Giorno di ordinario convivio
convìvio s.
m. [dal lat. convivium, der. di convivĕre «vivere
insieme»], letter. – Convito, banchetto: le dolci reliquie de’ convivi (Ariosto). Il
Convivio, titolo di un’opera dottrinale di Dante (quasi «banchetto di
scienza» per i non letterati).
Se c’era una cosa che Kakyoin odiava più di tutte, se si
eccettuava la mancanza di onestà, era quando le persone attorno a lui non si
sentivano a loro agio, perché era come se lo avvertisse anche lui. E se gli
altri stavano male ne conseguiva la sua contrizione.
Stava accadendo esattamente ciò al ristorante: come di consuetudine i buoni che
sapevano di essere buoni desinavano al pian terreno, mentre i buoni che non
sapevano ancora di essere buoni si autoisolavano su quello superiore a
tracannare birra e a cantarsi canzonacce, quando capitava. E Kakyoin attendeva
con la pazienza tipica degli immortali che gli spiriti al piano superiore
smettessero i panni dei balordi per scendere giù e mostrare il loro vero
essere; tuttavia, la pazienza diminuiva quando a mescolarsi tra gli ex
criminali c’erano anime con le quali sentiva di avere un frammento di destino
in comune.
Quel frammento di destino in comune era custodito gelosamente da tre ragazzi la
cui freschezza dei volti, che tuttavia non nascondeva gli occhi guardinghi di
chi aveva visto chissà quali e quante miserie, strideva tragicamente con le
barbacce grigie, le gonne sudicie e il cicaleccio vernacolare. Qualcosa, di
loro, gli impediva di infrangere il muro dell’indifferenza per fugare ogni
dubbio sul legame nascosto che li teneva uniti e ciò si traduceva in
sopracciglia aggrottate, pranzi abbandonati a metà e scoppi di stizza repentini.
Quel giorno, però, la stizza si era catalizzata in un silenzio pesante che
gravava anche su coloro che pranzavano giù. Di sicuro non avrebbe risolto i
loro screzi, ma Kakyoin era perlomeno intenzionato ad alleggerire i loro animi
almeno fino al sopraggiungere del tramonto fittizio del quartiere del
guazzabuglio, e lo spunto gli venne fornito dai due canestri che Perla stava premurandosi
di portare sulla tavola alla quale stava pranzando in compagnia di Abdul e
Speedwagon.
«Signor Robert, Mohammed, Tenmei» esordì la ragazza posando al centro della
tovaglia i recipienti già tintinnanti di monete «vi annuncio che Caesar ha
bandito una nuova scommessa, quindi siete invitati a votare»
«E questa scommessa su cosa sarebbe?» domandò Speedwagon da sopra la sua fetta
di torta finita a metà «Non riguarda possibili appaiamenti, vero?»
Perla non parlò. Piuttosto fece roteare gli occhi in maniera eloquente verso il
terzetto di italiani che stava ordinando il caffè.
«Vero?» incalzò Speedwagon preoccupato.
Abdul, nel mentre, aveva rovesciato la testa oltre lo schienale della sedia.
«Oh, quando la finirà quello scemo di fare stupidaggini? Se ci tiene così tanto
a farsi fratturare un osso perché non va da loro a dirglielo in faccia?»
«Dice che se facesse così non ci proverebbe gusto, e poi perché sarebbe sicuro
di batterli tutti e tre» riportò fedelmente Perla, che nel frattempo aveva
sgraffignato un milkshake da un vassoio portato da un cameriere «Ma stavolta non
gli voto contro, anche secondo me tra il biondo e il caschetto c’è del tenero».
Kakyoin non proruppe in una singola sillaba. Vuotò con un sorso i fondi del suo
tè e guardò Speedwagon lasciare cadere una moneta nel secchiello dei “sì”,
subito seguito da un riluttante Abdul. A giudicare dal modo con cui il biondo e
il caschetto si guardavano quando gli capitava di beccarli a pranzo come quella
volta non poteva non dare ragione a Caesar, peccato però che sussistesse un
impedimento oltremodo increscioso: dare ragione a Caesar gli dava fastidio.
