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Autore: edoardo811    26/08/2021    5 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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I fantasmi del passato

 

 

«Che cosa significa, Lord Orochi?» domandò Hikaru, con una rara vena di tensione nella voce. 

«Proprio quello che ho detto. Sto diventando troppo potente» rispose Orochi, eretto, lo sguardo perso nel vuoto mentre dava la schiena a tutti loro. «Sto riacquistando sempre più ricordi e recuperando le mie forze. La voce del mio ritorno già è giunta alle orecchie sbagliate, di questo passo anche gli dei si accorgeranno della mia presenza. E se dovesse succedere, verranno a sterminarci tutti.»

Hikaru, Bunzo e Chioiji si scambiarono alcuni sguardi tesi. Rimasto a braccia conserte e con la schiena appoggiata alla parete, distante da loro, Naito assottigliò le labbra. 

«Quindi che cosa dobbiamo fare, Lord Orochi?» proseguì la kitsune. 

Orochi strinse la presa attorno alla sua falce. «Combattere è da escludere. Anche se bevessi sangue di vergine, non potrei abbattere tutti gli dei. Nemmeno con il vostro aiuto. Sarebbe un massacro.»

Naito si irrigidì. Sentire parlare Orochi in quel modo non era cosa di tutti i giorni. Sembrava teso tanto quanto loro. Si voltò, scrutandoli uno ad uno con i suoi occhi scarlatti. «Per il momento, la mia unica possibilità è rimanere nascosto nello Yomi.»

Hikaru squittì come un pollo. «Lo Yomi?!»

«Gli dei non hanno alcun potere su quel luogo» proseguì Orochi, ignorando il tono della donna. «Lì potrò viaggiare indisturbato e recuperare il resto delle mie forze e dei miei ricordi. Da questo momento in poi, dovremo muoverci separati.»

Orochi si avviò verso una cartina militare del Giappone allargata sopra un ripiano. Toccò con la punta della falce uno sprazzo di terra situato a sud-ovest, affacciato alla costa settentrionale. «Io mi recherò qui, nella Prefettura di Shimane, al Santuario di Suga. Ho… avuto un ricordo, legato a questo luogo. Voi, invece, dovrete continuare a spostarvi. Non lasciate che i nostri inseguitori vi raggiungano.» 

«So dove potremmo andare» disse Hikaru, indicando anche lei un punto sulla cartina, non molto distante da quello indicato da Orochi. «Qui ci sono le rovine di Takeda. Userò i miei poteri per tenere i mortali lontani. Nessuno verrà a disturbarci.»

«Molto bene» convenne Orochi. Si allontanò dalla cartina, imitato dagli altri. Li scrutò uno ad uno, mentre si disponevano in semicerchio attorno a lui. «Ci rivedremo là. In mia assenza…» Posò gli occhi su Naito, che si raddrizzò, ricambiando lo sguardo senza alcuna esitazione. «… lascio il comando a te, Hikaru.»

Orochi spostò lo sguardo su Hikaru, che fece un ampio sorriso. «Non la deluderò, Lord Orochi.»

«Che cosa?!» sbottò Naito incredulo, affondandosi le dita nelle braccia. «Perché lei?!»

«Non sei pronto per guidare un esercito di mostri, Naito» rispose Orochi lanciandogli una fugace occhiata.

Naito schiuse le labbra, mentre Bunzo gorgheggiava divertito e Chioiji frustava l’aria con la lingua. Hikaru distese il sorrisetto, puntando i suoi occhi famelici su di lui.

«Hikaru è antica e potente quasi quanto me. Non ci sarà alcun rischio di insubordinazione con lei al comando. Non sono sicuro di poter dire lo stesso se lo lasciassi a te» proseguì l’uomo. Naito percepì della rabbia trapelare dal suo tono di voce. Non aveva idea del perché. Non ricordava di aver fatto nulla di male, soprattutto qualcosa che avrebbe potuto infastidirlo. Tuttavia, sapeva che discutere era inutile. Serrò la mascella e chinò il capo con un gesto seccato.

«Non temere, Naito-kun. Il tuo ruolo di vice rimarrà invariato» aggiunse Hikaru, strappando dei versi di protesta a Bunzo e Chioiji. 

Doveva essere una buona notizia, ma Naito capì subito le intenzioni di lei. L’aveva fatto apposta, per provocarlo. Era il suo modo per dirgli che non sarebbe mai andato oltre il secondo posto. Strinse i pugni con forza dietro la schiena e si inchinò anche di fronte a lei. 

Quando lasciò la stanza evitò lo sguardo di qualsiasi mostro sul suo cammino, per non rischiare di esplodere e decapitarne qualcuno per la rabbia.

Solo una persona riuscì ad avvicinarsi a lui. 

«Allora, che vi ha detto?» gli domandò Hachidori, affiancandolo, mentre si allontanava lungo il cortile.

Le spiegò brevemente la situazione, cercando di non far trapelare il suo disappunto, ma senza riuscirci.

«Mi dispiace Naito. Ma forse è meglio così. Se ci fossi stato tu al comando, gli altri avrebbero potuto crearti problemi di proposito solo per intralciarti.»

Quella riflessione riuscì a farlo calmare. Smise di camminare verso non sapeva nemmeno dove ed espirò, rilassando le spalle. «Sì, forse hai ragione. Ma credo che dovremo comunque fare attenzione. Fino ad ora nessuno ci ha fatto nulla perché c’era anche Orochi. Senza di lui…»

«Che ci provino pure» sbottò Hachidori, facendo formicolare gli artigli. «Gli strapperò quei vermiciattoli che hanno al posto del…»

«Sì, è tutto chiaro» la interruppe Naito, sorridendo divertito. Se non altro, lei riusciva sempre a farlo stare meglio.

Partirono quella sera stessa. Abbandonarono l’accampamento e scesero lungo la montagna, attraversando un villaggio che gli altri avevano dato alle fiamme mentre lui era con Hikaru sulla montagna. La vista di quelle case bruciate fece nascere emozioni contrastanti dentro di lui, ma si sforzò di ignorarle. Quei mortali non avevano mosso un dito per aiutarlo, quando era stata casa sua a bruciare. Non aveva alcun motivo di provare pena per loro, vecchi, donne o bambini che fossero.

