Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Clementine84    22/09/2021    0 recensioni
Quando Becky viene mandata a intervistare Craig, musicista di una band sulla cresta dell'onda, sa esattamente che le dichiarazioni rilasciate verranno usate per spargere calunnie sul suo conto. Ha due possibilità: mettere a tacere la sua coscienza e consegnare la registrazione al suo capo, oppure rifiutarsi e perdere il lavoro. Non esita nemmeno un istante. E, forse, quella decisione presa d'impulso farà capire a Craig che, di persone così, se ne trova una su un milione e porterà a Becky molti più benefici che danni.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ero tornata al lavoro, dopo quei fantastici dieci giorni di vacanza, durante i quali la mia vita aveva preso una piega tanto inaspettata quanto graditissima. Ero ancora un po’ sottosopra e, a sentire Joey, me ne andavo in giro tutto il tempo con un sorrisino ebete sulla faccia, come se nulla al mondo potesse toccarmi. Sentivo Craig tutti i giorni. Erano conversazioni semplici, in cui ci raccontavamo le nostre rispettive giornate, e lui mi teneva aggiornata su tutti i dettagli del tour. Mi aveva promesso di procurarmi i biglietti per andarli a vedere con i miei amici, quando fossero tornati a Londra, ma quella data era ancora molto lontana, segnando praticamente la fine del tour. Mi mancava da morire, ma quelle nostre chiacchierate serali mi aiutavano moltissimo a non soffrire troppo di nostalgia.
“Rebecca, puoi venire un attimo nel mio ufficio?” chiese il mio capo, e io annuii, affrettandomi a vedere cosa volesse.
“Da quant’è che lavori qui, Becky?” mi chiese, mentre sorseggiavamo una tazza di the.
“Circa sei mesi” risposi.
“E in questi sei mesi hai fatto un ottimo lavoro” mi elogiò Jo.
Sorrisi. Nonostante Jo fosse un tipo estremamente alla mano, era sempre il mio capo e mi faceva piacere sentirmi fare complimenti da lui.
“Grazie” sussurrai, arrossendo.
“È soltanto la verità” sentenziò lui. “Senti, ti ho chiamata perché voglio farti una proposta. Non sei costretta ad accettare subito. Puoi pensarci. E, anche se decidessi di dirmi di no, non cambierebbe nulla. Credo solo che sia un’ottima chance, per te, e volevo parlartene prima di proporlo a chiunque altro” spiegò.
Annuii, seria. Morivo dalla curiosità di sapere in cosa consisteva questa proposta.
“La nostra inviata in Afghanistan andrà in maternità e ci serve qualcuno che la sostituisca. So che il tuo sogno è sempre stato quello di fare l’inviata di guerra, per questo lo sto proponendo a te. Ma so anche che sei una ragazza giovane e, se l’idea ti spaventa, posso capire”.
Restai a fissare il mio capo, come in trance. Afghanistan. Inviata di guerra. Era sempre stato il mio sogno e avrei dato qualsiasi cosa per ricevere una proposta del genere. Ma tutto questo era anni prima, quando non avevo nulla da perdere. Ora era diverso. C’era Craig. E, andando in Afghanistan, potevo perderlo. Presi un respiro profondo, prima di rispondere.
“Jo, ti ringrazio infinitamente per la proposta. È veramente il mio sogno più grande” iniziai. “Non so proprio cosa dire” ammisi.
Jo sorrise. “Ma certo, non è una decisione semplice, da prendere così su due piedi” osservò e, appoggiandomi una mano sulla spalla, propose “Facciamo così. Non darmi una risposta subito. Prenditi del tempo per pensarci. Mi farai sapere, okay?.
Annuii, incapace di aggiungere altro e, per tutto il resto della giornata, non feci altro che contare le ore che mi separavano dal rientro, quando avrei potuto finalmente parlarne con i miei amici.

