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Autore: settembre17    03/09/2021    11 recensioni
In questi capitoli (un po’ più lunghi del mio solito) immagino il percorso, scandito in tre tappe, che porta Oscar ad accorgersi davvero di André e di quello che la lega a lui. In ogni capitolo ci sarà anche uno sguardo obliquo su André nella prospettiva di altri personaggi.
Alla fine, è tutto un parlare di lui, ma la sua prospettiva, volutamente, non c’è.
I fatti, ben noti a tutti e già splendidamente raccontati nel manga e nell’anime, saranno solo quelli necessari allo scorrimento della trama, qualcosa sarà omesso, qualcosa sarà lievemente cambiato (metto subito le mani avanti) molto è frutto della mia immaginazione.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non ti avevo mai visto davvero

 
Questi personaggi e la loro storia sono stati creati da Ryoko Ikeda, alla quale vanno tutte le mie lodi e la mia ammirazione da decenni.
 
In questi capitoli (un po’ più lunghi del mio solito) immagino il percorso, scandito in tre tappe, che porta Oscar ad accorgersi davvero di André e di quello che la lega a lui. In ogni capitolo ci sarà anche uno sguardo obliquo su André nella prospettiva di altri personaggi.
Alla fine, è tutto un parlare di lui, ma la sua prospettiva, volutamente, non c’è.
I fatti, ben noti a tutti e già splendidamente raccontati nel manga e nell’anime, saranno solo quelli necessari allo scorrimento della trama, qualcosa sarà omesso, qualcosa sarà lievemente cambiato (metto subito le mani avanti) molto è frutto della mia immaginazione.
Sempre grazie di cuore a chi ha voglia di leggere e a chi ha voglia di lasciare due parole.  
 
 

 
PROLOGO
Quando iniziò a circolare la voce che un ladro mascherato derubava i nobili, lei non ci fece caso, non se ne accorse proprio. Ne parlavano tutti, ma lei era sempre assorta, sempre assente: pareva che i suoi pensieri non andassero oltre le incombenze immediate oppure che si perdessero in una strada assolutamente inaccessibile a chiunque.
Il capitano Girodelle lo sapeva che bisognava solo obbedire e lasciarla stare quando faceva così. Restando immobile nella sua marziale postura, fece scorrere il suo sguardo alle spalle di lei fino a inquadrare l’intera figura dell’onnipresente attendente, il servo che lei, scandalosamente, per dire le cose come stavano, trattava come un amico. Era strano pure l’attendente, il capitano notò, perché si teneva alla larga da lei: faceva quel che doveva e poi si metteva in disparte, erano giorni che non gli vedeva sulla faccia quell’insopportabile sguardo scanzonato e sornione che usava come linguaggio muto e cifrato con il colonnello. Ma lui, l’attendente, sapeva del cavaliere nero, di sicuro gli era giunta la voce, perché a quello, e Girodelle lo sapeva, non sfuggiva mai niente. Probabile che sapesse anche che cosa aveva il colonnello.
Certo che l’attendente era proprio strano, continuava tra sé Girodelle, sembrava assente, preso da pensieri suoi, suoi? e quando mai aveva avuto pensieri suoi? quello pensava solo in funzione del colonnello, non aveva vita propria. Beh, come ogni attendente capace di fare il suo lavoro, pensò tentando di relegare nell’alveo della normalità quell’uomo per lui indecifrabile.
Un allegro brusio che si faceva sempre più vicino lo richiamò alla realtà. Si stupì di aver dedicato tutti quei pensieri all’attendente del colonnello e ne provò anche un certo fastidio, così, spostandosi i capelli dal volto con la mano, scrollò da sé quelle sciocche elucubrazioni e si avviò verso i giardini, dove aveva intravisto dietro a un ventaglio una dama di sua conoscenza.
 