Posando la tazza con più lentezza del possibile sul piattino si guardò intorno alla
ricerca di Jonathan o di Elizabeth: per sua fortuna né i vecchi Joestar né la
temibile anima della temibile madre del signor Joestar erano presenti, quindi
nessuno lo avrebbe punito. O almeno, avrebbe ricevuto una bella lavata di capo
a marachella bella e compiuta, quindi si disse che il gioco valeva la candela.
Avvicinò a sé la fruttiera e pescò due ciliegie unite in cima dal picciolo. Le
mise entrambe in bocca e coprendosi con un fazzoletto depositò i noccioli sul
palmo della mano, dopo di che ne mise uno dentro ciascun cesto sotto gli
sguardi di biasimo di Abdul e Speedwagon.
«Che c’è?» domandò con finta innocenza accavallando le gambe e incrociando le
mani in grembo «Voglio solo far rallegrare qualcuno».
Perla, invece, aveva trattenuto una risata dal naso e guardato divertita i due
commensali contrariati.
«E dai, non litigano da così tanto tempo che inizio a pensare vadano d’accordo»
«Io andare d’accordo con Caesar? Né oggi né mai!» espresse Kakyoin con
convinzione «Piuttosto vado in purgatorio a bere sakè con Gray Fly!».
Perla lo guardò con sufficienza.
«Ti aspetti che ti creda?»
«Ovviamente no, per l’amor di Dio»
«Ah, mi sembrava» la ragazza terminò il suo latte e raccolse i cestini «ricorda
che a Cherry non piace quando ti fai rompere il setto nasale, quindi cercate di
andarci piano»
«Promesso» disse Kakyoin con solennità mentre Abdul scuoteva il capo affranto
«e poi oggi non ho voglia di picchiarmi in sala con lui»
«Vallo a dire a Caesar» rimbeccò Perla alzandosi dalla tavola per raggiungere
quella del destinatario della burla, in quel momento occupato a fare il
cascamorto con la caposala «io mi siedo nell’angolo più remoto del locale e assisterò
allo spettacolo mangiando popcorn, addio»
«Sayōnara» fu il saluto carico di cortese sarcasmo di Kakyoin, che non
commentò gli occhi al cielo di Speedwagon.
«Presto o tardi mi spiegherai come hai fatto a diventare così scalmanato» gli
disse Abdul incrociando le braccia come se stesse rimproverando il fratello
minore ribelle «a volte non so cosa ti passi per la testa»
«Oh, sto recuperando il tempo perduto!» protestò Kakyoin senza però smettere di
sorridere beffardo «E poi devo vendicarmi dell’ultima volta che mi ha gettato
in acqua coi vestiti addosso»
«Al quale tu hai risposto con una gomitata sui denti» tenne a ricordare
Speedwagon.
«Le rammento, signor Robert, che le mie reazioni prevedono sempre un tasso
di interesse poiché non sono io quello che dà avvio agli alterchi» precisò
Kakyoin che, senza mai aver smesso di prestare attenzione al tavolo di Caesar
con l’udito, aveva intravisto Perla allontanarsi di gran carriera per
nascondersi dove i piatti volanti non l’avrebbero colpita; ma a differenza
dello scommettitore compulsivo lo studente non aveva intenzione di lasciar
correre nemmeno una briciola di pane.
Senza strecciare le mani dal grembo, udì Caesar far strofinare la sedia contro
il pavimento e afferrare i canestri con le monete. Intuendo ciò che sarebbe
successo di lì a pochi istanti, Abdul e Speedwagon si allontanarono dal tavolo
e si prepararono al disastro imminente.
La vittima dello scherzo si era avvicinata allo schienale di Kakyoin e
respirava con le narici dilatate. Lo guardò in cagnesco col silenzio tipico che
precede una burrasca e senza attendere che il rivale si girasse per guardarlo
gli rovesciò il contenuto di entrambi i cestini sulla testa.
Il rumore aveva fatto destare tutti i commensali in sala, inclusi quelli del
piano superiore e il terzetto, che si era alzato per capire cosa stesse
succedendo.
«Mi hai fatto toccare la tua saliva, mister mangiariso» inveì Caesar
sovrastandolo con la propria stazza «quanto puoi essere disgustoso per fare una
cosa del genere?».
