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Autore: LawrenceTwosomeTime    01/09/2009    3 recensioni
Una ragazza con troppi progetti per la testa scopre che i suoi sogni più reconditi stanno a mano a mano diventando realtà. Complice uno strano episodio di sonnambulismo che la coglie ogni notte, e che sembra sconvolgere non solo la sua mente, ma anche il mondo reale...
Genere: Commedia, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salì in camera sua corrucciata e combattuta.
"Fortuna che devo sorbirmi una rampa di scale…Starmene distesa nel letto sapendo che lui tentenna tra la porta e la TV mi darebbe ai nervi"

Le piaceva l'idea di occupare una camera al piano di sopra. Era piccola, col soffitto spiovente, poco meno di una mansarda, poco più di uno sgabuzzino. Ma era pur sempre vicina alle stelle.
Vi entrò e si sbatté la porta alle spalle, che – avendo la serratura rotta più o meno dai tempi in cui l'Italia cominciava la campagna di conquista della Libia – rimbalzò a tradimento e la colpì sulla nuca.
Atterrò tra le lenzuola di faccia e imprecò. Lo svantaggio di possedere una camera angusta è che devi stare sempre attenta a ciò che fai (le leggi della fisica sanno essere molto vendicative); il vantaggio, d'altro canto, è che non corri mai il rischio di provocarti troppo dolore.

La luna faceva capolino dalla finestrella sopra il pavimento, inargentando i fiocchi di polvere che galleggiavano tra le vecchie assi.
Starnutì.
"Ma si, al diavolo", si disse. Era confortante pensare di detenere la salvaguardia sulla propria intimità. Se suo padre si fosse sognato di venirle a parlare, avrebbe udito i suoi passi incerti, amplificati dai cigolanti scalini di legno che nessuno si era mai sognato di restaurare.
Era come una regina…anzi no: le regine amano rimanere coi piedi per terra, lei assomigliava di più…a un'aquila. Si!, era un'aquila predatrice che scrutava la torba di puntini insignificanti sotto di lei, le sue prede; un cacciabombardiere cazzuto che ti sarebbe planato sulla testa se avessi osato parlar male del Governo!
Ma stava già dimenticando il motivo per il quale era arrabbiata con lui, e questo non andava bene.
Aveva delle idee, più che degli ideali, ma riteneva che le sue idee – così ben nutrite nel grembo della propria fantasia, e vezzeggiate, e arricchite – valessero incommensurabilmente di più rispetto alle prospettive qualunquiste, "sicure e stabili", di suo padre. Meglio trascinarsi nell'oblio sapendo esattamente come ci si è finiti, che condurre un'esistenza relativamente agiata senza aver cognizione di cosa si vuole.

Poi però divagava, e digrignava i denti, e tutto rimaneva nella sua testa, e lei sembrava solo una sciocca mocciosa – maggiorenne, d’accordo, ma solo sulla carta – con tanti grilli per la zucca, incidentalmente geniale, e prevalentemente cretina.
È pazzesco come la gente tenda a ricordarsi di te non per le tue parentesi di ingegno, bensì per le tue esibizioni di fessaggine. Si era chiesta tante volte se la gente non fosse un po' sadica, di natura. Super-famosa o super-nessuno, non aspettano altro che vederti muovere un passo falso…

Sicuramente adesso era in cucina, e stava stappando le peggiori bottiglie del peggior vino da pasto della dispensa.
In questo modo sarebbe crollato come un pero morto, avrebbe staccato i collegamenti, ma – cosa ben più importante – si sarebbe esentato per qualche ora dalle proprie responsabilità nei suoi confronti.
"Chissenefrega. Tanto non sono mai andata più in là del ponte…"

E si addormentò.