 

“Becky, no. Non esiste” sbottò Lizzie.
“Non fare cazzate” esclamò Arthur, deciso.
Guardai le facce preoccupate dei miei amici e sospirai. Non sembravano condividere il mio stesso entusiasmo riguardo alla proposta di Jo.
“Becky, non puoi andare in Afghanistan” disse Bridget, in tono implorante. “Lì ammazzano la gente, lo sai, vero?”.
Sbuffai. Da quando ci eravamo ritrovati, al bancone del pub di Joey, non avevano fatto altro che ripetermi tutti le stesse cose. Joey richiamò la mia attenzione.
“Becky, so che questo è il tuo sogno e che la consideri la tua grande occasione, quindi non ti pregherò di rinunciare” annunciò, serio. “Voglio solo che ci pensi bene e che, qualunque sia la tua decisione, tu sia veramente sicura, okay?”
Annuii e mi alzai per andare ad aiutarlo a pulire i tavoli, lasciando cadere il discorso.
Mentre stavo sciacquando la spugna nel lavandino, Joey mi si avvicinò, con la scusa di dover sistemare un fusto di birra.
“Ne hai parlato con Craig?” chiese, fingendosi indifferente.
Scossi la testa. “No. Non gliel’ho detto”.
“Forse dovresti farlo” propose.
Sospirai. “Non credo che glielo dirò” annunciai. “Almeno finché non avrò deciso cosa vorrei fare. Solo allora sentirò cosa ne pensa”.
Joey annuì e, dopo un istante di silenzio, domandò “Tanto per sapere, se lui ti chiedesse di rinunciare, cosa faresti?”.
Alzai le spalle. “Presumo che lo farei” risposi.
Il mio amico sorrise e, facendomi l’occhiolino, commentò “È quello gusto, Becky. Ne sono sicuro”.

 

La mattina seguente, mi svegliai inaspettatamente di buonumore. La notte non mi aveva portato consiglio, come diceva il proverbio, e non avevo ancora deciso se accettare o no la proposta di Jo, ma avevo riposato bene ed ero rilassata. Quando arrivai in ufficio, Jo si presentò subito da me.

“Ciao, devo parlarti” disse, sedendosi al di là della mia scrivania.

“Dimmi” lo spronai, mettendomi in ascolto.

“Ascolta, so che ti avevo detto che avresti potuto pensarci e mi dispiace metterti fretta, ma Martha, l’inviata di cui ti ho parlato, ieri non è stata bene e ha dovuto tornare a casa prima del previsto” spiegò.

“Oddio, come sta?” chiesi subito.

“Sta bene, tranquilla,” rispose lui, sorridendo “ma deve entrare in maternità prima del previsto, quindi mi serve mandare là qualcun altro subito”.

Mi fissò per un istante, serio.

“Cosa mi dici?”

Sospirai. Avrei voluto rifletterci ancora, ma a quanto pareva, invece, avrei dovuto decidere di pancia. “Okay, ci sto” dissi, decisa.

Jo sorrise. “Brava ragazza”.

Sorrisi anch’io “Quando devo partire?”

“Tra due giorni. Ce la fai?”

Annuii.

“Bene. Ora vieni, ti presento Peter, il fotografo che verrà con te. È rientrato ieri sera con Martha e non vede l’ora di conoscerti”.

 

Entrai in casa e mi richiusi la porta alle spalle. Era stata una giornata eterna. Tornata dal lavoro, avevo riunito i miei amici per informarli della decisione. Nessuno di loro si era dimostrato entusiasta ma, nel complesso, tutti mi avevano offerto il loro supporto, chi pratico, chi psicologico. Anche se non era giovedì, mi ero fermata a cena da Joey, in modo da accordarci su alcune questioni pratiche. Sarei rimasta via tre mesi e mezzo e il mio amico si sarebbe preso cura di Romeo, in mia assenza.

“Joey, mi hanno chiesto un contatto per le emergenze e ho lasciato il tuo” lo informai, prima di andarmene.

“Che genere di emergenze?” chiese lui, preoccupato.

Gli sorrisi. “Tranquillo, è un pro forma. Non mi succederà niente” lo rassicurai.

“Mi raccomando, fai attenzione” disse lui, abbracciandomi.

“Prometto, non ti preoccupare” giurai.

“Becky...l’hai detto a Craig?” domandò, prima di chiudere la porta del suo appartamento.

Scossi la testa. “Non ancora. Lo faccio ora”.

Joey annuì.

“Speri che mi chieda di non andare, vero?” indagai.

