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Autore: edoardo811    21/08/2021    6 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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Colibrì

 

 

Naito si sdraiò sopra il tetto del palazzo, per osservare il cielo stellato. Un lungo sospiro esausto gli sfuggì dalla bocca, mentre alle sue orecchie non giungeva altro che il silenzio dell’accampamento assopito ed il fruscio del vento tra gli arbusti.

Il fatto che dormisse poco lo rendeva l’uomo di guardia ideale e la cosa in realtà nemmeno lo infastidiva. Stare da solo gli piaceva.

Soprattutto da quando era arrivata Hachidori.  

Per Hikaru, Bunzo, Chioiji e tutti gli altri era difficile sopportare un solo mezzosangue, due era chiedere troppo. E la cosa peggiore era che si comportavano come se fosse solo colpa sua. Meno pensava a quello che dicevano su loro due e meglio era. Anche perché altrimenti sentiva il desiderio di decapitare qualcuno. 

Se non altro, le fila di Orochi si stavano rafforzando ogni giorno di più. Sempre più mostri si stavano unendo alla causa, avevano anche un nekomata dalla loro parte. Di quel passo, avrebbero potuto distruggere chiunque avesse cercato di fermarli, Dei inclusi.

«Che ci fai qui?» domandò una voce all’improvviso.

Naito si irrigidì. Riconobbe quel tono sottile. Si voltò appena, prima di scorgere la figura di Hachidori, in piedi alle sue spalle. Si era arrampicata sul tetto senza neanche fare un suono. 

«Tu che ci fai qui» rispose lui con tono acido, realizzando che quella era la prima volta da quando era entrata a far parte dell’esercito di Orochi che le rivolgeva la parola. 

«Te l’ho chiesto prima io.»

«Ma io sono un tuo superiore. E se ti faccio una domanda, devi rispondere.»

La vide assottigliare le labbra con espressione infastidita, mentre i suoi artigli affondavano dentro un fagotto che reggeva in una mano. «È il mio turno di guardia.»

Naito corrucciò la fronte. Nessuno rispettava mai l’ordine dei turni di guardia. A parte rare occasioni, lo lasciavano sempre a lui. «Non serve, ci penso io qui. Puoi tornare a dormire.»

«Certo, così finisco nei guai per non aver obbedito agli ordini» replicò lei piccata.

«Ci parlerò io con Orochi, gli dirò che sono stato io ad ordinarti di andartene.»

«Scusa.» Hachidori andò a sedersi accanto a lui senza fare troppi complimenti. Fece penzolare le zampe nel vuoto, oltre la sporgenza, e posò il fagotto accanto a sé. «Ma gli ordini di Orochi sono superiori ai tuoi.»

Naito piegò le labbra in una smorfia. Distolse lo sguardo da lei. «Come ti pare. Io non me ne andrò da qui.»

«Come vuoi.»

La ragazza estrasse un grosso cosciotto di carne dal fagotto. Ci affondò dentro gli incisivi affilati come i suoi artigli e cominciò a strappare via dei grossi pezzi. Masticò rumorosamente, senza curarsi dei brandelli che le cadevano addosso e le sporcavano i vestiti. Naito la osservò con una smorfia disgustata. «Non puoi fare più piano?»

Gli occhi verdi di lei penetrarono la notte, squadrandolo da capo a piedi. Alcuni pezzi di carne erano incastrati tra i suoi denti. «Dipende. Me lo stai ordinando?»

 «Sì.»

Uno strano luccichio balenò nel suo sguardo. Le sue labbra si arricciarono appena verso l’alto. «Le mie umili scuse. Farò più piano.» Avvicinò il cosciotto alla bocca come se si stesse muovendo nelle sabbie mobili e staccò un pezzetto microscopico coi denti, senza fare il minimo rumore. «Ecco, sei felice adesso?»

«Non sono mai felice.»

«Me ne sono accorta.» Hachidori distese appena il sorrisetto. Abbassò lo spuntino e incrociò il suo sguardo. «Perché mi odi?»

La domanda lo fece sussultare. «Io non ti odio.»