Presto, quel luogo sarebbe stato cancellato dalla memoria delle persone. Sarebbe divenuto soltanto un altro villaggio deserto e abbandonato, perso in mezzo alle montagne. Nessuno ne avrebbe sentito la mancanza, nessuno avrebbe notato la differenza1.

Superarono la muraglia che circondava il villaggio e percorsero un sentiero che conduceva ad un ponte di legno, oltre il quale iniziava la salita di un altro pendio. 

Hikaru procedeva in testa, celata nel suo aspetto di donna umana, con Chioiji sulla spalla, Bunzo accanto e il nekomata al seguito. Naito e Hachidori avevano chiuso la fila. Da laggiù, il ragazzo poteva constatare quanto numerosi fossero davvero diventati. Erano almeno un centinaio. E Orochi aveva detto che la presenza di tutti loro non poteva più mascherare la sua forza, nemmeno con una volpe a nove code. 

Sapeva che Orochi fosse potente, ma non avrebbe mai immaginato fino a quel punto. Non riusciva neanche a carpire una forza tale da sovrastare quell’esercito. Eppure, aveva comunque detto di non poter abbattere gli dei.

«A cosa pensi?» gli domandò Hachidori, interrompendo i suoi ragionamenti.

Notò i suoi occhi verdi che lo scrutavano incuriositi. Ogni volta che lui rimaneva concentrato su qualcosa, lei se ne accorgeva. Diceva che lo capiva dalla sua espressione. Capiva quando era teso, o angosciato, o, come accadeva in maniera più sovente, arrabbiato. Ed era sempre pronta ad ascoltarlo. Incrociò il suo sguardo e fece per rispondere, ma esitò per un istante, quando incrociò quelle iridi luminose. Provò uno strano fastidio al petto, come quasi tutte le volte che la guardava, ma si sforzò di ignorarlo. 

«Pensavo a quello che ha detto Orochi. È così forte da sovrastare tutti noi, ma allo stesso tempo non può battere gli dei, nemmeno con il nostro aiuto. Se nemmeno una simile forza può batterli, che cosa può?»

«Non lo so» ammise Hachidori, scostandosi una ciocca dei capelli color lavanda da di fronte al viso. «Ma da quanto ha detto, non è nemmeno ancora al picco della sua forza effettiva. Sono sicura che ha un piano.»

Un lungo mugugno pensieroso scappò da Naito, che non rispose. Per il momento, l’unica cosa che potevano fare era raggiungere questo nuovo rifugio e attendere prossime istruzioni. 

Iniziarono a percorrere il ponte. Le assi di legno scricchiolarono al loro passaggio, mentre sotto di loro il fiume scorreva con forza, proseguendo a perdita d’occhio. Il rumore dell’acqua che scorreva gli ricordò la cascata vicino a casa sua. Chiuse gli occhi, trattenendo a stento un sospiro che sicuramente Hachidori avrebbe sentito. Non voleva allarmarla e soprattutto non voleva rischiare di parlare del suo passato con lei. Era qualcosa che Orochi aveva vietato ad entrambi. Dovevano dimenticarsi le loro vite precedenti e concentrarsi soltanto su quello che erano in quel momento, soldati al suo servizio, mostri, proprio come lui. 

Anche per quel motivo nessuno dei due aveva mai rivelato il suo vero nome all’altro. Le loro identità mortali non esistevano più, Naosuke non esisteva più, esistevano solo Naito e Hachidori.

Quando arrivarono circa a metà di quel ponte che non sembrava avere fine, udirono alcuni schiamazzi provenire dalla testa del gruppo. Naito corrucciò la fronte e cercò di alzare la testa per vedere cosa diamine stesse succedendo, ma il resto dei mostri di fronte a lui gli bloccò la visuale. L’unica cosa che riuscì a scorgere, furono alcune fiamme che divampavano, seguite dalle grida ben distinguibili di Hikaru. 

I mostri cominciarono ad agitarsi e a ruggire e Naito intuì che erano sott’attacco. Imprecò sotto i denti e sguainò la katana. Un lunghissimo tentacolo blu spuntò all’improvviso dall’acqua, accompagnato dal frastuono delle onde e da altissimi schizzi. Naito spalancò gli occhi per la sorpresa mentre lo osservava agguantare una manciata di mostri sul ponte per trascinarli via, in un turbinio di grida sorprese.

Vi fu un’esplosione improvvisa. Il ponte saltò in aria, facendo volare pezzi di legno come pioggia. Una voragine si aprì di fronte a loro, inghiottendo alcuni mostri, che svanirono nel fiume con degli strilli allibiti. 

«Indietro!» esclamò Naito, saltando via prima che il ponte scoppiasse ancora di fronte a loro, facendo svanire altri mostri nell’acqua. 

«Ma che succede?!» esclamò Hachidori, sguainando i kama mentre indietreggiavano. Dall’altra parte del ponte, tra gli schizzi d’acqua, i mostri che si disperdevano disordinati e i pezzi di legno che saltavano in ogni direzione, vide Bunzo, Hikaru e i mostri rimasti in vetta al gruppo alle prese con delle figure vestite di nero, che li stavano circondando. 

«Dobbiamo raggiungerli!» gridò ancora Hachidori, per farsi sentire in mezzo al trambusto. 

Fece per correre, ma Naito la fermò mettendole un braccio di fronte. «Aspetta!» Puntò la katana di fronte a loro, un istante prima che il tentacolo blu tornasse fuori dall’acqua, scaraventando via altri mostri. Si accorse che in realtà non era un tentacolo, ma un braccio. Un lunghissimo braccio, sottile, dal carnato bluastro, che dopo aver mietuto altre vittime puntò proprio su di loro. 

«Giù!»

Naito si abbassò per non farsi colpire, imitato da Hachidori, e sollevò la katana, riuscendo ad aprire un taglio su quell’arto gigantesco. Un poderoso urlo fece tremare il ponte, mentre il braccio sanguinante si ritirava sott’acqua. Per un momento, tutto tacque. Poi, due mani afferrarono il cornicione ed una figura si issò dal fiume, seguita da un’esplosione d’acqua. Atterrò di fronte a loro, facendo scricchiolare pericolosamente il ponte, accompagnata da una pioggia scrosciante. 

Naito spalancò gli occhi. Era una donna gigantesca, alta almeno otto metri. Sulla testa, incastrate tra i lunghissimi capelli neri, c’erano cinque candele che in qualche modo erano ancora accese. Non poté badare molto alle candele, comunque. Il suo sguardo scivolò immediatamente sul corpo di lei, che era coperto appena da una vestaglia bianca, così bagnata da lasciar comunque intravedere quello che avrebbe dovuto coprire. 

