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Autore: edoardo811    02/10/2021    6 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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14

Il Coniglio Lunare

 

 

Naito si sedette a terra, facendo penzolare le gambe sopra la cresta dell’acqua. Alcuni piccioni volarono via spaventati da lui, perdendosi nell’orizzonte al di là della baia di Yokohama. Il tempo era peggiorato di nuovo, il cielo era tinto di grigio, con altre nuvole gonfie di pioggia. Nonostante le nubi e il freddo i mortali girovagavano numerosi come sempre, vagando nei negozi, consumando spuntini e scattando fotografie.

Una gigantesca ruota spiccava in un isolotto sopra il mare di fronte a lui, girando in senso orario come un orologio. Malgrado fosse giorno poteva comunque intravedere le luci multicolore accese sopra di essa, mentre dietro di lei alcuni strani trabiccoli correvano sopra lunghi serpentoni di acciaio a tutta velocità. Dalle urla che sentiva provenire da quel luogo, Naito intuì che avrebbe fatto meglio a girarci alla larga. Forse era una specie di isola delle torture1.

Abbassò lo sguardo sopra il mare incolore, concentrandosi sull’odore della salsedine e osservando alcuni dei pesci più piccoli e ingenui che si avvicinavano alla riva. Le provò tutte pur di non pensare ai suoi fallimenti, ma sapeva di non poter fuggire per sempre.

Le parole di Ibaraki risuonavano nella sua mente senza dargli un attimo di tregua. Gli dei erano vulnerabili. I guerrieri più potenti si stavano riunendo per distruggerli. E il Re voleva anche lui.

Non aveva trovato l’elisir e Hachidori era morta. Aveva perso tutto per colpa di quel viaggio. E per finire il verme responsabile della sua miseria, Kagu-Tsuchi, era ancora a piede libero e gli avrebbe ancora dato la caccia. Perché era un dio, e poteva fare qualsiasi cosa volesse. Quel pensiero gli faceva ribollire il sangue nelle vene.

L’aveva lasciato andare perché sperava che la smettesse di dargli la caccia, ma avrebbe dovuto saperlo che non sarebbe mai successo. Non avrebbe smesso finché uno di loro due non sarebbe morto.

Ibaraki gli aveva detto di raggiungere lei e il Re sul monte Ōeyama. Lo conosceva, si trovava vicino a Kyoto, proprio come il santuario di Kagu-Tsuchi e molti altri. Il pensiero di farlo cominciò a stuzzicarlo. Che altro gli rimaneva, tanto?

«Ciao!» disse una voce all’improvviso.

Naito si voltò e si accorse di un uomo in piedi accanto a lui, sorridente. Aveva i capelli corti, sembravano quasi color oro, e un paio di occhiali con le lenti scure. Non sembrava nemmeno un uomo in realtà, non doveva essere molto più vecchio di lui.

«Ti dispiace se mi siedo?»

«Sì» gracchiò Naito. Non aveva idea di chi fosse, o cosa volesse, ma non aveva alcuna intenzione di perdere tempo con qualche stupido mortale incapace di vederlo per quello che era davvero.

Quello rise, producendo un bel suono. «Siamo di buonumore, eh?»

Lo ignorò e si sedette comunque accanto a lui. Non appena fu più vicino Naito sentì la pelle arricciarsi. Avvertì il desiderio irrefrenabile di fuggire, o di sguainare la spada, ma lo sconosciuto non sembrò prestare la minima attenzione a lui. Ispirò l’aria a pieni polmoni e distese quel sorriso che sembrava incapace di svanire dal suo volto.

«Amo il Giappone, sai? Un tempo ci venivo spesso. Poi… le cose sono cambiate.» Allungò una mano verso il cielo e si premette l’altra sopra il cuore. «Sono tornato. Il grandioso Giappone… e…» La sua espressione si fece vacua per un istante. «Ehm… accidenti, è passato troppo tempo dall’ultima volta che ne ho fatto uno…»

«Ma tu sei pazzo» bisbigliò Naito.

«Ma tu sei pazzo» ripeté quell’altro contando con le dita. «Cinque sillabe! Hai un talento naturale!»

Naito decise di aver sentito abbastanza. Si alzò in piedi e fece per allontanarsi, ma il ragazzo lo chiamò. «Aspetta, Naito!»

«Come sai il mio nome?» Naito si voltò lentamente, avvicinando la mano alla wakizashi.

«So molte cose, Naito. O preferisci che ti chiamo Naos…»

«No.»

Il ragazzo ridacchiò di nuovo e sollevò le mani. «Va bene. E Naito sia.» Gli fece cenno di sedersi. «Siediti, coraggio. Non mordo mica. A meno che tu non me lo chieda.» Si sfilò gli occhiali per strizzargli l’occhio. Aveva iridi azzurre, cristalline.

«Perché dovrei chiederti di mordermi?» borbottò Naito, allontanando la mano dalla spada. Si sedette di nuovo, a debita distanza, conscio del fatto che da lì a breve si sarebbe pentito della sua decisione.

«È solo un… modo di dire… non importa.» Lo sconosciuto arrossì appena. Mise via gli occhiali e si appoggiò sul lungomare con i gomiti. «Allora, Naito, che cosa farai adesso?»

«In… in che senso?»

«La tua prossima mossa. Che cosa farai?»

«E a te che diamine importa?»

Lo sconosciuto rise di nuovo. «Gli assomigli tanto, lo sai?»

«A chi?»

«A Edward.» Il ragazzo gli rivolse uno strano sorriso. «Avete… lo stesso sguardo.»

Naito si paralizzò. Per un istante, nella sua mente i capelli e il colore degli occhi di quel tizio mutarono, divenendo più scuri, marroni. Si immaginò quel sorriso trasformato in una smorfia corrucciata e rimase senza parole.

«Sei… sei uno dei fratelli di Edward» bisbigliò, realizzando perché lo sconosciuto emanasse così tanto potere.

Il ragazzo corrucciò la fronte, prima di annuire. «Ah, sì… fratello, certo. Esatto!»

«Ma… che ci fai qui? Pensavo che voi piccoli dei…»

«Su, su, rilassati. Sono qui… per chiacchierare. Puoi stare tranquillo.» Gli rivolse un cenno del braccio. «Allora, non mi hai ancora risposto. Non hai trovato quello che cercavi nelle Tribune. Quindi, qual è la tua prossima mossa?»

«E… e tu come sai…»

«Ha importanza?» Lo sconosciuto alzò un sopracciglio. Per un istante assomigliò anche a Rosa. Avevano visi simili, con gli occhi luminosi e la pelle abbronzata. Naito avvertì uno strano nodo al petto quando pensò a lei.

«Non sono qui per parlare di me, Naito, e credimi, mi piacerebbe tanto farlo. Non hai idea di quante cose incredibili io abbia…» Il ragazzo si fermò, schiarendosi la gola. «Scusa, ho avuto un lapsus. Dicevo, non sono qui per parlare di me. Non ha importanza cosa voglio io. Quello che conta è cosa vuoi tu.» Riportò lo sguardo sui gabbiani che volavano lungo la baia. «Allora? Che cosa farai?»

Naito si strinse nelle spalle. Si era già posto quella domanda da solo, e non aveva trovato nessuna risposta. «Non… non ne ho idea» ammise.

Non sapeva nemmeno perché stesse ascoltando quello sconosciuto, a dire il vero. Poteva anche essere un fratello di Edward, ma non significava che si fidasse davvero di lui. Però non sembrava ostile. Per il momento poteva assecondarlo.

«Potrei… potrei tornare in occidente. Devo dire ad Edward quello che ho scoperto su sua madre…» mormorò, anche se l’idea di tornare in America non lo allettava per niente. Non così, almeno.

«Mh.» Lo sguardo del ragazzino si smarrì nel mare. Nei suoi occhi balenò una durezza improvvisa che rare volte Naito aveva visto in qualcuno. In qualche modo, non seppe spiegarsi come, sembrò anche più vecchio di quello che il suo aspetto giovanile avrebbe lasciato intendere. «Sì… credo che dovresti farlo. Hai in mente anche altro?»