«E allora perché mi eviti come un malanno da quando sono arrivata? Non avevo nemmeno mai sentito la tua voce prima d’ora.»

Naito esitò. Distolse lo sguardo da quegli occhi color thè. «Hai sentito cosa dicono di te, vero?»

«Che Orochi mi ha presa tra le sue file perché voleva darti una compagna.»

La naturalezza con cui diede quella risposta lo lasciò atterrito. Tornò a guardarla, trovandola appoggiata con i gomiti sulle tegole e uno sguardo di indifferenza dipinto sul viso. 

«E dunque? Possono dire quello che vogliono, non significa che sia vero. E in ogni caso…» Hachidori fece di nuovo uno strano sorrisetto, per poi spostare lo sguardo verso i boschi che li circondavano. «… puoi rimanere sereno, Naito-kun. Non ho affatto intenzione di essere la tua compagna.» 

Uno strano fastidio percorse le viscere di Naito quando udì quell’affermazione. «Non mi chiamo così. Solo Naito.» 

«Forse se ti fossi presentato da solo non mi sarei sbagliata.» 

Naito ricacciò indietro una risposta colorita. Non aveva nessuna intenzione di litigare con lei. Ci pensavano già tutti gli altri a tormentarlo. Diede alcuni colpetti sui pantaloni impolverati e si alzò in piedi. «Va bene allora, continua pure con il tuo turno di guardia. Buonanotte.»

Si diresse verso l’altro lato del tetto per scendere, ma la voce di lei giunse ancora alle sue orecchie: «Non ti sarai mica offeso?»

«Offeso? No.» Naito la scrutò con la coda dell’occhio, severo. «Infastidito? Sì.»

Il sorriso di Hachidori si fece più flebile. «Ti chiedo scusa.»

Lo disse con voce calma, gentile. Non c’erano tracce di divertimento né nel suo tono, né nel suo sguardo. Sembrava sincera. «Sono solo un po’ nervosa» proseguì, distogliendo lo sguardo da lui e riportandolo verso la boscaglia. «Da quando sono qui, gli altri mi trattano come un’appestata. Speravo che… che almeno tu non fossi come loro. Ma comprendo il tuo disagio, trovandoti in mia presenza. Al tuo posto proverei lo stesso.»

Naito schiuse la bocca, sorpreso e anche un po’ confuso. Forse non era stato del tutto corretto, con lei. Era una mezzosangue, proprio come lui, e sicuramente la sua vista aveva sorpreso lei tanto quanto aveva sorpreso lui. E inoltre, se Orochi l’aveva accolta, significava che aveva scorto qualcosa in lei, proprio com’era successo con lui. 

Tornò a sedersi accanto a lei. «Sono io a doverti chiedere scusa. È solo che agli altri non piaccio affatto. E il tuo arrivo ha… peggiorato la situazione, per me. Ma non è colpa tua. Mi dispiace di averti fatto credere che ti odiassi.»

Cercò di non guardarla, mentre pensava al ridicolo vociare che si era fatto su di loro. Come se credessero che lui fosse soltanto un animale da salotto che per vivere aveva bisogno di mangiare, dormire e procreare. Non si rendevano nemmeno conto che stavano descrivendo loro stessi, in quel modo. Forse era quella la cosa che più lo infastidiva, il fatto che non realizzassero di essere peggiori di lui sotto qualsiasi aspetto. 

Udì il fruscio della sua testa che si voltava verso di lui e notò quegli occhi scrutarlo ancora, luminosi e magnetici. «Non preoccuparti. Sono… felice di averti finalmente potuto parlare.»

Naito la osservò, ancora una volta confuso dalle sue parole. E ancora una volta, il suo sorriso gentile faceva intuire che fosse sincera. Cercò di sorridere anche lui. «Anch’io» ammise.

«Così, tu sei il soldato scelto di Orochi?» gli domandò lei, mentre afferrava di nuovo il cosciotto. Lo avvicinò alle labbra, prima di fermarsi e lanciargli un’occhiata. «Posso?»

«Certo, perché non dovresti?»

«Intendo, “posso fare rumore?”»