Le guance di Naito bruciarono all’improvviso, mentre si sforzava di guardarla negli occhi nonostante la loro abissale differenza di statura. Aveva la pelle blu, ma non sembrava la carnagione naturale. Era molle e raggrinzita, come se fosse morta annegata.

«Mostri maledetti» sibilò quella, con voce tonante, facendo vagare lo sguardo sopra i pochi yōkai che ancora le erano attorno, Naito e Hachidori inclusi. «Avete distrutto quel villaggio… chi mi venererà adesso?!»

Si fiondò su di loro, abbattendo il pugno su un gruppetto di oni e spazzandoli via. Naito non riuscì a credere ai suoi occhi. Non sapeva se essere intimorito da quella donna o deluso dal comportamento penoso dei suoi compagni, che stavano morendo uno dietro l’altro sotto i suoi colpi.

«È una Hashihime2» borbottò Hachidori a denti stretti, mentre piegava le gambe per attaccare.

Naito la imitò. «Una “donna del ponte”?»

«Più una “dea” del ponte.»

Il ragazzo assottigliò le labbra. Si metteva male. Dopo aver afferrato e scaraventato oltre le colline una Yuki Onna, la Hashihime si voltò verso di loro, furibonda. «La pagherete per quello che avete fatto!» 

Si fiondò su di loro con un salto. I due mezzosangue scartarono di lato per non essere spappolati da lei. Naito evitò un pugno che si schiantò sul ponte, aprendo un’altra voragine. Hachidori la attaccò alle spalle, ferendole una gamba, ma quella si limitò solo a muggire infastidita prima di voltarsi verso di lei, regalando un’apertura a Naito. 

Le saltarono attorno, evitando i suoi pugni devastanti e ferendola ad ogni occasione. Forse la sua forza era quella di una dea, ma la sua tecnica era quella di uno scolaro alle prime armi. Non poteva reggere il confronto contro due guerrieri come loro. Non era la prima volta che combattevano assieme, nessun avversario poteva reggere il confronto con loro due.

«Maledetti ibridi!» tuonò, sfondando di nuovo il ponte proprio nel punto in cui Naito si era trovato un istante prima. 

Hachidori arrivò dietro la sua testa con un salto. Affondò la lama del kama nel suo collo fino al manico, strappandole un urlo agonizzante. Naito saltò e la infilzò al petto, in mezzo ai seni. Quella rovesciò la testa all’indietro, ruggendo per il dolore. 

I due ragazzi ritirarono le armi e saltarono a terra, ferendola ancora una volta alle gambe, Naito da davanti e Hachidori da dietro. La fecero crollare in ginocchio, il corpo blu ricoperto di sangue scarlatto. «La pagherete… la pagherete!»

«Torna nel tuo stupido fiume!» sbottò Hachidori, trafiggendola alla schiena. La donna si inarcò e Naito ne approfittò. Saltò di nuovo e mulinò la katana, incontrando la carne del suo collo e attraversandola di netto. La testa della “dea” volò dritta in acqua, smarrendosi tra le onde agitate del fiume. 

Il corpo mastodontico stramazzò sul ponte ed esplose come un pallone gonfio d’acqua, investendoli entrambi. 

«AH!» Hachidori si rialzò in piedi con un verso di protesta, scostandosi le ciocche di capelli fradici da di fronte al viso. «Schifosa vacca.»

Un sorriso sfuggì dalle labbra di Naito. Rinfoderò la spada gocciolante. «Sei stata brava.»

Gli occhi di Hachidori sembrarono brillare. Gli rivolse un ampio sorriso. «Grazie!» Rimase in silenzio per un istante, ad osservarlo, per poi sbattere le palpebre. «Oh, giusto, anche tu sei stato bravo… credo.»

Le labbra di Naito si inclinarono verso il basso. «Non sei simpatica.»

Per tutta risposta, quella ridacchiò. Si avvicinò a lui e gli posò la mano sul braccio. «Dai, Naito-kun. Lo sai che scherzo.»

Naito avrebbe voluto rispondere, ma le parole si rifiutarono di uscirgli dalla gola quando incrociò il suo sguardo ed il suo sorriso gentile. Poteva sentire gli artigli di lei posati sul suo braccio, ma nonostante fossero così affilati, lo stavano comunque toccando con delicatezza. Quel contrasto era incredibile. Ancora una volta, Naito avvertì uno strano sussulto al petto.

«Stai bene?» domandò Hachidori, facendosi preoccupata. 

Lui trasalì. Era rimasto di nuovo fermo a fissarla come un fantoccio di legno. «Sì, sto bene… e non chiamarmi Naito-kun!» si riscosse, riacquistando la sua espressione tipica.

Hachidori ridacchiò un’altra volta. Aprì la bocca per dire ancora qualcosa, ma una terza voce li fece voltare. «Che è successo qui?!»

Hikaru era di fronte a loro, assieme a Bunzo e al resto dei mostri rimasti in testa. Tutti loro sembravano un po’ percossi, ma comunque in buone condizioni. L’unica priva di alcun segno era la kitsune, che aveva assunto il suo aspetto volpino, con le nove code che spuntavano da sotto il kimono rosso. Osservò inviperita loro due, i buchi nel ponte e le pozzanghere rimaste dei loro compagni spappolati dai pugni della Hashihime. «Perché vi siete fermati?! E dove sono tutti gli altri?!»

«Una Hashihime ci ha attaccati» spiegò Hachidori tornando seria e separandosi da Naito. 

«Una Hashihime?» ripeté Hikaru, con venature di incredulità. «E voi l’avete sconfitta?»

«Sì.»

La kitsune serrò le labbra, osservandoli meticolosa, prima di riportare l’attenzione sul ponte sfondato. Non sembrava davvero convinta, ma allo stesso tempo doveva aver realizzato che simili danni non potevano essere stati arrecati dal nulla. E soprattutto mancavano almeno trenta yōkai all’appello, non potevano essersi volatilizzati. 

«Riprendiamo la marcia» concluse Hikaru, lanciando un’occhiata velenosa verso di Naito. «Tu rimarrai in testa con me, Naito. Hachidori chiuderà la fila.»