Fece un sogno molto strano. Non che la media stagionale dei suoi sogni non fosse bizzarra (erano strampalati soprattutto nella struttura, ma avremo modo di parlarne più avanti), ma questo…Era davvero fuori dai comandamenti.
Stava…smontando la sua camera. Anche se "smontare" non era esattamente la parola giusta. La ripiegava come se fosse la facciata di una delle sue scenografie. Staccava le pareti (erano piatte, e odoravano di colla), arrotolava i quadri (arrotolava il vetro e la cornice e la litografia all'interno), accartocciava la piccola scrivania (ma no, questo non ha senso, io uso il mio tavolo per disegnare, ma il mio tavolo non è un foglietto qualunque!), pigiava il letto – che era costruito come un Cubo di Rubik, e più le facce giuste erano distanti più si rimpiccioliva – nel suo zainetto da viaggio.
Non perdeva tempo a cambiarsi (nei sogni il tempo è fragile come una lastra di cristallo sottile), usciva direttamente dalla finestrella, caviglie flessuose e polpacci rotondi e bacino stretto e seni piatti e collo lungo, e lo zaino le ciondolava dietro come un bastardino.
Non appena metteva piede sull'edera rigogliosa che cresceva sulla facciata che guardava il fiume, piani e parallassi litigavano e il muro diventava il pavimento. La porticina quadrata al piano terra ora non era che una botola eccentrica, e la strada in terra battuta, con l'erbetta spelacchiata, lo steccato alto e sottile, e infine il cemento e il bosco…erano un parete perfettamente verticale, spessa quanto il mondo, e alta fino all'orizzonte.
Libri e libri occorrerebbero per narrare ciò che avvenne nello spazio di una notte: saghe mitiche e astratte su montagne infinite, ripari di fortuna allestiti su alberi a dondolo, un piccone parlante (il fratellino di Mijolnir, conosciuta come l'ascia di Thor, che creava più problemi che risolverne: se volevi usarlo per salire dovevi gettarlo nell'abisso, e stare attento a non farti cavare un occhio quando tornava su), una fortezza di metallo da cui si lanciavano enormi uccelli di pietra – con un occhio per l'istinto e l'altro probabilmente guercio, dato che la Natura sembrava averli creati apposta per vederli precipitare, che sadica! – e rullare di tamburi e fiammeggiare di torce e…


…E si svegliò su una scomoda poltrona di seconda classe, acciambellata come un gatto, lo zainetto ai suoi piedi, il pigiama sporco di fango.
Nel sedile di fianco al suo, un uomo sulla sessantina dal pancione prominente, vestito di un elegante pullover color cacca e con dei baffi da far invidia allo Zar, che evidentemente non aveva smesso un attimo di guardarla, distolse rapidamente gli occhi.
Lo fissò. Si stava dedicando con uno zelo quasi comico a spazzolare la forfora che inamidava il cardigan della donna addormentata accanto al finestrino, molto probabilmente sua moglie.
Si lasciò sfuggire un'occhiata disgustata, così, in automatico, e poi – altrettanto automaticamente – sbatté le palpebre e si rese conto di dove si trovava.
Un aereo?
C'erano un corridoio stretto con file e file di poltrone ad entrambi i lati, piccole luci accecanti accese a intervalli regolari lungo una corsia, una donna impettita e tirata a lucido che spingeva un carrello…
Si trovava davvero in un aereo.
Si sporse di poco sopra l'uomo per vedere fuori dal finestrino. Al di là del vetro era buio pesto.

Cominciò a ricordarsi che volare le faceva un terrore del diavolo, così chiamò la hostess, che sembrò accorgersi solo in quel momento che a bordo c'era una ragazza scalza, sporca di terra, coi capelli sparati in aria come serpenti e indosso un semplice pigiama.
"Senta, io non so come sono finita qui, ma voglio scendere. La prego, mi faccia scendere! Non m'importa dei soldi, non voglio essere rimborsata, basta che dica al pilota o a chicchessia di aprire quei dannati portelloni!"
"Mi dispiace, ma non è possibile", rispose la donna con una lieve nota di stizza nella voce.
"E perché?", sbraitò. Le stava venendo da piangere.
"Oh, avanti! Che cosa ci vuole a premere un pulsante? Io scendo anche senza scala, mi calo giù con il mio zaino e poi partite!"
"L'aereo è già partito, signorina. A meno che non voglia lanciarsi con il paracadute…"

Cercò di deglutire lo choc con un po' di saliva.
Poi si azzardò a chiedere:
"E dove…dov'è che siamo diretti?"

Si chiamava Magda Mapiz, aveva diciotto anni e in quel momento stava volando verso Parigi.
  
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