Kakyoin si assicurò di avere ottenuto l’attenzione di tutti, e per tutti intese
i tre italiani coi gomiti appoggiati alla balaustra sopra di loro, e con tutta
la flemma di cui disponeva fece scivolare con un gesto della mano le ultime
monete dalla divisa e si alzò per affrontare chi lo aveva macchiato con
quell’onta.
«Ti scaldi facilmente» furono le prime parole che gli pronunziò a pochi
centimetri dal volto, differenza di altezza permettendo «e poi quando limoniamo
duro non sei così schizzinoso».
Speedwagon si era coperto la bocca con le mani, mentre Abdul aveva sgranato gli
occhi fin quasi a farseli schizzare fuori dalle orbite. In alto, il ragazzo vestito di
bianco aveva fatto sparire le sopracciglia dietro la frangetta senza
degnarsi di chetare le risatine del suo compagno più giovane. Il capellone, invece,
aveva espresso la propria sorpresa per il surrealismo della risposta contraendo
il volto in una smorfia.
In tutto questo Caesar non si era espresso, attonito per la sfacciataggine con
la quale veniva provocato dinanzi a una sala piena di anime in ascolto.
Contrasse i pugni e la mandibola e, paonazzo, più paonazzo di un peperoncino
maturo, gli sferrò un gancio che avrebbe colpito la mandibola se Kakyoin non
l’avesse intercettato in tempo con un gesto fulmineo del palmo aperto.
«Fare finta di non conoscerci, come se tra noi non ci fosse niente» proseguì
quest’ultimo alzando il tono di voce per farsi sentire «dillo, allora: dillo di
fronte a tutti che per te sono soltanto un trastullo mentre io mi struggo in
attesa di una dichiarazione che non arriverà mai! Basta, da ora in poi
professerò la castità alla faccia tua! Trovati un altro sventurato che ti
faccia divertire a letto».
Il silenzio, eccezion fatta per gli sghignazzi del ragazzino con la bandana
arancione, era tombale, e non perché tutti, lì dentro, fossero morti: chiunque
li conoscesse sapeva che Kakyoin stava bluffando per far sì che Caesar montasse
su tutte le furie, ma i nuovi arrivati non avevano alcuna idea della dinamica
di quel divertissement. O, per meglio dire, non sapevano se ridere o prepararsi
ad assistere a una rissa, oppure entrambi.
«Brutto… !».
Caesar prese Kakyoin per il colletto con la mano libera, arrabbiato come poche
volte nella sua “vita” da spirito. La messa in discussione della sua preferenza
per le donne lo faceva sragionare, e il fatto che lo facesse proprio colui che
gli aveva soffiato da sotto il naso una delle ragazze più carine del paradiso
alimentava la serie di scherzi e di screzi che si facevano a vicenda.
Kakyoin gli afferrò il polso e lo torse con il peso del proprio corpo senza
badare alla piega innaturale che stava assumendo il gomito. A Cesar non piaceva
dare il peggio di sé in presenza delle donne, quindi decise di sfruttare questo
vantaggio praticamente regalatogli.
«Dai, ti fai fregare così?» gli sibilò malignamente «Mi stai deludendo».
Senza attendere replica accorciò la distanza che lo separava dall’avversario
allargandogli le braccia entrambe bloccate e, sollevandosi sulle punte dei piedi, gli
stampò fulmineo un bacio sullo zigomo, proprio sopra la voglia.
L’intero ristorante proruppe in una risata collettiva che echeggiò tra i
bicchieri e le porcellane. Prima che Kakyoin mollasse la presa ebbe il tempo di
vedere i tre italiani che ridevano a crepapelle piegati in due sull’inferriata
della balaustra come mai avevano fatto da quando li aveva visti alla
processione della notte degli ellebori; avendo quindi compiuto la sua missione lasciò
andare i polsi di Caesar, ancora confuso per quanto accadutogli, si allontanò con
un saltello, infilò nuovamente la mano nella fruttiera, ne estrasse una terza
ciliegia e la lanciò con tanto di occhiolino al ragazzo col caschetto che la
prese al volo, sorpreso da quel piccolo regalo inaspettato. Dopo di che
attraversò la sala zigzagando e fuggì via con ancora le risate di commensali e
camerieri che gli risuonavano nelle orecchie.