Naito corrucciò la fronte. Non l’aveva chiamato con quello stupido nomignolo. Sembrava davvero furibonda. Si scambiò un’occhiata con Hachidori, che pareva sorpresa tanto quanto lui. L’idea di separarsi da lei non gli piacque per nulla.

«ORA!» tuonò Hikaru, facendoli trasalire entrambi. La volpe si voltò senza più attendere e Naito lanciò un ultimo sguardo ad Hachidori, che ricambiò con aria angosciata, dopodiché si mise al seguito del suo comandante.

Percorsero il ponte, evitando i crateri lasciati dalla Hashihime. Per tutto il tempo, Naito sentì gli occhi di Bunzo, Chioiji e tutti gli altri puntati sulla sua nuca. Affiancò Hikaru, che si stava ritrasformando in una donna, sempre con quell’espressione adirata sul volto. Non l’aveva mai vista così, aveva le vene sul collo tese come la corda di un arco. Superarono il ponte e si accorse di decine e decine di corpi senza vita a terra, tutti di donne avvolti in kimono e happi neri, con dei simboli rosa ricamati sopra. «Cos’è successo, Hikaru? Chi sono queste donne?»

«Il maledetto Clan Tsubaki» ringhiò lei, procedendo con passo spedito. «Danno la caccia a Lord Orochi e a tutti i suoi sostenitori.»

Tsubaki. Camelia. Naito ripensò alla leggenda di Orochi, al fatto che, dopo la sua morte per mano di Susanoo, le camelie avessero iniziato a sbocciare dalla terra bagnata del suo sangue. Erano i fiori che venivano utilizzati per ricordare le sue vittime di millenni e millenni prima. Forse erano donne in cerca di vendetta. 

Non erano state molto fortunate.

«Quell’Hashihime era con loro?» domandò a quel punto Naito.

«Non ne ho idea. Non sono nemmeno sicura che mi abbiate detto il vero» aggiunse Hikaru, lanciandogli un’altra occhiata carica di veleno. 

«Stai scherzando, spero. Come avete fatto a non vedere quella donna gigantesca?»

Hikaru volse il braccio verso il cadavere di una di quelle kunoichi. «Eravamo un po’ impegnati, come puoi vedere. L’unica cosa che so, caro Naito, è che la tua resa è stata piuttosto scadente in questi ultimi tempi. Spero che anche tu te ne sia reso conto.»

«Ma che stai dicendo?» sbottò lui, infastidito. «Ho sempre svolto ogni incarico che mi è stato assegnato. In che modo sarebbe “scadente”?»

«Non sei più concentrato su quello che conta davvero. Tutti quanti se ne sono accorti.» Hikaru lo scrutò severa un’ultima volta. «Perché credi che Orochi abbia lasciato il comando a me? Non sei meritevole di fiducia, Naito.»

Naito schiuse le labbra. «Non… non capisco.»

«Sarà meglio che tu capisca, e in fretta anche. O non finirà bene per te.»

Dopo quella frase, Hikaru non gli rivolse più la parola. Naito avanzò in silenzio, confuso dalle sue parole. Non sembrava che la sua rabbia derivasse solo dal disastro sul ponte. Non avrebbe anche menzionato Orochi, altrimenti. 

Cercò quasi d’istinto lo sguardo di Hachidori, per sentirsi più tranquillo, ma sapeva di non poterlo trovare, non in quel momento almeno. 

Abbassò la testa e strinse i pugni. Il rumore dei loro passi si smarrì in mezzo ai boschi.

 

***

 

«Hai fame?» domandò Hachidori, sollevando una lepre ed un grosso uccello morti che reggeva tra gli artigli della mano sinistra.

Naito rimase in silenzio, l’occhio puntato su di lei, convinto di essere ancora dentro un sogno. Avrebbe provato a darsi un pizzicotto, se solo non fosse stato paralizzato.

«Cos’è quella faccia, Naito-kun? Non sei felice di rivedermi?» domandò lei, sogghignando.

«Sei… sei viva…»

«Vedo che l’occhio buono ti funziona ancora bene, Naito-kun!»

Il ragazzo era troppo sconvolto per accorgersi del suo tono e delle provocazioni. Non poteva indietreggiare ancora, perché il suo corpo non poteva attraversare le pareti. «Ma… come…»

«Perché sei così sorpreso?» domandò Hachidori, il sorriso che svaniva dal volto. «Credevi davvero che non ce l’avrei fatta?»

Naito non rispose. Il suo unico occhio rimase puntato su quelli di lei per diversi istanti. E, proprio come quando ancora militavano nell’esercito di Orochi, provò ancora quella sensazione. Quella sensazione che aveva cercato in ogni modo di dimenticare.

Il suo sguardo non era mutato affatto in quei due anni, nemmeno il suo volto. Il carnato rosa, le guance asciutte, le labbra fini e il naso lungo, ogni cosa era come la ricordava. L’unica differenza erano i capelli color lavanda, che un tempo le arrivavano fino alla schiena e che adesso le giungevano appena al collo.

Ma non era quello ciò su cui voleva focalizzarsi. La sua iride finì con lo scendere sul mantello che indossava, messo in modo da coprirle l’intero fianco destro, dalla spalla fino alla vita. Anche Hachidori abbassò la testa, osservandoselo. Le scappò un lungo sospiro. «Immagino di doverti delle spiegazioni.»

«Mi dispiace» sussurrò Naito di getto, stringendo con forza i pugni senza nemmeno accorgersene. «Avrei… avrei dovuto… fare di più. Sarei dovuto venire a cercarti, avrei dovuto…»

«Naito.»

Si interruppe, osservandola mentre gli sorrideva di nuovo, anche se questa volta sembrò soltanto triste. «Va… va tutto bene, Naito.»

Quel sorriso fu più doloroso di qualsiasi ferita gli avessero mai inflitto. Non andava bene, invece. Nulla andava bene.

«Sono felice di vederti» proseguì Hachidori, avvicinandosi a lui, sempre con quel sorriso sul viso.

Naito avrebbe voluto dirle che per lui era lo stesso. Avrebbe voluto dire così tante cose che non sapeva nemmeno da dove iniziare, ma non gliene uscì neanche una. Rimase in silenzio, percependo l’aria di quella capanna farsi sempre più opprimente.