Il mio amico sorrise. “Mi conosci troppo bene” confessò. “Ma, se ho inquadrato il tipo, so che non lo farà. Anche se vorrebbe”.

Gli rivolsi uno sguardo stupito. “Perché?”

“Perché ti ama e vuole la tua felicità. Esattamente come me” sentenziò.

Non riuscii a resistere e lo abbracciai, nascondendo il viso nella sua felpa. “Mi mancherai”.

“Anche tu, quindi torna presto. E tutta intera”.

Mi buttai sul divano e presi il cellulare. Temevo quella chiamata, ma non potevo evitarla. Speravo solo che non ci restasse troppo male. Mi rispose subito.

“Ciao!” esclamò, felice.

“Ciao” risposi. “Com’è andato il concerto?”

“Molto bene, le fan tedesche sono sempre molto affettuose”.

Sorrisi. “Sono felice che vada tutto alla grande”.

“Tu come stai?” chiese lui.

“Io...bene. Sto bene” farfugliai e poi, chiudendo gli occhi “Devo dirti una cosa”.

“Dimmi” mi spronò, così gli spiegai della proposta di Jo e della mia partenza imminente.

“Così andrai in Afghanistan” disse, una volta ascoltato il mio resoconto.

“Così pare” risposi.

“Quanto starai via?”

“Tre mesi e mezzo, circa. Poi manderanno un’altra inviata a darmi il cambio”.

Lo sentii sospirare.

“Di’ qualcosa, ti prego” lo supplicai.

“Non so cosa dire” confessò. “So che è quello che hai sempre sognato, ma sono anche preoccupato”.

“Lo so, ma non devi” lo rassicurai. “Starò attenta, lo prometto”.

“Ti farai sentire?” mi domandò.

“Tutte le volte che potrò” promisi.

“Mi mancherai” ammise.

“Tornerò prima dell’ultima data del vostro tour e verrò a vedervi a Londra. Mi hai promesso i biglietti, non te lo dimenticare” scherzai.

Craig rise. “Come potrei dimenticarlo? Sei sempre nei miei pensieri”.

Il cuore mi schizzò in gola. “Anche tu”.

“Allora, buona fortuna mia bella regina di Marte. Torna presto da me” sussurrò.

“Lo farò, Captain Crash. Te lo prometto”.

 

I giorni seguenti furono piuttosto frenetici, tra preparativi e ultime faccende da sistemare. Joey mi accompagnò in aeroporto e mi tenne stretta tra le sue braccia per un tempo interminabile.

“So che non sei d’accordo ma, ti prego, non odiarmi” lo supplicai, prima di salutarlo.

Lui sorrise e mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi.
“Non potrei mai odiarti” mi rassicurò. “Ma tu non fare la stupida, mi raccomando”.

Annuii e gli sorrisi, tentando di ricacciare indietro le lacrime. Era il mio sogno, ma mi sarebbe mancata casa mia. Mi sarebbero mancati i miei amici.

 

Salii sul minivan che ci avrebbe portati all’arena per il concerto e, appena preso posto, incollai gli occhi al cellulare. Sean si sedette accanto a me.

Stai di nuovo controllando le notizie?” domandò, alzando un sopracciglio.

Annuii distrattamente.

Le hai guardate un’ora fa, non può essere successo niente” commentò.

Beh, meglio esserne certo” ribattei.

Il mio amico sospirò. “Tu non stai bene”.

In effetti no” ammisi, voltandomi a guardarlo. “Mi manca da morire e vivo con l’ansia che le succeda qualcosa”.

Era passato un mese dalla partenza di Becky. Ci sentivamo ogni volta che riuscivamo ma, tra i miei impegni e la difficoltà nelle comunicazioni con l’Afghanistan, non era sempre così semplice. Mi mancavano le nostre chiacchierate serali e, più di tutto, odiavo il fatto di non averle detto che l’amavo. Ero certo che sapesse quanto tenevo a lei, ero stato piuttosto chiaro a riguardo, ma non avevo avuto modo di dirle quelle tre semplici parole, prima che partisse e, ovviamente, non era il caso di farlo adesso, durante le nostre brevi e accidentate conversazioni telefoniche. Avrei dovuto aspettare di vederla di persona. Però avevo una spiacevole sensazione che mi accompagnava, come un fastidio per aver lasciato qualcosa in sospeso.