«Voglio…» Naito tacque. Non aveva idea di che altro potesse fare. Unirsi al Re? Distruggere gli dei? Sicuramente non poteva dirlo ad un piccolo dio.

No… c’era qualcos’altro che gli impediva di dire quelle parole. Il fatto che in realtà non volesse farlo davvero. Non voleva partecipare a nessuna guerra, né distruggere alcun dio. Non era bastato tutto quello che gli era successo per farglielo capire? La vendetta era inutile. Combattere, uccidere, versare sangue era inutile, e anche sbagliato.

E poi… non voleva schierarsi di nuovo contro i piccoli dei. Non era giusto. Non voleva… rischiare di combattere ancora contro di Rosa. O Edward. O Konnor. O tutti i loro amici. Doveva… essere meglio di così. Doveva continuare a combattere per la giusta causa. Aveva un dovere da compiere, come mezzosangue, come persona, come samurai.

Questo gli avevano insegnato Konnor ed Edward. Questo gli aveva insegnato Miyamoto tramite il Bushido.

«Voglio… voglio aiutare la mia specie» mormorò, abbassando la testa. «Voglio che tutti capiscano che… che non siamo malvagi, che siamo costretti a combattere per sopravvivere.»

«Molto bene.» Lo sconosciuto sembrò davvero soddisfatto della risposta, per qualsiasi motivo. «E come pensi di fare?»

Naito affondò le dita nel cornicione. «Devo… devo trovare l’elisir. Devo finire questo maledetto viaggio.»

«Sai dove andare?»

La determinazione di Naito si affievolì in un istante. «No…» ammise, afflitto. «Ma… so che non devo fermarmi. Non adesso. Non posso vanificare tutti i miei sforzi in questo modo. Non… non posso rendere vano il sacrificio di…» la sua voce si incrinò.

Una lacrima gli rigò la guancia. Fece per asciugarsela, ma si fermò. La lasciò correre finché non cadde in mare, smarrendosi tra le onde calme. La sua lacrima era insignificante rispetto a quell’oceano. Eppure, il dolore che provava era più forte di uno tsunami.

Kairi.

Faceva ancora male. Perché? Perché doveva fare così tanto male?

La mano dello sconosciuto si posò sulla sua spalla all’improvviso, facendolo trasalire. Era come se si fosse teletrasportato accanto a lui. Fece per ritrarsi, ma incrociò il suo sguardo, e si accorse del suo sorriso gentile. Strane immagini balenarono nella mente di Naito. Immagini… belle. 

Sua madre che gli posava un piatto di ravioli fumanti di fronte, prima di dargli un bacio tra le corna. Konnor che lo lasciava in vita, rivolgendogli uno sguardo di rispetto. Edward che gli stringeva la mano con quel sorrisetto beffardo che Naito all’inizio aveva detestato, ma che poi aveva imparato ad accettare.

Hikaru che gli rivolgeva quello sguardo apprensivo, sollevato. Lui e Kairi che ridevano seduti su quel tetto, la notte in cui si erano conosciuti. Lui che ascoltava le storie del vecchio Musashi, seduto nella sua cucina con un sorriso rilassato.

La voce melodiosa di Rosa che gli provocava un brivido lungo la schiena.

«Io non credo di poterti aiutare con il tuo problema.»

Lo sconosciuto allontanò la mano da lui, facendolo riesumare dalla breve sosta in quelle immagini così strane, così belle. Nonostante le sue parole non smise comunque di rivolgergli quel sorriso che, non importava quanto tragica potesse essere una situazione, sembrava comunque volergli dire che tutto sarebbe andato per il meglio.

«Però, posso dirti una cosa. A volte, la soluzione ai nostri problemi…» Si sfiorò il naso, distendendo quel sorriso rischiaratore. «… si trova proprio sotto al nostro naso.»

«Che… che significa?» domandò Naito.

Quello gli strizzò di nuovo l’occhio. «Significa che conosci già chi ti può aiutare.»

Naito schiuse le labbra. Distolse lo sguardo e lo riportò sul mare in quiete, per riflettere su quelle parole. Chi avrebbe potuto aiutarlo a trovare l’elisir? Tutte le persone che conosceva erano morte, o si trovavano in America, o erano mostri. Tutte…

Spalancò l’occhio. Fu come se un fulmine si fosse abbattuto su di lui. C’era qualcuno che poteva aiutarlo, invece. Qualcuno di saggio e ben informato sul mondo che li circondava. Qualcuno che conosceva.

«Meglio che vada adesso» proseguì il ragazzino, rimettendosi in piedi. Sollevò lo sguardo verso il cielo grigio e una striatura di angoscia gli percorse il volto. «Mi sono trattenuto troppo a lungo. Ma sono felice di averti incontrato, Naito. Farai grandi cose, vedrai.»

Il corpo di Naito ebbe un lieve sussulto. «Ma… chi sei tu?» domandò con un filo di voce. Non poteva essere soltanto un piccolo dio.

Lo sconosciuto gli rivolse un altro sorriso, anche se questa volta non parve davvero felice. Sembrava… triste. Stanco, anche. «Te l’ho detto. Sono un amico di Edward. E se lui si fida di te… allora anch’io mi fido. Qualunque cosa accada, Naito, non arrenderti. Mai. Solo così troverai quello che cerchi.»

Naito rimase in silenzio, non sapendo cosa rispondere. Forse parlava dell’elisir, ma non ne era davvero sicuro. Quelle parole… sembravano avere un significato molto più profondo. Riportò lo sguardo sul mare, riflettendo su ciò che aveva appena capito grazie a quello sconosciuto.

La soluzione era stata di fronte al suo occhio per tutto quel tempo, ma era stato così distratto da tutto il resto che non c’aveva prestato alcuna attenzione. Ora però sapeva cosa fare. Aveva un nuovo obiettivo.

Si voltò di nuovo verso lo sconosciuto per ringraziarlo, ma non lo vide da nessuna parte. Saltò in piedi per lo stupore e si guardò attorno, ma di lui non c’era nessuna traccia, era svanito nel nulla.

L’istinto di Naito lo riportò ad osservare il cielo. Solo in quel momento realizzò che lo sconosciuto stava per chiamarlo Naosuke, quando né Edward né nessun altro dei piccoli dei conosceva quel nome. Il ragazzo strinse i pugni e i denti con forza, scrutando quei nuvoloni cupi con la schiena che formicolava.

«Dōmo arigatō.»

Naito chinò la testa di fronte al cielo, convinto che quello sconosciuto l’avrebbe sentito, chiunque egli fosse.

Poi, cominciò a correre.

 

***

 

Non ricordava l’ultima volta che aveva corso così velocemente. Decine, centinaia di chilometri vennero spazzati via da lui in grandi falcate. Yokohama divenne un ricordo lontano alle sue spalle, così come tutte le montagne che aveva attraversato assieme ad Hachidori. Non aveva un solo istante da perdere.

Viaggiò per un giorno e una notte. La pioggia lo consumò, il vento sferzò su di lui, i morsi della fame lo divorarono. Non si fermò mai, né per mangiare, né per bere, tantomeno per dormire. Fame, sete, freddo e stanchezza erano preoccupazioni secondarie. L’unica cosa che ardeva dentro di lui era il desiderio di rivedere quel vecchio incartapecorito che tanto era stato gentile con lui e che tanto l’aveva aiutato.

Era quasi sera quando percorse quei sentieri che già aveva attraversato settimane prima. Era tutto rimasto invariato, perfino il tempo pareva lo stesso di quando la sua avventura era iniziata. La cascata era ancora lì, i mortali che si avventuravano per i sentieri anche, la città colorata ai piedi della montagna non era mutata di una virgola.

Una sensazione di nostalgia gli percorse il corpo. In un certo senso, fu come tornare a casa per lui.

«Miyamoto!» urlò quando attraversò la radura. Spalancò la porta di casa senza nemmeno bussare. «Miyamoto, sono io! Sono Naosuke!»

La voce del vecchio arrivò dalla cucina, roca e aspra proprio come la ricordava: «Naosuke? Sei davvero tu?»