Il sorriso svanì dal volto di Hachidori, che rimase triste e basta. Smise di avvicinarsi a lui ed abbassò la testa afflitta. Gli diede le spalle e andò a posare i due animaletti sul tavolino. Si sedette e, senza dire altro, afferrò l’uccello e gli staccò la testa con un solo morso. Il rumore delle ossa che scricchiolavano tra i suoi denti fu l’unico a riempire la stanza. Naito rimase in piedi ad osservarla, sempre convinto di trovarsi di fronte ad un’allucinazione dovuta al dolore.

Il suo stomaco brontolò all’improvviso, molto più forte di quanto avrebbe voluto, riuscendo a far nascere un sorrisetto sul volto di Hachidori. «Ho preso la lepre per te, se vuoi» gli disse, prima di puntare all’ala dell’uccello e azzannarla con quella voracità che aveva sempre avuto.

Titubante, Naito si avvicinò. Si sedette dall’altra parte del tavolo, mettendosi in diagonale a lei, e afferrò con timidezza la lepre. Affondò i denti nel collo e tirò via la carne grassa, i filamenti che si impigliavano tra gli incisivi. Mangiarono in silenzio. Per tutto il tempo, Naito cercò di pensare alle parole giuste da dire, senza riuscire a trovarne nessuna. Rimase con la bocca chiusa a far vagare lo sguardo dal suo pasto ad Hachidori.

«Ho lavato la tua maglia nel fiume» disse lei all’improvviso, senza guardarlo. «L’ho stesa fuori, ad asciugare. Purtroppo la tua armatura era completamente distrutta. Sono riuscita a recuperare solo le tue armi e la tua cintura.»

«Oh… grazie…» mormorò Naito, sorpreso. «E… per caso… per caso hai trovato anche la mia bisaccia?»

Hachidori abbassò l’uccello, scrutandolo con le guance gonfie, in un’espressione quasi buffa. «Mh?»

«La mia bisaccia. C’era… una cosa dentro. Era importante. L’hai trovata?»

«Non saprei…» rispose lei, dopo aver deglutito. Posò la sua preda sul tavolo, facendosi pensierosa. «A meno che…» Nascose la mano sotto il mantello ed estrasse qualcosa, con un altro sorrisetto divertito. «… tu non stia parlando di questo.»

Naito spalancò l’occhio, osservando il Bushido stretto tra i suoi artigli.

«Da quando ti piace leggere, Naito-kun?» Hachidori infilò le dita tra le pagine e lo aprì, reggendolo nel palmo della mano. Iniziò a leggere con voce bassa e impostata: «Rei: Gentile Cortesia.»

Il ragazzo sentì le guance bruciare. «R-Ridammelo!»

Fece il giro del tavolo e cercò di strapparglielo dalle mani, ma quella si sdraiò su un fianco, spingendolo via con i piedi e continuando a leggere. «I samurai non hanno motivo di comportarsi in maniera crudele! I samurai non hanno bisogno di mostrare la propria forza! Un samurai è gentile anche coi propri nemici!»

«Ridammelo ho detto!»

«Lo sapevo che avevi una vena artistica, nel profondo!» rise lei.

«S-Sta zitta!»

«AAAK!»

Naito le afferrò le caviglie e le spostò le gambe, riuscendo ad ergersi sopra di lei ma inciampando nell’impeto del momento.

«AH!» esclamarono entrambi, quando lei se lo ritrovò sdraiato sopra, i loro volti a pochi centimetri di distanza. Hachidori smise di ridacchiare e Naito si ammansì come un cucciolo spaventato. Si osservarono per diversi istanti, in silenzio imbarazzato, il naso morbido di lei che sfiorava il suo, solleticandoglielo.

Naito sentì il calore del corpo di Hachidori che saliva, soffiando su di lui. Poi, di nuovo il suono della sua risata. Gli sorrise di nuovo, questa volta in maniera dolce. «Mi sei mancato.»

Un lungo brivido lo percorse da capo a piedi. Si alzò di scatto, allontanandosi come se lei avesse appena preso fuoco, cercando di ignorare quella sensazione che lo stava attanagliando. «Potresti… potresti ridarmelo?»

Hachidori lo scrutò dal basso con le labbra dischiuse. Si raddrizzò e gli passò il libro con espressione di nuovo mesta. «Sì, certo…»

Naito tornò a sedersi dal suo lato del tavolo, tenendo il Bushido sulle ginocchia e facendo di tutto per non guardarla. Osservò la lepre che aveva lasciato sopra il ripiano e all’improvviso non sentì più molta fame.

«Che… che cos’è successo, Naito?» domandò di nuovo Hachidori, mentre anche lei tentava di rimettersi a mangiare, imbarazzata. «Chi… chi ti ha attaccato? Chi ti ha ridotto in quelle condizioni?»

Quella domanda lo portò a guardarsi le fasciature. Il pensiero che lei l’avesse spogliato per medicarlo lo fece sussultare di nuovo. Paradossalmente, trovò più semplice parlare di come fosse quasi morto piuttosto che dirle quanto le era mancata. «Mio padre.»

«Che… che cosa?»

Naito assottigliò le labbra. Diede un altro morso alla lepre e masticò con lentezza, per ragionare sulle parole giuste da usare. Le raccontò quello che era successo, quasi bisbigliando per la fatica. Ancora non riusciva a crederci, e non si riferiva solo all’aver conosciuto suo padre. Non poteva credere di aver incontrato prima lui e poi rivisto lei. Era convinto che nessuna di queste due cose sarebbe mai accaduta.

Quando parlò della conversazione che aveva udito prima che arrivasse il Clan Tsubaki, Hachidori sobbalzò, sbattendo il ginocchio contro il tavolino. «Ōtakemaru?!»

Il tono allarmato di lei lo fece trasalire. Incrociò il suo sguardo, accorgendosi della sua espressione angosciata. «Che succede?»

«Hai… hai detto che quella donna l’ha chiamato “Ōtakemaru”?» domandò Hachidori, scandendo bene le parole.

«Sì…»

«E… tu non sai chi sia?»

Il suo silenzio fu una risposta piuttosto chiara per la ragazza. Si sentì un po’ imbarazzato per questo, ma non era mai stato ferrato su quel genere di cose. L’esperta era sempre stata Hachidori, che prese un profondo sospiro. «Ōtake… insomma, tuo padre, è… è uno dei demoni più potenti che siano mai esistiti in Giappone. Come Orochi, o la leggendaria kitsune Tamamo-no-Mae.»