Posso chiederti una cosa?” mi domandò Sean, serio.

Annuii.

Perché non le hai chiesto di restare?”

Sospirai. “Non voglio mettermi in mezzo tra lei e i suoi sogni. La amo, voglio che sia felice”.

Così però stai uscendo di testa tu” osservò il mio amico.

Sorrisi. “Ce la posso fare. Ancora due mesi e mezzo e sarà di ritorno”.

 

Rientrai in albergo massaggiandomi il collo. Peter mi lanciò un’occhiata divertita.

“Stanca?” chiese.

Annuii. “Un po’. Ho dormito male, stanotte, e diciamo che tutte quelle ore appostati davanti al palazzo presidenziale non hanno aiutato”.

Peter sorrise. “Sai cosa ti ci vuole?”

“Una doccia calda e una bella dormita?” azzardai.

“Anche,” convenne lui “ma poi ti porto a cena in un posto carino e ci fermiamo a bere qualcosa in quel locale di cui ti parlavo ieri” propose.

“Quello del tuo amico?” domandai.

Il ragazzo annuì. “Vedrai che ti aiuterà a rilassarti”.

“Dici?” replicai, scettica.

“Ne sono sicuro. È tutta una questione di testa, succedeva anche a me le prime volte. Devi staccare e non pensare a questo schifo che abbiamo intorno”.

Gli sorrisi e annuii. Mi fidavo di lui. Da quando eravamo a Kabul, lavoravamo fianco a fianco ogni ora di ogni giorno ed eravamo diventati amici. Peter era un veterano dell’Afghanistan, quella era la sua decima missione come inviato fotografo, quindi era un’autorità in quasi tutto ciò che riguardava Kabul. Oltre a essere un fotografo eccezionale, lo trovavo un ragazzo fantastico ed ero felice di poter contare su di lui in quella mia prima esperienza.

Ci salutammo e ci accordammo per vederci nella hall un’ora dopo per la nostra serata.

Mi richiusi la porta della stanza alle spalle e mi buttai sul letto. Restai un istante a fissare il soffitto, poi guardai l’orologio che avevo al polso. Le sei. Feci un rapido calcolo. A casa era l’una e mezza. Craig in quel momento si trovava in Irlanda per le date di Dublino. Sicuramente non aveva ancora iniziato il soundcheck. Potevo fare un tentativo e chiamarlo. Presi il cellulare e feci partire la chiamata. Dopo un paio di squilli, non sentii più nulla. Sospirai. Le linee erano di nuovo fuori uso. Succedeva spesso, ultimamente. Quella giornata non accennava a migliorare. Strinsi la collanina che avevo al collo e chiusi gli occhi, cercando di richiamare alla mente il viso di Craig. Immediatamente ricordai i suoi occhi blu e quel sorriso timido ma sincero. Mi mancava da morire e ancora di più mi mancava non potergli dire quanto fossi innamorata di lui. Non rimpiangevo la decisione di partire, quell’esperienza era quanto di più entusiasmante avessi mai vissuto in vita mia, ma contavo i giorni che mi separavano dal rientro a casa, che mi separavano da poter riabbracciare Craig. Era proprio vero che non ti accorgi di quello che hai finché non lo perdi. Prima di partire, cercavo qualcosa che rendesse la mia vita speciale e credevo che lo sarebbe diventata coronando il mio sogno di fare l’inviata di guerra. Adesso, invece, per quanto mi piacesse quello che stavo facendo, mi ero resa conto che la mia vita era già speciale prima e lo era diventata ancora di più dopo aver conosciuto Craig. Scossi la testa e tornai alla realtà. Tentai ancora una volta di chiamare Craig ma non ebbi fortuna, quindi mi rassegnai e andai a farmi la doccia e a prepararmi alla serata, sperando che Peter avesse ragione e servisse a distrarmi. Prima di uscire dalla mia stanza, presi il cellulare, ma poi ci ripensai e lo abbandonai sul letto. Tanto quello stupido aggeggio non funzionava, tanto valeva tagliare fuori qualsiasi distrazione e concentrarmi sulla serata. Al resto avrei pensato il giorno seguente.

