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Autore: Clementine84    16/09/2021    0 recensioni
Quando Becky viene mandata a intervistare Craig, musicista di una band sulla cresta dell'onda, sa esattamente che le dichiarazioni rilasciate verranno usate per spargere calunnie sul suo conto. Ha due possibilità: mettere a tacere la sua coscienza e consegnare la registrazione al suo capo, oppure rifiutarsi e perdere il lavoro. Non esita nemmeno un istante. E, forse, quella decisione presa d'impulso farà capire a Craig che, di persone così, se ne trova una su un milione e porterà a Becky molti più benefici che danni.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Sfogliai febbrilmente l’ultima copia di Planet Gossip alla ricerca dell’intervista fatta un paio di settimane prima, e sbuffai, esasperato, non trovandola.

Ancora niente?” chiese gentilmente Tanya, la moglie di Michael.

Scossi la testa. “No. E sono passate già due settimane! Non capisco”.

In effetti è piuttosto strano” osservò lei. “Di solito pubblicano le interviste nel numero immediatamente successivo a quando ve l’hanno fatta, mentre qui sono già uscite due copie del giornale e ancora non si è vista”.

Magari hanno deciso di non pubblicarla” azzardò Sean, tornando dal bar e unendosi a noi con una birra.

Hmm…è così strano. Quella giornalista sembrava così soddisfatta di com’era venuta”.

Ci sono!” esclamò Michael, battendosi un pugno sul palmo della mano.

Ci voltammo tutti a guardarlo, shockati.

Ti ricordi come si chiamava quella tipa?” mi chiese.

Annuii. “Rebecca Abbot” risposi, perplesso.
Ancora non riuscivo a capire cos’avesse in mente e, guardando gli occhi sgranati degli altri miei amici, potevo affermare con sicurezza di non essere l’unico. Michael prese il cellulare dalla tasca dei jeans e, dopo aver letto qualcosa sull’ultima pagina del giornale, compose un numero.

Pronto, buongiorno, sono Craig MacLuis, dei Drummers” annunciò.

Io e gli altri ci scambiammo delle occhiate stupite. Cosa diavolo stava combinando? Perché chiamava qualcuno spacciandosi per me?

Vorrei parlare con il direttore, se non le dispiace. Grazie mille, attendo in linea” proseguì il mio amico.

Ora me lo passano” mi informò, strizzandomi l’occhio.

Ma si può sapere cosa…?” iniziai, ma fui prontamente zittito quando qualcuno rispose all’altro capo.

Sì, buongiorno, sono Craig MacLuis, dei Drummers. Una vostra giornalista mi ha intervistato, un paio di settimane fa, ma non ho ancora visto pubblicata l’intervista. Può spiegarmi cosa è successo, per favore?” chiese, serio.

Un istante di silenzio, poi “Sì, me lo ricordo. Si chiamava Abbot, Rebecca Abbot”.

Altro silenzio, più lungo, questa volta.

Ah, capisco. E saprebbe dirmi come contattarla?”

Qualche secondo.

D’accordo, la ringrazio molto. Arrivederci!”.

Michael chiuse la conversazione e mi rivolse un sorriso radioso.

Mistero svelato” annunciò.

Vuoi spiegarci, per favore?” lo pregò Sean, visibilmente spazientito.

Non lo sapete che in tutti i giornali c’è scritto il numero della redazione?” ci chiese, con aria di superiorità. “Ho chiamato e mi sono fatto passare il direttore. È un piccolo giornale, non è stato difficile” spiegò. “Purtroppo mi ha detto che non poteva aiutarmi perché la giornalista che ha effettuato l’intervista non lavora più da loro”.

Quindi?” chiesi, esasperato.

Michael mi rivolse un sorriso di benevolenza che iniziò ad irritarmi.

Ho chiesto come fare a mettermi in contatto con lei”.

Stavo per saltargli al collo e minacciarlo di morte se non si fosse deciso a sputare il rospo, ma Sean mi batté sul tempo. “Ti decidi a parlare o no?” sbottò, non riuscendo a resistere oltre.

Non aveva il numero ma ha detto che è sull’elenco. Basta cercare Abbot” concluse, finalmente il nostro amico.

