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Autore: JSGilmore    29/09/2021    1 recensioni
Melinda e Daniel sono due fratelli, nati e cresciuti a Mason Street, una via degradata di Brixton. A causa del lavoro a tempo pieno dei genitori hanno dovuto guardarsi le spalle a vicenda da quando sono piccoli e hanno stretto, da subito, un legame molto profondo. Tutto è sempre filato a meraviglia, fino al quattordicesimo compleanno di Melinda, in cui la ragazza scopre di provare un attaccamento morboso per suo fratello maggiore. Un attaccamento che presto si trasformerà in una dolcissima ossessione. Lei non avrebbe dovuto innamorarsi di lui, e lui non avrebbe dovuto amarla a sua volta, ma nonostante i tentativi di allontanarsi alla fine non potranno fare a meno che cedere... E le conseguenze del loro amore non tarderanno ad arrivare....
La storia racconta della vita di due persone, dall'adolescenza fino all'età adulta e di come un amore proibito è in grado di segnare indelebilmente intere esistenze. La storia racconta di un incesto tra fratello e sorella, quindi se siete sensibili al tema vi sconsiglio caldamente la lettura.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Chapter 1 : Somewhere Only We Know



Mason Street era una via orrenda: i cani urinavano sui muri di calce e mattoni e l’alone delle loro putride scorie rimaneva lì per settimane. I secchi della spazzatura non venivano mai svuotati e i cartoni del latte gocciolavano sull’asfalto. Nemmeno i gatti randagi più spelacchiati avevano il coraggio di ficcarvi i baffi per dare la caccia ai topi di fogna.

Benvenuti a Brixton.

È proprio qui che vivevo io, insieme alla mia famiglia. La casa mi piaceva, era l’unico villino con un po’ di verde. Le staccionate andavano riverniciate e il cancello di ferro era arrugginito, però la mia camera era bellissima: c’era un letto a castello rosa con le tendine e la scaletta.
Non lo potevo condividere con nessuno, comunque, perché l’unico fratello che avevo era più grande di me di sette anni.

Si chiamava Daniel e, oltre a essere molto grosso per entrare in quel lettino, era anche un grosso mascalzone.

Quando avevo all’incirca sei anni, riceveva cospicue mance dai nostri genitori per assicurarsi che non rimanessi fulminata con i cavi elettrici; o soffocata con il filo del phon; o dissanguata nella vasca; o ustionata in cucina. Potrei continuare.

I suoi coetanei, quelli che non spacciavano cocaina, erano in sala giochi o in qualche pub infossato agli angoli delle strade a giocare a biliardo o ad approcciare belle ragazze; ero abbastanza grande da giustificare in questo modo la noia mortale che lo assaliva mentre giocava alle barbie insieme alla sua caccolosa sorella minore, Melinda. Cioè, me.

Ben presto si rese conto del fatto che condividevamo molte più cose di quelle che si sarebbe aspettato; ai miei undici anni andammo insieme a vedere una partita di calcio seguita da un’avida abbuffata di popcorn; quel Natale mi regalò la divisa del Chelsea e mi insegnò a maneggiare un joystick.

Aveva capito che fossi una tipa sveglia e intelligente, in realtà. Infatti, la nuova valuta del suo babysitteraggio si trasformò nel mio assoluto silenzio circa le sue compagnie e l’erba che girava per casa. Ogni tanto veniva a trovarlo un suo amico, un certo Lennox, che aveva sempre un’aria trasandata e uno spinello nella tasca anteriore dei jeans.

I nostri genitori erano entrambi ufficiali giudiziari e questo riusciva a spiegare diverse cose: il quartiere degradato in cui abitavamo e il fatto che erano sempre fuori casa. Perciò, mio fratello era libero di occupare il divano tutti i pomeriggi con i suoi amici e fumare quanti spinelli voleva se io non avessi fatto la spia.

Ero arrivata alla conclusione che sarebbe stato più gratificante per i nostri genitori sapere che i loro bambini andavano d’amore e d’accordo, anche se questo avrebbe comportato l’omissione di qualche suo errore di gioventù; comunque, non smettevo di tenerlo d’occhio sulla storia del fumo, sperando che non fosse un soggetto incline alla dipendenza. Quando avevo guardato il film Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino ne ero rimasta talmente sconvolta che lo controllavo a vista.

