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Autore: Adeia Di Elferas    31/08/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quel mercoledì 3 novembre, Lorenzo Medici si era svegliato molto presto. Era rimasto un po' sorpreso quando, il giorno prima, gli era stato riferito che Caterina Sforza aveva accettato di presentarsi al suo palazzo assieme a Ottaviano per confrontarsi con alcuni dei suoi creditori.

Sicuro com'era che quella donna non avesse un soldo e che, nel profondo, lo temesse, il fiorentino era stato certo che avrebbe rifiutato l'incontro, compromettendosi agli occhi della Signoria e di Firenze, mostrandosi, alla fin fine, come una persona di pochi principi e restia a saldare i propri debiti. Anche se, legalmente, per la Repubblica avrebbe fatto poca differenza, il Popolano sapeva bene quanto la reputazione sarebbe contata, in un futuro processo. Demolire quella della Tigre era solo un passo per accelerarne la disfatta.

Sapere, invece, che si sarebbe presentata, per di più affiancata da Ottaviano Riario, il primogenito che tutti dicevano lei disprezzasse, aveva gettato Lorenzo in uno stato di confusa rabbia.

L'unica piccola rivincita che si era preso era stato dare due orari di comparizione diversi ai debitori e ai creditori, in modo che questi ultimi arrivassero un paio d'ore prima, dovessero aspettare e quindi indispettirsi ancor di più verso la Sforza e il Riario.

Quando vide arrivare il piccolo manipolo di uomini che aspettava, il Medici si fiondò al cortile interno del suo palazzo, per accoglierli. Aveva voluto, solo per fare buona impressione, che con lui ci fossero anche sua moglie Semiramide e suo figlio Pierfrancesco.

“Messer Medici...” salutò Girolamo Baldi, colui che rappresentava nella sua persona i creditori della Leonessa.

Assieme a lui, a parte un paio di segretari – almeno, tali sembravano a Lorenzo – c'era un uomo più vecchio, che non smetteva mai di guardare di traverso il padrone di casa, occhieggiando solo di tanto in tanto verso Pierfrancesco, e ignorando completamente l'Appiani.

“Come immagino sappiate, in questo contenzioso rappresento mio padre, Naldo Baldi – spiegò Girolamo, indicando proprio l'anziano – mio zio, Pellegrino, e mio cugino Raffaele.”

“Siamo lieti di avervi qui.” disse il Medici, chinando appena il capo: “Purtroppo i vostri creditori non sono ancora arrivati... Possibile che facciano tardi, visto di chi stiamo parlando... Volete, per ingannare l'attesa, un calice di vino?”

Semiramide, saltando davanti a Lorenzo, ci tenne ad aggiungere: “Purtroppo Madonna Sforza e i suoi figli vivono fuori città, al momento... Non è sempre facile essere puntuali, specie quando ha piovuto tanto la notte. Le ruote dei carri tendono a impantanarsi, nelle strade di campagna.”

“Accetteremo il vino.” disse, scontroso, il più vecchio, ossia Naldo Baldi.

“Bene, allora seguitemi...” sorrise Lorenzo, assumendo una smorfia strana, come se il suo viso non fosse più avvezzo a una simile esternazione.

Mentre il fiorentino faceva strada agli ospiti, la moglie, assieme al figlio, si misero in chiusura di corteo, sia per accertarsi che nessuno si perdesse – più o meno volutamente – per strada, sia per distanziarsi dal Medici, che, fin dal primo mattino, aveva avuto per entrambi solo poche parole e molto sgradevoli.

“Spero davvero che possiate ottenere soddisfazione, quest'oggi.” disse Lorenzo, arrivando nel salone e indicando poltrone, divani e sedie agli ospiti, affinché decidessero dove sistemarsi: “Quella donna ha sempre vissuto ai limiti delle regole, per non dire che li ha sempre superati...”

“Il debito che Madonna Sforza ha nei nostri confronti – lo interruppe in modo secco l'anziano Naldi Baldi – è stato contratto dal suo defunto marito.”

“Ma lei non ha mai fatto nulla per saldarlo.” fece notare il Medici.

