillusa.
 
Sospirò di nuovo, sistemando la testa sul bracciolo troppo duro e portando il braccio sulla fronte, cambiando canale direttamente da sopra la sua testa.
 
Ci mancava solo lo stiramento, seriamente. Non bastavano tutti gli altri problemi.
 
Era stata una disattenzione bella e buona, la sua. Stretching sottovalutato per pigrizia, alzata leggermente sbilanciata per un recupero miracoloso e inclinazione del suo corpo oltre le sue possibilità giornaliere. Fortunatamente era atterrato bene, quindi almeno si era salvato da caviglie storte o peggio, ma la fitta fulminea alla schiena gli tolse il respiro bloccandolo sul posto e quel giorno fu relegato allegramente in infermeria, in attesa che Motoya terminasse l’allenamento e lo accompagnasse a casa.
 
Ora aveva cerotti grandi quanto la sua testa sul dorso, bollenti in maniera insopportabile, che gli lasciavano una sensazione viscida e appiccicosa sulla pelle che lo rendeva irritabile e scontento. Le stilettate a tradimento appena faceva un movimento un minimo più carico contribuivano al suo malumore in maniera esponenziale.
 
Motoya gli stava vicino come poteva esserlo uno scarsamente impressionabile cresciuto con un odiatore di germi non del tutto ipocondriaco. Lo aiutava a mettere i cerotti e gli intimava di non piagnucolare. Gli chiedeva se voleva qualcosa da mangiare e gli preparava il suo pasto preferito. Male, ma lo faceva.
 
Gli preparava il soggiorno per permettergli di vedere Netflix in comodità e poi se ne andava a cena con l’ultima conquista.
 
Motoya era questo concentrato di sorrisi, furbizia e gentilezza sarcastica che, con il tempo, si era insinuato nella sua testa destabilizzandolo, facendogli pensare seriamente al suo rapporto con Osamu. Ai problemi. Alle soluzioni, perché amava Osamu con tutto sé stesso e non lo avrebbe lasciato per qualcosa di temporaneo come la lontananza. Erano due ore di Shinkansen, cazzo, i problemi seri erano altri.
 
L’anello aspettava in camera di Motoya da ormai più di un anno. Non si sarebbe mosso di lì finché non avrebbe avuto Samu sotto tiro in pianta stabile.
 
Lo aveva scelto con Motoya, paradossalmente. Era stato un pomeriggio di tormenti, di telefonate mancate, di una mezza litigata per una stupidaggine che non ricordava più finché Motoya non gli propose di renderlo ufficiale, almeno nella sua testa.
 
Non avrebbe mai pensato al fatto che, un anno dopo, il suo coinquilino avrebbe tolto il tappeto da sotto i suoi piedi in quel modo.
 
A questo si aggiungeva Samu, che ovviamente stava lavorando e non poteva stargli dietro per i tre giorni pattuiti con chi di dovere. Samu, che vedeva esaurito ogni sera in cam e cercava di rassicurarlo con un sorriso stanco e gli occhi secchi.
 
Samu, che aveva quasi pensato di perdere.
 
Perché non sapeva mentirgli. Non sapeva omettere, non con lui. Quindi, prenderlo e dirgli che stava pensando anche a Motoya, che però lo amava più di tutto e che non ci stava capendo più niente era stato d’obbligo.
 
Ricordava come aveva tremato la sua voce, come avesse difficoltà a parlare, come Samu avesse preso la sua mano e lo avesse incoraggiato con lo sguardo.
 
Era stato pronto a tutto. Ad urli, litigate, accuse. Pianti.
 
Non si aspettava di vedere lacrime di sollievo. “Anche io, Rin.” Aveva detto tra i singhiozzi, portando la sua mano sulla fronte. “Anche io, cazzo. Sono terrorizzato.”
 
Ne avevano discusso per settimane: dovevano capire cosa dovevano fare prima tra di loro, vedere se veramente il loro rapporto era rimasto immutato. Solo in un secondo momento pensarono a come muoversi con Motoya. E da lì, fu veramente tutto in discesa.
 
Anche se capire l’interesse di Motoya era difficile. Era bravo, cazzo. Flirtava e ritrattava, ti faceva sognare e poi spariva dietro a chissà chi. Era davvero una dannata donnola, fluido e scivoloso, bravo a cambiare pelliccia quando lo chiedeva la natura.
 
Suna si morse l’interno delle guance, indispettito. Quel gremlin non gli stava rendendo le cose facili.
 