Un sorriso apparve sul volto di Naito. Irruppe in cucina senza nemmeno togliersi gli stivali.

«Ho così tante cose da dirle che…» Tacque non appena entrò nella stanza. Il vecchio Musashi era lì, seduto al tavolino con una tazzina fumante tra le mani, il viso rugoso come non mai, lo yukata blu indosso e il bokken e la kiseru poco distanti.

E non era da solo.

Dall’altra parte del tavolino c’era una donna. Anzi, senza il kimono nero e il corpetto d’armatura appariva più come una ragazza che non poteva essere molto più grande di Naito, con lunghi capelli ebano e degli sfregi sulle guance.

«Tu?!» esclamò Naito.

Non appena lei incrociò il suo sguardo divenne più rossa del vecchio Musashi quando mangiava piccante. Abbassò la testa imbarazzata, senza rispondergli, e prese un sorso nervoso dalla tazzina che anche lei stava stringendo.

«Ma… ma…» cominciò Naito, senza trovare le giuste parole. Fece vagare lo sguardo tra Miyamoto e lei, incredulo. «Che ci fai qui?!»

«È venuta a trovarmi questa mattina!» esclamò il vecchio Musashi tirandosi in piedi, sorridente come se fosse tutto normalissimo per lui, prima di corrucciarsi. «E a lei piace il mio infuso, a differenza tua!»

Ci volle ancora qualche istante prima che Naito si riprendesse dallo stupore. Poi realizzò che lei non stava cercando di ucciderlo, anzi sembrava molto più presa da quel liquame arancione, perciò poteva preoccuparsene più tardi.

«Miyamoto, devo chiederle una…» Fece un passo in avanti, ma una stanchezza terribile lo assalì. Le gambe cedettero contro il suo volere e si ritrovò a precipitare. Si sarebbe schiantato con la faccia sul pavimento se Meishu non l’avesse afferrato al volo per i fianchi. Aveva posato la tazzina e si era alzata in un baleno, con una prontezza di riflessi incredibile.

«G-Grazie» sussurrò Naito, trovandosi all’altezza del suo viso.

«P-Prego» replicò lei, sembrando, per quanto possibile, anche più imbarazzata di lui. Lo aiutò a sedersi al tavolo e i morsi della fame lo assalirono con la forza di un terremoto.

«Naosuke, hai una pessima cera» commentò molto delicatamente il vecchio Musashi, mentre si sedeva di nuovo. «Dovresti mangiare qualcosa. E cambiarti quei vestiti. E farti anche un bagno, magari.»

Quelle parole fecero interrogare Naito sulle effettive capacità visive del vecchio. «Non... non c’è tempo! Ho bisogno di sapere…»

«Niente discussioni» obiettò il vecchio Musashi, alzando una mano grinzosa. «Ti sei precipitato in casa mia in condizioni indecenti senza nemmeno salutare come si deve. Avrei potuto sorvolare se ci fossimo trovati in una situazione comune, ma abbiamo un’ospite, come avrai potuto notare. Impara po’ di buone maniere, Naosuke.»

Meishu arrossì di nuovo. «N-Non è un problema, davver…»

«Vai a farti un bagno. E dopo mangia qualcosa. Poi potremo parlare» continuò il vecchio Musashi, perentorio.

Naito spalancò la bocca. «Ma… ma Miyamoto…»

«Ti va di aiutarlo, Ami?»

Le proteste di Naito si chetarono all’improvviso. Spostò lo sguardo su Meishu, che sembrava voler sprofondare nel pavimento. «Ami?!»

Lei sospirò e si alzò in piedi, porgendogli una mano. Naito la afferrò come in trance e si fece accompagnare verso il bagno.

«Non… non sono più Meishu» gli spiegò, facendo di tutto per non guardarlo mentre lo aiutava a camminare.

Naito si accorse che ora sulla guancia “sana” non aveva più due segni, ma tre. Tre lunghe linee rosa. Corrucciò la fronte, ma prima che potesse chiederle altro erano arrivati. Si appoggiò alla vasca con una smorfia di dolore e Meishu, o Ami, gli sfiorò il fianco. «Lo sai che stai sanguinando?»

«Eh?» Naito abbassò lo sguardo, accorgendosi dell’happi di Sōjōbō intriso di sangue, nel punto dove Kagu-Tsuchi l’aveva colpito. La ferita doveva essersi riaperta mentre correva e le fasce di fortuna non erano servite a molto. Tutto ad un tratto capì perché il vecchio Musashi avesse reagito in quel modo. In effetti non era proprio in condizioni accettabili per stare in un salotto. «Ehm… sì, lo sapevo…» bisbigliò, sentendosi soffocare.

Ami sollevò un sopracciglio, ma gli rivolse comunque un timido sorriso. «Sono… sono felice di rivederti» disse all’improvviso.

Quella era l’ultima cosa che Naito si sarebbe aspettato di sentire da lei. Incrociò il suo sguardo e si rese conto di non aver mai notato il colore dei suoi occhi, prima di allora. Erano proprio come il cielo estivo.

«Grazie» mormorò, incapace di trovare parole migliori.

«Dov’è… dov’è Hachidori?»

L’espressione di Naito dovette parlare per lui. Si irrigidì e strinse con forza il bordo della vasca, prima di sussurrare a fatica: «Hachidori… sapeva a cosa andava incontro.»

Scorse a malapena Ami mentre abbassava la testa. «Mi dispiace.»

Naito annuì, senza guardarla. Ami non indagò oltre e lui le fu grato per questo. Sentiva che se avesse pensato ancora a Kairi sarebbe crollato.

«Che… che significa che non sei più Meishu?» le domandò dopo un attimo di silenzio.

Una strana ombra balenò sul viso di Ami. Puntò l’indice verso i tre tagli sulla sua guancia tonda. «Dovevo catturarti, ma ho fallito tre volte. La punizione per chi fallisce tre volte è l’esilio dal clan.» Inspirò profondamente. «Non sono più Meishu. Sono di nuovo… me. Ami Yamamoto.»

Molte cose furono chiare a Naito quando udì quelle parole. Ecco perché Meishu aveva due tagli sulla guancia, alle rovine di Hachiōji. Ed ecco perché le sue compagne erano sembrate così angosciate quando aveva deciso di non affrontare più lui e Hachidori. Sapevano che lei sarebbe stata esiliata. Lei stessa aveva detto di stare rinunciando a tutto, ma li aveva comunque lasciati andare. Naito avvertì una strana fitta allo stomaco, colpito dal suo senso dell’onore.

«Ma… perché sei qui?»

«Non… non sapevo dove altro andare.» Ami si strinse nelle spalle. «Quando entri a far parte del Clan Tsubaki devi esprimere un giuramento e dimenticare la tua vita passata. Amici, famiglia, casa, tutto. Devi lasciarti ogni cosa alle spalle e ricominciare da zero. La tua unica casa e la tua unica famiglia sono il clan. Puoi sceglierti un nome e quello diventa la tua nuova identità, altrimenti te ne danno uno loro. E se vieni esiliato…»

«Devi ripartire di nuovo da capo» concluse Naito.

Ami annuì. «La mia famiglia è morta molto tempo fa, Nao… Naito. Sono entrata nel Clan Tsubaki perché non avevo più nulla. E adesso non ho nemmeno più il clan.»

«Sono… sono stati i mostri?»

La sua vecchia cacciatrice non rispose. Il dolore nei suoi occhi raccontò tutto quello che c’era da sapere.

«Mi dispiace» sussurrò Naito. I mortali che aveva ucciso a Tokyo balenarono nella sua mente. Strinse gli occhi, cercando di scacciarli, ma gli fu impossibile. Sentì la propria pelle accapponarsi.

«Non… non devi.» Ami prese una grossa boccata d’aria, prima di rivolgergli un altro sorriso. Sembrava avergli letto nel pensiero. «Tu… mi hai salvata. Non sei come loro.»

Naito la osservò per qualche istante, prima di annuire. Sì, invece. Era proprio come loro. Come Orochi, come suo padre, come tutti gli altri.