Un altro sorriso scappò dalle labbra di Naito, mentre sollevava le spalle. «Certo… basta che non mi annaffi con qualche pezzetto.»

«Yum!» Hachidori aggredì lo spuntino con voracità, strappando via i pezzi di carne più succosi e rosicchiando quelli che rimanevano attaccati all’osso. Naito si domandò da che animale arrivasse quel cosciotto. Non ne aveva mai visto uno simile. 

«Sì, sono io» rispose alla domanda di prima. 

«E come mai? Insomma, dici che tutti ti detestano, eppure…»

«Sono con lui da più tempo. Da quando ancora nemmeno ricordava di essere “Orochi.”»

«Oh. E quanto tempo è?»

Naito ci mise un po’, ma riuscì a fare il conto esatto. «Una decina di anni, poco più poco meno.»

Hachidori fece un verso sorpreso. «Così tanto?»

Quel tono di voce fece nascere un altro sorriso, questa volta compiaciuto, sul suo volto. «Già.»

«Incredibile. Da come ne parla, credevo fosse Hikaru quella che lo conosceva meglio.»

Il sorriso svanì dal volto di Naito. «Hikaru è molto abile ad ingannare le persone. Non farti abbindolare.»

Vi fu un attimo di silenzio. Con suo enorme stupore, Naito cominciò a realizzare che discutere con lei non lo infastidiva come accadeva con gli altri. E quel silenzio non gli sembrò nemmeno pesante. Si sentiva… a suo agio. Si appoggiò con i gomiti sul tetto e distese anche lui le gambe oltre il bordo per stare più comodo. 

«Cosa significa il tuo nome?» gli domandò Hachidori, mentre rosicchiava l’osso ormai completamente pulito. 

«È l’unione del mio vecchio nome. Un nome che mi ricordi il dolore del passato, per incitarmi a combattere per il futuro.»

Hachidori sorrise. «Profondo.»

«Sì… è vero. È stato Orochi a chiamarmi così, però, quando ero ancora bambino. L’idea è sua.»

Lei fece un verso quasi di delusione. «E io che speravo avessi una vena artistica.»

Per qualche motivo che non riuscì a comprendere, Naito si sentì imbarazzato. «E… il tuo nome, invece? Perché proprio “colibrì?”»

«Perché…» Hachidori si appoggiò sui gomiti come lui. Entrambi alzarono lo sguardo verso la luna. «… anche se non ho le ali come i tengu, voglio volare ovunque io voglia. Voglio che sia il mio spirito ad avere le ali. Voglio che possa batterle libero. Come un colibrì.»

«È… molto bello» mormorò Naito, con un sorriso colpito. 

«E l’ho scelto da sola» precisò lei, cancellandoglielo subito.

La senti ridacchiare e si rilassò. Era piacevole parlare con qualcuno di simile a lui. E soprattutto qualcuno che non lo disprezzava per partito preso.

Hachidori spezzò l’osso con un rumore secco e si portò una metà alla bocca, per succhiare via il midollo. Naito non aveva mai visto una simile voracità. Quella carne doveva essere davvero deliziosa.

«Scusa, avrei dovuto offrirtene un boccone» mormorò lei, accorgendosi del suo sguardo. 

Naito scosse la testa. «No, non preoccuparti. Sono curioso però, che animale era?»

«Un gigantesco porco» rispose Hachidori. Sogghignò, mostrando i denti affilati ancora imbrattati. «Però uno di quelli bipedi, che se ne vanno in giro bracciando le armi e decantando di essere “difensori degli dei” e “cacciatori di mostri.”»

«Un… un mortale?»

Il sorriso di lei si fece più ampio. «Sì.»

Naito spalancò gli occhi. «Ma… ma tu sei mortale per metà…»

Hachidori ruttò e un pezzetto di carne schizzò fuori dalla sua bocca, smarrendosi nella notte. «E allora? Ho anche mangiato carne di tengu una volta.»

«Non… non dovresti impazzire, o…»

Venne interrotto dalla risata di lei, che questa volta ricordò davvero lo starnazzo di un tengu. Il suo naso lungo e sottile puntò verso le stelle mentre rovesciava la testa all’indietro. «Sei proprio adorabile, Naito-kun.»