Sentì le chiavi girare nella porta di ingresso e Motoya entrò, incespicando nel borsone pesante e nell’ombrello bagnato. Suna girò gli occhi verso la finestra, non riuscendo a credere di non aver sentito la pioggia.
 
“Yo!” Salutò Motoya buttando il borsone a terra e correndo verso il bagno. “Metto l’ombrello in vasca e torno a mettere a posto.”
 
“Ti aiuto.”
 
“No, fermo lì.” Tornò di corsa e lo guardò, lo sguardo aggrottato. “Non devi stare sdraiato sul divano.”
 
“Questo lo dici tu.”
 
“Lo dice il foglio di recupero.” Prese il borsone e lo portò in camera sua, sicuramente per disfarlo e mettere a lavare la roba sudata. “Quel divano è uno schifo!” Sentì rimproverarlo con la voce attutita da una serie di muri. “Mettiti su una sedia!”
 
“È peggio.” Borbottò contrariato. Se voleva stare sul divano, sarebbe rimasto sul divano. “Com’è andata oggi?”
 
“Ho dato a Washio-kun la lettera di Chibi-Maki.” Sghignazzò Motoya tornando in camera e buttandosi sul divano con lui, alzandogli le gambe per poggiarsele addosso. “Era rossissimo. C’è voluto mezzo allenamento per farlo tornare del suo colore originario.”
 
“Foto o non ci credo.” Lo vide prendere il cellulare prontamente e fargli vedere lo scatto di quell’orso di pezza di Washio-kun completamente bordeaux. Suna scoppiò a ridere. “Cosa c’era scritto sopra per ridurlo in quello stato?”
 
“Niente di osceno, ho controllato.” Poggiò il cellulare sul bracciolo e si sistemò meglio, la schiena affondata nello schienale. “Sono stanchissimo, il capitano ci ha fatti sgobbare come schiavi. Penso di non aver mai fatto tanti affondi come oggi.”
 
“Fortunato me.” Sorrise Suna beccandosi un pizzicotto sul polpaccio. “Io sono passato dal letto in cucina, poi di nuovo letto, poi porta perché ho ordinato il ramen per pranzo …”
 
“Se non l’hai preso anche per me ti ucciderò nel sonno.”
 
“… il tuo è in forno, poi doccia calda e divano.”
 
“Giornata piena, vedo.” Mormorò con un sorriso storto e gli occhi socchiusi di stanchezza. “Hai preso l’antinfiammatorio?”
 
 “… Sì, mamma.”
 
“Li ho contati prima di andare via, devo andare a controllare?”
 
Suna fece una smorfia. “L’ho dimenticato.” Ammise e Motoya ridacchiò. “Vedi di prenderli, mi servi in campo.”
 
“Ti manco?” Lo sfidò con sorriso malizioso e Motoya si girò a guardarlo con occhi affettuosi. “Un po’.” Mormorò sofficemente e Suna sentì il respiro farsi un pizzico più rarefatto. “È difficile riprendere tutto e prendere in giro Washio-kun allo stesso tempo.” Suna sentì il sorriso congelarsi in una smorfia.
 
Ecco, l’aveva smontato. Era abile, in questo.
 
A Suna e Osamu piaceva giocare in quel modo, era così che si erano messi insieme, ma quella era una situazione un po’ troppo delicata per mandarla a puttane per un’incomprensione.
 
Motoya era il suo compagno di squadra. Si parlava di un lavoro in cui feeling e complicità erano alla base di tutto. Ed era il suo coinquilino. Solo la punta di certezza che Motoya effettivamente li ricambiasse li spinse a provare a tastare il terreno, altrimenti avrebbero risolto in altra maniera.
 
Le frasi sibilline ed enigmatiche di Sakusa avevano fatto la magia confermando i loro pensieri, insieme a una minaccia talmente cruenta che Suna se la sognava di notte.
 
L’unica consolazione era che Atsumu non si era accorto di nulla.
 
“Penso che non sia solo per quello.” Continuò, sistemandosi meglio e quasi sibilando di dolore. “Penso che vorresti avermi vicino sempre.”
 
“Ma già siamo vicini sempre. Viviamo insieme.”
 
“Ti manca vedere i miei addominali sotto la doccia.” E Motoya scoppiò a ridere di gusto, senza dargli alcun tipo di  soddisfazione. Suna scosse la testa e riportò la sua attenzione in tv, continuando a cambiare canale con un sorriso. “Sei una minaccia.”
 