Baldi fece un cenno che poteva essere visto come un assenso, ma fu il figlio a parlare: “Voi conoscete sicuramente meglio di noi la storia di vostra cognata – disse Girolamo, con tono affabile, ma fermo – saprete meglio di noi, quindi, che, anche volendo, non deve esserle risultato facile avere a che fare per anni coi creditori di suo marito... C'erano sicuramente altri più feroci ed esigenti di noi, a battere alla sua porta...”

“Diciamo pure che le sue porte le apriva spesso – ghignò Lorenzo – ma non per saldare debiti, quanto più per cercarsi nuovi amanti che la portassero a nuove spese... Ma ditemi, che voi sappiate, è vera quella storia che per quel suo amante, quello stalliere che poi è stato ucciso, aveva impegnato il suo stesso Stato?”

“Non diciamo assurdità.” borbottò secco Naldo: “Donna di grande appetito, questo sì, ma stupida no.”

“Piuttosto – si insinuò di nuovo Girolamo Baldi, sistemandosi i lunghi capelli mossi con una mano e sollevando gli angoli delle labbra – è vero che vostro fratello aveva speso tanti soldi quanti basterebbero per comprare un piccolo Stato solo per riscattare i suoi gioielli?”

Lorenzo divenne all'istante violaceo e Semiramide fu certa che sarebbe esploso a breve, se non fosse intervenuta in qualche modo a sviare il discorso.

“Oh, perdonatemi!” esclamò, con una breve risata: “Vi abbiamo fatti accomodare per bere un po' di vino assieme nell'attesa, e ancora non abbiamo fatto portare nulla... Sarebbe meglio che...”

“Ci penso io.” disse, burbero, il Medici, cogliendo al volo l'occasione per allontanarsi un momento e sbollire, prima di rovinare tutto per un moto di rabbia e orgoglio.

Quando il fiorentino lasciò il salone, per qualche momento regnò il silenzio, poi Naldo, con la sfacciataggine tipica degli anziani, guardò Pierfrancesco dritto negli occhi e sbottò: “E voi, che sarete l'erede di tutta questa baracca, non siete capace di dire nemmeno mezza parola?”

Il ragazzo, preso alla sprovvista, guardò la madre, allarmato, ma restando sempre in silenzio.

“Mio figlio sta ancora imparando.” gli saltò davanti Semiramide: “E mio marito è un uomo...” non sapeva come qualificarlo così preferì restare sul vago, usando un aggettivo che immaginava al Baldi sarebbe piaciuto: “Severo... E avendogli dato ordine di non intromettersi, ma di ascoltare e imparare...”

“Storie.” sbuffò Naldo: “Ragazzo, imparate a puntare i piedi, o non diventerete nessuno. Girolamo, aiutami a sedermi...”

Mentre il giovane Baldi aiutava il padre, Pierfrancesco sussurrò qualcosa all'orecchio della madre che, pur sapendo che concedendo quanto richiesto si sarebbe sorbita una sfuriata di Lorenzo – o, peggio, avrebbe visto la sua freddezza verso di lei farsi ancora più glaciale – annuì appena con il capo. Sollevato, il giovane Medici salutò tutti con fare imbarazzato e quasi corse fuori dal salone.

“Perdonatelo – sussurrò l'Appiani, un po' in difficoltà – oggi non si sente troppo bene...”

Naldo sollevò gli occhi per un istante e poi fece una smorfia, che trasformò il suo viso rugoso in una vera e propria maschera, ma non disse nulla. Girolamo e i due segretari, invece, più diplomatici, ribatterono dicendo che non c'era nulla di male e che speravano che il ragazzo si rimettesse presto e poi si misero ad aspettare il ritorno di Lorenzo con il vino.

 

Caterina aveva fatto pressioni affinché si partisse dalla villa di Castello con un po' di anticipo. Non sapeva nemmeno lei dire perché, ma aveva la sensazione che Lorenzo volesse fare di tutto per metterla a disagio e, cercando di ragionare a parti inverse, si era detta che farla volutamente arrivare in ritardo avrebbe potuto essere una mossa sensata. Convincendo il carro mandato da Fortunati a mettersi in strada un'ora prima del previsto, sperava di arginare quell'eventualità.