 

BAM. BAM. BAM. Cosa diavolo era quel rumore fastidioso? Cercai di fare mente locale. Ero sdraiato su un prato verde, in riva a un lago. Casa mia. L’aria era fresca e il cielo limpido, solcato soltanto da qualche nuvoletta passeggera. Presi un respiro profondo e il profumo dei fiori e dell’erba fresca mi riempì le narici. Ero sereno.

BAM. BAM. BAM. Ancora quel rumore. Non c’entrava niente con il prato su cui ero sdraiato e nemmeno con il lago davanti a me. Da dove poteva provenire?

BAM. BAM. BAM. Il lago iniziò a sbiadire davanti ai miei occhi, il profumo dell’erba divenne via via più lieve, fino a sparire completamente, il cielo cambiò colore e da azzurro diventò completamente bianco. Riluttante, aprii gli occhi e mi ritrovai nella mia camera d’albergo a Dublino. Niente prato fiorito, niente lago, niente cielo azzurro. Stavo sognando. La sera precedente, dopo il concerto, ero tornato in albergo esausto. Da un mese circa dormivo male, probabilmente preoccupato per Becky e frustrato per non poterla sentire quanto avrei voluto. Non appena toccato il letto ero crollato, sprofondando in un sonno senza sogni. Almeno fino a quando non mi ero ritrovato su quel bel prato. Ma poi quel rumore fastidioso mi aveva svegliato.

BAM. BAM. BAM. Non accennava a smettere. Ormai completamente sveglio, mi accorsi che proveniva dalla porta. Qualcuno stava bussando con insistenza. Trascinandomi a fatica fuori dal letto, andai ad aprire, senza neanche preoccuparmi di chiedere chi fosse. Non ero abbastanza lucido per immaginare fan che erano riuscite a intrufolarsi in hotel e a scoprire quale fosse la mia stanza, per cui neanche pensai a mettermi qualcosa addosso e aprii la porta in boxer. Fortunatamente, mi ritrovai davanti Sean.

Cosa diavolo stavi facendo?” chiese, entrando.

Dormivo” risposi, richiudendo meccanicamente la porta.

Quindi non sai nulla” osservò lui.

Non so cosa?” domandai, passandomi una mano sugli occhi per riacquistare lucidità.

Sean mi fissò, serio. “Siediti” mi disse.

Obbedii, come un automa, e mi sedetti sul bordo del letto. Sean rintracciò il telecomando della TV, che avevo abbandonato su una poltrincina, e accese l’apparecchio, sintonizzandolo su un canale che trasmetteva notizie 24 ore su 24. Immediatamente, sullo schermo comparvero immagini di fuoco, cenere e macerie.

Cosa…?” farfugliai.

Leggi sotto” mi spronò il mio amico.

Abbassai lo sguardo sul banner rosso che passava a fondo schermo: Kabul. Attentato di Al Quaeda all’Hotel Kabul Star, dove alloggiavano gli inviati delle principali emittenti occidentali. La struttura è stata rasa al suolo. Ancora da accertare il numero delle vittime e dei dispersi.

Il mio cuore smise di battere e mi si annebbiò la vista. Sean mi fissava, preoccupato.

Cristo. Becky” riuscii a dire, senza fiato.

Mi dispiace” sussurrò il mio amico, ma io non lo stavo più ascoltando. Mi ero precipitato al comodino e stavo trafficando con il cellulare, cercando il numero di Becky. Non poteva essere vero. Doveva essere uno sbaglio. Mi aveva promesso che sarebbe stata attenta e che sarebbe tornata presto. Feci partire la chiamata ma attaccò subito la segreteria telefonica. Scoppiai a piangere come un bambino. Sean mi si avvicinò e mi abbracciò.

Calmati” mi disse, battendomi delle pacche sulla schiena.

Non può essere vero” singhiozzai. “Mi aveva promesso che sarebbe stata attenta”.

Non è stata colpa sua” cercò di farmi ragionare lui.

Non le ho detto che la amo” farfugliai, in preda alla disperazione.

Ehi, guardami” disse Sean, allontanandomi dal suo abbraccio e costringendomi a guardarlo negli occhi. “Smettila di disperarti. Non sappiamo ancora se era lì”.

