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Autore: Dorabella27    25/08/2021    12 recensioni
Il 26 agosto è una data che non mi piace - chi mi conosce lo sa e sa perché -, ma quest'anno mi è venuta alla mente questa piccola divagazione: fra episodio 26 e 27, quelli che preferisco, quelli che solo uno sguardo distratto può scambiare per una digressione in stile "cappa e spada", fra il dramma dell'ep 25 e la tragedia dell'ep. 28. Dedicato a Octave, a S., a cri81oli, a OscarAndré76, e alle amiche con cui, nelle nostre infinite discussioni notturne e diurne, abbiamo analizzato e sviscerato queste sequenze; con un ringraziamento particolare a R., che mi ha fatto notare un certo fotogramma, e a C., che mi ha regalato una splendido profilo di Oscar. Una certa poetessa, dall'Iperuranio, o dai Campi Elisi, mi perdonerà se ho trasformato un frutto in fiore: la mia fedeltà va allo spirito e non alla lettera del testo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ti regalerò una rosa
 
Dopo il ferimento di André, all’inizio dell’episodio 27, sul suo comodino compare una rosa rossa. Chi l’ha messa lì? Breve ff, in cui si dimostra, ancora una volta, che non sempre le parole dicono quel che vorrebbero.
 
La ferita è seria, ma non grave. Soprattutto, è importante non togliere la fasciatura, altrimenti André potrebbe perdere l’occhio sinistro”.
Così aveva decretato il Dottor Lassonne, dicendo tutto e niente, in fondo; e mentre Nanny, fra le lacrime, chiedeva se sia possibile per un uomo vivere anche con un occhio solo, Oscar non aveva saputo dire niente, nemmeno era riuscita ad abbracciarla, pur vedendola così sconvolta e preoccupata. Ma lei, lei non era brava in questo genere di cose, non ne era capace: anche tempo prima, quando era arrivata quella diagnosi infausta per sua madre, la contessa Marguerite, non aveva proferito parola, simile, in questo, al padre, al Generale Jarjayes, che se ne stava ritto e impietrito, mentre le figlie che erano accorse, Josephine, Hortense e Clothilde, avevano gli occhi lucidi, e Nanny, poi, era proprio scoppiata a piangere. Lei no. Non era capace di confortare, consolare con dolci parole, abbracciare, piangere con e per qualcuno: non gliel’avevano mai insegnato e non potevano pretenderlo; e poi, chi, negli anni della sua infanzia, la consolava, era sempre André.
Adesso, era uscita dalla stanza dove André era ancora incosciente, vegliato da Nanny, e aveva percorso il lungo corridoio del piano nobile, sino all’ultima porta, quella della nursery, dove da anni non metteva più piede.  Fortunosamente era aperta; allora entrò e si sedette, la schiena contro la porta, le gambe piegate e la fronte contro le ginocchia. Era immersa nell’odore di polvere e di ricordi; davanti e intorno a lei, le sagome dei mobili coperti da teli e vecchi lenzuoli, appena distinguibili nel buio della notte che cedeva alle prime luci, annuncio del giorno, filtrate dalle fessure degli spessi scuri accostati da chi sa quanto tempo.
Quella notte aveva fallito: aveva tenuto sotto mira il Cavaliere Nero, mentre duellava con André, e poi non era riuscita a distinguerli, non aveva saputo a chi sparare, sino a che quel fendente non aveva colpito André all’occhio.
Era stata debole.
 Non avrebbe mai dovuto permettere ad André di affiancarla nel suo piano per stanare il Cavaliere Nero...Affiancarla? Ma che ... sostituirla.
“La tua figura è troppo esile ed elegante..:”, le aveva detto, e aveva proposto di indossare lui quel costume, di mettere a segno lui quella serie di furti orchestrati per suscitare una reazione del ladro che stava terrorizzando tutti i nobili di Parigi.
André... aveva voluto proteggerla - adesso lo capiva - , come aveva sempre fatto; proteggerla, ma senza dirle esplicitamente: “No, questo non te lo lascerò fare: è troppo rischioso”. Se glielo avesse detto in questi termini, lei si sarebbe opposta, certo.
E lui invece l’aveva preservata, l’aveva messa al riparo dal pericolo; come a Saverne, come tante altre volte; e lei? Era stata cieca, debole, bisognosa di appoggiarsi a lui, e, insieme, troppo orgogliosa per ammetterlo, per vederlo. Vederlo ... che strano pensare quel verbo, proprio quando lui rischiava di perdere la vista.
 E quando l’aveva visto, per la prima volta, all’opera? Se ne era compiaciuta, si era piacevolmente stupita della sua forza audace, della sua perizia, dei suoi movimenti agili e fluidi, di come potesse affrontare tanto disinvoltamente il pericolo in prima persona .... e tutto per lei, per evitare che quel rischio lo corresse lei, per aiutare lei in una missione, in una indagine che avrebbe dovuto portare lustro, gloria, e magari anche un riconoscimento da parte delle Loro Maestà. Ma solo a lei. Perché lui, André, era sempre un passo indietro, sempre nell’ombra: il suo aiuto sembrava scontato, la sua presenza quasi invisibile.
Lei voleva vivere come un uomo, senza debolezze, senza mostrarsi dipendente da chicchessia? Ma la verità era che non ci riusciva; proprio non ci riusciva senza André.
Voleva vivere come un uomo; e del comportarsi come un  uomo aveva assorbito solo i tratti esteriori, quelli peggiori: i silenzi ostinati, il non ringraziare mai, il pretendere, il dare ordini, e quel non soffermarsi mai a consolare, a dare una parola affettuosa.
Come suo padre, in fondo.
E André? Non aveva forse dimostrato, André, di essere più uomo di tutti gli uomini che aveva conosciuto nella sua vita? Stava rischiando di perdere l’occhio per  lei; per lei che aveva dubitato di lui, che aveva addirittura creduto che fosse lui il Cavaliere Nero, sospettando che tutte quelle sere in cui usciva da solo, “per una lunga cavalcata”, le occupasse invece per organizzare furti di gioielli nelle case dei nobili, in quei palazzi che conosceva così bene grazie a lei, perché ci era entrato innumerevoli volte al seguito del Colonnello Jarjayes.