“Io?” Motoya gli spostò le gambe con un luccichio negli occhi. “Vado a mettere la roba a lavare, vuoi che ti porti il portatile? Così ce l’hai vicino per la videochiamata con Osamu.”
 
“Lo prendo dopo.”
 
“Sarà un problema se farai fatica a muoverti.” Si alzò e se ne andò in cucina, aprendo il frigorifero.
 
Suna non comprendeva pienamente quella risposta. “Beh, mi aiuterai tu, no?”
 
“Sto portando Washio-kun a fare conquiste.” Lo informò, prendendo una bottiglia d’acqua e portandola alle labbra. Suna sentì una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco. “Magari vedendolo con qualcun’altra Chibi-Maki se ne farà una ragione. Pagherei perché Chibi-Maki abbia il disinteresse totale per i maschi di Jun-chan.”
 
Considerato che Jun-chan aveva disinteresse generale per il mondo, a parte i libri e farlo nero con risposte così secche e acide che non capiva ancora come facesse a pensarle, pensava che quella di Motoya fosse una battaglia persa in partenza.
 
Rimaneva il fatto che Motoya sarebbe uscito per l’ennesima volta e non c’era verso di trattenerlo per una serata a tre, con Samu in videochiamata.
 
Si sistemò di lato sul divano, stringendo i denti per le fitte secche, e impostò il canale alla soap coreana che vedeva Sakusa e di cui si stava appassionando.
 
Forse era una battaglia persa in partenza anche la loro.
 
 
*
 
 
Samson Foster era stato sempre un uomo molto deciso.
 
Era nato in America, dove football, basket e baseball erano istituzioni.
 
Era cresciuto con la mazza tra le sue mani, legno liscio e lucido che forzava nelle sue braccia di bambino e che faceva fatica anche a sollevare. Ricordava guantoni di cuoio che stringevano la palla piccola e grande al tempo stesso, con le cuciture spesse e la presenza ingombrante. Aveva parastinchi e berretti a proteggere gambe e testa ed aveva imparato a correre come se ne dipendesse della sua vita.
 
Se chiudeva gli occhi sentiva ancora l’odore dolciastro dell’erba strappata ad ogni scivolata, quello terroso e stagnante del fango che ricopriva ogni cosa, quello zuccherino della frutta che erano costretti a mangiare dopo ogni allenamento. Sentiva le risate dei suoi compagni, le feste nel diner più vicino a base di frullati e pizza spessa e untuosa, i rimproveri del coach, il tifo di suo padre.
 
Era felice. Era piccolo, un ragazzino appena, ma già viveva per gli applausi, per i ringhi degli avversari, per gli insulti arrabbiati e per le pacche di incoraggiamento. All’età di 8 anni, la sua camera era tappezzata di poster dei grandi del baseball, due medaglie di latta di cui era particolarmente orgoglioso, una palla firmata che faceva bella mostra di sé sulla sua scrivania.
 
Sarebbe stata solo fortuna riuscire a farlo interessare ad un altro sport. O talento puro.
 
Vedere giocare Karch Kiraly nei Giochi olimpici di Los Angeles gli cambiò la vita.
 
Non erano stati i salti, le battute, le schiacciate, qualcosa di scenografico e scintillante per cui un pagano come lui avrebbe potuto essere abbagliato. Erano le ricezioni.
 
Era il modo in cui si tuffava, impostava le mani, prevedeva. Era un animale affamato e non aveva paura di farlo vedere.
 
“Tutto ciò che oltrepassa la rete si può prendere …” Era stato Kiraly stesso a dirlo, non sapeva se in un intervista o dove, non ricordava nemmeno quando. Ma, cazzo, era un gran bella presa di posizione.
 
Si appassionò alla pallavolo. Giocò nella squadra della scuola, in quella delle superiori, venne reclutato in un college di tutto rispetto con una borsa di studio sportiva. Ed in tutti quegli anni prendeva forma dalle azioni dei suoi idoli.
 
Vide la sua ispirazione ritirarsi nel ’92 per puntare al beach volley. Lo seguì anche lì. Riconobbe i grandi di oltreoceano, come Lorenzo Bernardi e Gilberto de Godoy. Vide sfondare personaggi che credeva di nicchia, comete diventare meteore, crescere ed entrare nell’Olimpo dèi come Kaziyski, vide tutto. 
 
Passare da giocatore ad allenatore, una volta terminata la sua carriera sportiva, era stato naturale come respirare.
 