Ancora una volta, Naito assottigliò le labbra infastidito. «Non sono adorabile. E non chiamarmi Naito-kun!»

Lei continuò a ridacchiare, incurante. «Comunque, se non ti va la carne umana, ti consiglio quella di tengu. È davvero deliziosa.»

«Non sono interessato» mugugnò Naito, ancora turbato da quanto aveva appena scoperto. «Ma se un giorno volessi mangiarti Bunzo, posso aiutarti a spennarlo.»

Hachidori gettò di nuovo il capo all’indietro. «AAAAK!»

Per un istante, Naito pensò che avessero allertato qualche bestiaccia nella foresta. Non appena si accorse di Hachidori che si copriva la bocca, con espressione mortificata, realizzò che invece era stata lei. Sentì le labbra tremolargli. «Che… che cos’era quello?»

«N-Niente!»

Le spalle di Naito vennero colpite da un sussulto. Uno sbuffò d’aria gli uscì dalla gola, seguito da un altro e poi da un altro ancora, simili a dei gemiti. Ma non erano veri gemiti. Era una risata. Una risata che crebbe man mano che si accorgeva dell’espressione di Hachidori farsi sempre più imbarazzata. 

Sentì dolore allo stomaco e fu costretto ad afferrarselo, mentre lei cominciava ad inviperirsi. «C-Che stai facendo? Perché ridi?!»

Naito si accasciò sul tetto, quasi colpito da degli spasmi. Sentiva male ai polmoni, ma più pensava a quel verso, e all’espressione di Hachidori, più gli era difficile calmarsi.

Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva riso così. 

Sentì la risata più tenue di Hachidori accostarsi alla sua. 

«Va bene, va bene, faceva ridere» gli concesse, sdraiandosi accanto a lui. I suoi capelli si diramarono come una ragnatela sopra le tegole. Odoravano di terra ed erba, come un bosco. «Ora potresti smetterla però? Non… non riesco a controllare quei versi. È imbarazzante…»

«S-Scusa» riuscì a rispondere lui, con il petto che doleva. Si voltò verso di lei e si accorse del suo viso messo di profilo: un punto rosa pallido, morbido, illuminato dalla luce delle stelle. La sua risata cessò quasi all’istante, mentre lo osservava. Un’altra strana fitta lo colpì allo stomaco.

Hachidori si accorse del suo sguardo e lo ricambiò. Naito lo distolse subito, con un sussulto. La ragazza ridacchiò di nuovo, facendolo irrigidire.

«Quindi… nessun rancore tra di noi, giusto? Domani mi rivolgerai di nuovo la parola?»

Naito avvertì un altro pizzicore, questa volta alle guance. «S-Sì, certo…»

Udì il suono di un mugugno soddisfatto. «Bene.»

Nessuno dei due disse più nulla. Rimasero immobili, a fissare il cielo l’uno accanto all’altra, con i rumori del bosco a fare loro compagnia. 

Anche se Naito a malapena registrò ognuna di queste cose, perché la sua concentrazione rimase unicamente su quella strana sensazione al suo stomaco e alle sue gambe. 

 

***

 

Il dolore fu la prima cosa che notò, così forte da fargli pentire di essersi svegliato. La schiena, il volto, il petto, tutto era pervaso da un bruciore agonizzante. Nemmeno quando aveva perso l’occhio si era sentito così. Credeva di poter svenire di nuovo.

La vista era ancora appannata, il suo respiro roco e pesante, come un rantolio. Ci volle un po’ prima che riuscisse a realizzare di essere dentro ad un futon, con un tetto di legno sopra la testa. Udì alcuni rumori provenienti da una zona indistinta attorno a lui. Tentò di raddrizzarsi, prima di essere pietrificato da una scarica alla schiena. Stramazzò sul materasso, gemendo di nuovo. 

«Sta fermo» ordinò una voce acuta. «Rischi di riaprire le ferite.»

Naito cercò di guardarsi attorno, per capire chi aveva parlato, ma non riuscì a vedere nessuno. Un’altra fitta di dolore lo costrinse a tenere bassa la testa. 