Prima di lasciare la villa, aveva parlato singolarmente con ciascuno dei suoi figli, affinché fossero pronti a tutto, nel caso in cui a Firenze l'attendesse un'imboscata. Si era raccomandata con Bianca di non perdere di vista Bernardino e Sforzino, ai quali aveva parallelamente chiesto di fare, in caso di bisogno, tutto ciò che la sorella avrebbe ordinato loro. Aveva poi preso da parte Galeazzo e gli aveva ricordato di non farsi problemi, in caso di reale necessità, di vendere i gioielli o chiedere soccorso al Cardinale Sansoni Riario che verso di loro nutriva un debito impossibile da estinguere e, quindi, sarebbe sempre stato pronto a fornire la protezione che poteva dare loro.

Stava ripensando al lampo d'ansia che aveva visto attraversare le iridi verdi del suo quintogenito mentre gli parlava, quando il carro ebbe uno scossone e fu costretta a tenersi allo sportello, per non ondeggiare troppo. Anche Ottaviano, al suo fianco, aveva fatto altrettanto.

Da che erano partiti, il suo primogenito non le aveva ancora rivolto la parola. Forse, si diceva lei, erano bastate quelle che il giorno prima lei gli aveva quasi gridato addosso. Anche se aveva iniziato il discorso con calma, aveva finito per innervosirsi a ogni suo minimo gesto, arrivando ad alzare la voce benché non ce ne fosse un reale bisogno.

Gli aveva spiegato come comportarsi e, soprattutto, gli aveva fatto capire quanto fosse importante che stesse zitto durante l'incontro con Girolamo Baldi, parlando, al massimo, per le frasi di prammatica.

Le sembrava che, malgrado tutto, suo figlio avesse colto la gravità e la delicatezza della questione, eppure non riusciva a stare del tutto tranquilla. In un certo senso, era la prima volta dopo anni che si trovava affiancata a lui in una situazione importante.

Quella mattina aveva sovrinteso alla sua vestizione, facendo in modo che scegliesse, tra i pochi che possedeva al momento, i suoi abiti migliori, scartando, però, quelli troppo alla moda. Dovevano dare un'idea modesta, ma ordinata. Dovevano sembrare ben intenzionati, anche se di scarse possibilità.

Aveva fatto in modo che si pettinasse accuratamente, ma evitando di ungersi i riccioli, per non rievocare troppo, ai loro creditori, l'immagine di Girolamo Riario, già più che evocata dal suo semplice profilo.

Infine, gli aveva impedito di bere vino a colazione, in modo che fosse del tutto lucido, e lo aveva fatto salire sul carretto.

Un'altra buca fece sussultare madre e figlio, e il carico del carretto andò a sbattere con un colpo sordo contro la parete di legno.

“Era davvero necessario portare con noi tutta quella roba?” domandò Ottaviano, indicando alle proprie spalle, verso il retro del carretto, carico di pacchi.

“Lo sai che lo era.” ribatté lei: “Te l'ho spiegato ieri.”

Il ragazzo strinse le labbra e non disse altro, mettendosi a guardare la città che stavano iniziando ad attraversare. Il cielo, come i palazzi e la gente, era grigio. L'aria era piena di umidità e nulla, nulla, nulla di quello che vedeva gli piaceva. Voleva solo tornare presto nella sua stanza e dimenticarsi di tutto.

“Ci siamo quasi...” fece a un certo punto Caterina, riconoscendo la via Larga: “Mi raccomando.”

Ottaviano strinse i denti, ma non rimbeccò. In quel momento, con le spalle curve e il suo fisico tutt'altro che atletico, il Riario pareva alla madre una sorta di grottesco spaventapasseri. Aveva ventidue anni, e sul suo viso c'era anche qualche segno in più di quello che sarebbe spettato a un uomo così giovane, ma per la Tigre restava sempre un ragazzino immaturo e difficile da gestire.

Una volte che furono fermi davanti al palazzo del Medici, la Sforza al carrettiere, alludendo a un accordo preso prima della partenza: “Tenetevi pronto.”

L'uomo, che sapeva bene quale fosse il carico del carretto, sollevò le sopracciglia e assicurò: “Se ci sarà bisogno, scaricherò tutto quanto, come mi avete detto.”