L’hotel è quello” obiettai, incapace di ragionare.

D’accordo, ma ci sono dei dispersi, hai sentito? Non è ancora detta l’ultima parola”.

Non so cosa fare” farfugliai, lasciandomi cadere sul letto.

Quel suo amico, a Londra…” propose Sean.

Joey?” chiesi.

Sean annuì. “Chiamalo”.

Scossi la testa. “Non ho il suo numero”.

Allora vai a Londra a parlargli” insistette.

Ma...io...il tour…” balbettai.

Chi se ne frega del tour, Craig!” sbottò il mio amico. “Occupati di Becky. Al resto penso io”.

Annuii, deciso. “Okay”.

Prepara la valigia, io ti prenoto il primo volo per Londra e ti chiamo un taxi” sentenziò, prima di uscire dalla mia stanza.

 

Arrivai sotto casa di Becky alle sei e venti. Scesi dal taxi e mi precipitai al pub di Joey, certo di trovarlo lì. Infatti, era seduto al bancone, circondato da tutti gli altri amici di Becky. Philip gli teneva un braccio intorno alle spalle. Mi avvicinai.

Joey” dissi.

Il ragazzo alzò lo sguardo su di me e vidi che aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto.

Craig”.

Dimmi che sta bene, ti prego” lo supplicai.

Joey scosse la testa. “Non lo so” rispose, iniziando a singhiozzare. Philip lo abbracciò.

Mi si avvicinò un ragazzo, che riconobbi essere Arthur, l’attore.

Non abbiamo notizie di Becky da due giorni” spiegò. “Jo, il suo capo, ha chiamato Joey per avvisarlo dell’attentato, ma non ha saputo dirci altro. Il cellulare di Becky è irraggiungibile e anche quello di Peter, il fotografo che è con lei, suona a vuoto. Stanno cercando di rintracciarli tramite l’ambasciata, ma laggiù è un gran casino e si sta rivelando più difficile del previsto”.

Annuii, con la mente annebbiata. “Non può essere morta” farfugliai.

Bridget e Lizzie scoppiarono a piangere e Arthur si affrettò ad abbracciare la sua ragazza.

Vogliamo credere che stia bene, ma la verità è che non lo sappiamo” confessò, abbassando lo sguardo.

In quel momento, Joey si alzò dallo sgabello su cui era seduto e mi si avvicinò. Ci guardammo negli occhi per un istante, poi mi abbracciò.

Grazie per essere qui” mi disse, trattenendo a stento le lacrime. “Sapevo che tieni veramente a lei”.

Annuii. “Io la amo” confessai, sforzandomi di non scoppiare a piangere “e non gliel’ho nemmeno mai detto”.

Lei lo sa” mi rassicurò lui, dandomi una pacca sulla spalla.

Cosa...cosa facciamo?” domandai, incapace di rassegnarmi.

Joey alzò le spalle. “C’è ben poco che possiamo fare, temo. Aspettiamo di avere notizie e preghiamo che stia bene”.

Scossi la testa. “Non ce la faccio”.

Craig, è difficile per tutti, ma non c’è davvero nient’altro da fare” tentò di farmi ragionare Lizzie, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.

Una cosa c’è” dissi, guardandoli negli occhi uno a uno.

Tutti mi restituirono uno sguardo perplesso. Poi Philip chiese “Cosa vuoi fare?”

Vado a cercarla” sentenziai.

A Kabul?” chiese William, strabuzzando gli occhi.

Annuii, serio.

È una pazzia” commentò Philip, scioccato.

Può darsi,” convenni “ma se non faccio nulla impazzisco ugualmente”.

Restarono tutti a guardarmi in silenzio per un po’, poi Arthur si riscosse e, sorridendomi, disse “Ti cerco un volo”.

Io ti accompagno in aeroporto” propose William.

Joey mi mise le mani sulle spalle e, sorridendo, mi disse “Vai e riporta a casa la nostra Becky”.

 

Arrivato a Kabul, presi un taxi e mi feci portare al Kabul Star Hotel o, quanto meno, a ciò che ne restava. Non nutrivo alcuna speranza di trovare risposte lì, ma non sapevo dove altro andare. In un inglese stentato, il tassista tentò di spiegarmi che l’albergo era saltato in aria, ma lo convinsi a portarmici ugualmente. Volevo vedere con i miei occhi la situazione.