Ami aveva perso la sua seconda famiglia per lasciare in vita un mostro, un assassino. Se l’avesse saputo non sarebbe stata così gentile con lui, e Naito non avrebbe potuto biasimarla per questo.

«Ti lascerò dei vestiti puliti davanti alla porta» concluse Ami mentre apriva l’acqua della vasca. «Quelli mettili in quella cesta.» Indicò un cesto di vimini in un angolo del bagno, prima di fare un sorrisetto. «Così possiamo bruciarli.»

Il ragazzo corrucciò la fronte, ma poi lei rise. Non era il tipo di risata a cui l’aveva abituato però, fredda e maliziosa. Era molto più genuina.

«Sto scherzando.» Ami gli sorrise un’altra volta, gesto che lui si ritrovò a ricambiare senza neanche accorgersene.

Quando Ami uscì dal bagno, Naito afferrò una botticina di bagnoschiuma sul bordo della vasca e se ne mangiò un po’, prima di svuotare il resto nell’acqua senza troppi complimenti e creando così una montagna impressionante di schiuma. Visto che il vecchio Musashi l’aveva costretto a fare un bagno, tanto valeva che se lo godesse.

Le sue ferite sussultarono quando entrò in contatto con l’acqua calda, ma il fastidio divenne ben presto sollievo. Lavò la pelle incrostata di polvere accumulata nei tunnel, sangue e sudore, sentendosi decisamente meglio. Soltanto dopo essersi fermato realizzò quanto gli era costata quella corsa attraverso mezzo paese. Sentiva le gambe intorpidite, i piedi distrutti e, soprattutto, aveva così tanta fame che si sarebbe potuto mangiare un wagyū2 intero.

Fuori dalla vasca controllò le sue ferite di fronte allo specchio. A parte quella sul fianco che si era riaperta – ma che non stava più sanguinando – il resto si era quasi rimarginato del tutto. Rimase concentrato sul suo aspetto. Era pallido, con il fisico secco e asciutto. Era così magro che i muscoli del petto e delle braccia sembravano voler irrompere fuori dalla pelle. Visto così sembrava molto definito, ma in realtà non era nemmeno paragonabile a un oni adulto come suo padre. Alcune vene sporgevano qua e là lungo il viso e il collo, intervallate dai molteplici graffi e cicatrici accumulati durante gli anni con Orochi.

I capelli neri come la pece erano cresciuti ancora, arrivando fino al collo. Per un istante pensò di legarli in una coda rivolta verso l’alto, come quelle dei samurai che aveva incontrato, ma poi accantonò l’idea. Preferiva tenerli sciolti.

Ami gli lasciò dei pantaloni e una camicia neri, assieme a un happi blu scuro. Tornò in cucina con i capelli bagnati e le gambe intorpidite, trovando il vecchio Musashi che le stava raccontando chissà cosa. Doveva essere una storia divertente, perché lei stava ridacchiando.

«Eccoti, finalmente» sorrise Miyamoto. Gli indicò una ciotola di ramen fumante che sembrava aspettare solo lui. «Questo è per te. Mangia, forza.»

Lo stomaco di Naito borbottò alla sola vista di quella pietanza.

«Di che parlavate?» domandò, ignorando completamente le bacchette che gli avevano lasciato e portandosi la ciotola alla bocca. Quel cibo caldo fu come una carezza gentile per il suo stomaco stanco e ferito. Il bagno l’aveva fatto stare meglio, ma quella bontà lo fece rinascere.

«Le stavo dicendo di prepararsi ai versi che fai a tavola» rispose il vecchio mentre Naito si abbuffava come suo solito. Allontanò la ciotola di scatto, accorgendosi dello sguardo divertito di Ami. Se le sue guance avessero potuto andare a fuoco, l’avrebbero fatto.

«Non… non è divertente…» si lamentò imbarazzato, ma non dovette sembrare molto convincente. Ami si coprì la bocca prima di ridere un’altra volta.

«Ami mi ha raccontato quello che è successo alle rovine di Hachiōji» proseguì il vecchio Musashi, con un ampio sorriso. «Ben fatto, figliolo. Sei tornato ad aiutarla nonostante i vostri trascorsi, come un vero samurai. E anche tu, Ami» aggiunse, spostando lo sguardo su di lei. «Ciò che hai fatto ti rende onore.»

«La… la ringrazio» mormorò lei. «E… la ringrazio anche per avermi ospitata.»

«Non avrei mai potuto abbandonare una giovane e promettente kunoichi come te in difficoltà» rispose Miyamoto con un sorriso.

Ami sembrò arrossire di nuovo. «Non… non mi sembra ancora vero di trovarmi al suo cospetto. Da bambina ho letto tutti i suoi libri, sa? È… sempre stato d’ispirazione, per me.»

Miyamoto chinò il capo. «Sono onorato di sentirlo.»

Naito finì di spazzare via il ramen proprio in quel momento. «Miyamoto» disse senza nemmeno riprendere fiato. «Detesto interrompervi, ma ho bisogno che mi ascolti. Devo… devo chiederti una cosa.»

«Ma certo figliolo, chiedi pure.»

Naito si mordicchiò un labbro, ponderando sulle parole giuste da usare. Si accorse che anche Ami lo stava guardando incuriosita e sospirò. «Forse è meglio partire dall’inizio.»

Raccontò tutto quanto. Parlò del viaggio tra le montagne, del bambino che aveva salvato, del suo scontro con suo padre Ōtakemaru – a cui Ami reagì spalancando gli occhi – di Hachidori, la Valle dell’Inferno, ogni cosa. Quando arrivò alla parte del Santuario Meiji esitò. Non voleva raccontare cosa fosse successo là, per paura di quello che avrebbe potuto scatenare. Miyamoto era stato gentile con lui e Ami… non stavano cercando di uccidersi a vicenda, e gli sarebbe piaciuto che le cose rimanessero così.

Ma avrebbe davvero potuto mentire, omettere quella parte? Non era giusto nei loro confronti. Il Bushido non gliel’avrebbe permesso. Aveva promesso che avrebbe seguito quei valori e l’avrebbe fatto, non gli importava se potessero ritorcersi contro di lui. Se voleva migliorare, doveva anche accettare le conseguenze delle sue azioni.

Così prese un lungo respiro e parlò di Kagu-Tsuchi, di quello che aveva fatto quando era bambino, della morte di Akane e del motivo per cui Naito era diventato quello che era diventato, fino ad arrivare allo scontro al Santuario Meiji.

Ami inorridì durante quella parte. Miyamoto invece abbassò la testa e unì le mani in segno di preghiera.

«Mi… mi dispiace» sussurrò Naito, incapace di sostenere quelle reazioni. «So che ho sbagliato. Ma… ero… privo di controllo. Non… non ho potuto…» Si osservò le mani che tremolavano sulle ginocchia. «Quando… quando Kagu-Tsuchi ha ucciso Hachidori io…»

Non riuscì a continuare. Rimase in silenzio, in attesa. L’aria sembrò farsi molto più pesante. Aveva risucchiato via tutto il buonumore e aveva portato ancora una volta i suoi problemi in casa di altri, guastando le loro vite con quella nebbia di morte che girava attorno a lui. Miyamoto probabilmente l’avrebbe sbattuto fuori, o peggio, ma non gli importava: preferiva essere solo ma con la coscienza pulita, piuttosto che mentire a quell’uomo.

«Naosuke.»

Naito drizzò la testa, incrociando lo sguardo di Miyamoto. Era severo come rare volte l’aveva visto.

«Sei stato molto coraggioso a raccontare la verità. Se ci avessi mentito, noi non l’avremmo saputo. Avresti potuto uscirne pulito ai nostri occhi. Ma tu hai scelto la strada più ardua. Sei stato onesto, come un vero samurai.»