«Ma sei sordo? Ti ho detto di stare fermo.»

Un lungo mugugno di protesta gli sfuggì dalla gola. Sentì uno strano suono provenire da chiunque gli stesse parlando. «Non sei affatto cambiato, Naito-kun.»

«Huh?» Naito spalancò l’occhio. «… aitoun?»

Di nuovo quel suono. Sembrava una risata. «Riposa, su. Parleremo quando starai meglio.» Un’ombra apparve sopra di lui. Riuscì a scorgere un sorriso. «Sta tranquillo. Sei al sicuro qui.» 

Naito sentì l’occhio appesantirsi. L’ultima cosa che notò prima che tutto si facesse buio, furono delle iridi color thè che lo osservavano intensamente.

 

***

 

«Che cos’è quello?»

«È un mostro!»

«N-No, io non…»

Una pietra lo colpì in faccia, facendolo gridare. Cadde in ginocchio, con la guancia che bruciava e le lacrime agli occhi. Vide quei bambini afferrarne altre. 

«Vattene mostro!»

Cominciarono a lanciargliene a decine. Cercò di proteggersi come meglio poteva mentre si tuffava di nuovo in mezzo ai boschi, per scappare da quel villaggio.

«Mamma!» gridò, correndo dalla donna che gli dava le spalle, abbracciandole la schiena. 

Lei si voltò, osservandolo dall’alto con quel sorriso dolce e gentile. Gli accarezzò la guancia ferita, avvolgendola in un piacevole torpore. Si sentì rinvigorito e il dolore per il sasso che gli avevano lanciato svanì. Poi, sentì caldo, così tanto caldo che gli sembrò di bruciare. Gridò e si separò da sua madre. Continuava ad osservarlo, continuava a sorridergli, ma il suo corpo intero era avvolto dalle fiamme. 

«Mamma!» urlò inorridito. 

«Scappa Naosuke» sussurrò lei, sempre senza smettere di sorridergli. 

Le fiamme crebbero, investendola nella sua interezza, accecandolo. Gridò e cadde all’indietro. Ogni cosa si fece buia. Si sentì precipitare. Urlò ancora, sbracciandosi e chiamando aiuto, ma nessuno accorse. 

Riaprì gli occhi e vide uomini armati di forconi e torce che lo circondavano.  

«Vi prego… dovete aiutarmi…» implorò, spaventato. «Mia… mia madre è in pericolo! Vi supplico!»

«Uccidiamolo!» urlò uno di loro, mentre si avvicinavano a lui.

«No… vi prego… pietà! Pietà!»

Un forcone gli perforò il petto. Crollò a terra e il buio inghiottì di nuovo ogni cosa. 

L’Uomo Pallido apparve in mezzo alle tenebre, colpendolo con un bastone così forte da rompergli un dente. «Stai piangendo di nuovo, Naito? Come speri di vendicare tua madre così? Avanti, alzati! Alzati e combatti!»

«Non… non ci riesco…»

«E allora morirai» sussurrò l’Uomo Pallido, torreggiando sopra di lui e osservandolo carico di odio. 

«Sei una vera delusione, Naosuke» bisbigliò un oni dalla pelle rossa, apparendo accanto all’Uomo Pallido. «Non alzarti. Rimani a terra. Muori.»

«Ti ho detto alzati, Naito! ALZATI!»

«STA GIÙ!»

«COMBATTI!» 

«MUORI!»

«V-Vi prego… mia… mia madre… aiutatemi…»

«Solo tu puoi aiutare te stesso, Naito.»

«Arrenditi, Naosuke. Non hai speranze.»

«Non… non sono un mostro…»

«Sì che lo sei, Naito. Sei come me.»

«Sono… sono un mostro…»

«No, Naosuke. Sei solo un umano con le corna.»

Una figura perforò le tenebre. Una ragazza coperta di piume, con il naso lungo e sottile, che gli sorrise. Era bellissima. La creatura più bella che avesse mai visto. 

«Naito…» bisbigliò, ad un palmo dalle sue labbra. Gli accarezzò la guancia, dolce. 