Naito serrò le labbra, non sapendo cosa pensare in merito a quella scoperta. Doveva sentirsi sollevato del fatto di aver perso contro uno dei demoni più potenti del Giappone? O triste perché non aveva avuto speranze contro di lui nonostante avessero lo stesso sangue nelle vene?

O ancora peggio, il fatto che avesse perso nonostante il suo sangue e gli allenamenti di Orochi?

«Ma certo…» disse all’improvviso Hachidori, interrompendo i suoi pensieri. Aveva smesso di assalire l’uccello e aveva lo sguardo smarrito nel vuoto. «Mio… mio padre… è Sōjōbō, il re dei tengu. Il tengu più potente del Giappone.»

Naito sbatté le palpebre, stupito. «Tu conoscevi tuo padre?»

«Io… sì, però… non mi va di parlarne» rispose lei, stringendosi nelle spalle. «Ma ora che abbiamo scoperto chi è il tuo, tutto mi è più chiaro.»

«Che vuoi dire?»

«Non ti sei mai chiesto perché noi fossimo gli unici mezzosangue che Orochi ha preso con sé?»

Naito esitò. Qualche volta ci aveva pensato, in realtà, ma non ci si era mai soffermato troppo a lungo. Aveva creduto che gli altri mezzosangue preferissero rimanere nascosti e non combattere.

«Entrambi i nostri padri sono due dei demoni più potenti del Giappone, potenti quasi quanto lui» spiegò Hachidori, titubante. «Forse… Orochi stava cercando di riunire la progenie degli yōkai più forti. Forse… voleva renderci come loro.»

Per una volta, sembrò lei a non voler incrociare lo sguardo di Naito. E lui non ci mise molto a capire perché. Aveva appena detto che non era stato per merito loro se Orochi li aveva considerati. Però quella teoria non quadrava. Orochi non poteva sapere che Naito fosse figlio di questo Ōtakemaru. All’epoca non ricordava nulla, nemmeno il suo vero nome.

O forse… in realtà lo sapeva. E l’aveva ingannato. Per quale motivo avrebbe proprio dovuto incontrarlo, quel giorno? Aveva sempre pensato che fosse stata una coincidenza, un incontro fortuito, ma forse non era davvero così. Forse Orochi aveva calcolato tutto.

Quel bastardo.

Naito si affondò le unghie nei palmi. L’aveva trovato che era solo un bambino e da quel giorno non aveva fatto altro che cercare di inculcargli la sua dottrina in testa. Doveva pensare come lui, agire come lui, parlare come lui. Come un mostro.

Voleva plasmarlo a suo piacimento. Voleva avere dalla sua parte qualcuno che potesse eguagliare la potenza di Ōtakemaru. E quando aveva visto che non poteva davvero riuscirci, quando aveva capito che per Naito ciò che contava davvero non era più la vendetta, gliel’aveva fatta pagare.

E Naito, come uno stupido, l’aveva comunque seguito in occidente. Si era lasciato abbindolare dalle sue chiacchiere e dalle sue promesse vuote. Strinse i denti per la rabbia senza nemmeno rendersene conto, placandosi solo quando si accorse di Hachidori che lo osservava angosciata.

Si riscosse, prendendo un profondo respiro. «Hai… hai detto che tuo padre è il “re” dei tengu?»

«Sì… perché?»

«Quella donna e mio padre… hanno menzionato qualcosa a proposito di un re. Hanno detto che avrebbero dovuto portarmi da lui, e che mi conosceva perché ero il braccio destro di Orochi.»

«Non credo stessero parlando di Sōjōbō. Soltanto i tengu si rivolgono a lui come “re.” E tuo padre è molto più potente del mio, non si sottometterebbe mai a lui» rispose la ragazza, quasi un con velo di tristezza nella voce. Quasi come se non stesse alludendo soltanto ai loro genitori.

«Quindi… c’è un altro re?» domandò Naito, cercando di ignorare il nodo allo stomaco.

«Non lo so. Forse…» Hachidori esitò, prima di scuotere la testa. «… devo pensarci.»

A quel punto, Naito dubitava che avrebbero anche potuto capire chi fosse quella donna con suo padre. Non l’aveva vista, aveva sentito soltanto la sua voce e Ōtakemaru non l’aveva chiamata per nome. L’unica cosa che sapeva era che dopo il dio misterioso che aveva aiutato Orochi, altri stavano cominciando a muoversi nell’ombra per fare soltanto il fato sapeva cosa.

E lui voleva trovarsi il più lontano possibile da tutto quello.

«Grazie… grazie per avermi salvato dal Clan Tsubaki» disse infine Naito, ripensando a quella figura che volava addosso alle kunoichi, allontanandole da lui. Aveva riconosciuto quelle acrobazie. Era lo stile di combattimento dei tengu, che padroneggiava le mosse aeree.

Hachidori accennò un sorriso incerto. «Immagino… che siamo pari, adesso.»

Naito non rispose. Diede un altro morso alla lepre, abbassando la testa. Poteva sentire gli occhi di lei che lo scrutavano con insistenza. Udì ancora una volta il suo sospiro abbattuto e sentì una stretta al petto, quella stessa stretta che aveva percepito diversi giorni prima, quando la sua immagine gli era balenata nella mente nel cortile del vecchio Musashi.

Rimorso.

«Come… come hai fatto a trovarmi?» domandò, prima che il silenzio si facesse opprimente.

«Ho visto Meishu e le sue passare da queste parti. Credevo fossero di nuovo venute per me, invece mi hanno ignorata. Ho subito capito che stavano cercando qualcun altro.»

«Quindi la conoscevi» mormorò Naito.

Hachidori finì in quel momento di mangiare la sua preda. Sogghignò di nuovo, mostrando alcune piume incastrate tra i denti. «Chi pensi le abbia lasciato quella cicatrice?»

Naito ripensò allo sfregio di Meishu e a quello che gli aveva detto quando l’aveva affrontata. Un piccolo sorriso riuscì finalmente a nascere sul suo volto.

«Che succede? È forse un sorriso quello che vedono i miei occhi?» domandò Hachidori, facendo un verso sorpreso.

Le labbra di Naito si abbassarono, strappandole una risatina. «Ecco, questo è il Naito-kun che conosco!»

Il ragazzo soppresse un altro sorriso, avvicinando di nuovo la lepre alle labbra.