«Un samurai è gentile con i propri nemici.» Naito affondò le dita nelle ginocchia. «Io non lo sono stato. Non sono un vero samurai. Non sono… niente. Ciò che ho fatto è imperdonabile. E infatti… infatti non sono qui per cercare perdono. Il perdono per me non esiste più. Ma… ma posso ancora fare qualcosa… per impedire che questo accada di nuovo. Posso aiutare quelli come me ad ottenere la vita che meritano. Liberi, privi di vessazioni. Pagherò per quello che ho fatto. Lo farò senz’altro. Ma prima… prima devo salvare quelli come me. Prima che facciano la mia stessa fine. Prima che… altro sangue venga versato.»

«Sì, capisco. Vuoi farlo perché hai un dovere nei loro confronti.»

Naito annuì senza più guardarlo. Si accorse che Ami lo stava guardando con espressione indecifrabile. Sembrava arrabbiata, e con tutte le ragioni per esserlo.

«Che cosa vuoi dire, Ami?»

La voce di Miyamoto la fece sussultare. Si riscosse in fretta però, e scrutò Naito direttamente negli occhi. Ponderò ancora per qualche istante sulle parole, poi chiuse le palpebre per concentrarsi. «Quando… quando sono entrata nel Clan Tsubaki… credevo di sapere che cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. I mostri avevano ucciso la mia famiglia e io li odiavo con tutta me stessa. Li odiavo perché… mi avevano portato via tutto. Il clan è diventato la mia nuova famiglia. Erano mie amiche, mie sorelle. Con loro ho dato la caccia ai mostri in tutto il Giappone per anni. Finché… finché…»

Ami abbassò lo sguardo. «… finché uno di loro non mi ha salvato la vita. Lo stesso giorno, ho perso la fiducia e il rispetto delle mie sorelle e sono stata esiliata dalla mia seconda famiglia. In un solo giorno… tutto quello in cui credevo è andato in fumo.»

Naito schiuse le labbra, mentre lei tornava a guardarlo seria in volto.

«Mi hanno insegnato che i mostri non piangono. Che non hanno amici. Che godono del dolore altrui. Tu però soffri per quello che hai fatto, Naito. Hai pianto per tua madre. Hai pianto per Hachidori, che era tua amica. E stai piangendo anche adesso.»

Il ragazzo si accorse delle lacrime scese dal suo occhio. Se le sfiorò con le dita, senza distogliere lo sguardo da Ami.

«Per tutto questo tempo in cui ti ho dato la caccia, tu non hai mai voluto affrontarmi davvero. Hai sempre cercato di evitare lo scontro perché non volevi farmi del male. Hai salvato quel bambino e hai salvato anche me. E poi… hai ucciso quegli uomini. Gli stessi che avevano ucciso tua madre e che ti avevano portato via tutto quanto proprio com’è successo a me. Uomini, non mostri. Hai cercato di evitare lo scontro con loro, proprio come con me, ma non ti hanno lasciato scelta. Io…»

Ami scosse la testa. «Io non lo so, Naito, se ciò che hai fatto ti rende buono o cattivo. Non lo so se è giusto o sbagliato. Ma so che… che avevi tutto da perdere e niente da guadagnare raccontandoci questa storia, però l’hai fatto comunque. Dovrà pur significare qualcosa.»

Riportò lo sguardo su Miyamoto. «Questo… questo è quello che avevo da dire.»

«Mh…» Il vecchio assottigliò le palpebre, scrutandola con intensità. La ragazza si irrigidì, ma prima che potesse dire altro lui le sorrise. «Ben detto, Ami.»

Ami arrossì di nuovo e chinò la testa farfugliando qualche ringraziamento, mentre Naito faceva vagare lo sguardo dall’uno all’altra senza più capirci nulla.

«Figliolo» lo chiamò Miyamoto. «Sono felice davvero che tu stia cercando di seguire i principi del Bushido. Da quello che mi hai detto, mi pare chiaro che per te siano molto importanti. Ma esistono momenti in cui nemmeno il Bushido è una legge infallibile. Secondo il Bushido esistono soltanto bianco e nero, bene e male, ma la vita non è solo o l’uno o l’altro. Non esiste solo una cosa. Bene e male, uomini e mostri...»

Il vecchio lo indicò con la kiseru. «… mezzosangue. La vita è tutto questo e molto di più. La vita è fatta di scelte, scelte difficili, molto spesso, che ci portano a dubitare di ciò in cui crediamo realmente, che ci portano a dubitare dei nostri principi. Ed è come ci poniamo di fronte a quelle scelte, che capiamo chi siamo noi davvero. Nonostante i tuoi errori, nonostante i tuoi sbagli, nonostante il male che credi di aver fatto, hai comunque perseverato. Non hai mai distolto il tuo sguardo dall’obiettivo principale, da ciò che vuoi realmente.»

Naito avvertì un brivido udendo quelle parole così familiari. Ciò che voleva realmente. Ciò che contava di più in assoluto.

«Aiutare quelli come te. Per impedire che altri spargimenti di sangue avvengano. Per diventare una persona migliore. Credi di non meritare perdono, credi di essere condannato, ma vuoi comunque salvare la tua gente perché hai un dovere nei loro confronti.»

Miyamoto cominciò a sollevare le dita mentre parlava. «Credi di aver infranto i valori del Bushido, ma durante questo viaggio, Naosuke, sei stato scrupolosamente onesto. Sei stato eroico quando hai salvato quel bambino. Sei stato compassionevole verso quella madre disperata. Sei stato sincero quando hai detto che ci saremmo rivisti. Sei stato onorevole in ogni situazione in cui ti è stato concesso di esserlo. Sei stato gentile verso i tuoi nemici, quando ti è stato concesso. E sei rimasto leale alla tua causa.»

Gli sorrise. Aveva sette dita alzate, una per ogni principio del Bushido. «Puoi credere di non meritare più perdono, puoi credere di non poter diventare mai un samurai, puoi credere di aver smarrito la retta via, ma sappi che invece non l’hai mai, mai, lasciata. Hai seguito i sette principi, sia nel bene che nel male, e sei giunto fino a qui. Ora di fronte a me non c’è più quel ragazzo smarrito che ho conosciuto qualche settimana fa, quello che non sapeva che cosa voleva essere: di fronte a me c’è qualcuno che sa quello che vuole, che è disposto a combattere per averlo e che è disposto a farlo in maniera onorevole. Di fronte a me c’è un uomo. Un futuro samurai di prim’ordine.»

Mentre osservava il vecchio fumare la pipa come se nulla fosse, Naito pensò di trovarsi in un’allucinazione. Sentì le labbra tremolargli di nuovo.

«Bada bene, Naosuke.» Miyamoto sollevò un indice prima che il buonumore lo contagiasse troppo. «Quello che hai fatto è grave e ci saranno conseguenze, su questo non ho dubbi. Ma vedo che sei disposto ad accettarle e questo ti rende immenso onore. Ho detto che di fronte a me c’è un futuro samurai e lo penso davvero, ma sappi che quel giorno è molto lontano e sappi anche che, da questo momento in poi, la tua strada sarà ancora più tortuosa.»

Quella doveva essere la prima volta in cui il vecchio lo rimproverava. Naito abbassò di nuovo la testa e annuì in imbarazzo, anche se, in un certo senso, quel rimprovero lo fece sentire meglio: significava che Miyamoto davvero credeva in lui.

«Sei ancora in tempo ad abbandonare tutto, Naosuke. Puoi scappare. Io non ti cercherò né denuncerò. Nemmeno Ami lo farà. Puoi essere ancora libero, se vuoi.»

«Non intendo scappare» rispose subito Naito. «Neanche per sogno.»

Miyamoto sorrise: quella era proprio la risposta che voleva sentire. «Molto bene, figliolo.»

Ami gli posò una mano sulla spalla, rivolgendogli un cenno. A quel punto anche Naito riuscì a sorridere incredulo. «Grazie… a tutti e due, grazie.»

Una nuvoletta di fumo li investì entrambi, strappandogli dei versi di sorpresa.

«Di niente» gracchiò Miyamoto, riportandosi la pipa alla bocca. «Allora figliolo, stavi dicendo? Cos’è successo dopo il Santuario Meiji? Forza che sono curioso!»