Cap. 1 Il cavaliere nero


Dopo l’ennesimo colpo del cavaliere nero, anche lei non poté ignorare il ladro più famoso di Parigi e proprio a lei venne dato l’incarico di dargli la caccia. Ne fu entusiasta: un obiettivo su cui concentrare tutte le sue energie, ecco quello che ci voleva. Basta piagnistei, basta rimuginare su sciocchi ventagli con le piume di pavone e vestiti da odalisca, lei! un’odalisca!, finalmente appostamenti, strategie, armi pronte e un nemico in carne e ossa a cui dare la caccia. Era quello che ci voleva. Eppure… provava una strana inquietudine, un presentimento, una perenne sensazione di camminare lungo un precipizio, di andare troppo velocemente verso qualcosa di indefinito ma che avvertiva come sicuramente oscuro e doloroso. E non la aiutava per niente la novità che il suo amico di sempre, quello che gli altri definivano il suo “attendente” e che lei preferiva considerare la sua ombra, avesse iniziato a sparire, specialmente la sera. Non che ne sentisse la mancanza, lei? sentire la mancanza di qualcuno? sciocchezze, lei bastava a sé stessa!, ma iniziò a chiedersi dove lui andasse. Naturalmente non la sfiorò nemmeno il pensiero che lui potesse essere impegnato in questioni, per esempio, amorose, e così, giorno dopo giorno, iniziò a covare dentro di sé un assurdo sospetto.
Una notte lo sorprese mentre rientrava molto tardi e notò una collana di perle che gli usciva da una tasca. Trasalì. Il giorno dopo lui, aria innocente e sguardo limpido, gliela mostrò e le disse che l’aveva trovata per strada la sera prima: potremmo restituirla se è parte della refurtiva del cavaliere nero, che dici? Lei annuì pensierosa.
Presero a frequentare tutti i balli e le feste della nobiltà per cogliere quella specie di Robin Hood sul fatto, ma lui non si faceva vedere; come se lui sapesse della loro presenza e girasse al largo, in effetti. Quando finalmente, nel corso dell’ennesimo ballo, il ladro mascherato fece la sua apparizione, lui, ma non era la sua ombra?, non c’era: “è uscito due ore fa e non è ancora tornato. Ha lasciato detto di aspettarlo” aveva detto la nonna. Lei naturalmente aveva ignorato l’ultima frase. Quindi, quando il cavaliere nero, dio come gli assomiglia…, carico di gioielli, aveva preso la via della fuga, lei l’aveva inseguito, sola! sola!, fino a Parigi, fino al Palais Royal, dove era stata sorpresa e quasi catturata da loschi figuri con il volto coperto.
A quel punto non si trattava più di fantasticare, l’incredulità si trasformava sempre più in certezza, troppe le coincidenze, e così lei pesava, come su una bilancia, le possibili verità. Ecco un piatto: la collana nella tasca, le uscite serali sempre più frequenti, la convinzione sussurrata da molti nei corridoi di corte che solo il servo di un nobile potesse avere una tale conoscenza di palazzi e date delle feste della nobiltà, l’assurda coincidenza che lui non ci fosse proprio l’unica sera in cui lei aveva visto il cavaliere nero, e dio mio come gli assomiglia, e poi, e poi il fatto che un giorno lui le avesse confessato, pensoso e quasi titubante, una sorta di ammirazione per chi, come il cavaliere nero, rischiava la vita per aiutare i poveri; e in più era spesso silenzioso, sfuggente, distratto?, no, distratto no, ma impegnato in pensieri suoi, ecco. L’altro piatto: lo conosco da una vita, non è da lui, non lo farebbe mai, lui non è un ladro, lui non ruba, nemmeno per dare la refurtiva ai poveri, lui cercherebbe un’altra strada.
Ma il secondo piatto le sembrava sempre più vuoto e leggero del primo: e se si sbagliava? E se si fosse sempre sbagliata su di lui? Quanto ci si può sbagliare sul conto di una persona? Quanto ci si può sbagliare su sé stessi? Lui, tanto per dire, l’avrebbe mai detto che lei avrebbe un giorno indossato quel vestito bianco e azzurro? Lo svedese avrebbe mai detto che un giorno l’avrebbe tenuta tra le braccia? E lei, lei, lei avrebbe mai saputo spiegare a sé stessa che cosa l’aveva spinta a superare ogni imbarazzo e a dire alla nonna “preparami un vestito da sera”? E allora. Quanto si può dire di conoscere qualcuno se non conosciamo nemmeno noi stessi? E allora. Sempre più confusa e allarmata, iniziò a guardare solo il primo piatto della bilancia.
Una notte fece un sogno dal quale si svegliò stravolta: lui, vestito come il cavaliere nero, dondolava su un lampadario, poi si toglieva la maschera rivolto verso di lei e iniziava a ridere, mentre lei lo guardava paralizzata, lo guardava come se lo vedesse per la prima volta, come se non l’avesse mai visto davvero, e poi lui precipitava, cadeva nel vuoto urlando il nome di lei.
Il giorno seguente quel sogno la tormentò: nel mezzo delle esercitazioni, mentre redigeva i suoi documenti, mentre parlava tutta concentrata con Girodelle, le accadeva all’improvviso di sentire un brivido che la costringeva a qualche gesto involontario e secco, stringere i pugni conficcandosi le unghie nel palmo, strizzare gli occhi, scuotere la testa come se un insetto le ronzasse vicino a un orecchio, e subito riviveva la parte del sogno più spaventosa, quella in cui lui la guardava e lei lo guardava. Allora le restava addosso una specie di sgomento, un interrogativo inquietante: Chi sei tu? E in quei momenti le pareva che se lui avesse detto: Io sono il cavaliere nero, lei avrebbe pianto di dolore.
 