Con tutta la velocità di cui disponeva superò il quartiere del guazzabuglio,
salutò fugacemente il barone Zeppeli che rischiò di essere travolto dalla foga
della sua corsa, infilò il cunicolo che conduceva all’ufficio postale in quel
momento vuoto, aprì la porticina di servizio e si ritrovò nel prato sempiterno
del giardino di Mitra. Rallentò la corsa e, per non turbare la calma del luogo,
si diresse verso i roseti a passo svelto.
Solo allora si arrestò per prendere fiato. Col respiro pesante e le mani
appoggiate sulle ginocchia, attese all’ingresso del labirinto che Caesar gliele
suonasse di santa ragione, perché sì, l’aveva combinata grossa.
Invece che dall’uscio dell’ufficio postale, la zazzera bionda del rivale
apparve dalla parte opposta, probabilmente dalla spiaggia o dal confine con gli
inferi, tremante di furia, anche lui col respiro pesante per la corsa e la
voglia di spaccagli la faccia.
«Lurido pezzo di merda!» fu la prima cosa che gli disse una volta individuato
«Era questo che volevi fare, eh?».
Kakyoin si era drizzato e, spalla appoggiata a una delle pareti dell’ingresso,
squadrava Caesar assottigliando gli occhi a mandorla.
«Da quando ti conosco ho sempre voluto sapere se veramente mi detesti o se la
tua è solo una farsa. Picchiami quanto ti pare, ma fallo qui dentro, ammesso
che le viti non ti scaraventino fuori prima che tu possa pensarci»
«Tanto non mi freghi, col cavolo che entro con te» rispose Caesar che,
però, forse per effetto della magia attrattiva del luogo, si stava avvicinando
sempre di più ai roseti «Vieni via da lì e affrontami»
«No» Kakyoin tirò fuori dalla tasca il pettine e se ne servì per sistemarsi il
ciuffo scarmigliato «piuttosto vieni tu»
«Scordatelo!»
«Per favore»
«Piuttosto la morte!»
«Ma tu sei già morto»
«Non fare il fiscale, hai capito cosa voglio dire»
«L’ho capito così bene che finalmente sei arrivato» disse Kakyoin indicando i
piedi di Caesar col pettine «Ti ho fregato di nuovo».
Caesar guardò Kakyoin, poi si guardò i piedi e infine i roseti che sbocciarono
rivelando le rose più gialle¹ che il paradiso potesse generare. Era
giunto alla soglia del labirinto senza accorgersene e adesso fissava con
sguardo ebete Kakyoin che finiva di pettinarsi.
«Come si dice dalle tue parti? Che questo è un segreto di Pulcinella?» rinfilò
il pettine in tasca e gli diede le spalle per avviarsi tra le viti «Ho sempre
saputo che non mi hai mai odiato, ma tranquillo, non dirò a nessuno che siamo
entrati da soli»
«Se ci tieni a saperlo in questo momento ti odio tantissimo» Caesar attraversò
a passi pesanti la soglia per seguire l’amico-nemico lungo il percorso notturno
illuminato dalla mezzaluna «ti odio quando cerchi di farmi fare a botte di
fronte alle donne»
«Le donne si divertono quando ci vedono litigare» gli fece presente Kakyoin «e
quella ridicola mossa fatta tanto per stropicciarmi la camicia era una scenata,
chi di risse se ne intende se n’è accorto benissimo. Peso quanto una tua gamba
e per la stazza che ti ritrovi dovresti potermi fratturare le ossa ogni volta
che ti provoco, ma non accade mai, ti lasci sempre sopraffare… Posso sapere il
perché?».
Caesar abbassò il capo. Per tutta risposta infilò le mani in tasca e calciò
l’aria come se in mezzo all’erba ci fossero dei sassolini.
«Prima dimmi perché al ristorante mi hai provocato» disse piano, quasi avesse
paura che orecchie indiscrete potessero udirlo.
«Volevo far ridere delle persone che non sono ancora venute qui dentro» Kakyoin
fece spallucce e continuò ad avanzare un po’ dove gli capitava, eludendo
facilmente i vicoli ciechi «e che mi auguro lo facciano presto»
«Ti importa così tanto delle altre persone?»