Naito fece una smorfia e scacciò via il fumo, mentre Ami tossicchiava. Fu un sollievo per lui andare avanti e potersi lasciare i fatti di Tokyo alle spalle. Quelle azioni lo avrebbero tormentato ancora, ma sapere di non aver perso la fiducia in Miyamoto fu molto rincuorante. Così concluse il racconto, parlando delle Tribune e di Ibaraki.

«Ibaraki?!» Ami sgranò gli occhi. Sembrava aver appena visto… Ibaraki stessa.

«La conosci?» domandò Naito.

«I-Io… sì, certo che la conosco. Ci siamo imbattute anche in lei, un paio di volte.» La ragazza rabbrividì. «Non è mai finita bene… è molto, molto pericolosa. Anche se… hai detto… “Re”?»

«Sì…»

Ami si carezzò le cicatrici sulla guancia, incupendosi. Scambiò un’occhiata con Miyamoto, che annuì.

«Ma… come? Dovrebbe essere morto!» protestò lei.

«Anch’io dovrei esserlo. Eppure eccomi qui.»

«Ehm… che state facendo? Voi due sapete qualcosa?» si intromise Naito.

«Il Re è uno dei demoni più pericolosi che si siano mai visti» cominciò il vecchio Musashi, buttando fuori altro fumo. «Le leggende dicono che è stato ucciso molti secoli fa. Tuttavia, tu hai conosciuto Ibaraki, la sua vice e compagna. E hai detto che sono stanziati sul monte Ōeyama, che è proprio la casa su cui il Re era stanziato ai tempi in cui è stato sconfitto la prima volta. Non ci sono dubbi, si tratta proprio di lui.»

«Ma… ma chi è?»

Ami e il vecchio Musashi si scambiarono un altro sguardo. Lei sembrava in procinto di svenire, o di vomitare, o tutte e due le cose.

Il vecchio invece era grinzoso e impassibile come sempre. «La verità è pericolosa, Naosuke» disse infine. «Scusa davvero figliolo, ma non credo sia bene che tu conosca la sua reale identità. Non dopo tutto quello che hai trascorso, non solo negli ultimi giorni, ma per tutta la vita. Posso dirti, tuttavia, che è qualcuno che conosce bene Yamata no Orochi. Qualcuno che di certo non ha preso bene la sua morte.»

Naito sussultò. Ripensò alle parole di Ibaraki. Il Re aveva catturato Kate Model perché cercava la spada. E Orochi aveva scoperto dove quella donna si trovasse, ma non l’aveva rivelato a nessuno. Quindi… quindi quei due erano in contatto già da molto tempo. Ma perché non avevano unito le forze?

Una mano si posò di nuovo sulla sua spalla. Ami lo guardò angosciata. «Ti senti bene?»

«Sì, sì» mormorò lui dopo un attimo di esitazione, anche se non pensò di essere molto convincente.

«Se il Re ti sta dando la caccia, Naosuke, faresti meglio a svanire al più presto» concluse Miyamoto, grattandosi la barba. «Non credo che si arrenderà tanto facilmente.»

Naito fece alla smorfia. Già, era giunto a una conclusione simile anche lui.

«Ma non siamo qui per parlare del Re, giusto? A te interessa l’elisir.»

La voce di Miyamoto lo fece riscuotere. Con tutte quelle discussioni aveva quasi scordato perché era corso lì. «Ecco… tu… lei ha detto che, se avesse saputo che le leggende erano reali, avrebbe potuto cercare “qualcosa” per darlo ai suoi cari. Ha anche detto che la morte non si può curare, ma solo prevenire. Si… si riferiva all’elisir, vero?»

Miyamoto sbuffò fuori del fumo, poi annuì. «Sì, mi riferivo a quello.»

Il ragazzo ebbe un tuffo al cuore. «Lei… lei sa dove si trova?»

«Sapere è un concetto molto astratto, quando si parla di questo genere di cose, figliolo.»

Naito corrucciò la fronte.

«Significa che non è una risposta semplice da dare» spiegò Ami con voce paziente.

«O-Oh… l’avevo capito.» Naito pensò di poter morire per l’imbarazzo.

«In ogni caso, permettetevi di fornirvi un quadro più generale affinché possiate capire appieno da dove provengono i miei ragionamenti. Dunque, posso dirvi che nel corso di questi secoli ho capito un paio di cose importanti. La principale è che non esiste mai una sola versione dei fatti. Molto spesso, la verità risiede nel mezzo. Un’altra cosa che ho capito, poi, è che molto spesso tendiamo a copiarci gli uni con gli altri. Per esempio, greci e romani. Oppure, cinesi e giapponesi.»

Miyamoto sorrise. «L’elisir è una leggenda cinese, dico bene? Beh… sì, è vero, lo è. E allo stesso tempo… no, non proprio. Non è solo cinese, almeno. Fa anche parte della cultura araba. Quella europea. Gli stessi greci hanno la loro versione dell’elisir, che chiamano “Nettare e Ambrosia.” Quindi, perché anche il Giappone non dovrebbe averlo?»

Sembrava diventata una lezione di storia. Ami e Naito si scambiarono uno sguardo, perplessi. Inginocchiati al tavolino, di fronte al vecchio Musashi, parevano quasi dei suoi allievi.

«Per comprendere davvero se l’elisir esiste o meno, abbiamo bisogno di considerare anche altre leggende. Noi, ora, faremo riferimento a due di esse in particolare, che potrebbero sembrare slegate, ma in realtà non lo sono affatto, e presto capirete il motivo: la prima è quella del Coniglio Lunare. La conoscete?»

«Io… sì, credo di sì» mormorò Ami. «Parla di un viaggiatore, anziano e stanco, che dopo un lungo viaggio si fermò in una foresta abitata da una scimmia, uno sciacallo, una lontra e un coniglio. Era così stremato che chiese loro aiuto. La scimmia, lo sciacallo e la lontra gli procurarono frutta, pesce e carne. Il coniglio, invece, essendo capace solo di raccogliere erba che non sarebbe servita, decise di gettarsi nelle fiamme di un falò per donare sé stesso al viaggiatore. Meravigliata dal suo sacrificio, la dea cinese della luna Chang’e lo immortalò sulla luna, con una sagoma che è visibile tutt’oggi.»

«Molto bene» annuì Miyamoto, con un sorriso. Ami si impettì, lanciando un’occhiatina compiaciuta a Naito, che roteò gli occhi.

«Questa è la versione più famosa. Ma non è quella di cui abbiamo bisogno noi» proseguì il vecchio Musashi. Il sorriso svanì dal volto di Ami rapido com’era apparso e Naito sghignazzò.

«Esiste un’altra versione» proseguì l’uomo, dopo aver sorseggiato un po’ di infuso. «Parla di un uomo che abitava sulla luna e che un giorno decise di scendere sulla terra. Un uomo molto affamato, che si imbatté in questi animali. Non c’erano lo sciacallo e la lontra, ma una volpe e di nuovo la scimmia e il coniglio. Il resto è pressappoco identico, la scimmia e la volpe gli procurarono del cibo e il coniglio si sacrificò. Qui la storia diverge. Non viene fatta alcuna menzione della dea Chang’e. Viene solo detto che l’uomo che viveva sulla luna, commosso dal sacrificio del coniglio, decise di portarlo con sé proprio sulla luna, rendendolo immortale. E non solo. L’uomo gli diede un pastello ed un mortaio, secondo alcuni per aiutarlo a creare impasti di riso, secondo altri, invece, proprio per creare l’elisir. Ora, Naosuke…»

Miyamoto gli rivolse un cenno del capo. «Ricordi l’ultima leggenda che ti ho raccontato? Quella dei tre fratelli?»

Non appena la menzionò, Naito spalancò l’occhio. L’uomo sulla luna, affamato, che scese sulla terra. «Tsukuyomi» sussurrò incredulo.

«Esatto Naosuke. Tsukuyomi scese sulla terra, mandato da Amaterasu per partecipare a quel banchetto dove uccise la dea del cibo. Venne esiliato dal regno degli dei per questo e dunque si ritirò nell’unico altro luogo in cui poteva andare: il suo regno, la luna. Tempo dopo, affamato, scese di nuovo sulla terra in cerca di cibo, ma non avrebbe potuto chiederlo a nessuno per via di ciò che aveva fatto ad Ukemochi. E questo ci conduce alla leggenda del Coniglio Lunare.»