Fu colpa di un infortunio, sfortunatamente. Un atterraggio sbagliato che mandò in frantumi un ginocchio già malridotto e tenuto costantemente sotto controllo. Avrebbe preferito l’anzianità, doveva essere sincero, ma dopo un primo momento di sconforto, grazie anche al carattere d’acciaio di sua moglie Ruth, riuscì a risollevarsi e a puntare a visionare da dietro le quinte.
 
Era sempre stato bravo nell’adattare schemi di attacco e tattiche, era una parte di lui. Giocare al burattinaio aveva spiegato le sue ali.
 
Il Giappone non era preventivato, ma fu un cambiamento accettato con facilità. Iniziò con divisioni più basse, fino ad arrivare all’età di quarantatre anni ad allenare la MSBY Black Jackals.
 
Sciacalli. Predatori, territoriali, capaci di adattamento. Necrofagi. Mammiferi monogami che possono riunirsi in piccoli branchi di pochissimi elementi. Pericolosi da soli. Letali in gruppo.
 
Non avrebbe dovuto essere esaltato come, invece, si era sentito.
 
Formare la sua squadra era stato esaltante. Poi, uscì fuori quella che chiamarono “Generazione dei mostri”. Un sogno.
 
Ushijima Wakatoshi venne preso dagli Adlers.
 
Puntò a Sakusa Kiyoomi, ovviamente, sua degna nemesi. Rifiutò per l’università, cosa che, a posteriori, per un soggetto come lui era una scelta logica. Ci sarebbe stato tempo, doveva solo essere furbo.
 
Miya Atsumu era un talento stellare che avrebbe finito di sgrezzare. Ci avrebbe messo pochissimo: il ragazzo aveva fame.
 
Bokuto Koutarou era stato in dubbio per il suo carattere altalenante. Lo aveva seguito durante la sua esperienza in categorie minori, sarebbe stato un idiota a non farlo. Poteva dire di aver avuto un tempismo ottimale a presentargli la sua offerta dopo due anni di rodaggio professionistico: con la sua emotività sotto controllo era pronto a spiccare il volo.
 
Quindi, la sua puntata vincente poteva considerarsi quasi completa alla vista del ragazzo seduto davanti a lui in quel momento. Il figliol prodigo, se poteva permettersi di essere ironico.
 
Chiamato per un provino privato, Sakusa Kiyoomi si era presentato sicuro e deciso come se non dubitasse nemmeno per un secondo delle proprie capacità. Era stata una prova stellare, la sua, talmente completa e rotonda da fargli sentire il petto caldo di emozione e gli occhi lucidi di commozione. Era meticoloso e preciso come lo ricordava e come lo aveva visto crescere in tutti quegli anni, perché col cazzo che l’avrebbe lasciato alla mercé degli artigli altrui. Era stato bellissimo da guardare.
 
Si trovavano nel suo ufficio, in quel momento. Aveva messo sotto gli occhi di Sakusa un contratto che il ragazzo aveva letto con meticolosità e concentrazione. Aveva rifiutato la sua penna e ne aveva presa una sua. Non si era offeso, tutt’altro. Ancora pochi secondi e si sarebbe aggiunto un elemento prezioso ai suoi ragazzi.
 
Solo che non stava firmando.
 
Librava la punta della penna a pochi millimetri dal foglio. Poteva vedere la sua mano tremare leggermente, gli occhi fissi su una delle prime linee in cui doveva siglare il tutto, il respiro rallentato.
 
“Sei emozionato?” Gli domandò con un sorriso. Era normale, in fin dei conti. Sapeva cosa significava poter entrare ufficialmente in una vera squadra, era un onore e un onere e si veniva sopraffatti da ogni cosa.
 
Sakusa alzò lo sguardo, la mano ancora ferma al di sopra del foglio. “No.” Gli rispose secco e quasi gli venne da ridere per la schiettezza sfacciata.
 
Il sorriso si congelò quando lo vide mettere giù la penna. “Cosa succede? Ci sono termini che vuoi riveder-”
 
Bloccò gli occhi con i suoi e la sua espressione divenne di granito. “Sto uscendo con Miya Atsumu.”
 
Oh. Foster batté le palpebre più volte. Oh.
 
“È una cosa piuttosto seria e non ho intenzione di dare problemi, a lui o a voi.” Prese un respiro leggermente tremante. “Soprattutto a lui.”
 
Beh, non poteva dire che era preparato a vederselo buttato così sulla sua scrivania lucidata da poco.
 