“Bene...” soffiò la donna e poi, dopo essersi data una controllata sommaria e aver passato in rassegna anche il figlio, concluse: “Andiamo.”

 

Lorenzo, il calice ancora colmo in mano, trasecolò quando uno dei servi arrivò a sussurrargli all'orecchio che la Leonessa di Romagna e il suo primogenito erano alla porta.

Cercando di controllarsi, esattamente come aveva fatto nello scoprire che Pierfrancesco si era allontanato dal salone andando contro i suoi espressi ordini, il fiorentino si era scusato con tutti ed era andato subito all'ingresso del palazzo.

“Vi ringrazio per averci concesso di usare la vostra dimora come terreno neutrale per dirimere questo piccolo contenzioso.” disse Caterina, con un mezzo inchino, non appena intravide gli occhi tondi del cognato: “Mi è stato detto da uno dei vostri famigli che messer Baldi è già qui. Per fortuna ho voluto partire in anticipo, così non l'ho fatto aspettare troppo. Altrimenti avrei rischiato di indisporlo troppo nei miei confronti...”

Il Medici, che non si era aspettato quell'incipit tanto prolisso da parte della Tigre, riuscì a malapena a balbettare un affettato saluto. Non si era aspettato di vederla tanto presto. Di sopra stava giusto cominciando a far montare l'insofferenza, verso il suo ritardo... Essendo già arrivata, avrebbe quasi del tutto annullato l'effetto cercato da Lorenzo.

Dissimulò, comunque, la sua irritazione ed ebbe addirittura la prontezza di dire che non c'era problema alcuno, dato che anche il notaio Braccesi era arrivato appena da cinque minuti.

“Messer Ottaviano...” disse poi il fiorentino, guardando il giovane uomo accanto a Caterina.

Questi, rigido, dopo aver scambiato una rapidissima occhiata con la madre, rispose al saluto con un gelido: “Messer Medici.”

Questi si prese qualche secondo appena per squadrarlo. Non trovò grandi somiglianze con la Leonessa. Era più alto di lei, e forse avrebbe potuto avere un fisico da guerriero, ma era chiaro che qualcosa, negli anni, fosse andato storto.

Senza perdersi in chiacchiere, il Medici fece loro strada fino al piano superiore, ma, appena prima di lasciarli entrare nel salone, ci tenne a dire: “Mi auguro vivamente che teniate tutti un comportamento civile. Non sono abituato ad avere tafferugli in casa mia.”

“Questa raccomandazione l'avete fatta anche agli altri ospiti?” si informò Caterina, sforzandosi di non cadere davanti a quella voluta provocazione.

Indispettito dall'apparente calma della Leonessa, l'uomo abbozzò un sorriso e ribatté: “Non mi risulta che i Baldi abbiano mai ammazzato nessuno solo per un eccesso di collera...”

Quell'attacco, stavolta frontale, non lasciò la Tigre fredda come avrebbe voluto. Anche Ottaviano si accorse del cambiamento repentino nell'espressione della madre e, al solo scopo di impedirle di rovinare tutto così in fretta, prese un'iniziativa che sorprese lui per primo.

“I Baldi hanno già dovuto attendere a sufficienza... Non è meglio che ci facciate entrare..?” disse, con un po' di incertezza e la voce arrochita dal lungo silenzio.

Lorenzo, stringendo gli occhi, lo fulminò con lo sguardo e poi soffiò: “Certo...” e a quel punto non gli restò altro da fare che aprire la porta del salone e annunciare i nuovi arrivati.

L'ingresso della Sforza e del Riario portò una ventata di vita tra gli ospiti di palazzo Medici. I convenevoli, di norma tanto odiati da Caterina, le risultarono gradevoli e la tranquillizzarono.

Le fece piacere anche ricevere il saluto di colei che si presento come Semiramide Appiani. L'aveva già intravista, ricordava, durante la sua altra visita al palazzo, ma, quella volta, non avevano potuto scambiare nemmeno una parola.