 

Ero davanti alla porta del mio appartamento e stavo cercando di infilare la chiave senza far cadere tutto il contenuto delle buste per la spesa che avevo in mano, quando il telefono iniziò a squillare e io mi affrettai ad aprire, sperando di arrivare in tempo a rispondere. Come promesso, William aveva interceduto per me presso il direttore dei Daily Mirror, che aveva promesso di chiamarmi per fissare un colloquio, quindi ogni telefonata era di vitale importanza e non potevo permettermi di perderne neanche una.

“Pronto” risposi, trafelata, alzando la cornetta.

“Ehm…Rebecca Abbot?” chiese una voce maschile che mi sembrava di aver già sentito da qualche parte.

“Sì, sono io. Chi parla?” domandai, incuriosita.

“Sono Craig MacLuis. Non so se ti ricordi” si presentò.

Sorrisi. Ma certo, Craig MacLuis! Difficile dimenticarsi una voce come la sua.

“Certo che mi ricordo” esclamai, facendo del mio meglio per posare a terra le buste senza attorcigliarmi con il filo del telefono.

“Mi dispiace disturbarti a casa, ma ho chiamato al giornale e mi hanno detto che non lavori più per loro” spiegò.

Sospirai. “Già, così sembra” commentai, acida e poi, cercando di velocizzare le cose “Posso aiutarti in qualche modo?”

“A dire la verità sì” annunciò lui. “Ricordi che ti avevo detto che avrei comprato il giornale per leggere l’intervista? Beh, l’ho fatto, ma non l’ho trovata. Mi piacerebbe sapere come mai non l’avete pubblicata”.

Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo. E adesso? Come diavolo facevo a spiegarglielo? Dovevo inventarmi una balla e salvarmi la faccia oppure essere sincera rischiando di infangare il mio nome di giornalista? Ripetendomi che, tanto, peggio di così non poteva andare, optai per la seconda.

“Semplicemente perché, invece di consegnare la registrazione al mio capo, l’ho buttata nella spazzatura” confessai.

Craig restò un istante in silenzio, dopodiché chiese soltanto “Perché? Avevi detto che ti piaceva”. Sospirai. “Infatti era una splendida intervista,” ribattei “e sarebbe stata una vera chicca se fosse stata pubblicata così com’era. Purtroppo, però, non era esattamente quello che aveva intenzione di fare il mio capo”.

“Cioè? Spiegati meglio” mi pregò Craig.

Deglutii, rassegnata ormai a dover confessare.

“Vedi, il fatto è che ero stata mandata a intervistarti con un intento preciso, che era quello di farti rilasciare delle dichiarazioni ambigue da cui si potesse lasciare intendere una tua presunta omosessualità” spiegai. “Per questo ti ho fatto tutte quelle domande sul rapporto con i tuoi fratelli, amici, colleghi…c’era un doppio fine. Dovevano servire al mio capo per scrivere un articolo dove si sosteneva che tu sei gay”.

Presi fiato e continuai.

“Dato che, però, non sono il tipo che va in giro ad infangare il nome delle brave persone come te, mi sono rifiutata di consegnargli la cassetta” chiusi gli occhi e conclusi “e lui mi ha licenziata”.

Questa volta, il silenzio dall’altra parte durò molto più a lungo, tanto che mi ritrovai a chiedere “Craig? Sei ancora lì?”.

“Sì. Ci sono” mi rassicurò lui. “Io…non so cosa dire”.

“Non devi dire niente” minimizzai.

Lui insistette. “Sì, invece. Ora, io non so chi te l’ha fatto fare di farti licenziare per non spargere calunnie sul conto di una persona che nemmeno conosci, ma hai tutta la mia stima e il mio rispetto, oltre che la mia gratitudine. Non posso dire di conoscerti, ma devi essere una persona davvero speciale e mi dispiace davvero tantissimo che tu abbia perso il lavoro per causa mia”.

Con il cuore che mi batteva per il piacere che mi avevano provocato quelle parole, replicai “Non è stato a causa tua. Sono stata io a scegliere di buttare la cassetta”.

“Sì, ma l’hai fatto per me”.

“Non è vero. L’avrei fatto per chiunque” mentii.

“Beh, dato che, questa volta, questo ‘chiunque’ sono io, voglio dimostrarti la mia riconoscenza” sentenziò.