Doveva succedere. Atsumu gli aveva parlato riguardo le sue inclinazioni tempo fa ed era stato felice di informarlo che non doveva preoccuparsi di nulla, che lo avrebbero sostenuto in tutto e per tutto e che poteva vivere la sua vita come era più a suo agio. Non pensava di ritrovarsi il suo ragazzo pronto a spiattellare ogni cosa ad un passo dall’entrare nella squadra.
 
Li aveva visti giocare insieme.
 
Seriamente, Atsumu si credeva furbo ad organizzare appuntamenti nella palestra ufficiale dei Jackals senza pensare che fosse controllata a vista. In quella struttura non si muoveva foglia che lui, o meglio chi per lui, non decideva di approvare ed era a conoscenza di ogni crepa di intonaco da stuccare. Figurarsi se si lasciava scappare un ragazzino che decideva di pavoneggiarsi di fronte alla sua ovvia cotta. Perché li aveva, gli occhi.
 
Quindi sì, li aveva visti insieme. Li aveva visti anche insultarsi, se doveva essere sincero, prendersi in giro e sfidarsi con una naturalezza che sapeva di istinto e conoscenza.
 
Aveva sorriso. Se ne era andato dopo una decina di minuti, sentendo che era una situazione intima e che non avevano bisogno di un vecchio guardone che li controllasse, lasciandoli liberi di godersi quell’appuntamento senza troppe storie.
 
Quindi sì, doveva succedere.
 
Foster appoggiò la schiena aderente alla poltrona in pelle, inclinandola all’indietro e portando le mani unite, strofinandole piano tra loro. Prese un lungo respiro. “Non è mai un bene quando una coppia gioca insieme.” Iniziò, guardando quel ragazzetto da sotto le ciglia.
 
A suo merito, Sakusa non contrasse nemmeno un muscolo, quasi sfidandolo.
 
“Avevo un collega fidanzato con una manager. Finì male. La dinamica della squadra …” Scosse la testa, una smorfia amara sul viso. “Lui lasciò.”
 
“Non è la stessa cosa.”
 
“No, non lo è.” Versò un bicchiere d’acqua che gli offrì con un gesto. Sakusa sfiorò il bicchiere con lo sguardo e lo rifiutò con educazione. “Penso che due compagni di squadra coinvolti sia infinitamente peggio.” Sakusa strinse le labbra forte e continuò a guardarlo fisso, senza dire una parola. “O meglio.”
 
Riuscì a scomporlo un minimo e la prese coma una vittoria. Lo vide battere le palpebre. “Mi scusi?”
 
“Certo, dipende dalle situazioni. Dal feeling, dalla passione, e non mi riferisco a quella sotto le lenzuola.” Ridacchiò, vedendolo arrossire. “Ragazzo, vi ho visti spingervi a dare il meglio di voi. Ed eravate rivali. Anzi, siete ancora rivali, finché non firmi quel dannato foglio.”
 
“Come ha fatto …” Un lampo di realizzazione e socchiuse gli occhi con un sospiro. “Miya.” Sibilò quel nome come se fosse la maledizione di tutti i suoi mali e Samson ridacchiò, annuendo. “Ha sempre la convinzione di essere più furbo degli altri. E di saper mentire.”
 
 “Dovrebbe smetterla, ad oggi gli si è ritorto tutto contro.” Samson scoppiò a ridere, perché Sakusa in quel momento pareva così simile alla sua Ruth che sembrò di vederla a braccia conserte e con cipiglio arrabbiato davanti a lui. “Spero non abbiamo dato problemi, credevo avesse avvertito chi di dovere e …”
 
Foster agitò la mano con espressione serena. “Non preoccuparti, non è stato niente di che. Certo, difficilmente credevo che una palestra sudata fosse materia di appuntamento ma non si finisce mai di imparare.” Lo vide farsi ancora più rosa e portarsi il pugno alla fronte, guardando di lato.
 
“Non eravamo nemmeno insieme, in quel periodo.” Borbottò, addossandosi alla sedia come se volesse sparire. A quelle parole, le sopracciglia di Foster schizzarono in alto, quasi a sfiorare l’attaccatura dei capelli.
 
Quindi tutto quell’equilibrio tra loro, il comfort, la fiducia, era prima. Prima di qualunque cosa.
 
Sentì il cuore cominciare a battere seriamente, l’adrenalina risvegliarsi dal torpore. Non vedeva l’ora di scoprire cosa avrebbero avuto in serbo dopo.
 
