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Autore: Lunaharry66    07/09/2021    0 recensioni
(storia pubblicata anche su wattpad)
/accenni BakuTodoDeku/abusi familiari/ forse un po’ di autolesionismo/
introduzione: Per non lasciarsi avvolgere dalla solitudine eterna e soffocante, Shouto inizia a disegnare e a sperare di poter essere un bravo bambino.
« Gli cadde lo sguardo sul piccolo specchio posto al centro della parete.
Oh, era sempre colpa di quella.
Gli andò davanti, giusto per infliggersi altro dolore che non avrebbe penetrato la sua scorza, ma avrebbe atteso il momento più adatto per colpirlo alle spalle.
Sollevò con una calma gelida e di nuovo, spaventosa, la mano sul viso.
Poi colpì, producendo uno schiocco.
uno,
due,
tre volte.
Tre volte in cui pianse lacrime amare e in cui non seppe consolarsi come ogni sera, tre volte in cui aveva bisogno di un abbraccio che non sarebbe mai arrivato. »
« Così suo padre l’avrebbe amato.
Così la mamma sarebbe tornata a casa.
Così nessuno lo avrebbe deriso per il suo aspetto.
Così avrebbe controllato meglio il suo quirk.
Così si rese conto che usare il condizionale può lasciare amare delusioni.»
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou, Shouto Todoroki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(storia pubblicata anche su wattpad)

PUPAZZI DI NEVE (2.732 parole)

 

   /accenni BakuTodoDeku/abusi familiari/ forse un po’ di autolesionismo/

 

introduzione: Per non lasciarsi avvolgere dalla solitudine eterna e soffocante, Shouto inizia a disegnare e a sperare di poter essere un bravo bambino. 

« Gli cadde lo sguardo sul piccolo specchio posto al centro della parete.

Oh, era sempre colpa di quella.

Gli andò davanti, giusto per infliggersi altro dolore che non avrebbe penetrato la sua scorza, ma avrebbe atteso il momento più adatto per colpirlo alle spalle.

Sollevò con una calma gelida e di nuovo, spaventosa, la mano sul viso.

Poi colpì, producendo uno schiocco.

uno,

due,

tre volte.

Tre volte in cui pianse lacrime amare e in cui non seppe consolarsi come ogni sera, tre volte in cui aveva bisogno di un abbraccio che non sarebbe mai arrivato. »

« Così suo padre l’avrebbe amato.

Così la mamma sarebbe tornata a casa.

Così nessuno lo avrebbe deriso per il suo aspetto.

Così avrebbe controllato meglio il suo quirk.

Così si rese conto che usare il condizionale può lasciare amare delusioni.»

 

Ricorda che da piccolo disegnava molto.

Nulla di elaborato o di particolarmente artistico, ma che era l’unica attività senza giudizi da parte di suo padre e che quindi divenne rapidamente la sua preferita.

 

Si impegnava a tracciare quelle poche linee con estrema dedizione, quella che usava per allenarsi era nulla a confronto, e il risultato, bello o brutto che fosse, lo faceva sentire orgoglioso come poche volte.

 

I suoi soggetti erano tutti pupazzi di neve, dal primo all’ultimo.

C’era una ragione ben precisa se si ostinava a disegnare solo quelli in svariate situazioni e posizioni, e ripensandoci ora, più maturo e a cuor leggero, gli viene da ridere.

 

Crede di aver sempre lottato contro il mondo, al tempo suo padre, unico punto di riferimento che fungeva sia da boia che da boa, in un continuo  dimenarsi e scalciare per non affondare nella tristezza che lo circondava.

 

Nessuno si soffermava troppo su quelle figure panciute, tranne forse durante il periodo natalizio, ed era questa la cosa che lo eccitava di più.

Se le persone non si erano prese la briga di dargli una caratterizzazione ben precisa, lui aveva la totale libertà in materia e la sua matita non poteva esserne più contenta.

 

Nel profondo sapeva che quello era solo l’ennesimo riflesso delle sue insicurezza e della paura del giudizio altrui, il dedicarsi ad un’attività poco calcolata in modo che le persone non avessero giudizi da dargli o paragoni irraggiungibili da porgli.