Per ricompensarmi del mio silenzio, in un pomeriggio grigio, Daniel mi regalò un gattino dal muso schiacciato e dalle unghie belle affilate; incredula, gli saltai al collo, provando per lui qualcosa di nuovo: gli volevo bene davvero, al mio fratellone. Il gatto lo chiamai Bruce.

Da quel momento, le cose iniziarono a ingranare tra di noi: mi accompagnava sempre a scuola e mi veniva sempre anche a riprendere, rendendomi protagonista delle invidiose occhiate delle altre ragazze; mi riscaldava il pranzo e si assicurava che lo mangiassi prima che mi perdessi in chiacchiere, mi leggeva romanzi interessanti come Le avventure di Tom Sawyer.

Era diventato molto più che un fratello, lui era il mio migliore amico, il mio porto sicuro quando litigavo con mamma e papà o con qualche bulletto a scuola. A lui mi ero persino rivolta durante il primo dissanguamento, quello per cui le nonne iniziano a chiamarti signorina, e mi spiegò cosa fossero gli assorbenti meglio di qualsiasi mamma, o di qualsiasi commessa al supermercato.

Quel triste e sanguinoso giorno segnò l’inevitabile fine della mia promettente carriera come boyscout, e questo fu forse l’unico privilegio che guadagnai dal diventare adolescente: il campeggio, le bacche selvatiche e gli scoiattoli non sono come li raccontano nei film, e il più delle volte ero stata costretta a dividere il mio piumone con Barry L’Acchiappa Piselli. Si diceva che, durante la notte, Barry andasse in giro tra le tende a cercare piselli dentro le mutandine di altri ragazzi. Io sostenevo, con tutta la diplomazia di cui ero capace, che li stava cercando nel posto sbagliato perché lo sanno tutti che quei piccoli, tondi, legumi verdi vengono coltivati nella terra e non dentro le tende da campeggio.

L’inizio della mia pubertà fece tragicamente insorgere qualche complicazione collaterale: l’isteria, il disturbo ossessivo compulsivo, un serio disturbo post traumatico da stress per aver realizzato di avere la faccia lucida quando mi dimenticavo di lavarla, due peli sotto l'ascella sinistra e tre sulla destra.

I miei genitori mi trattavano come se fossi una specie di indemoniata e mio fratello un santo sceso dal cielo, perché si occupava di me costantemente, senza lamentarsi mai. A dire il vero, Daniel mi sopportava a stento, ma si tratteneva dal farmi notare che i miei sbalzi d’umore fossero un po’ eccessivi per preservare il segreto di stato sui traffici illegali nel salotto di casa.

Mio fratello era un tipo introverso, ma riscuoteva un enorme successo con le ragazze e ognuna di loro, seppur passivamente, si era trovata almeno in un’occasione a subire il suo fascino. In un’ottica femminile, il suo amore per i romanzi, la sua natura solitaria, sensibile e irrisolta sulla maggior parte delle questioni esistenziali suscitavano masochistica concupiscenza, anche se l’elemento che scatenava il fanatismo nei confronti di mio fratello era il suo aspetto esteriore: occhi verdi, capelli lisci e lunghi fino alle spalle come se fosse il batterista di qualche rock band o un figlio dei fiori, mascella squadrata, labbra languide e aria da fattone.

Prima dei diciannove anni, comunque, non comprese il concreto giovamento che poteva trarre dal genere femminile, perché troppo occupato a sballarsi con l’unico amico che si ritrovava o a consumare letteratura russa. La prima ragazza che portò a casa risale al suo primo anno di università e somigliava in un modo incredibile a Mia Wallace di Pulp Fiction: stesso carré lucido e nero, stesso sguardo omicida, stesso fisico slanciato.

Si rifugiarono in camera di Daniel e fecero un gran casino: io leggevo un fumetto e ascoltavo la musica con le cuffiette, languendo nella beata ignoranza di quanto stesse accadendo sul suo letto.

Avevo soltanto dodici anni e non potevo avere idea di quanto un rapporto potesse nascondere una natura profondamente peccaminosa; il mio spirito guida, a quei tempi, era Avril Lavigne e la sua canzone Complicated era tutto ciò che conoscevo sull’amore tra un uomo e una donna.