Esausta, quella sera, decise di affrontarlo, così, quando lo sentì rientrare a casa ad un’ora decisamente tarda lo affrontò:
- Dove vai tutte le sere?
Sapeva essere diretta, quando voleva.
Lui, intuendo il sospetto dietro a quella domanda, le disse che se lo voleva sapere poteva seguirlo la sera successiva. Lei accettò.
 
La sera successiva l’aveva portata in una chiesa di campagna poco lontano: lì erano riuniti uomini e donne del popolo che parlavano della situazione della Francia, delle loro miserie, delle ingiustizie e delle sofferenze che subivano. Immaginavano un mondo diverso, disegnavano un domani di giustizia e libertà. Parlavano dei privilegi dei nobili, dell’immorale divario tra il tenore di vita di un nobile qualunque e di uno qualunque di loro, delle loro giornate di duro lavoro con le quali pagavano i vizi e le frivolezze di nobili dalle mani bianche. Nessuno urlava, nessuno imprecava. Tutti erano sull’orlo della disperazione, ma si facevano forza tra loro con una dignità che lei non aveva mai visto. O che forse aveva visto tanti anni prima nella catapecchia di una famiglia di Arras. Lei, colpita dal senso delle parole che sentiva e ancor più colpita da quell’atmosfera e dalla prospettiva capovolta con cui quella gente la costringeva a guardare la realtà, si voltò piano e, senza che lui se ne accorgesse, lo osservò attentamente: lui stava in silenzio ed ascoltava con serietà e partecipazione, pareva farsi carico di tutta quella gente solo con lo sguardo e allo stesso tempo le sembrava proteso in avanti, come se cercasse di guardare oltre quel presente. No, lui non era il cavaliere nero, in quel momento ne ebbe la certezza. Ma ancora una volta si stupì: le sembrò di non conoscerlo, di avere di fronte una persona diversa, di non averlo mai visto davvero. Il pensiero la riempì di inquietudine, quante cose non sapeva di lui? E senza avere il controllo dei suoi pensieri sentì nascere dentro di sé ancora quella domanda: Chi sei tu?
Finita la riunione, rientrarono a casa taciturni, ma ad un tratto lui le parlò del cavaliere nero:
- Il cavaliere nero dona tutta la sua refurtiva ai poveri. Per molti è un benefattore, ha aiutato e in certi casi salvato intere famiglie…
- Un ladro è sempre un ladro.
Lui non aggiunse altro.
 