Spinse il foglio verso Sakusa, incoraggiandolo con un sorriso. “Le regole sono uguali per tutti.” Lo informò, ottenendo la sua attenzione. Si era un po’ ripreso, anche se le orecchie scoperte erano ancora rosse. “Non si portano i problemi personali dentro la struttura. Palestra, campo, spogliatoio, distributori automatici. Varchi l’ingresso con un piede e gli unici problemi da affrontare sono quelli della squadra.”
 
Sakusa annuì deciso, la faccia completamente seria. “Va da sé che i rapporti personali non devono influire sulla dinamica del team, in nessuna maniera e con nessun collega. Le vostre diatribe private le risolvete fuori di qui, qua dentro esiste solo la squadra. E non mi riferisco solo alla vostra situazione.”
 
Sakusa si riappropriò della penna con una piccola smorfia, continuando a guardarlo. Foster si rilassò, riappoggiandosi allo schienale della poltrona reclinabile. “Siete liberi di dare pareri e consigli per quanto riguarda schemi, tattiche, spunti di qualsiasi tipo, giocate o qualsiasi cosa vi venga in mente. Verranno accettati senza problemi, verranno sicuramente presi in considerazione e approfonditi, ma l’ultima parola spetta a me.”
 
Prese il bicchiere d’acqua in mano nel momento in cui Sakusa tolse il tappo dalla penna. “Niente sesso prima delle partite.” Lo vide scoccargli un’occhiataccia e ridacchiò. “Chiedi a chiunque, questo punto è stato parte integrante di ogni colloquio.”
 
“Pensavo fosse la prassi.” Mormorò cominciando a firmare in ogni linea segnata, muovendosi sui fogli fluido e pulito.
 
“Credimi, è una cosa che scatena parecchie polemiche. Ho ricevuto diverse proteste.” Prese un sorso d’acqua, la fronte aggrottata. “Non creare casini inutile, ma penso di non doverlo nemmeno specificare. Ah, a tal proposito …” Si abbassò sullo scaffale in basso della sua scrivania, lo aprì con una chiave e prese un raccoglitore pieno che poggiò sul piano con un tonfo pesante. Sakusa lo guardò lateralmente ma non smise di firmare. “Questi sono i curricula di PR manager preapprovati. Sono copie, quindi puoi prenderli e studiarli con calma.”
 
“Non posso assumere nessuno, in questo momento.” Lo informò, tappando la penna e spingendo il contratto verso di lui.
 
“Non fai ancora ufficialmente parte della squadra, devi prima finire l’università e fare bella figura al campionato collegiale, quindi non posso darti uno stipendio e non puoi usufruire dello staff interno dei Jackals.” Gli porse il raccoglitore con un sorriso. “Li pagheremo noi fino alla tua entrata ufficiale. Dio solo sa cosa potrà succedere per tutto quel tempo.”
 
 



Note
 
Siete liberissimi di insultarmi e me lo merito. È stato un capitolo complicato da scrivere e non me lo aspettavo. In tutti questi mesi non l’ho abbandonato, è sempre stato parte integrante delle mie giornate, ma non ingranava e, a parte prenderlo a male parole, potevo fare veramente ben poco!
 
Volevo dare qualche informazione tecnica:
 
  • Jiaozi (Riff) e Nappa sono personaggi di Dragon Ball.
  • Ad Osaka c’è il Mercato Centrale del Pesce. È una delle zone gastronomiche raccomandate, insieme al Mercato Kuromon, anche se si consiglia di visitarlo dopo le quattro di mattina, quando ci sono le aste del tonno.
  • Atsumu e Osamu stavano cercando di preparare rispettivamente Kitsune Udon e Ramen. Ho studiato le ricette in modo maniacale per capire come farli muovere senza farli passare per due Cooking Mama robotici, fatemi sapere se ci sono riuscita!
  • Karch Kiraly, Lorenzo Bernardi, Gilberto de Godoy (detto Giba) e Matey Kaziyski sono i migliori pallavolisti della storia. È stato interessantissimo leggere di loro.
  • La sorellina di Komori, Maki-chan, in questo capitolo ha 18 anni. Sì, il tempo passa per tutti ma i fratelli iperprotettivi e amici annessi non lo vogliono capire, quindi il suo interesse per Washio è legale (e dannatamente comprensibile, lo avete visto?), benché facciano tutti battute discutibili.
 
Che dire? Vi ringrazio tantissimo per la fiducia dimostrata, mi avete fatta sentire apprezzata in più di un modo per tutte le mie storie e lo so che lo dico sempre, sono una piagnucolona ripetitiva ma è la verità!
 
Grazie mille per essere passati!

 
   
 
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