Prima di partire, ero riuscito a parlare con il capo di Becky. Non aveva novità da darmi ma, dai primi bollettini ufficiali rilasciati dalle varie ambasciate, i nomi di Becky e del suo collega fotografo non comparivano tra le vittime. Stavano ancora estraendo corpi tra le macerie, quindi non voleva dire nulla, ma la notizia aveva risvegliato in me un briciolo di speranza.

Scesi dal taxi e chiesi all’autista di aspettare, mentre mi guardavo intorno, sbigottito. Ovunque c’erano rovine e calcinacci e tutta la zona era presieduta dall’esercito, che lavorava incessantemente per estrarre gli ultimi corpi, sebbene non si nutrissero più speranze di trovare superstiti. Fui assalito da un senso di angoscia terribile e mi venne da piangere. Cosa stavo facendo lì? Cosa pensavo di trovare? La situazione era talmente tragica che, se Becky si trovava davvero in quel maledetto albergo, al momento dell’esplosione, non c’era la benché minima possibilità che fosse sopravvissuta. Dovevo guardare in faccia alla realtà, era inutile continuare a illudersi. Le lacrime mi annebbiarono la vista e, prima di tornare al taxi, mi voltai ancora una volta verso i cumuli di macerie che una volta erano state il Kabul Star Hotel. Fu allora che li vidi. Due figure che si avvicinavano, uscendo dalla zona presidiata dai militari e salutando il soldato che gli aveva aperto il passaggio. Un uomo di media statura, ben piantato, con la barba e un cappellino da baseball blu, e una donna più bassa, con i capelli castani legati in una treccia, una giacca verde militare e un paio di jeans. Mi asciugai velocemente le lacrime per poter vedere meglio. Mano a mano che si avvicinavano, riuscivo a mettere a fuoco altri dettagli. L’uomo aveva al collo una macchina fotografica mentre la donna portava uno zainetto in spalla e stringeva una shopper di tela. Strizzai gli occhi, incredulo. Non poteva essere. In quel momento, anche loro si accorsero della mia presenza e la donna si fermò di colpo, fissandomi. Il mio cuore mancò un battito e mi ritrovai a sorridere, come un idiota.

Craig!” esclamò lei, strabuzzando gli occhi.

Becky!” dissi, andandole incontro.

Un istante dopo, la stavo stringendo tra le mie braccia, singhiozzando senza vergogna.

 

Io e Peter eravamo usciti a comprare qualcosa da mangiare quando, seguendo un impulso, avevamo deciso di tornare all’hotel per vedere com’era la situazione. La notte dell’attentato, eravamo andati a cena e poi ci eravamo fermati a bere qualcosa dall’amico di Peter, come pianificato. Ahmed era un brav’uomo e ci eravamo trattenuti a chiacchierare con lui e sua moglie Asmaa molto più a lungo di quanto avremmo dovuto. Erano ormai quasi le tre di notte quando ci eravamo ripresentati al nostro albergo, per scoprire che l’albergo non c’era più. I terroristi l’avevano fatto saltare in aria e, con lui, tutti i poveri ospiti al suo interno. Sotto shock per lo scampato pericolo e senza riuscire ancora a renderci veramente conto della fortuna che avevamo avuto, eravamo stati accompagnati in un altro albergo da dei soldati, che ci avevano spiegato cos’era successo e ci avevano assicurato che, non appena la situazione si fosse assestata, avrebbero preso contatto con l’ambasciata inglese, chiedendo di avvisare le nostre famiglie a casa che stavamo bene. Non avevamo più nulla a parte i vestiti che indossavamo, la macchina fotografica, che Peter portava sempre con sé, e le poche cose che c’erano nel mio zainetto tra cui, fortunatamente, il portafogli con qualche contante. Entrambi avevamo lasciato i cellulari in camera, quindi erano andati distrutti insieme all’albergo. Inoltre, le linee telefoniche, che già prima del disastro lasciavano alquanto a desiderare, erano andate completamente in tilt in seguito all’esplosione, quindi non avevamo modo di contattare casa. Sulle prime ci eravamo agitati, immaginando l’angoscia dei nostri amici e famigliari, ma poi ci eravamo rassegnati ad attendere, anche perché non c’era veramente nient’altro che potessimo fare. Allontanandoci dalla zona presidiata, quel pomeriggio, avevamo realizzato veramente, forse per la prima volta, quanto successo. Se non fosse stato per una pura coincidenza, anche noi avremmo potuto trovarci sotto quelle macerie. Avremmo potuto essere morti. Ci eravamo allontanati in silenzio, scioccati da quell’improvvisa presa di coscienza. Quando mi ritrovai davanti Craig, a cui non avevo fatto altro che pensare dal momento dell’incidente, quindi, sulle prime pensai che si trattasse di un’allucinazione dovuta allo shock. Poi lo sentii pronunciare il mio nome e lo vidi corrermi incontro e capii che, per quanto sembrasse troppo bello per essere vero, non era un sogno o una proiezione della mia mente sconvolta, ma lui era davvero lì. Era lì per me. Avevo un’altra possibilità di stringerlo tra le mie braccia e dirgli quanto era importante per me. Senza perdere altro tempo, lasciai cadere la borsa e gli corsi incontro, buttandomi nel suo abbraccio.