Scossi la testa. “Lascia stare, non ce n’è bisogno”.

“Forse non ce n’è bisogno per te, ma per me sì. Se penso che ora ti ritrovi disoccupata per colpa mia, mi sento un verme e, anche se non potrò mai ridarti il tuo lavoro, voglio almeno cercare di ricambiare il favore invitandoti a pranzo”.

Stavo per declinare educatamente l’invito, quando Craig parlò di nuovo.

“Non dire di no, ti prego”.

Restai un istante in silenzio, mentre dalla mia memoria riaffioravano i ricordi di quel bel pomeriggio che avevo passato a chiacchierare con lui al bar dell’albergo e, alla fine, mi ritrovai a rispondere “D’accordo. Se proprio ci tieni…”.

“Benissimo!” esclamò lui, entusiasta, come se pranzare con me fosse meglio che uscire con Gwyneth Paltrow. “Tra due giorni saremo di nuovo a Londra. Ti va se ci vediamo al Conrad verso mezzogiorno?” propose.

Annuii, anche se lui non poteva vedermi. “Okay”.

“Allora ci vediamo” concluse lui. “E grazie ancora”.

“Ma figurati” farfugliai, confusa.

Dopo aver riagganciato, mi diedi un’occhiata nello specchio che tenevo appeso sopra al tavolino del telefono, accorgendomi che ero tutta rossa in viso e stavo ancora sorridendo. Perché, mi chiesi, quel ragazzo mi faceva sempre comportare in modo strano?


 

Dov’è questa ragazza virtuosa? Voglio sposarla!!” esclamò Michael, al termine del mio resoconto, beccandosi una sberla da sua moglie Tanya.

Ehi, calma, amico. Craig ha la precedenza, questa volta” commentò Sean, ridacchiando.

Ma che precedenza!” sbottai, seccato dalle continue allusioni dei miei amici. Dato che erano tutti felicemente accoppiati, avevano preso il brutto vizio di cercare di accasare anche me.

Beh, l’hai invitata a pranzo a quanto ho capito, no?” insistette il mio amico.

Sì, ma è per sdebitarmi” precisai.

Chi se ne frega, è già un inizio!” ribatté lui, deciso.

Sospirai, deciso a lasciare perdere. Quando Sean si fissava su qualcosa, non c’era verso di fargli cambiare idea.

Craig, Sean ha ragione” aggiunse Tanya.

Mi voltai a guardarla, stupito. Non era da lei fare certi commenti.

Non dico che debba nascere per forza qualcosa tra te e questa giornalista, però ammetti anche tu che una ragazza del genere è più unica che rara” si giustificò.

Verissimo!” concordò Michael. “Dove la trovi un’altra che si fa licenziare per pararti il culo? Fossi in te non me la lascerei scappare”.

Guardai Paul, in cerca di aiuto. I miei amici non facevano che pensare a trovarmi una ragazza! Anche lui, però, annuì. “Secondo me, non è poi così male come idea. Anche se doveste diventare soltanto amici, vale la pena di provare” mi fece notare.

Non dissi nulla, segno che l’argomento era da considerarsi definitivamente chiuso, ma, sotto sotto, mi ritrovai a pensare che, dopotutto, forse i miei amici non avevano proprio tutti i torti.

 

“Lizzie, mi puoi aggiustare i capelli, per favore?” chiesi alla mia amica, non appena venne ad aprire la porta. “So che è la tua giornata di riposo, ma ho un appuntamento per pranzo e…”.

“Appuntamento? Si tratta del colloquio di William, per caso?” si informò lei, speranzosa.

Scossi la testa. “No. È un’altra cosa” spiegai.

Vedendo il suo sguardo speranzoso, mi decisi a sputare il rospo.

“Ti ricordi Craig MacLuis?” domandai.

La mia amica annuì. “Quello dell’intervista, giusto?”.

“Lui. Beh, mi ha invitata a pranzo”.

Lizzie mi guardò con gli occhi che le brillavano per l’entusiasmo. “Davvero?”

Annuii. “Sì. Ha saputo il fatto e ha detto di voler farsi perdonare per avermi fatto perdere il lavoro”.

“Oh, carino!” esclamò lei, emozionata.