Poi a lei venne l’idea geniale: attirare il cavaliere nero in una trappola fingendosi lei stessa il cavaliere nero. Si fece preparare un costume nero con tanto di mantello e una maschera, li indossò e si specchiò, complimentandosi tra sé per la sua coraggiosa nonché scaltra iniziativa. Ma in quel momento lui entrò nella stanza e le fece presente che i suoi capelli, troppo lunghi, troppo biondi, e la sua figura, troppo esile, l’avrebbero resa riconoscibile, e comunque non somigliante al cavaliere nero. Lei ebbe un moto di stizza perché era ancora convinta che bastasse cambiarsi d’abito per non farsi riconoscere e che bastasse un costume per non essere più lei.
Fu bruscamente risvegliata dai pensieri che incupivano le sue pericolanti certezze dal rumore secco con il quale lui, con un gesto solo, si era tagliato i capelli.
Lei capì subito la sua intenzione e, dopo che lui ebbe indossato gli abiti da cavaliere nero, con uno sguardo sommario alla figura che aveva di fronte, valutò che la somiglianza era in effetti straordinaria: non provò nulla per quei capelli recisi, che lei aveva visto per anni chiusi da nastri blu, non fece alcuna considerazione sul nuovo aspetto di lui ora che i capelli gli arrivavano solo alle spalle, non pensò nemmeno che lui senza esitare si era sostituito a lei nel pericolo per catturare un uomo che in realtà lui non voleva catturare. E non dedicò un pensiero a tutto questo perché in realtà lei non lo stava guardando davvero: stava solo sovrapponendo l’immagine di lui a quella del cavaliere nero. E, compiaciuta, approvò la somiglianza pregustando la riuscita del suo piano.
Si succedettero serate di gran divertimento: lui rubava, lei si appostava per liberargli il campo e per aspettare al varco il vero cavaliere nero, poi volavano a casa carichi di refurtiva e un po’ inebriati dal gusto di quella impresa pericolosa e proibita.
Ma, una volta chiusa la porta della sua stanza, in lei nasceva ancora quell’inquietudine, si riaffacciava il presentimento di un pericolo incombente, le tornava in mente quel sogno, soprattutto la parte in cui lui precipitava nel vuoto; altre volte, mentre galoppavano nella notte, le pareva di essere sull’orlo di un precipizio, oppure immaginava con spavento, e allora con una contrazione involontaria dei muscoli stringeva le cosce sui fianchi del cavallo, che la strada finisse improvvisamente sotto gli zoccoli e che lei stesse per precipitare.
Una sera, al tramonto, mentre si preparavano per l’ennesimo colpo, il volo impazzito di un corvo le aveva fatto cadere dalla mano la tazza dalla quale stava bevendo: era rimasta imbambolata a fissare la sua mano e, smarrita, aveva sentito una forza oscura che la invadeva e per un istante aveva pensato di rinunciare al furto di quella sera. Ma da quando era così irrazionale e superstiziosa? Aveva ripassato mentalmente il piano previsto per quella sera e poi era uscita.
 