«La… la mangi tutta quella?» domandò ancora Hachidori osservandolo con occhi bramosi, rischiando di farlo sorridere di nuovo.

Naito strappò la zampa posteriore della lepre e la cedette alla ragazza, che si avventò di nuovo vorace su di lei.

«Che è successo a Meishu? L’hai uccisa?» domandò lui, dopo altri attimi di silenzio.

Hachidori smise di attaccare la zampa, rabbuiandosi. «No. Sono riuscita a ferire le sue compagne, ma lei è riuscita a scappare incolumeLa prossima volta non le andrà così bene.»

Altro silenzio. Il fatto che avessero così tanto da dirsi rendeva difficile conversare in maniera ordinata.

«Ho saputo di…» riprese la parola Hachidori, prima di guardare ancora una volta bramosa la lepre. Aveva già finito la zampa. Naito sospirò, poi gliela cedette tutta.

«Yum!»

Divorò di gusto anche la lepre, sporcandosi il volto. «Grazie Naito-kun. Dicevo, ho saputo di quello che è successo in occidente… però non riuscivo a crederci. È… è vero che è stato un massacro?»

Naito storse le labbra. “Massacro” sembrava riduttivo. Raccontò anche quella storia. Parlò dei viaggi nello Yomi, dei piccoli dei greci, di Ama no Murakumo e del piano di Orochi. In realtà, tutto quanto era filato liscio, tolti alcuni intoppi qua e là, principalmente dovuti all’ottusità di Naito. Ma avevano comunque catturato una vergine ed erano in procinto di scambiarla per Ama no Murakumo. Sarebbe andato tutto benissimo… se solo quel piccolo dio non li avesse sterminati tutti.

Edward. Dubitava che avrebbe mai dimenticato quel nome. Così come non si sarebbe dimenticato del suo amichetto, Konnor. 

Se aveva perso la voglia di vendicarsi, alla fine, era stata anche causa loro. Non sapeva se odiarli per questo od essergli grato.

E poi c’era lei, la vergine, Rosa. Naito alzò lo sguardo, accorgendosi degli occhi di Hachidori ancora puntati su di lui mentre parlava. Sussultò per un istante. Erano uguali a quelli di Rosa. O forse… erano quelli di Rosa ad essere uguali a quelli di Hachidori.

«Quindi… l’ho scampata bella» concluse Hachidori, a racconto concluso, senza accorgersi del suo tentennamento.

«Suppongo di sì…» mormorò Naito, stringendosi nelle spalle. Se non altro lei era ancora viva.

«Davvero… davvero non vuoi più vendicarti?»

Naito non rispose, limitandosi a conficcarsi ancora di più le dita nelle spalle.

«Vuoi davvero arrenderti così?» insistette Hachidori.

«Sì.»

«Non… non puoi dire sul serio.»

«Sono serissimo invece.»

Hachidori sembrava incredula. «Ma… perché?»

Naito inspirò profondamente. «Perché ho scoperto la verità.»

Osservò la ragazza, con il suo unico occhio. Aveva perso l’altro, eppure, da quando era tornato in Giappone, aveva iniziato a vederci molto meglio di prima. «Gli dei non possono essere sconfitti, Hachidori. Non siamo nemmeno riusciti a sconfiggere i loro figli. È una battaglia a senso unico.»

«Quindi… a te sta bene che continuino ad ordinare ai loro seguaci di darci la caccia?»

Ancora una volta, Naito rimase in silenzio. Non gli stava bene, affatto. Ma non c’erano molte alternative. Combattere da soli era un suicidio e dopo la disfatta di Orochi non era affatto in vena di unirsi a qualche altro folle che programmava di rovesciare gli dei. E in ogni caso, i mostri detestavano i mezzosangue tanto quanto, se non di più, degli stessi dei e mortali. Soltanto Orochi aveva cercato di includere anche loro, e Naito aveva appena scoperto che in realtà l’aveva fatto per via dei loro genitori.

Chissà quanti mezzosangue Orochi aveva ignorato durante il suo percorso. E chissà quanti ne aveva uccisi senza dire mai nulla. Nemmeno lui era diverso dagli altri mostri, o dagli dei che avevano cercato di assassinare Naito.

Tuttavia, qualcuno di diverso in realtà c’era

«Puoi essere meglio di così. Sta solo a te riuscire a capirlo.»

«Forse gli dei non possono fare niente per te, Naito, ma tu… tu puoi ancora fare qualcosa.»

«Non mi interessa ciò che quelle donne hanno detto, Naosuke. Il pericoloso criminale che cercavano non ha nulla a che vedere con la persona che mi ha fatto compagnia in queste settimane.»

Konnor, Edward, il vecchio Musashi. Non sapeva perché non l’avessero ucciso e basta. Non sapeva che cosa avessero visto in lui. In compenso, aveva capito quello che avevano cercato di dirgli.

«L’unico modo per cambiare le cose…» cominciò a dire, ponderando bene sulle parole. «… è quello di cambiare la percezione che gli altri hanno di noi. Se… se dimostrassimo agli dei e ai mortali che… che non siamo quello che credono, che meritiamo anche noi di vivere a prescindere da chi siano i nostri genitori, forse… forse ci lascerebbero stare.»

«“Forse?”»

Naito si strinse nelle spalle. «È l’unica opzione che rimane. L’alternativa è nascondersi o farsi uccidere.»

Ora fu il turno di Hachidori di rimanere in silenzio. Tenne gli occhi posati su di lui, assorta. Naito non conosceva la sua storia, ma sapeva che nemmeno per lei era stato facile, in passato. In particolare da quando era stata allontanata dall’esercito di Orochi, era certo che i mortali, il Clan Tsubaki in particolare, le avessero reso la vita un inferno. Era sicuro che gli avrebbe dato del folle per pensarla in quel modo, e forse non avrebbe avuto tutti i torti.

Invece, la sentì sospirare profondamente un’altra volta. «Hai qualche idea su come potremmo fare?»

Naito batté le palpebre, credendo di aver sentito male. «“Potremmo?”»

Hachidori riacquisì la sua solita compostezza. «Sì, potremmo. Cos’è, credi davvero che dopo così tanto tempo ti lascerei da solo? Non dureresti una settimana senza di me. Se proprio vuoi andare a suicidarti in qualche folle modo, lascia almeno che ti accompagni.»