Sorrisi. “Sì, è stato davvero molto gentile” concordai.

“E, dimmi,” indagò, facendomi sedere e iniziando a tirar fuori un numero incredibile di pettini e spazzole “lui com’è? Carino?”

“Lizzie, guarda che l’hai già visto anche tu, sono sicura. È uno dei Drummers, hai presente?”

“Ma dai! Quale? Sono uno più carino dell’altro”.

“Hmm…come faccio a spiegarti? Alto, moro, occhi azzurri…” descrissi, brevemente.

“Oh, sì! Capito” disse lei. “Sinceramente preferisco il biondino con l’aspetto da rockettaro…Sean mi pare che si chiami…ma devo ammettere che anche questo Craig non è niente male” commentò, facendomi ridere.

“Sì, ma non ti mettere strane idee in testa. Mi ha solo invitata a pranzo per sdebitarsi” mi affrettai a precisare.

La mia amica sospirò. “Lo so, lo so…mica ho detto niente” si difese. “Ad ogni modo, meglio essere carine, no? Non si sa mai chi si può incontrare in giro! Metti che Tom Cruise alloggi allo stesso albergo”.

 

Prima di entrare al Conrad, mi fermai a specchiarmi nella vetrina di un negozio. Dopo essermi fatta sistemare i capelli, che ora portavo in una cascata di boccoli che ricadevano sulle spalle, ero tornata nel mio appartamento e avevo spalancato l’armadio, alla disperata ricerca di qualcosa da mettermi. Avevo scordato di chiedere a Craig dove aveva intenzione di portarmi, quindi non sapevo come vestirmi, senza considerare il fatto che un attento esame del mio guardaroba mi aveva rivelato che non possedevo vestiti eleganti. Era un problema a cui avrei dovuto porre rimedio, prima o poi. Alla fine avevo optato per un paio di jeans skinny, un dolcevita nero e un paio di ballerine dello stesso colore. Speravo andasse bene.

Presi un respiro profondo e mi decisi a entrare, ripetendomi che non c’era motivo di essere così agitata per uno stupido pranzo.

Craig mi venne subito incontro, sorridente. “Ciao!” salutò.

“Ciao. Spero di non essere in ritardo”.

Lui scosse la testa. “Tranquilla, sei puntualissima, sono io in anticipo”.

Sorrisi. “A proposito, grazie dell’invito” farfugliai.

Il ragazzo mi mise un dito davanti alla bocca. “Zitta! Non voglio sentire un altro ‘grazie’ da te, chiaro? Hai accumulato un bonus di…diciamo…2000 ‘grazie’ per quello che hai fatto e, fino a che non mi sarò messo in pari, non voglio sentirtelo dire”.

“D’accordo, mi arrendo” acconsentii, ridendo e alzando le mani davanti al viso. “Come vuoi tu”.

Craig sorrise, soddisfatto. “Ho prenotato un tavolo allo Sketch, in Conduit Street. Spero che ti piaccia” annunciò.

Alzai le spalle. “Non ci sono mai stata” mi scusai.

“Oh, è un posto carino, sono sicuro che ti piacerà” commentò lui. “Ora chiamo un taxi e andiamo, okay?”.

 

Craig aveva ragione, il locale era veramente carino.

“Una volta qui c’era la maison di Dior” mi spiegò.

“Davvero?” feci io, interessata.

Lui annuì.

“E tu come fai a saperlo?” domandai, incuriosita.

“Oh, me l’hanno detto” rispose lui, facendo spallucce.

Smisi di guardarmi intorno e iniziai a studiare il menù, seguendo l’esempio di Craig.

“Cosa prendi?” chiese lui, dopo un po’.

“Hm…hamburger e patatine” risposi, chiudendo il menù.

Il ragazzo sorrise, compiaciuto. “Oh, finalmente una ragazza che non ordina insalata!” commentò. Scoppiai a ridere. “Perché, ne hai incontrate molte di quella specie?” domandai.

Craig emise un lieve fischio. “Praticamente tutte” sentenziò.

“Ah, beh, mi dispiace ma credo di non andare troppo d’accordo con l’insalata” mi giustificai. “Quando ne mangio troppa finisco sempre per avere una crisi di personalità e sentirmi una mucca” spiegai, facendolo scoppiare a ridere.