Perché era stata così meschina? Perché? Perché aveva pensato che fosse un ladro, piuttosto che sospettare la cosa più semplice, più normale, che la notte lui....avesse...potesse avere..... Del resto, sarebbe stato naturale, no? Il tempo del casto struggersi, del desiderio coltivato da lontano doveva essere finito da tanto, ormai, doveva essere solo un ricordo, per lui. Era, sarebbe stato normale. Per lui.
No, meglio pensare a lui come a un ladro.
E poi, dopo che l’aveva portata a una di quelle sue “riunioni”, dopo che l’aveva resa partecipe di quello che gli stava più a cuore, quelle parole: “Mi spiace dirtelo, ma credo che fra poco i nobili passeranno dei momenti non molto belli”.
E lei, come lo aveva mortificato? “In questo caso, non dovrai preoccuparti, André: tu non sei nobile”.
Pacata.
Tranquilla.
Imperturbabile.
Gli dava volutamente la schiena, mentre reggeva la sua chicchera di finissima porcellana di Sèvres, e sorbiva il suo caffè; e forse giusto un secondo dopo che quelle parole le erano uscite di bocca,si era morsa la lingua, aveva immaginato la faccia di lui, e forse anche quello che avrebbe voluto dirle, ma non si era girata; aveva continuato, volutamente, a dargli le spalle, per non dover chiedere scusa, per non pensare a quello che non poteva avere sotto gli occhi.
E ora, per colpa sua, lui rischiava di perdere l’occhio. Per preservare un membro di quella nobiltà contro cui tanto sdegnosamente tuonavano gli oratori infervorati, a quelle “riunioni” cui presenziava tanto assiduamente, con attento entusiasmo, voglia di capire, di cambiare quel mondo vecchio, e, lo capiva anche lei, spesso così ingiusto.
Poteva l’attendente di un ufficiale svolgere i suoi compiti con un occhio solo? Il senso della profondità, la valutazione degli spazi, non rischiavano di essere irrimediabilmente compromessi? Come avrebbe potuto, André, battersi, duellare, sparare?
Si era buttata in quella caccia al ladro senza riflettere: era l’ennesimo azzardo, l’ennesimo rischio in cui si lanciava, un altro pericolo di una lunga serie che aveva affrontato, l’ultima avventatezza di una lunga teoria, in cui lei lo aveva trascinato con la sua impulsività, e che avevano sempre affrontato. Insieme. Una serie di azzardi e pericoli che sembrava non dovesse finire mai. E se invece, ora, fosse bruscamente finita?
Ho il presentimento che perderò qualcosa di importante”... così aveva pensato, quando la tazza le era caduta di mano, dopo che quel corvo si era lanciato in volo contro di lei, mentre stava ritta davanti alla vetrata aperta.
Ricordò i loro allenamenti: quelli con la spada, e quelli con il fucile e la pistola: ricordò l’ultimo, interrotto dall’arrivo di Fersen. Ce ne sarebbero stati altri? O anche quella consuetudine, quella familiarità tanto radicata da essere ormai quasi scontata, rischiava di andare perduta, come l’occhio di André?
Fersen....non aveva più pensato a lui, in quei giorni di caccia al ladro, insieme con André; l’ennesima delle loro missioni insieme; la prima, in cui lui era stato protagonista, e lei relegata in secondo piano. Poteva dire che le era dispiaciuto, che non aveva sentito in cuore una strana ...eccitazione, un senso di novità vivace? E forse anche una strisciante fierezza?
Si accorse che una lacrima le era scesa sin sulle labbra: era salata. La pendola nel corridoio, dietro la porta cui appoggiava la schiena, batté sei rintocchi forti e due più leggeri. Le sei e mezza.
Scese in giardino, nel bel parco di Palazzo Jarjayes, che dormiva sotto la brina, ancora immerso nel buio che l’alba stava appena fendendo. Camminava ad ampie falcate nel gelo, confortata dall’aria gelida che spegneva l’incendio sulle sue gote e ghiacciava le lacrime nei suoi occhi.
E poi, la vide.
Era molto in alto, all’estremità di un cespuglio rampicante di una varietà ormai poco coltivata, un cespuglio addossato al muro di cinta che dava sulla vastità della campagna, in un angolo riparato del parco, dove l’ordine geometrico e freddo del giardino all’italiana sfumava e cedeva il passo alla naturale confusione di una serie di arbusti e fiori quasi inselvatichiti: una rosa dimenticata, o forse lasciata alla sua sorte perché irraggiungibile.
Una rosa d’inverno. L’ultima rosa, sopravvissuta al gelo della stagione e della notte; o forse, la prima rosa dell’anno. Rosseggiava nell’atmosfera gelida, i petali purpurei coperti di brina nel buio incerto del primo mattino. Anche se dimenticata, lasciata alla sua sorte, a sopravvivere o a morire, in un angolo, anche lei serviva sotto l’impero della natura. E, come la natura le ordinava, dispiegava i suoi petali rossi sotto il cielo gelido e grigio, nonostante nessuno l’avesse mai degnata di uno sguardo; o forse, la sua scomoda posizione, così appartata, così in alto, l’aveva preservata, sino a quella fioritura solitaria.
Fu un lampo. L’impulso di un momento.
Prese la scala dimenticata da chissà quanto tempo dal giardiniere in un angolo, l’accostò al muro e salì qualche piolo, scivoloso di brina. Nella sua testa, risuonavano le parole lette tanto tempo prima, certo immaginate per un autunno più tiepido e mite, su un’isola greca, sotto il sole del Mediterraneo:
Quale dolce rosa che su alto
ramo rosseggia, alta sul più
alto; la dimenticarono i coglitori;
no, non fu dimenticata; invano
tentarono di raggiungerla...
 