Il ragazzo schiuse le labbra, sconvolto. E anche intimorito. «Hachidori…»

«Ti prego, Naito» disse ancora lei, affondando gli artigli sul tavolino. Il suo sguardo cambiò, facendosi quasi implorante. E anche la sua voce si abbassò, diventando un sussulto venato di tristezza. «Non… non faccio altro che pensare a… a quella maledetta notte. So… so di aver sbagliato e so che… che hai tutte le ragioni per odiarmi. Lo capisco. Ti chiedo solo di… darmi un’occasione. Non sei l’unico che cerca di rimediare ai suoi errori. Lascia che venga con te. Ti prego.»

La stretta al petto di Naito tornò a farsi sentire. Osservò il mantello che Hachidori indossava, per coprire quel marchio indelebile che mai sarebbe riuscita a cancellare. Aveva già pagato per i suoi errori. Non aveva bisogno di farsi perdonare da lui. Non c’era nulla per cui dovesse perdonarla. Sospirò a sua volta, per poi abbozzare un sorrisetto. «Possibile che tu debba sempre credere che io ti odi?»

Vide la sua espressione cambiare di nuovo e le sue labbra ritornare verso l’alto. «Non… non sei arrabbiato con me?»

«Non ho fatto altro che provare rabbia per tutta la vita, Hachidori. Sono stanco. Anche se volessi odiarti, non credo proprio di poterci riuscire in queste condizioni.»

«Oh… questo… mi fa stare meglio… credo.»

Una tenue risata sfuggì dalla gola di Naito, ma si impose di ricacciarla subito indietro. Purtroppo, però, ormai Hachidori l’aveva sentita. «Naito-kun!» esclamò con un ampio sorriso. «Era forse una risata quella??»

«No. E smettila di chiamarmi Naito-kun. Non era divertente all’inizio e non lo è adesso.»

Per tutta risposta, Hachidori ridacchiò. «Va bene, va bene… non mi hai ancora detto quello che hai in mente, comunque. Come speri di far cambiare idea su di noi?»

Naito esitò. Il nulla aleggiò nella sua mente. La teoria era sempre la più semplice, del resto. Dovette sembrare davvero smarrito, perché Hachidori sogghignò di nuovo, scuotendo la testa. «Fammi capire bene, Naito, prima fai lo spavaldo con “dobbiamo cambiare la percezione su di noi” e poi quando ti chiedo cosa pensi di fare rimani a bocca aperta come una carpa koi?»

Le guance di Naito bruciarono per l’ennesima volta. «E tu ce l’hai un’idea, invece, visto che ti diverti tanto a sbeffeggiarmi?»

«Sì.»

«Visto… aspetta, cosa?»

Hachidori distese il suo sorriso, lanciandogli un’occhiata che gli penetrò l’anima. «So cosa possiamo fare, Naito-kun.»

«Che… che cosa allora?» domandò lui, sempre più incredulo.

«Hai mai sentito parlare… dell’Elisir di lunga vita?»

 

                                                                                                                                                                                        

 

 

1Questa è un po’ una teoria inventata da me, anche per non lasciarmi dei buchi di trama dietro. I templi, i villaggi i santuari e così via distrutti dai mostri sono stati “dimenticati” o meglio “oscurati” dalla Foschia/Nebbia, rendendoli semplicemente luoghi distrutti da cause naturali e/o abbandonati, e magari un giorno diventeranno parte della "leggenda dei mostri che si aggiravano per i monti a fare fuori tutti". E così il ciclo delle leggende continua, all'infinito.

2In soldoni, le Hashihime sono un po’ come gli spiriti dei fiumi, solo che loro vivono sotto i ponti (letteralmente) dei corsi d’acqua, e le persone che popolano i villaggi vicino a questi ponti sono soliti venerarle in santuari e altari dedicati a loro. Sono molto gelose e territoriali, e se sentono qualcuno parlare bene di un altro ponte che non sia il loro sono solite, come si dice in gergo, ad “incazzarsi come iene”. Delle tipette interessanti, insomma.

Qui lascio il disegno che ho fatto di Hachidori: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Hachidori-la-mezza-tengu-l-Elisir-di-lunga-vita-889964709

 

 


Salve amici, eccoci alla fine del nuovo capitolo! Grazie per aver letto, spero vi sia piaciuto!

Faccio alcune precisazioni, non vi ruberò molto tempo. Innanzi tutto, parliamo di quando è ambientata questa storia, per togliere ogni dubbio. 

Dunque, la timeline completa è questa: la Spada del Paradiso è ambientata all’inizio dell’estate, durante le prime settimane di giugno, e la raccolta si spalma lungo i mesi successivi, luglio e agosto. Questa storia qui, invece, è ambientata un paio di mesi dopo, siamo nel cuore dell’autunno, a metà ottobre, circa. Quindi i fatti della Spada sono molto recenti, in sostanza, e i due anni di cui Naito fa accenno sono riferiti all’episodio in cui lui e Hachidori si sono separati, che è accaduto, appunto, due anni prima i fatti della Spada (infatti lei non c’era in quella storia). 

Poi, parliamo del padre di Naito per un secondo. Dunque, Ōtakemaru, come Orochi, è un demone che esiste davvero nel folklore, così potente da essere considerato un “kijin” cioè mezzo demone (ki) e mezzo dio (jin). 

Stando alle mie ricerche, Orochi non è un kijin, è solo un dragone potentissimo, perciò a rigor di logica il padre di Naito sarebbe più forte di lui, tuttavia Orochi è molto più antico di Ōtakemaru e anche di tantissimi altri mostri, e per sconfiggerlo c’è voluto un dio, mentre per quasi tutti gli yōkai comuni sono “bastati” dei samurai (che a questo punto possiamo considerare i “semidei” giapponesi), quindi penso sarebbe corretto pensare che alla fine sia Orochi il più forte… tra quelli che ho mostrato fino ad ora, ovvio.

Comunque sia, più luce verrà fatta sulla faccenda, sia del “re” misterioso che della donna sconosciuta.

Ringrazio Nanamin, Roland, Farkas e Fenris per le recensioni, e invito anche chi legge in maniera costante, ma non l’ha ancora fatto, a recensire. Dopotutto, è anche merito dei temerari che recensiscono se questa storia esiste e prosegue. 

Bene, grazie mille, ai recensori in particolare, e nulla, per il momento è tutto, ci vediamo al prossimo aggiornamento!

 

 

   
 
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