Forse era troppo ottimista, da parte sua, ma le parve di notare in lei una certa propensione a esserle amica, piuttosto che nemica. Non era molto, solo una sensazione, ma la Leonessa vi si aggrappò con tutte le sue forze: aveva un disperato bisogno di qualcuno che non le fosse ostile, in quella casa.

“Direi, a questo punto, di discutere di affari...” disse Girolamo Baldi, guardando poi Lorenzo: “E, quindi, potete anche lasciarci soli...”

Sconcertato da quella richiesta, il Medici inclinò la testa di lato e provò a imporsi: “Siete sotto al mio tetto, direi che ho il diritto di...”

“Ci sono io. Basto io.” si intromise il notaio Braccesi.

“Verrete di certo informato per primo dell'esito del nostro dibattito.” lo rassicurò Baldi, con un sorriso divertito: “Non abbiate paura...”

Mentre Lorenzo veniva quasi sospinto fuori dalla stanza da Semiramide, che dava ragione al notaio e a Girolamo, l'attenzione di Caterina venne calamitata da quest'ultimo.

Era molto giovane, probabilmente aveva l'età di Ottaviano, o, forse, ricostruendo la sua storia, un paio d'anni in più. Se lo ricordava come un bambino striminzito e schivo. Ora era un uomo alto, con le spalle larghe e una fisicità imponente. Per il modo in cui la Tigre catalogava gli uomini, era sicuramente sprecato come affarista... Secondo lei, avrebbe servito meglio un padrone in armi, che con carta e penna.

Il giovane Baldi, affiancato dall'anziano padre – Caterina l'aveva riconosciuto all'istante – stava continuando a discutere con il Medici, che si era fermato sulla porta, malgrado l'insistenza della moglie nel volerlo portare via. Questo tentennamento permise alla Leonessa di guardare ancora per un po' Girolamo senza che lui si accorgesse di essere osservato.

Mentre fissava prima i suoi capelli scuri, portati un po' lunghi e poi le sue mani forti – sprecate, davvero, nel lavoro di conto e ufficio – la milanese si trovò a valutare di nuovo il morso del suo istinto, che la richiamava al passato, a quando, davanti ai propri bisogni, non guardava in faccia a nessuna convenzione né convenienza.

In realtà si vergognava a fare certi pensieri proprio in un momento tanto particolare, quando la sua mente avrebbe dovuto essere interamente concentrata sul presente e sul trovare una soluzione a tutti i suoi problemi.

Malgrado ciò, non poteva ignorare il malessere che la prendeva sempre più spesso. Anche quella notte, per esempio, non aveva quasi chiuso occhio e non solo per i suoi consueti incubi, o per le motivate ansie legate all'incontro di quel giorno... A tenerla sveglia era stata anche una dura lotta con se stessa, tra il desiderio, da un lato, di prendersi un uomo, uno qualsiasi, come aveva fatto per anni, e placare la sua fame atavica e la paura, una paura incontrollata, che la prendeva ogni volta in cui provava a immaginarsi davvero di nuovo con un uomo.

Era proprio come dopo Girolamo Riario. Lì era arrivato Giacomo a darle coraggio e a spazzare via il terrore e la repulsione che il suo primo marito le aveva instillato giorno dopo giorno nella mente, come un veleno.

Questa volta, invece, immaginava difficile trovare qualcuno come il Feo, qualcuno di cui innamorarsi senza remore, senza riuscire a fare altrimenti. Non era più una ragazza, e aveva già conosciuto anche troppo bene il dolore, la disfatta e la disillusione più profonda.

La sua unica salvezza, continuava a dirlo, sarebbe stata provare poco per volta, senza fretta o pressioni, a riavvicinarsi a qualcuno, magari qualcuno che conosceva bene, qualcuno a cui si sentiva legata... Qualcuno come Baccino, se non fosse stato ancora prigioniero a Roma.

“Madre?” la voce di Ottaviano, come uno spillo, fece scoppiare la bolla di estraniamento in cui si era rinchiusa la Leonessa.

“Vi stavo chiedendo – disse il vecchio Baldi, mentre finalmente la porta del salone si chiudeva, lasciando fuori Lorenzo e Semiramide – come sono stati questi lunghi anni...”