Fummo interrotti dal cameriere che veniva a prendere le ordinazioni ma, non appena se ne fu andato, Craig mi guardò dritta negli occhi e disse “Allora, parlami un po’ di te”.

Restai in silenzio per qualche secondo, cercando qualcosa da dire. Improvvisamente mi sembrava che non ci fosse niente degno di nota nella mia vita.

“Oh, non c’è niente di interessante da sapere, sai” minimizzai.

“Non ci credo!” ribatté lui. “E, comunque, tu almeno un po’ mi conosci, grazie a quell’intervista, mentre io so a malapena il tuo nome!” insistette.

“E va bene” cedetti. “Vediamo un po’. Vivo nell’East End. Sono laureata in giornalismo, anche se al momento sono disoccupata. Ho 25 anni, e sono del Leone” riassunsi.

“Davvero? Anch’io sono Leone!” commentò lui. “Quando sei nata?”

“Festeggio il compleanno il 10 di Agosto” risposi.

Craig mi lanciò un’occhiata perplessa.

“Che strano modo per dirmi quando sei nata” osservò.

Sospirai. “Ehm…è che…è una storia lunga, non voglio annoiarti”.

“Non mi annoi” sentenziò lui e sembrava così sincero che decisi di raccontargli tutto.

“Il fatto è che non so precisamente quando sono nata”.

“Com’è possibile?” chiese, stupito.

“È possibile se si è stati abbandonati davanti a un orfanotrofio” spiegai.

Craig si fece improvvisamente serio.

“Non hai i genitori?” domandò.

Scossi la testa. “Oh, immagino che anch’io dovrò averli, da qualche parte, ma non li ho mai conosciuti”.

Vedendo la tipica espressione compassionevole che, di solito, seguiva questa rivelazione comparire anche sul viso di Craig, mi affrettai a precisare “E, sinceramente, nemmeno ci tengo”. “No?” chiese lui, sorpreso.

“No. Se mi hanno abbandonata, significa che non gliene fregava niente di me, quindi perché a me dovrebbe importare di loro?”.

“Più che giusto” rifletté lui. “Comunque, dev’essere stato difficile, per te, crescere in un orfanotrofio”.

Alzai le spalle. “Dicono che tutto quello che non ti distrugge serve a renderti più forte, no? Immagino che anche a me sia servito” sentenziai.

Craig restò in silenzio per un po’. Evidentemente non sapeva cosa dire. Mi sentii in dovere di rassicurarlo.

“Guarda che non devi sentirti in imbarazzo”

“Io…non…non mi sento in imbarazzo…” mentì, ma io scossi la testa.

“Tranquillo, succede sempre. Sono abituata”.

Il ragazzo sorrise. “Scusami. Sono un disastro”.

“Ma figurati! Capisco che possa essere un problema, per alcuni,” osservai “ma non devi preoccuparti, come vedi io sto benone!”

“Ma sì, certo” farfugliò lui, cercando di riprendersi. “Te la cavi alla grande, si vede”.

“Infatti. E, soprattutto, non ho bisogno della compassione di nessuno” precisai. “Certa gente non lo capisce”.

L’arrivo dei nostri piatti ci tolse dall’imbarazzo di quella conversazione.

“Allora, ti piace l’hamburger?” chiese Craig, poco dopo.

Annuii. “È ottimo! Non sono abituata a queste ghiottonerie”.

Il ragazzo mi guardò, confuso, così spiegai.

“Vivo da sola e sono assolutamente incapace di cucinare. Ogni volta che ci provo finisco per combinare danni. Spesso ceno a casa di amici, ma non posso sempre approfittare della loro ospitalità, così sono un’assidua frequentatrice del ristorante indiano della mia via”.

“Oh, capisco” ridacchiò lui. “Anch’io sono una frana ai fornelli. Fortuna che vivo ancora con mia madre” confessò. Poi, sorridendo, aggiunse “Comunque, ora che lo so, il prossimo invito sarà per una cena” scherzò, facendomi arrossire.

“Sei gentile, ma non ti devi disturbare” ringraziai.

“Ah-ah” mi rimproverò lui, agitandomi un dito davanti al naso. “Questo ha tutta l’aria di essere un ringraziamento e mi sembrava di averti detto che non ne voglio sentire”.