 

Per un’oretta al giorno riusciva a sostare nella sua oasi di statica pace e silenzio, sorrideva, faceva vivere ai suoi pupazzi di neve le mille avventure di cui desiderava essere ardentemente il protagonista, o anche una comparsa, per poi afflosciarsi nuovamente sotto le mani grandi e bollenti di suo padre.

 

Quando aveva otto anni aveva preso consapevolezza del suo quirk già da un bel po’ di tempo ormai e nella sua mente curiosa erano nate le fantasie più sfrenate che abbia mai avuto.

 

All’inizio credeva che i suoi pupazzi potessero sciogliersi con l’arrivo dell’estate, il solo pensiero lo mandava in agitazione, quindi una notte dove sembrava essere ancora meno calcolabile del solito si era dedicato a “congelare” il suo amato quaderno.

 

Passava delicatamente una mano su ogni pagina, partendo dalla copertina, ma non usando neanche un terzo delle sue capacità.

Disegnandoci sopra avvertiva sempre quel piccolo brivido di unione che lo legava inesorabilmente ai fogli.

 

In un modo finto e distorto sentiva provenire anche dell’affetto, quando era particolarmente affranto.

 

Oppure, e sentendo questa crede che all’epoca uno psicologo infantile non avrebbe guastato, il quaderno era qualcosa usato da lui, protetto da lui, la prova vivente, o quasi, che non fosse un mostro.

 

Che anche le cose da lui toccate potessero avere vita e non disintegrarsi.

 

Mentre aspettava l’autobus arrivare, sostando nel piccolo cortile davanti alla pensilina, si era più volte convinto di mostrare agli altri bambini il suo piccolo tesoro, salvo poi ricredersi e nascondendosi velocemente.

 

Se i suoi coetanei non volevano giocare con lui,molto probabilmente avevano le loro ragioni, si ripeteva allo specchio quando la voglia di piangere e urlare e farsi più male di quanto suo padre già non facesse toccava le stelle bellissime di cui la mamma gli aveva insegnato i nomi.

 

Sapeva, in verità non ci credeva molto, di essere lui il problema.

Lui che non aveva nessuna mamma da abbracciare all’uscita di scuola o un papà che lo tenesse per mano mentre camminavano per strada, o due mamma, due papà , una nonna, uno zio… 

 

Nessuno che lo facesse sentire uguale a tutte le anime che non lo guardavano neanche in viso, spaventate da un aspetto così particolare, tanto da incutere terrore e disagio al possessore stesso. 

 

Maturava quindi la consapevolezza di essere sbagliato, cattivo, anche quando un gruppo di bambini lo aveva invitato a giocare.

 

Molte cose non gliele avevano  mai spiegate, come il fatto che non servisse congelare il quaderno o metterlo in ghiacciaia per conservare intatti i suoi amati pupazzi, quindi le aveva apprese attraverso figuracce ed esperimenti che non raramente erano a buon fine.

 

Anche momenti di natura più intima.

 

A otto anni era il bambino più ingenuo che avesse mai incontrato, ma era altrettanto sicuro che se anche uno solo degli adulti presenti al parco lo avesse aiutato le cose sarebbero andate in un modo diverso.

 

Non si era chiesto perchè finalmente qualcuno lo avesse invitato a giocare, piuttosto aveva colto l’occasione al volo e si era avvicinato al gruppetto.

 

Parallelamente alla sua ingenuità cronica, conosceva moltissime favole, non solo giapponesi.

Quella del gobbo di Notre Dame era una delle sue preferite e sperava che i suoi nuovi compagni di gioco lo lasciassero interpretare Quasimodo o al massimo Djali, la capretta di Esmeralda.

 

Una bambina con le trecce lunghe e nere faceva la bella ballerina gitana, lui era stato scelto per il ruolo principale.

 

Sorrideva come non aveva mai fatto nella sua vita, anche se breve: ora aveva un po’ di paura, non voleva deludere quei bambini così allegri e spiritosi, ma l’entusiasmo agiva come da balsamo per curare tutte le sue ferite.

 

Durante la scena finale del loro gioco bellissimo, una guardia reale fece un passo avanti.

 

-Cambiamo il finale. Quasimodo viene picchiato e noi vinciamo.

 

Shouto non potè fare a meno di guardarsi intorno con occhi strabuzzati, notando con orrore le facce di approvazione del gruppetto.