Il vecchio Musashi bevve un altro sorso. «Per molti, non esiste alcun collegamento tra queste due leggende. È solo… una coincidenza, per così dire. Ma non esistono le coincidenze, quando si tratta di dei e miti. La verità sta sempre nel mezzo, miei cari. E secondo me, l’elisir esiste davvero. E Chang’e, non me ne voglia a male, non c’entra nulla con tutto questo. Tsukuyomi è il dio stai cercando. Trova Tsukuyomi e troverai l’elisir.»

Naito rimase senza parole. Il vecchio Musashi aveva trovato la soluzione così in fretta che non sapeva nemmeno come reagire. Ma dopotutto aveva vissuto quattrocento anni, e a quanto pareva era stato un maestro per moltissimi allievi. Chissà quante altre cose incredibili sapeva.

Sorgeva un problema, però: Tsukuyomi non era un dio gentile, stando ai racconti che giravano su di lui. Aveva ucciso Ukemochi, a ragione o torto non era importante. Aveva litigato con Amaterasu, motivo per cui Naito sentiva che fosse lui il dio traditore, e per di più era esiliato. Trovarlo non sarebbe stato affatto semplice e, ammesso che ci fosse riuscito, non credeva proprio che l’avrebbe aiutato.

Allo stesso tempo, quella era l’unica opzione che aveva. E sembrava anche la più plausibile. Non c’erano dicerie o satori di mezzo, era il vecchio Musashi a crederlo, e se lui ci credeva, allora anche Naito l’avrebbe fatto.

«Va bene» annuì, determinato. «Come posso trovarlo?»

«Si potrebbe contattare in un suo santuario» suggerì Ami. «A Kyoto c’è il santuario Matsunoo Taisha, con un altare dedicato a lui.»

«Non credo proprio che risponderebbe» replicò il vecchio Musashi. «Tsukuyomi… non è qualcuno di molto attento agli uomini. Perché dovrebbe, dopo essere stato esiliato? Ormai è un dio solo di nome, non adempie più ai suoi doveri. L’unico modo per farsi ascoltare da lui, è incontrarlo di persona.»

«Dove?» chiese Naito.

Miyamoto prese un’altra boccata dalla pipa. Sbuffò un’altra nuvoletta di fumo, con una calma straziante, mentre Naito e Ami aspettavano trepidanti la sua risposta.

«Questa è una bella domanda» disse poi. «Per trovare la risposta, dobbiamo basarci su quello che sappiamo. Sappiamo che Tsukuyomi è l’uomo sceso dalla luna. Sappiamo che è stato esiliato dal Takama-ga-hara. E, questa cosa la imparerete adesso, il Takama-ga-hara non si trova davvero nella stratosfera, in un luogo inaccessibile. La casa degli dei si trova proprio sopra il monte Takamagahara, qui in Giappone, ed è accessibile tramite un ponte celeste sospeso nell’aria. Il fatto che chiunque non invitato provi ad attraversalo venga scaraventato giù in un attimo… quello è un altro discorso, non è rilevante, al momento. Quello che conta, è sapere che la casa degli dei si trova sopra un monte.»

Naito cominciò a seguire il ragionamento. «Crede… crede che Tsukuyomi sia sopra un altro monte?»

«È quello che penso, sì.»

«Ma… e quella storia su di lui che scese dalla Luna?» si intromise Ami. «Non sarebbe più plausibile che lui… sì, insomma, abiti sulla Luna?»

«E come dovrei arrivarci, sulla Luna?» ribatté Naito.

«Cerco solo di essere razionale, Naos… Naito» borbottò lei. «Tsukuyomi è il dio della Luna. Ed è sceso dalla Luna, secondo il mito. Quindi perché non…»

«Per lo stesso motivo per cui Amaterasu non vive sul Sole, mia cara. Nel bene e nel male, i kami hanno bisogno di avere un collegamento con la Terra. Dopotutto è qui che vengono venerati, non nel cielo» spiegò Miyamoto. «Ma ciò che dici è sensato, Ami. Tsukuyomi non vivrà sulla “Luna”, ma credo che, tra tutti i monti che potrebbe scegliere dove abitare, ne voglia uno che sia molto vicino ad essa. Un luogo che… lo faccia sentire a casa.»

«Il Monte Fuji» sussurrò allora Ami. «È il monte più alto del Giappone, quasi il doppio del Monte Takamagahara. Tra tutti, è quello che più si avvicina alla Luna.»

Miyamoto sorrise. «Esatto.»

«Il Monte Fuji» ripeté Naito. Assottigliò le labbra e si alzò in piedi. «Posso farcela in un giorno.»

«Uh? Un momento, vuoi partire subito?» domandò il vecchio Musashi, sbigottito.

«Io…» Naito non riuscì a reggere il suo sguardo. «Mi dispiace, Miyamoto, ma non posso trattenermi. L’ho già messa in pericolo una volta, non posso permettere che accada di nuovo. Specialmente dopo quello che è successo a Tokyo.»

«Mhh…» Il vecchio Musashi si accarezzò la barba. «Sì, capisco. Allora, permettimi di salutarti come si deve.»

Si alzò dal tavolo e andò a rovistare nella cucina, tornando poco dopo con una fiasca di sakè e tre bicchieri. Ne consegnò uno ad Ami e uno a Naito e poi tornò al suo posto. Li servì entrambi e poi riempì il proprio.

«Un brindisi. Rendiamo onore a te, Naosuke, all’uomo che stai diventando. Rendiamo onore ai compagni caduti…» Lanciò uno sguardo di solidarietà a Naito, che lo colpì nel profondo, molto più forte di quanto avrebbe voluto. «… e a quelli trovati» concluse, sorridendo ad Ami.

La ragazza ricambiò il sorriso, scambiandosi uno sguardo prima con lui, poi con Naito. Sembrava genuinamente felice.

Miyamoto alzò il bicchiere, tenendolo con una mano e appoggiando le dita dell’altra sotto la base. Chinò la testa verso di loro e Ami lo imitò. Naito, che non aveva mai fatto niente del genere, si ritrovò a emularli un po’ imbarazzato, ma comunque incapace di contenere la propria gioia.

«Kanpai!» esclamò Miyamoto.

«Kanpai!» fece eco Ami.

Naito sentì le labbra tremolare. «Kanpai» concluse, prima di buttare giù il sakè in un sol sorso.

Non aveva mai bevuto prima di quel momento, quindi non sapeva cosa aspettarsi. Era molto forte, bruciava la gola e non aveva proprio un buon sapore, ma era sempre meglio dell’infuso di alghe. E poi non contava il sapore: contava il momento. Quando si separò dal bicchiere avvertì la testa girare lievemente.

Uno strano verso provenne da Ami, che si allontanò dalla tazzina strizzando le palpebre. «È… forte» disse ridacchiando.

«Ah, eccome se lo è!» Miyamoto sospirò compiaciuto. «Questo è il sakè dei Tre Dei! Così forte da essere velenoso per i demoni!»

Naito spalancò la bocca. «M-Mi ha fatto bere del veleno?!»

Per tutta risposta il vecchio Musashi rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. «Mi mancherai un sacco figliolo!»

Il ragazzo non capì se Miyamoto si riferisse al fatto che stava per partire, o che stava per morire avvelenato.

«Allora, ne volete ancora?»

Il vecchio cominciò a servirsi di nuovo. Naito denegò, posando la tazzina sul tavolo, mentre Ami accettò un secondo bicchiere.

Al terzo bicchiere, il vecchio Musashi cominciò a raccontare barzellette sporche, momento in cui Naito seppellì il viso tra le mani mentre Ami ridacchiava rossa in volto, forse per il sakè, forse per l’imbarazzo.

Al quarto bicchiere, Miyamoto parlò della volta che Naito era scappato via terrorizzato dal gabinetto dopo aver tirato lo sciacquone – a quel punto il mezzosangue pensò che forse avrebbe potuto porre rimedio alla vita che non sembrava voler finire del vecchio – e al quinto bicchiere si addormentò sul tavolino, sbattendo la fronte.