“Hai ragione” mi scusai, ridendo e lui sorrise, compiaciuto.

“Così va meglio. E, una volta finito qui, andiamo a prendere il dolce nella pasticceria iraniana qui vicino. Fanno una torta alla fragola da urlo!”.

 

“Quanto tempo vi fermate a Londra?” domandai, facendo sparire senza difficoltà l’ultimo pezzo della mia fetta di torta alla fragola. Craig aveva ragione, era veramente da urlo.

“Oh, domani ripartiamo. Dobbiamo registrare un programma televisivo in Germania” mi informò.

“Capisco” dissi e, dal mio tono di voce, doveva essere chiaro che mi dispiaceva, perché Craig aggiunse “Ma, se ti va, possiamo vederci la prossima volta che passo di qui”.

Sorrisi e annuii. “Okay”.

“Forse faresti meglio a darmi il tuo numero di cellulare, però, così la smetto di disturbarti a casa”. “Ehm…” farfugliai, mordicchiandomi il labbro inferiore “…temo di non potertelo dare”.

“Perché?” chiese lui, stupito. “Non ti fidi?”.

Scossi la testa. “No! Per il semplice fatto che non ce l’ho”.

“Non hai un cellulare?” esclamò, visibilmente shockato.

“No” confessai.

“Beh, questa è bella! Devi rientrare in quell’1% di persone nel mondo che riescono a farne a meno” commentò.

Poi, allungando una mano per prendere in prestito la penna appoggiata accanto alla cassa, scarabocchiò un numero su un tovagliolino.

“In ogni caso, questo è il mio. Puoi chiamarmi, se ti fa piacere”.

Annuii, prendendo il foglietto e ritirandolo nel portafoglio. Non l’avrei mai fatto, ne ero praticamente certa, ma apprezzavo il gesto.

“Tu puoi continuare a chiamarmi a casa senza farti troppo problemi. Non mi disturbi” sussurrai, tenendo lo sguardo basso per evitare di incrociare il suo e arrossire.

Mi sentivo una liceale al primo appuntamento anche se sapevo che era stupido. Quello non era un vero appuntamento, eravamo soltanto andati a mangiare qualcosa insieme.

Passeggiammo per un po’ lungo il Tamigi e, verso le tre di pomeriggio, tornammo finalmente al Conrad.

“Vuoi che ti chiami un taxi per tornare a casa?” propose Craig, prima di salutarci.

Scossi la testa. “No, farò due passi, tranquillo”.

“Bene, allora. Grazie per la compagnia, mi sono divertito” disse.

“Grazie a…” mi bloccai. “Già, non te lo dovevo dire” mi corressi, facendolo ridere.

“Va beh, per questa volta facciamo che ti perdono” scherzò lui.

Ci salutammo con un bacio sulla guancia, dandoci appuntamento ‘a presto’ anche se non sapevamo bene quando sarebbe stato questo ‘presto’ e io me ne tornai a casa fischiettando felice. Avevo passato una bella giornata con Craig, ancora una volta avevo constatato quanto fosse piacevole palare con lui. Potevo sbagliarmi, ma qualcosa mi diceva che avevo trovato un nuovo amico.

 

Ero appena tornata a casa e stavo per entrare nel mio appartamento, quando la porta di fronte si aprì e ne spuntò il viso sorridente di Joey.

“Ciao, piccola!” esclamò.

“Ehi” risposi, voltandomi.

“Sono andato da te a farmi una doccia. Dalla mia non esce acqua calda” mi spiegò.

Annuii. “Hai fatto benissimo”.

“Ah, e ho anche dato da mangiare a Romeo. Miagolava come un disperato e mi ha fatto pena”. Alzai gli occhi al cielo.

“Ho fatto male?” chiese lui.

Scossi la testa. “No, hai fatto bene. È solo che la carognetta aveva già mangiato, ma tu non potevi saperlo, quindi ha usato tutte le sue armi di persuasione per impietosirti” spiegai.

Il mio amico scoppiò a ridere di gusto.

“Il tuo gatto è proprio un bel tipo, sai?” commentò e poi, prima di sparire di nuovo in casa, aggiunse “A proposito. È giovedì, sei a cena con me e Philip, ricordatelo”.