Rientrò passando dalle cucine, imbarazzata sotto gli occhi imbarazzati delle cameriere che erano già da un paio d’ore intente ad accendere fuochi, spiumare polli,  impastare e mescolare; prese un piccolo vaso, poco più di una boccetta abbandonata su uno scaffale dimenticato, e poi lo riempì d’acqua, immergendolo, con un gesto furtivo, in un secchio appena posato sul pavimento, e attinto dalla pompa in cortile da una delle giovani sguattere.
 
Entrò nella camera di André che ancora riposava, il vasetto in una mano. Nanny per fortuna non c’era, già sparita a dare ordini perché la vita a palazzo riprendesse con i ritmi consueti. Posò, impacciata, la rosa sul comodino. E rimase in piedi, rigida, davanti al letto, il busto appena chinato, le braccia ostinatamente lungo i fianchi.
Poco dopo, André aprì gli occhi.
Oscar...”
“André...”
Solo due parole, solo i loro due nomi. C’era forse bisogno di dire qualcosa d’altro?
Vedere l’occhio destro aperto accanto alla fasciatura la colpì come uno schiaffo, perché in quel verde smeraldino integro non vide né rabbia,  né rancore né recriminazioni.
“Chi era il Cavaliere Nero, Oscar?”, le chiese soltanto.
“Non lo so. L’ho lasciato andare. Non potevo lasciarti così, ferito ...”
“Ma tu devi scoprire chi è, Oscar, tu devi catturarlo....”
Si sentì bruciare dentro una fiamma insopportabile, come se quelle parole fossero un rimprovero, ma non il rimprovero che davvero avrebbe meritato. Sì, avrebbe catturato quel ladro. Ma non quella notte. Quella notte non aveva potuto, perché....perché..... perché...
Ma non disse proprio niente di tutto quel discorso sconnesso che le saliva alle labbra. Si limitò a volgere gli occhi verso il primo raggio di sole che entrava dalla finestra.
“Guarda, André: è l’alba”. Lo sguardo di lui sembrò abbracciarla, e poi si posò sulla rosa sul comodino. Lo distolse subito, e la fissò.
“Sono felice, Oscar, che sia stato ferito il mio occhio, e non il tuo. Davvero”, disse, con semplicità.
Sei molto caro, André”, riuscì solo a dire lei.
Intanto i raggi del sole stavano prendendo possesso della stanza, e Oscar uscì, trattenendo a stento le lacrime sotto le palpebre, e chiese alla cameriera che attendeva in corridoio, poco discosta dalla soglia, di socchiudere gli scuri, per consentire al ferito di riposare ancora un poco.
   
 
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