Quando infine il vero cavaliere nero, appostato da tempo tra gli alberi di una radura, vide il suo sosia, la rabbia e l’indignazione si impadronirono di lui: chi sei tu? come osi?, guardati, trionfante nella tua arroganza e carico di una refurtiva che non ti spetta! come osi? chi sei tu? Uscì allo scoperto e gli si parò di fronte. In tutta la sua persona traboccava la rabbia che nasce dall’ingiustizia, il sangue pulsava alle tempie, gli occhi sbarrati dardeggiavano dietro la maschera, i muscoli erano pronti alla vendetta, il cuore urlava, la mente correva forsennata alle famiglie che quell’impostore privava del pane e del necessario per vivere, immaginava quel farabutto arricchirsi e spassarsela nel lusso usando il suo nome e la sua identità.
Poi, non appena si era accorto di essere finito in una trappola e che un ufficiale delle Guardie Reali era pronto a fare fuoco su di lui per catturarlo, balzò con agilità contro quel dannato impostore e in un attimo diede inizio a un duello forsennato che impedì a lei qualunque possibilità di prendere la mira in modo certo contro il bersaglio che voleva colpire.
Così restò atterrita spettatrice di uno scontro tra due figure avvolte dal nero dei loro vestiti, dei loro capelli e della notte.
Il duello terminò con il nero di un grido di dolore che le squarciò il petto perché quel grido era l’invocazione del suo nome: il vero cavaliere nero, sentendosi giustiziere prima ancora che cavaliere, aveva disarmato il suo sosia, che era stato attento a difendersi più che ad attaccare, e poi, con un colpo netto di spada, gli aveva tagliato la maschera. E anche l’occhio.
 
Spuntava l’alba e lei aspettava che lui si risvegliasse. Sentiva dentro di sé una strana pace: tutti quei presagi, quell’inquietudine, quell’angoscia sotterranea… pareva tutto placato. Era successo, l’evento terribile che presentiva da giorni era successo, ma ne erano anche usciti: il dottore aveva detto parole rassicuranti sulla ferita all’occhio di lui, “la ferita non è grave” aveva detto, e poi lei aveva visto di nuovo il vero cavaliere nero e, anche se l’aveva lasciato fuggire, era sicura che presto l’avrebbe catturato.
Lui si svegliò con una smorfia di dolore e lei, intenerita, lo guardò riconoscente. E lui le disse una frase, sono contento che sia stato ferito io e non tu, e gliela disse come se le stesse facendo una carezza e lei riuscì solo a ringraziare e gli disse: sei molto caro, con una dolcezza che avrebbe ritrovato solo molto tempo dopo osservando con lui un quadro.
 
Senza informare lui, lei proseguì la sua personale caccia al ladro, ma finì per farsi catturare: una prigioniera illustre la cui libertà poteva essere barattata con cose più preziose di denaro e gioielli, con armi, con fucili che gli amici e complici del cavaliere nero avrebbero imbracciato contro i nobili e in favore del popolo. Era un piano perfetto.
Intanto a casa la nonna si prendeva cura di lui e lo assisteva durante le medicazioni: guardava il suo bellissimo nipote piena di apprensione e di tristezza. Da anni aveva capito quanto fosse pericoloso che lui e lei vivessero così vicini, da anni aveva capito che lui la amava e, talvolta, aveva avuto la sensazione che anche lei…, e allora tutte le sere aveva pregato Dio che suo nipote trovasse una brava ragazza da sposare, che distogliesse i suoi occhi troppo limpidi e innamorati da lei prima che qualcuno si facesse male, prima che entrambi si facessero male, e come una litania ripeteva tra sé un’accorata preghiera che sperava arrivasse a suo nipote attraverso la voce del cuore: sei un servo, non dimenticarlo, non dimenticarlo, ti prego. Non confondere il bene che lei ti vuole per qualcos’altro, non volere da lei quello che non puoi avere, sei un servo, ricordati chi sei tu. Tu sei un servo.
 