 

-M-ma perchè?

-Perchè in questo modo potranno vincere i buoni.

-Ma le guardie s-sono cattive,mentre Quasimodo è…

-Brutto e cattivo proprio come te!- si inserì la bambina con le trecce more.

 

Shouto non aveva mai giocato con altri bambini, quindi immaginò che dopotutto fosse normale invertire il finale della storia.

 

-Va bene, ma non mi picchierete sul serio,vero?

 Il bambino più alto gli si avvicinò minaccioso, superandolo di ben venti centimetri e inchiodandolo ad un albero.

 

-No,ti stai sbagliando. Oltre a essere brutto come un gobbo sei anche stupido? Le cose si fanno per bene, quindi preparati.

 

Shouto avrebbe voluto ribattere che lui non era brutto, anche se non credeva di essere bellissimo,perchè sua mamma era meravigliosa e di conseguenza lui non poteva essere tanto male.

E poi, non era neanche stupido  dato che aveva suggerito agli altri molte scene che non si ricordavano.

 

Le sue proteste vennero però soffocate dai pugni, non denigranti come quelli di suo padre, ma neanche piacevoli, e dall'indifferenza di cemento armato mostrata dagli adulti della pensilina.

 

Una volta a casa, dopo che suo padre aveva scaricato su di lui tutta la rabbia repressa verso All Might, ripercorse tutti i momenti del pomeriggio, non trovando però il comportamento sbagliato che poteva aver innescato la furia dei bambini.

 

Gli cadde lo sguardo sul piccolo specchio posto al centro della parete.

 

Oh, era sempre colpa di quella.

 

Gli andò davanti, giusto per infliggersi altro dolore che non avrebbe penetrato la sua scorza, ma avrebbe atteso il momento più adatto per colpirlo alle spalle.

 

Sollevò con una calma gelida e di nuovo, spaventosa, la mano sul viso.

Poi colpì, producendo uno schiocco.

 

uno,

due,

tre volte.

 

Tre volte in cui pianse lacrime amare e in cui non seppe consolarsi come ogni sera, tre volte in cui aveva bisogno di un abbraccio che non sarebbe mai arrivato.

 

Ad otto anni pensava di essere lo sbaglio che faceva arrabbiare le persone e che i pupazzi di neve fossero gli esseri più buoni e speciali del mondo perchè nonostante lui fosse cattivo, ma più cattivo di quando Natsuo veniva sgridato dai professori, lo accogliessero e lo lasciassero libero di scorrazzare per il loro paradiso fatto di neve.

 

I pupazzi di neve sorridevano, anche se una volta sul computer di Fuyumi aveva intravisto uno di loro con il sangue alla bocca e un coltello in mano.

 

Per questo impugnò la matita e decise di disegnarsi, ma come un pupazzo.

 

Tracciò un cerchio perfetto, la lunga pratica aiutava, e altri due, l’ultimo molto grande.

 

Afferrò il pastello rosso e disegnò una parte dei propri capelli, poi un ovale che divideva il volto rotondo a metà. Con la matita completò il lato destro dei capelli e disegnò due palline.

 

Una grigia, l’altra azzurra.

 

Poi si guardò la maglietta viola del pigiama e cercò di riprodurla anche sul pupazzo ed infine un piccolo sorriso fu aggiunto al disegno,insieme alle braccia e a un naso arancione.

 

Forse assomigliava più ad una papera con quel naso schiacciato e un po’ storto, ma sperava solamente che servisse a renderlo più bravo.

 

Così suo padre l’avrebbe amato.

Così la mamma sarebbe tornata a casa.

Così nessuno lo avrebbe deriso per il suo aspetto.

Così avrebbe controllato meglio il suo quirk.

 

Così si rese conto che usare il condizionale può lasciare amare delusioni.

 

Shouto aveva otto anni e mezzo quando capì, a malincuore, che i suoi pupazzi non si sarebbero sciolti per nessun motivo e che dopotutto lui era rimasto comunque un bambino cattivo.

 

Anche se una piccola e innocua domanda aveva iniziato a nascere ogni volta che allo specchio appeso alla parete notava con dispiacere tutti i lividi lasciati da suo padre.

 

E se non fossi io il problema?