«Naito…» sussurrò di nuovo lei con voce incrinata, ora a terra, in ginocchio, in lacrime.

«Questa è la fine che meritano quelli come voi» bisbigliò Bunzo al suo orecchio, sogghignando crudele. 

«Io so quello che sono. E tu, Naito, che cosa sei?» gli domandò Hikaru, con sguardo severo.

«O sei con noi, o sei contro di noi, Naito» sibilò Orochi, lo sguardo carico di veleno.

«Che… che cosa vuoi?» mormorò una ragazza con i capelli arancioni, mentre si teneva il braccio spezzato, i suoi occhi di quel colore così familiare, così stupendo, che lo osservavano incrinati dalla paura. 

«Mi dispiace…» avrebbe voluto dire.

«Vendetta» fu quello che gli uscì.

«Non lo vedi che è finita, razza di idiota! Orochi è morto! Ho fatto a pezzi il vostro patetico esercito! Avete perso! Perso! Uccidere Rosa non ti servirà a niente di niente!» gridò il piccolo dio armato di Ama no Murakumo, accanto ad un qilin furibondo.

«Non volevo farle del male…»

«Tu non hai la più pallida idea di che cosa io abbia trascorso.»

«L’orgoglio precede la caduta. Sei forte, ma sei anche arrogante.» Un forte bagliore rosso lo accecò. «Puoi essere meglio di così, Naito.»

«Meglio… di così?»

«Non finisce qui.»

«Un samurai aiuta sempre i suoi simili» disse il vecchio Musashi, con un sorriso. Un forte calore, molto diverso dal solito, scosse il petto di Naito.

Le tenebre si amalgamarono. Tutti loro apparvero dal nulla, circondandolo. Orochi, l’oni rosso, Hikaru, Bunzo, i mortali, i greci. Alte fiamme si sollevarono dal nulla, mandando striature scarlatte sui loro volti tetri. 

L’uomo con i capelli rossi si erse in mezzo a loro, stringendo Akane tra le braccia. Sogghignò verso di Naosuke e una sensazione di sconforto lo assalì, paralizzandogli le gambe. «T-Ti prego, non farlo…»

Ma lui non lo ascoltò. 

«Scappa Naosuke» sussurrò Akane, prima che l’uomo la pugnalasse.

«MAMMA!» Corse verso il suo corpo, afferrandola per le guance e sporcandosi le mani piccole con il suo sangue. Gli occhi vennero invasi dalle lacrime. «Mamma…» Sollevò la testa, accorgendosi di tutti quegli spettatori che erano rimasti lì, ad osservarlo in silenzio. «Aiutatemi… vi prego… aiutatemi…» 

Nessuno si mosse. Nessuno fece nulla. Naito cominciò a ringhiare come un animale. Sguainò la katana. «Vi ucciderò tutti.»

Tutto svanì ancora una volta. Mentre l’oscurità ricopriva ogni cosa, una voce risuonò nella sua mente, possente e autoritaria. «Mai ridere. Mai piangere. Mai amare.»

Naosuke cadde in ginocchio. «Mamma… Hachidori… Rosa…»

«Mi dispiace…» sussurrò Naito.

 

***

 

Naito riaprì l’occhio. La luce accecante forò la sua iride, abituata al buio. La socchiuse infastidito e si mise a sedere. Percepì dolore alla schiena, soffuso, come una pulsazione sorda. Gemette, ma riuscì a sopportarlo. Si massaggiò la testa, mentre nella sua mente il riverbero di urla non accennava ad attenuarsi. 

Fece una smorfia irritato. Un incubo. Perfino peggiore del solito. Lo scacciò via dalla mente, quasi ordinandogli di sparire, e si guardò attorno confuso. Era dentro una casa. Neanche. Sembrava una capanna, interamente di legno. Quella era l’unica stanza. Da una finestra filtrava la luce del giorno, battendo su di lui.

Che posto era quello? Non ricordava di esserci andato. E nemmeno ricordava tutte quelle fasciature sul suo corpo. 