 

Mentre la stringevo tra le mie braccia, continuavo a ripetermi che non stavo sognando, che era tutto vero, anche se incredibile. La donna che amavo era lì, con me, e non l’avrei più lasciata. Mai più.

Mio Dio, Becky, sei viva” farfugliai, tra le lacrime.

Sì, sto bene. Non preoccuparti” mi rassicurò lei.

Credevo di averti persa per sempre” confessai, accarezzandole i capelli.

Lei mi prese il viso tra le mani e mi asciugò le lacrime con i pollici.

Non mi hai persa” disse, sorridendo “Sono qui”.

Sorrisi anch’io e le accarezzai una guancia.

Cosa ci fai qui?” mi chiese.

Io...quando ho sentito dell’attentato, ho creduto di morire. Non potevo aspettare di ricevere notizie, dovevo sapere che stavi bene” tentai di spiegare.

È stata una follia” osservò lei.

Alzai le spalle.

Forse,” ammisi “ma più ti guardo, più mi convinco di aver preso la decisione giusta, invece”.

La guardai negli occhi, con il cuore che mi batteva a mille. Normalmente, sarei stato terribilmente in imbarazzo, considerato quello che stavo per fare, ma la possibilità di averla persa per sempre, relegava tutto il resto in secondo piano.
Le presi il viso tra le mani e, senza smettere di guardarla degli occhi, dissi “Ti amo, Becky. Ti amo come non ho mai amato nessun’altra e non posso più vivere senza di te. Scusa per non avertelo detto prima”.

Pur scioccata dalla mia dichiarazione, Becky sorrise.

Ti amo anch’io, Craig. Non avrei mai creduto di innamorarmi di una persona famosa, lontana anni luce dal mio mondo ma, dopo averti conosciuto, la verità è che ho capito che, in realtà, sei soltanto un uomo normale, che fa un lavoro particolare”.

Mi venne da ridere.
“Io faccio un lavoro particolare?” domandai, scettico “Non sono io che ho rischiato di saltare in aria, mi pare”.

Anche Becky rise “In effetti hai ragione. Forse quella con il lavoro più strano sono io”.

Restammo un istante a guardarci, poi mi avvicinai alle sue labbra e la baciai, cercando di trasmetterle con quel bacio tutto l’amore che provavo per lei.

Fummo distratti da un rumore meccanico, come una serie di click. Ci voltammo entrambi, stupiti, e trovammo Peter, il fotografo amico di Becky, che ci scattava una raffica di fotografie.

Accortosi che lo stavamo fissando, abbassò la macchina fotografica e ci sorrise, imbarazzato.

Ehm…io...scusate. Non volevo rovinare il momento, ma la deformazione professionale ha preso il sopravvento. Era uno scatto perfetto” si giustificò.

Io e Becky scoppiammo a ridere. Poi ci guardammo di nuovo negli occhi e lei appoggiò la testa sul mio torace. Sospirai e la strinsi a me, baciandole i capelli. Non l’avrei mai più lasciata. Mai più.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Clementine84