Caterina si schiarì la voce e, con il tono più gentile possibile, rispose: “Sono stati anni molto pieni...” e poi, giusto per evitare nuove domande, passò a porne lei qualcuna: “Vostro figlio è molto cresciuto... Quanti anni ha adesso?”

Fu direttamente Girolamo a risponde e da lì, con il notaio che faceva da intermediario per i tecnicismi, si cominciò a parlare davvero d'affari.

“Dunque confermate di fare quietanza a Madonna Sforza olim consorti recolende memorie Hieronimi de Ryario della somma di trecento fiorini d'oro larghi?” chiese il notaio, quando si stava arrivando a un dunque.

Girolamo Baldi, che per tutto il tempo della discussione non aveva fatto altro che guardare Caterina, deglutì e poi, più che convinto, disse di sì.

“Che sia chiaro – fece il padre, più rigido, ma altrettanto ben disposto verso la donna – che riteniamo questi soldi versati da Madonna Sforza e da suo marito, per suo tramite.”

Braccesi annuì e prese nota nell'atto che stava redigendo.

“E che questi trecento fiorini – riprese Naldo, affinché il patto con la Tigre fosse il più chiaro possibile – vanno a coprire i trecentocinquanta fiorini, i tre soldi e i nove denari d'oro che ci doveva il Conte Riario.”

La Leonessa cominciava a rilassarsi, trovando negli altri un terreno favorevole, ma voleva ulteriori rassicurazioni, perciò cominciò a dire: “Come vi ho già detto, però, quei trecento fiorini io non...”

“Una cosa per volta.” la frenò Girolamo: “Adesso stendiamo questo atto, poi penseremo all'altro...”

Ciò che i Baldi le avevano proposto era semplice, almeno per loro. Avrebbero ritenuto saldato l'antico debito, facendo figurare di aver incassato la somma dovuta, ma, di fatto, si accontentavano di non vedere nemmeno un soldo, andando a fornire alla Leonessa un prestito esattamente di trecento fiorini, da restituire in quindici mesi. A questo si andava a sommare un ulteriore nuovo prestito, della medesima cifra, che loro avrebbero consegnato sull'unghia alla donna, accettando come pegno temporaneo le suppellettili e gli oggetti che la milanese aveva portato con sé, credendo di utilizzarli per saldare il debito iniziale.

Ottaviano aveva completamente perso l'orientamento, davanti a quei giochetti economici, limitandosi a capire che avrebbero ottenuto seicento fiorini sulla carta, trecento nella realtà, e che avrebbero visto cancellato il primo debito. La Leonessa, invece, aveva compreso benissimo, ma non riusciva a capacitarsi di quella mano tesa da due uomini che non vedeva da quasi vent'anni...

“Allora, il primo atto è finito...” disse il notaio, riponendo momentaneamente la penna: “Il debito risalente all'Ottantuno, all'Ottantadue e all'Ottantatre è da ritenersi saldato...”

Il Riario, accanto alla madre, fece una brevissima smorfia nel pensare al fatto che all'epoca della contrazione di quel debito, lui era appena un bambinetto, come Cesare, sua sorella Bianca una neonata e tutti gli altri ancora non erano nemmeno nati.

“In questo secondo atto specificherò che Madonna Sforza riceve da me un mundualdo per poter fare il riconoscimento del debito e l'obbligazione...” continuò Braccesi, recuperando, nei suoi registri, il documento di cui aveva fatto cenno.

Ottaviano non sapeva cosa fosse un mundualdo, mentre la madre, più addentro di lui alle questioni di legge e di amministrazione, conosceva discretamente bene quel termine. Era un'istituzione del diritto longobardo, molto apprezzato a Milano e, evidentemente, anche a Firenze. Letteralmente significava 'colui che è titolare del mundio', in pratica il capo assoluto e protettore del nucleo familiare.

Era un modo elegante per eliminare Girolamo Riario da futuri contenziosi o protesti e anche per accantonare Ottaviano, che sarebbe comparso solo nominalmente, ma i cui obblighi e diritti sarebbero interamente ricaduti su Caterina.

“Non voletecene...” disse piano Girolamo Baldi, rivolgendosi al Riario, mentre la Leonessa prendeva il mundualdo e lo metteva al sicuro: “Solo... Vostra madre ci dà più garanzie di voi, che, invece, per noi siete uno sconosciuto.”