Il suo corpo seminudo, constatò con stupore. Aveva soltanto i pantaloni addosso. L’intero torace era scoperto, lasciando libera la pelle bianca e coperta di bende. Si accarezzò le fasce, mugugnando di dolore non appena le sfiorò. 

Ripensò a quello che era successo. E non appena lo fece, se ne pentì amaramente. Era… stato sconfitto. Di nuovo.

“Da mio padre.”

Affondò i denti nelle labbra fino a sentire dolore. Per un momento, pensò di aver sentito male. Non poteva crederci, era escluso. Era sempre stato convinto che suo padre nemmeno sapesse della sua esistenza, o che addirittura fosse stato ucciso dopo aver ingannato sua madre.

Allo stesso tempo, sapeva che quel demone non avrebbe avuto alcun motivo di mentirgli. Lo aveva anche chiamato per nome. Aveva chiamato Akane per nome. Solo Orochi conosceva il nome di quella donna. Forse era stato proprio lui a rivelarglielo, ma non aveva alcun senso. Perché avrebbe dovuto? No, non c’erano dubbi: suo padre… era vivo. E lo aveva quasi ucciso.

Era stata colpa sua, lui aveva attaccato per primo. Aveva commesso l’errore più grave che un combattente avrebbe mai potuto commettere e si era lasciato provocare. E ne aveva pagato le conseguenze. 

Naito affondò le unghie sulle ginocchia. Non l’aveva solo sconfitto, l’aveva distrutto. Non si era mai trovato in una situazione del genere, di fronte ad un avversario così superiore a lui. L’aveva fatto sentire insignificante. Era fortunato ad essere ancora vivo.

“Umano con le corna” l’aveva chiamato. Serrò la mascella, mentre rabbia e vergogna vorticavano dentro di lui come una tempesta. 

Suo padre sapeva che Naito era sopravvissuto. Sapeva che sarebbe tornato lì, alla sua vecchia casa. E sapeva anche quello che aveva fatto con i greci, con Miyamoto e anche che aveva salvato la vita di quel bambino. Perché, se sapeva tutto quello, non lo aveva mai cercato prima? Perché l’aveva fatto solo in quel momento?

Dovevano portarlo da un “re.” Questo aveva detto quella donna che aveva sentito parlare con lui. Non aveva idea di chi fosse lei, non aveva mai sentito la sua voce prima di allora, e credeva che la cosa più vicina ad un “re” fosse proprio Orochi, ma lui era morto. 

Abbassò la testa ed inspirò. Avrebbe potuto pensarci per ore, ma non avrebbe mai trovato la risposta alle domande che aveva. L’unica cosa che contava era che fosse ancora vivo. Non solo. Era al sicuro, come gli aveva detto quella voce, prima che svenisse di nuovo.

Vide la sua cintura e i foderi delle sue spade posati sul tavolino accanto al futon, vicino a un vaso con dentro dei fiori di ciliegio appassiti.

Quella, unita alle fasciature, fu la conferma che chiunque l’avesse portato lì, non era ostile. Non gli avrebbe lasciato le armi a portata di mano, altrimenti. Ma mancava qualcosa, la sua bisaccia. Notò una credenza malridotta in un angolo della stanza e si alzò a stento. Barcollò verso il mobile e cominciò a rovistarci dentro, trovando solo ciarpame, piatti, posate e recipienti sporchi e impolverati. 

Strinse le labbra in una smorfia, frustrato. Non se ne sarebbe andato da nessuna parte senza il Bushido.

«Non ti hanno mai detto che non è carino curiosare tra le cose degli altri?» 

Naito si raddrizzò di colpo. Si voltò verso la porta, pronto a scattare verso le sue spade. Non appena vide la figura in piedi di fronte a lui, però, l’unica cosa che poté fare fu rimanere immobile, con l’occhio spalancato per la sorpresa. 

E per l’angoscia.

Una ragazza era entrata senza fare alcun rumore e lo stava osservando con espressione divertita, gli occhi verdi puntati su di lui, belli e penetranti. Proprio come li ricordava. 

«Ciao, Naito-kun» sorrise, mostrando una fila di denti affilati sotto al naso lungo e sottile.

«Ha… Hachidori…» sussurrò Naito.

   
 
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