La scioccante rivelazione arrivò nel modo in cui, negli anni successivi, fecero seguito tutte le altre: eravamo a tavola con i nostri genitori e mi lasciai sfuggire la visita che Daniel aveva ricevuto da Mia Wallace.

Mio padre osservò Daniel con interesse. «Se ti servono dei preservativi puoi trovarli nel mio comodino»

«Caro, non quando c’è la bambina!», lo rimproverò mia madre, ma ormai il danno era stato fatto.

Preservativo. Quella parolina aveva un suono così volgare e animalesco da essere quasi onomatopeico e non v’erano dubbi a cosa vi facesse riferimento: a un’altra espressione, anzi a un atto, sconcio e inaudito, di cui avevo appreso gli spiacevoli sviluppi meccanici a scuola, mentre un mio compagno di classe cercava di riprodursi con il banco- il sesso.

In quel momento realizzai che mio fratello, il bambino con cui avevo giocato ai lego, ai geomag, con cui avevo costruito solidi castelli di fango e che mi aveva insegnato a tirare le punizioni alla Drogba, era un individuo con bisogni sessuali, i quali, ovviamente, non avrebbero mai potuto riguardare me.

Cominciò a mettermi da parte e a trattarmi, per la prima volta nella storia del nostro rapporto, come una bambina. Iniziò a fare cose che non aveva mai fatto: arruffarmi i capelli quando passava in cucina mentre io, per esempio, stavo finendo di fare colazione; oppure, riservarmi risatine di sufficienza quando a tavola raccontavo della mia giornata di scuola; poi cambiava puntualmente argomento e intavolava discussioni politiche con mamma e papà, ignorandomi deliberatamente. Parlava di cose come il Trattato di Lisbona, generando uno scambio di opinioni acceso, che mi fece dedurre che fossero questioni da adulti, di quelle in cui non fosse ben chiaro da che parte schierarsi: insomma, almeno durante la seconda guerra mondiale si sapeva chi erano i cattivi!

Stava diventando un uomo, e io non potevo fare nulla per fermare questo processo inarrestabile e rapido che mi scorreva sotto gli occhi: la distanza tra noi due si fece immensa. Quasi ogni settimana mi presentava una ragazza nuova e la prassi la conoscevo a memoria:

Ciao Mel, ti presento Samantha, Fiona, Ingrid, Briony, Tami, noi andiamo di là tu fai i compiti prima che tornino mamma e papà.

Non mi interessava, a dodici o tredici anni, cosa combinasse mio fratello nella sua stanza con Samantha, Fiona, Ingrid, Briony o Tami; il punto era che mi dispiaceva che non avessimo più tempo per noi. Un giorno glielo dissi, e il discorso finì con me che facevo l’isterica per la mancanza di considerazione ricevuta nell’ultimo anno.

Perciò, a scopi esclusivamente terapeutici, i pomeriggi successivi mi portò in un negozio di CD molto fornito, vicino casa. Passammo ore a impataccare con le impronte digitali la plastica che ricopriva i dischi delle nostre band preferite, Linkin Park su tutti, e io scoprii, piuttosto casualmente, l’amore incondizionato che provavo per i Keane e per il frontman della band, Tom Chaplin.

Quei capelli lisci che gli ricadevano sugli occhi, quel rossore lieve che gli tinteggiava le guance mentre cantava mi facevano ribollire dentro sentimenti ambivalenti e, ogni volta che lo guardavo, mi assaliva una sensazione di seducente sconforto: era delizioso e struggente desiderare qualcosa che non si può avere.

Non superai mai la mia prima cotta, ovvero Tom Chaplin, ma uno di quei giorni venni a conoscenza che presto sarebbe uscito il loro documentario, girato durante il prossimo tour in Europa. Ero al settimo cielo: quel documentario era, d’un tratto, ciò che avevo da sempre desiderato. Non solo, sarebbe anche uscito il mese del mio quattordicesimo compleanno, a settembre, e questo si poteva chiamare soltanto in un modo: destino.


Note
Cosa ne pensate di questo primo capitolo?
Fatemelo sapere con una recensione, mi raccomando, che è GRATISS !
   
 
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