 

Impossibile.

I papà erano delle persone buonissime, lo diceva anche sempre la maestra:

« Se qualcuno vi fa delle brutte cose, ditelo alle vostre mamme e ai vostri papà!», i suoi compagni di scuola anche: «Il mio papà è fortissimo! Lui ha un quirk che gli fa crescere le piante dalle mani! », « Il mio può rimpicciolire gli oggetti!»

 

Se mai qualcuno gli avesse chiesto quale fosse il quirk di suo padre, Shouto avrebbe detto « Un qualcosa che brucia, che fa male».

 

La maestra diceva di chiamare i propri i genitori nel caso venisse trattato male, ma come faceva lui, che non vedeva la mamma da tre anni e con suo padre che era l’origine di tutti i suoi mali?

 

Di nuovo si ripeteva di stare sbagliando:lui, cattivo e piccolo, non poteva pensare delle cose su suo padre.

 

Oltre a essere padre, e questo  sembrava spostarti automaticamente nella categoria dei buoni, Enji era un hero.

 

Se gli altri padri combattevano dei villain ideologici, distribuendo carezze e lavate di capo, suo padre combatteva dei veri criminali con la forza bruta e un quirk spaventosamente potente.

 

Sapeva che il genitore stesse proggettando per lui il medesimo futuro, ignorò il brivido freddo che percorse la sua schiena e si impose di iuscire a diventare buono, almeno per quando quel giorno sarebbe arrivato.

 

A nove anni Shouto aveva metabolizzato l’idea che disegnare se stesso in versione pupazzo di neve non aveva portato i frutti sperati, quindi iniziò a trasformare gli altri.

 

Se non poteva rendersi buono, avrebbe reso le persone felici usando i suoi pupazzi di neve.

 

Shouto, quando ci ripensa, avrebbe voglia di correre indietro nel tempo, scavalcare la finestra della cameretta e abbracciare quel bambino e tutti i suoi pupazzi.

 

Per fargli compagnia e dimostrare che tutti i suoi sforzi non sono stati vani, si impegna ad essere un adulto migliore.

 

Una volta Fuyumi era stata invitata da un ragazzo ad una piccola festa che la sua scuola organizzava per ricavare un po’ di soldi.

 

Suo padre non aveva mai badato molto a ciò che i figli possedevano, ovvero niente.

 

Se chiude gli occhi e si concentra, ecco apparire la mano della sorella che stringe la propria e insieme si addentrano nel coloratissimo mercato cittadino.

Il banco delle stoffe, l’anziana donna che lo gestisce, sua sorella che compra del raso color pesca, appena sufficiente per ricavare un semplice abitino ed una fascia da fissare alla vita con un paio di punti.

 

La ricerca di un paio di scarpe adatte che sua madre potesse aver lasciato in casa, il sorriso di sua sorella con indosso il vestito, quelle ballerine un po’ usate e i capelli acconciati in una morbida treccia laterale.

 

Shouto se la ricorda esattamente così e in uno slancio d’affetto e sincero interesse verso la serata della ragazza, aveva disegnato un pupazzo di neve con quelle stesse caratteristiche.

 

Cercava di rendere la vita più sorridente sostituendo le lacrime dei fratelli e la loro faccia triste con i sorrisi di sassolini e i visi allegri dei suoi amici di neve.

 

Molte volte rimaneva solo, perchè nonostante Natsuo e Fuyumi fossero dei fratelli magnifici, quando Shouto era bisognoso di risposte a tanti quesiti, loro due erano nella disperata maratona che li avrebbe condotti verso la maturità.

 

Per questo nessuno gli aveva detto dov’era la mamma, perchè non era lì con lui ad abbracciarlo.

 

E si sentiva pessimo, di nuovo, per aver egoisticamente pensato che se sua madre fosse tornata veramente sarebbe andato ad abbracciarlo.

 

Aveva solo nove anni eppure,pensava, che il posto in cui viveva la sua mamma fosse migliore della casa maledetta su cui aveva versato troppe lacrime.

 

Aveva solo nove anni, eppure mise da parte i propri sentimenti rincuorandosi dal fatto che la mamma stesse meglio lontano da lui, da suo padre.