Una mattina la nonna fu costretta a dirgli che lei non rincasava da giorni dopo essere andata a Parigi al Palais Royal e lui capì tutto: indossò costume, maschera, mantello. Buttò a terra la benda che proteggeva il suo occhio dal pericolo della cecità, “per nessun motivo devi toglierti la benda” aveva detto il dottore, e andò a salvarla, sfruttando a suo vantaggio la somiglianza con il cavaliere nero. Persino lei, quando lo vide entrare nella sua cella, lo scambiò per il vero ladro mascherato e lui dovette farsi riconoscere; a lei scappò anche un sorriso e pensò: Che sciocca, non ti avevo guardato davvero!, poi avevano addirittura catturato con uno stratagemma il cavaliere nero ed erano fuggiti al galoppo. Appena fuori dalla città, il cavaliere nero aveva tentato la fuga, ma lei aveva sparato e colpito la sua spalla: ora il cavaliere, ferito e medicato, dormiva in un letto al piano di sopra.
Missione compiuta.
Ma non c’era il trionfo ad attenderla: la coscienza rimordeva, il dubbio si insinuava nelle sue certezze, i colori accesi delle sue convinzioni si sfumavano e cambiavano uno nell’altro e lei non sapeva più dire se aveva catturato un ladro o un benefattore; sentiva su di sé il peso di una colpa atavica, la colpa del privilegio, che però lei non aveva mai voluto né scelto e si chiedeva quanto potesse essere invocato il cavaliere nero da chi nella minestra, che alla sua tavola si chiamava “potage avec…” e via un elenco di raffinati ingredienti, poteva mettere solo il cucchiaio.
Si scosse dai suoi pensieri e alzò lo sguardo verso il dottore che stava visitando con crescente apprensione l’occhio ferito di lui. Poi lo vide soffiare ad occhi chiusi sulla candela che aveva usato per il controllo e lo sentì mentre pronunciava parole che non riuscì a mettere ordinatamente in fila: “mi dispiace”, “avevo detto”, “stare attento”, “perduto per sempre”, “mai più”.
In un attimo avvertì un dolore violento che si impadroniva di lei e reagì a quel dolore con la rabbia e con un bisogno istintivo di immediata vendetta: diede un volto al responsabile di quell’orrore, di quell’occhio cieco, cieco!, e il responsabile era quel maledetto ladro, sì ladro, ladro! ladro di occhi!, e corse con la spada in mano fino alla camera dove il cavaliere nero dormiva e allora lei sollevò la spada e urlò, o forse credette di urlare, “ora farò a te quello che tu hai fatto a lui”, e, mentre la spada era alta sul volto di quell’uomo addormentato, mentre lei con il fiatone e senza lacrime stava per fare giustizia nel modo più barbaro e primitivo che ci fosse, allora si fermò e lo guardò.
Attonita percorreva e ripercorreva il volto di quell’uomo che, ora sveglio, la fissava interrogativo: ma come aveva potuto? si chiedeva lei, come aveva potuto pensare che si assomigliassero? come aveva potuto, addirittura!, confonderli? Erano talmente diversi! Il colore dei capelli, così sbiadito questo in confronto a quello, il profilo del naso, così schiacciato su questo volto e così aristocratico, sì aristocratico, in lui, la bocca di quest’uomo così piccola e con labbra così sottili, le labbra sottili: segno di cattiveria diceva la nonna, e la mascella così sfuggente e femminea in confronto a quella di lui, il mento così largo e piatto e poi… lo guardò negli occhi e fece fatica a continuare il confronto perché era troppo lo sgomento, la nitida consapevolezza di quello che aveva, lei, sì, lei, perduto per sempre.
Così, forse per un attimo, attraverso il volto del cavaliere nero, lei lo vide davvero.
 
EPILOGO (forse)
Alla fine lei disse sbrigativamente a tutti, anche a suo padre, di essersi sbagliata, -ho catturato la persona sbagliata- le parole esatte, e nessuno fece più domande dal momento che i furti cessarono. Una sera lo lasciò andare, gli trovò il calore di una casa semplice abitata da persone buone per la sua convalescenza. E lei rimase nel freddo dei suoi pensieri.
   
 
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