“Per me non è un problema.” fece il giovane, guardando altrove, sperando che nessuno si accorgesse di quanto poco stesse capendo in tutta quella questione.

“Per finire, quindi, sancirò che oggi stesso Madonna Sforza e suo figlio si riconoscono debitori alla Compagnia qui rappresentata da Girolamo Baldi – riprese Braccesi – di trecento fiorini d'oro larghi, usati per il pagamento, più altri trecento gratuitamente mutuati nell'atto presente.”

Mentre il notaio diceva ciò, Naldo fece un cenno a uno dei suoi segretari, che estrasse dalla propria borsa una scarsella abbastanza pesante e la consegnò a Caterina.

“Ancora non capisco il perché di tanta generosità.” finì per dire la milanese, che non si era aspettata di lasciare palazzo Medici con dei soldi freschi per le mani.

“Abbiamo amici in comune.” tagliò corto il Baldi più giovane: “Tendere la mano a un amico in difficoltà non necessita spiegazioni.”

“Il debito che avevamo verso di voi vi ha messo in difficoltà... A parti inverse io non vi chiamerei amici.” fece notare la donna.

“Prima di tutto, il debito lo contrasse vostro marito, per confezionare drappi e panni di lino e oro di cui non aveva alcun bisogno.” spiegò Girolamo: “In secondo luogo, forse non vi rendete conto di cosa significate voi, per quelli che non parteggiano in alcun modo per il Duca Valentino.”

Quell'ultima frase ebbe il potere di zittire ogni ulteriore domanda e dubbio di Caterina.

“Ora direi di fare un elenco degli oggetti che lasciare in pegno ai vostri creditori – dichiarò il notaio, non appena ci fu un momento di silenzio – fermo restando che tutto andrà come libera proprietà dei suddetti nel caso in cui il debito non venga estinto entro quindici mesi.”

“Certamente...” annuì la Tigre e poi disse al figlio: “Vai a dire che si scarichi il carretto e si porti tutto nel cortile, affinché poi possano prendere ogni cosa e portarla dove preferiscono.”

Mentre Ottaviano, tutto sommato felice di poter far qualcosa, se ne andava, la Sforza cominciò a elencare ogni oggetto al notaio, e, a ogni cosa citata, si diceva intimamente che non avrebbe sofferto per un'eventuale perpetua separazione da quell'accozzaglia di suppellettili che avevano più dell'arredamento di una chiesa che di una casa. Si trattava quasi interamente di oggetti trovati alla villa di castello e solo pochissime cose erano state recuperate altrove, tra cui le spalliere con effige sforzesca, inviatele di recente da un suo vecchio partigiano, che le aveva salvate rocambolescamente dalla rocca di Imola. Avrebbero potuto avere un valore affettivo, per lei, se solo non fossero state un altro modo per ricordare la sconfitta finale contro il Borja...

Braccesi, raddrizzando la schiena, intinse la penna nell'inchiostro e cominciò a scrivere: 'Uno panno d'arazo stretto con la historia di Cristo alla grecha, uno portiere d'arazo fine con la historia di Salomone, uno panno d'arazo fine a figure, uno panno d'arazo con l'arme di Innocentio, sei pezi di Spalliere a verdura con l'arme sforzesche di br. XX lungo et largo br.4 ½, uno cortinaggio di velluto chermisi zetani di braccia 160 in circa 4 pezi, uno paliotto di domaschino biancho a posto d'oro con l'arme di casa, uno paliotto di domaschino biancho a andari con l'arme di casa, uno paliotto di domaschino rosso a posto d'oro chon l'arme di casa, uno paliotto di domaschino brocato d'oro rosso, uno paliotto di domaschino brocato chon pelo rosso, uno paliotto di domaschinopaonazo a poste d'oro con l'arme di casa, uno piviale di domaschino biancho a poste d'oro chol fregio d'oro, una pianeta di domaschino paonazo chol fregio d'oro, una pianeta di brochato d'oro col pelo semplice col fregio d'oro, una pianeta di domaschino rosso chol fregio d'oro, una pianeta di brocato col pelo rosso et chol fregio d'oro, una pianeta di domaschino biancho e andari col fregio d'oro richo, una pianeta di domaschino biancho a posto d'oro chol fregio d'oro, uno chortinaggio di domaschino biancho in braccia 120 in circa in 4 pezi, una coperta di velluto pagonazo di braccia al. in sei tele soppannata.'.