 

Quando nevicava i suoi fratelli non dimostravano mai pienamente il loro entusiasimo, troppo protetti dall’orgoglio adolescenziale e da mille altri problemi.

 

Non glielo dicevano, forse per non farlo soffrire?, ma loro che potevano sgattaiolare fuori non si erano mai neanche persi una nevicata.

 

Shouto disegnava invece i suoi pupazzi felici, che si tenevano per mano e chiacchieravano felici come vedeva fare alle altre persone.

 

-Todoroki-kun? Avevi una vera passione per il disegno!

-Ma stai scherzando, nerd. Praticamente disegnava solo suoi simili.

 

Shouto scuote la testa e non risponde, non vuole raccontare ai due ragazzi la sua storia, la storia dei suoi disegni e di tutto ciò che essi portavano con loro.

Ma Midoriya lo invita a sfogliare un quaderno ed il se bambino scalpita emozionato per sentire quella bellissima sensazione.

 

Forse, riuscirà a trasmetterla anche loro due, le nuove stelle che illuminano il suo cielo denso e scuro.

 

Trova alla prima pagina un disegno di sua madre, si accorge che quello è il quaderno dedicato completamente a lei.

 

Prima dell’inizio della scuola riusciva a rubarne sempre un paglio dalla pila che poi suo padre distribuiva equamente tra i tre fratelli.

Tutti uguali: righe o quadretti, margini rossi, copertina blu navy.

 

Fuyumi gliene lasciava sempre uno, l’unica a conoscenza di questo suo piccolo sfogo, e Shouto riempiva le righe azzurre di scenette e schizzi a matita.

 

Preferiva le righe, più semplici e lineari da usare.

 

In quel periodo gli sembrava che il ricordo di sua madre potesse svanire a lasciargli tra le mani tremanti solo sabbia e disperazione.

In seguito aveva scoperto che il piccolo sé non aveva avuto poi tutti i torti.

 

La disegnava in tutte le versioni possibili ed immaginabili solo per imprimere nella testa il sorriso dolce e gentile.

Gli sarebbe piaciuto che i suoi disegni parlassero, così da ricordarne anche la voce soffice e vellutata.

 

Nei disegni sua madre sorrideva sempre  e immaginava che lo rassicurasse, che gli facesse sapere di non essere solo, che i pupazzi non fossero le uniche cose che riusciva a non distruggere.

 

Nessuno glielo disse, eppure, Shouto ne prese consapevolezza da solo.

 

Era stato un bambino ingenuo, sperduto tra la cattiveria comune di persone spaventate dal diverso , che però era riuscito a farsi forza accarezzando le ferite che si era inflitto da solo qualche anno prima.

 

Aveva piantato a terra i piedi, portato i suoi quaderni con sé, e pianto tante di quelle volte, stretto tra i muri dello Yuei o di un palazzo abbandonato da riuscire a calmarsi respirando un paio di volte.

 

Shouto aveva capito di non essere cattivo, di non essere sbagliato.

Di avere i suoi difetti,ovviamente, ma che in questa storia buia e deprimente,l’unico che si sarebbe dovuto porre quelle domande e rimanere a rimuginare per ore doveva essere suo padre.

 

Aveva raccolto la propria vendetta, l’amarezza germogliata come piante in primavera, per poi diserbarla usando il sorriso e la voce di Midoriya come fertilizzante e l’irruenza di Bakugou come sole.

 

Le sue piante, i suoi pupazzi di neve, vivevano rigogliosi senza aspettare il momento giusto per colpire e farsi consumare dalla rabbia.

 

Non era riuscito a farsi amare seriamente dal padre, ora i ruoli si erano un po’ ribaltati: l’adulto cercava un perdono duro da conquistare ma non irraggiungibile e lui rimaneva in equilibrio osservando il panorama che il mondo gli offriva.

 

A vent’anni era una persona ancora un po’  ingenua, ma con al suo fianco una squadra di pupazzi di neve decisamente più vera e viva.


-Angolo Autrice-
Allora... 
Dovrei star completando due long e delle one-shot, ormai lo ripeto sempre, ma l'apparecchio, eh già, sta facendo un male cane e quindi sono un po' lenta.
Storia carina, e senza pretesem tranne quella di lasciarvi un timido sorriso sulle labbra.
Lunaharry66

 

   
 
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