Annuii. “Non mancherò”.

Entrando, fui accolta da una serie di miagolii e Romeo mi si catapultò sui piedi, iniziando a strusciarsi.

“Sì, sì. Fai pure lo smorfioso. Tanto lo so che è solo per non farti sgridare” commentai. “Ti senti in colpa, eh?” continuai, chinandomi a grattargli l’attaccatura delle orecchie, come sapevo che gli piaceva. “Beh, ti va bene che oggi mi sento buona. Ho avuto una bella giornata, sai?” e poi, togliendomi il giubbotto e le scarpe e andando in cucina per prepararmi una tazza di the “Quel Craig è proprio simpatico”. Ed era vero. Non potevo ancora dire di conoscerlo ma, per quel poco che sapevo, Craig mi piaceva, mi piaceva parecchio.

 

“Ciao, dolcezza!” esclamò Philip, facendomi entrare e baciandomi una guancia.

“Ciao Phil. Ho portato del vino” dissi, mettendogli in mano la bottiglia. “Joey?”.

“In cucina” rispose. “Ha detto che stasera vuole stupirci con le sue doti culinarie” mi spiegò. “Ma tu vieni, accomodati” propose, guidandomi in salotto, dove il tavolo era stato apparecchiato per tre. Ogni giovedì era la stessa storia. Era il giorno di chiusura del pub e Joey aveva la giornata libera così, la sera, si divertiva a organizzare queste cenette per me e Philip.

Stavo per sedermi al mio posto, quando Joey sbucò con la testa dalla cucina, una ciocca di capelli biondi sugli occhi.

“Ciao, piccola!” mi salutò, soffiando per spostarla. “Di’ a Philip di mettere un po’ di musica, intanto che aspettate” propose. “Ancora qualche minuto e potrete gustare le lasagne più buone di tutto l’East End!” annunciò.

Ero appena al mio secondo boccone di lasagne quando i miei due amici passarono elegantemente all’attacco.

“Allora,” iniziò Philip, rigirandosi in mano la forchetta “Joey mi ha detto che oggi hai avuto un appuntamento”.

Lanciai un’occhiataccia all’altro ragazzo che, sentendosi colpevole, abbassò lo sguardo e si finse interessatissimo alla sua porzione di lasagne.

“Joey!” lo rimproverai.

“Scusa, cucciola. Non ho saputo resistere” si giustificò.

Sospirai. Dicevano tanto delle donne, ma anche i miei amici non scherzavano in quanto a pettegolezzi.

“Comunque,” precisai, rivolta a Philip “non era un appuntamento. Siamo solo andati a pranzo”. “Beh, sei comunque uscita con un uomo, no?” insistette Philip.

Annuii “Sì”.

“Allora era un appuntamento!” sentenziò lui, in modo tale da non ammettere repliche.

Abbassai lo sguardo e me ne restai zitta, bevendo un sorso di vino. Nessuno parlava, l’unico rumore a rompere il silenzio era il gocciolio del rubinetto della cucina che perdeva ormai da una vita e che Joey non si era ancora deciso a riparare, oltre, ovviamente, alla voce di Frank Sinatra che cantava sulle note di My Way in sottofondo.

“Quindi?” sbottò improvvisamente Joey. “Non vorrai mica farti tirare fuori le parole di bocca”.

Io e Philip ci guardammo e, non riuscendo a resistere, scoppiammo entrambi a ridere.

“Scusalo, tesoro. La delicatezza non è mai stata il suo forte, temo” commentò Philip, guadagnandosi un’occhiataccia da Joey.

In ogni caso, delicata o no, quell’esclamazione aveva rotto il ghiaccio e mi aveva sbloccata così, dimenticandomi momentaneamente delle lasagne, iniziai a raccontare per filo e per segno ai miei amici la giornata trascorsa con Craig, ricevendone commenti positivi ed entusiasti che non fecero altro che aumentare la simpatia che provavo per il ragazzo.

Eccoci arrivati al secondo capitolo, dove viene rivelato il fulcro della storia. Da qui in avanti, vi aspetta molta fluffiness (ammesso che il termine esista, se no lo invento io), ma ci saranno anche dei colpi di scena mica da ridere. Stay tuned (e lasciatemi un commento).

  
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