I Baldi ascoltarono con attenzione quando il notaio rilesse a voce alta l'elenco e, annuendo entrambi, parvero abbastanza soddisfatti.

“Come ultima cosa – fece il vecchio Naldo – scriveremo anche un breve atto in cui io personalmente mi impegno a promettere a voi, Madonna, e a voi, Riario, che né voi né i vostri eredi verranno mai molestati in giudizio o fuori di giudizio per quei trecentocinquanta fiorini, tre soldi e nove denari di cui si è parlato prima.”

“La quietanza non verrà mai messa in discussione.” confermò Girolamo Baldi.

La donna non poté far altro che ringraziare, dimostrandosi grata, ma non troppo entusiasta, sempre per paura di essersi fidata troppo. Ai due uomini la sua tiepida riconoscenza bastò grandemente e così, dopo qualche ultimo convenevole, uscirono tutti dal salone.

“Che sono quelle cose accatastate nel mio cortile?” chiese Lorenzo, che aspettava proprio appena fuori dalla porta.

“Il notaio vi spiegherà ogni cosa.” tagliò corto Naldo Baldi: “Diciamo che abbiamo trovato, nostro malgrado, un accordo.”

Il tono scontroso con cui l'anziano aveva parlato, pensò Caterina, era perfetto per far credere al Medici che, comunque, tra i Baldi e lei non corresse ancora buon sangue.

Impotente, mentre la moglie seguiva gli ospiti verso il cortile, dove c'erano anche Ottaviano e il carrettiere che stava finendo di scaricare il carretto, Lorenzo riuscì a trattenere un momento la Sforza, cercando di rifarsi almeno su di lei, per sfogare un po' di frustrazione.

“Strana idea, comunque...” le sussurrò, con tono casuale.

Ciò che aveva tra le mani era poco più di una voce, ma voleva vedere la reazione della donna, per capire quanto vi fosse di vero.

La Leonessa avrebbe voluto far finta di non aver sentito nulla, ma la paura che il cognato avesse delle informazioni su di lei o, peggio, su Giovannino, fu più forte di tutto il resto.

“Che cosa?” gli chiese, quindi, simulando una certa tranquillità.

“Nascondere Achille alla corte di Licomede...” il Medici aveva cercato accuratamente quella metafora, certo che una donna colta come dicevano essere la Tigre l'avrebbe compresa al volo.

Infatti la milanese rimase immobile, quasi senza fiato. Per lei quell'Achille alla corte del re di Sciro, nascosto tra le donne, altri non era che suo figlio Giovannino nascosto in un convento di monache...

“Non potete nasconderlo per sempre tra quelle quattro mura.” la incalzò Lorenzo, calcando la mano, bel lungi dall'ammettere di non sapere nemmeno di che convento stesse parlando: “Cosa intendete fare, quando sarà più grande? Costringerlo a mettersi il velo?”

“Avete bevuto troppo vino?” ribatté la Leonessa, riuscendo a non dargli altra corda: “State dicendo frasi senza senso... Ora scusatemi, mio figlio Ottaviano mi aspetta...”

L'uomo la guardò mentre, a passo spedito, scendeva le scale. Quanto avrebbe voluto prenderla per il collo e costringerla a dire dove fosse di preciso il bambino. Quanto avrebbe voluto poterla lanciare giù da quelle scale e ridere mentre si spaccava quella testa coperta di capelli bianchi e lunghi, così indecorosi per una donna della sua età, per di più vedova...

E invece rimase dov'era, fece un respiro profondo e cominciò a pensare al prossimo passo da fare per distruggere quella donna come si meritava: poco a poco e in modo doloroso, così come lei aveva fatto con Giovanni, allontanandolo dalla sua famiglia, dalla sua patria e dalle sue ricchezze, uccidendolo poco per volta, giorno dopo giorno...

   
 
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