Anche Ami sembrava appisolata, con il volto appoggiato sulle braccia a mo’ di cuscino. Naito li osservò entrambi e sospirò, un po’ deluso dal loro comportamento, e soprattutto deluso dal fatto che lui era stato il più maturo. Lui. 

E poi si ritrovò a rivolgere un ampio sorriso a quell’immagine che trasmetteva così tanta pace e familiarità. Gli dispiacque perfino andarsene dalla cucina così calda e accogliente, ma sapeva di non avere più tempo da perdere.

Non avrebbe mai creduto che il vecchio Musashi si sarebbe rivelato così importante, per lui. Non aveva mai avuto un padre, tantomeno un maestro, o un mentore, solo un uomo folle e assetato di vendetta che aveva cercato di renderlo un mostro. Ma forse… forse ora poteva considerare il vecchio Musashi come quella figura di riferimento che non aveva mai avuto.

«Tornerò a trovarla» mormorò al vecchio, rialzandosi in piedi. E non doveva promettere: era un samurai, la sua parola era già azione.

Spostò lo sguardo su Ami, la cui presenza lì ancora lo lasciava ancora sorpreso, ma in senso positivo. Non avrebbe mai creduto di rivederla, non così almeno, ma era felice che fosse successo. Si augurò che anche lei riuscisse a trovare di nuovo il suo posto nel mondo.

Si allontanò dalla casa del vecchio Miyamoto Musashi, inspirando l’aria fredda della notte a pieni polmoni. Non credeva di essersi trattenuto così tanto, ma la luna piena in cielo la raccontava in maniera diversa. Fu proprio su quella che si soffermò con lo sguardo. Era uguale a quella sera, quella in cui era tornato al campo dei greci per parlare con Edward. Era stato allora che gli aveva detto di diffidare di Tsukuyomi. Presto, avrebbe scoperto se le sue teorie erano fondate oppure no.

«Naito» lo chiamò Ami all’improvviso, alle sue spalle. Lo raggiunse di corsa, fermandosi di fronte a lui. «Stai… stai partendo?»

«Sì. Non posso trattenermi oltre.»

«Potresti… salutare Miyamoto, prima.»

«Dopo le storie che ha detto su di me?» Naito fece una smorfia. «Non esiste proprio.»

Ami ridacchiò. «Sì… capisco.»

La sua espressione cambiò all’improvviso. Cominciò a massaggiarsi il braccio e fece un passo verso di lui. Sembrava molto imbarazzata. «Ascolta, Nao… Naito… io… io…»

«Che cosa c’è, Ami?»

Gli sguardi dei due ragazzi si incrociarono. Ami fece un altro passo in avanti, trovandosi faccia a faccia con lui. «Io…» Serrò le labbra e piantò i piedi a terra. «Io voglio venire con te.»

Naito corrucciò la fronte. «Vuoi dire… sul monte Fuji? A cercare Tsukuyomi?»

Ami annuì determinata. «Sono… sono viva grazie a te. Vorrei ricambiare accompagnandoti. Il Monte Fuji… c’è un motivo se è considerata una montagna sacra, viva perfino. È un luogo protetto. E tu… insomma, tu non puoi scalarlo da solo. Potrebbe… potrebbe essere pericoloso.»

Il viaggio con Hachidori balenò nella mente di Naito, facendolo irrigidire. Sapeva che non era giusto mettere loro due a confronto, ma il pensiero che qualcosa di simile potesse accadere di nuovo gli bastò per fargli capire non poteva lasciarla venire con lui. Nel bene e nel male, anche Ami era rimasta troppo coinvolta in tutta quella faccenda. Non voleva che altre persone si facessero male.

Meishu era forte, di certo sapeva badare a sé stessa, ma Naito si sarebbe sentito meglio sapendola al sicuro, lontana da quella folle storia.

Aveva iniziato quell’avventura da solo. E l’avrebbe finita, da solo.

«Preferisco andare avanti da solo, Ami. Soprattutto se è pericoloso come dici tu. Non voglio che ti succeda qualcosa per causa mia.»

L’espressione di lei si fece smorta. «Naito, ascolta…»

«Vuoi ricambiare il favore?» la interruppe sollevando una mano, prima di sorriderle. Accennò con il mento alla casa. «Rimani con Miyamoto. Fagli compagnia. Ne ha bisogno, dopo tanto tempo da solo. Prenditi cura di lui. Promettimi che lo farai, e saremo pari.»  

Ami si mordicchiò un labbro e fece vagare lo sguardo da lui all’abitazione. «Va bene. Rimarrò con lui» acconsentì, sembrando anche sollevata. Non molto promettente come cosa, ma Naito si sforzò di non pensarci.

«Buona fortuna, Ami. Spero che tu riesca a trovare la tua strada» concluse, con un inchino.

«Mi… mi sono sbagliata, sul tuo conto» rispose lei. «Purosangue, mezzosangue, demone, umano… non ha importanza quello che sei. Conta quello che fai. Sei mosso da nobili ideali.» Ricambiò l’inchino. «Spero che tu riesca a trovare l’elisir. Buona fortuna, Naito.»

«Naosuke.»

Ami drizzò la testa sorpresa, e Naito distese il sorriso. «Puoi chiamarmi Naosuke.»

Ancora una volta, lei gli sorrise sincera. Quella stessa ragazza che un tempo era stata sua nemica e che ora sembrava tutta un’altra persona. Forse era quello che Konnor intendeva dire quando gli aveva detto di poter essere migliore. Quello significava essere migliori.

Naito si allontanò lungo il sentiero salutandola un’ultima volta, augurandosi di incontrare di nuovo anche lei al suo ritorno dal vecchio Musashi.

La luna era ancora lì, a scrutarlo impassibile. Naito sollevò lo sguardo e sorrise determinato verso di essa.

Tsukuyomi, il dio che aveva voltato le spalle a tutti gli altri. Naito avrebbe scoperto chi era davvero.

Un viaggio, l’ultimo viaggio, l’attendeva.

 

 



1 Lo Yokohama Cosmoworld, un parco dei divertimenti che si vede piuttosto spesso in serie o film ambientati in Giappone (appare in Alice in Borderland, per esempio). Quindi sì, non è un’isola delle torture, ma Naito non le sa queste cose

2 Il bovino giapponese

Qui lascio il disegno di Meishu/Ami: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Meishu-la-kunoichi-L-Elisir-di-lunga-vita-888501870

 

 

 

Salve gente, non mi dilungherò molto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e colgo l’occasione per dirvi, con un po’ di tristezza, ma in realtà neanche troppa, che siamo alle fasi finali della storia. Mancano solo più due capitoli. Ve lo comunico così perché mi rendo conto che il finale potrà sembrare molto “improvviso” quindi voglio partire prevenuto. 

Sì, la storia potrà sembrare che si interrompa proprio sul più bello ma… beh, era questo il mio intento. Scusate gente, ma sto costruendo il mio piccolo universo alla MCU e ci voleva lo stand alone di Naito per introdurlo al futuro (ovvio che tornerà) ma comunque vi spiegherò meglio quando ci troveremo alla fine, ora vi stavo solo avvisando perché mi sembrava corretto nei vostri confronti.

Altra comunicazione, lunedì tornerò con un capitolo della raccolta, che sarà molto importante, o almeno, sarà l’inizio del… “nuovo inizio”. Sì detto così non ha senso ma capirete più avanti, quindi ancora una volta voi che continuate a leggere l’Elisir avete lo scoop. 

E no, non voglio creare una ship tra Naito e Meishu. Volevo solo mostrare che Naito è cambiato e che, nel bene e nel male, ciò che ha appreso da Konnor si sta trasferendo anche su altri. Naito è passato dall’essere quello che è stato migliorato a quello che sta a sua volta migliorando gli altri (Hachidori e Meishu su tutti). 

Character arcs lads, character arcs. 

Grazie per aver letto, grazie ai recensori e alla prossima!

 

   
 
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