«Almeno tanto quanto te. E a te ci tengo in maniera particolare perché… perché
nel tuo essere irascibile dimostri un’onestà che ho visto in pochi altri quando
ero ancora vivo, rappresenti quasi tutto quello che mi piace trovare in un
essere umano».
A Caesar scappò un sorriso, Kakyoin non seppe se per l’imbarazzo o perché gli
piaceva sentirsi fare certi complimenti. Ma quello che si sarebbero detti
immediatamente dopo avrebbe infranto l’aria di letizia con la quale era entrato
nel labirinto.
«Sei davvero una testa di cazzo»
«Anche io ti voglio bene»
«Sto dicendo sul serio» Caesar sollevò il capo. Il sorriso era scomparso e al
suo posto le labbra contratte si preparavano a prorompere segreti che custodiva
da oltre settant’anni «pensi che professare l’onestà ci abbia fatto bene? Che
in cambio abbiamo ottenuto qualcosa di bello o di importante? Io nemmeno volevo
farlo l’eroe»
«Ah, no?» Kakyoin si fermò e, voltandosi, rivelò un’espressione improvvisamente
indurita da quanto aveva appena ascoltato «Dimmi, chi è che nasce con l’idea di
voler fare l’eroe? Io di certo no, e comunque l’onestà non si professa per
avere un tornaconto, ma perché è la cosa giusta da fare, perché mi fanno schifo
i sotterfugi e i doppi fini».
A Caesar scappò un’imprecazione triviale talmente volgare che se gli angeli
fossero esistiti veramente non avrebbero indugiato nel gettarlo per
direttissima all’inferno.
«Se i sotterfugi ti fanno schifo allora sappi che tu e Mohammed siete le ultime
persone che avrei voluto conoscere» sputò quindi «magari avreste potuto non
giocare a fare i martiri e a continuare a vivere, così Jotaro non si sarebbe
ammalato di depressione e almeno lui avrebbe avuto uno straccio di amico col
quale invecchiare assieme».
Kakyoin gli si avventò contro all’improvviso, colmo di rabbia e coi pugni
serrati, pronto a disattendere le leggi del luogo, a fargli male, a prenderlo a
testate o a pestargli un occhio, ma stavolta Caesar fu pronto a contraccambiare:
gli torse entrambi i polsi, li fece girare dietro la schiena e gli placcò la
testa a terra usando tutta la forza che non aveva mai usato contro di lui.
«Non ti permettere di nominare Jotaro» quello di Kakyoin era un sibilo al fiele
appena udibile «che ne sai tu di quello che abbiamo passato e del perché sono
qua?»
«Io so tutto di voi, ho visto anche il tuo funerale e tutte le lacrime che
Jotaro piange quando ha un crollo emotivo» Caesar lasciò andare Kakyoin e si
sedette sull’erba a gambe incrociate, sicuro che per almeno il tempo della
permanenza nel labirinto non avrebbe cercato di attaccarlo una seconda volta
«ho visto Joseph crescere Holly, conoscere Josuke e adottare Shizuka mentre tu
ti incaponivi a non voler vedere niente di ciò che accade laggiù, ma di questo
non te ne faccio una colpa… avessi subito io quello che è capitato a te
probabilmente avrei la nausea del mondo dei vivi».
Mentre il più anziano diceva quelle cose Kakyoin si ricomponeva lentamente e si
scostava i capelli nuovamente spettinati dalla fronte. Teneva lo sguardo basso,
pur senza abbandonare l’aria vendicativa che lo contraddistingueva quando
qualcuno lo sottometteva, e si mise anch’egli seduto cercando di cacciare
indietro uno spasmo del diaframma.
«Ed è anche diventato bisnonno, quel vecchio bacucco di un inglese» proseguì
Caesar «si chiama Jolyne, è la bambina più affettuosa che si possa conoscere e
il suo colore preferito è il verde… A questo punto ti chiederai perché ti stia
sciorinando tutte queste informazioni» fece una breve pausa durante la quale
cercò di stabilire un contatto visivo con Kakyoin, ma quello lo eludeva
continuando a guardarlo obliquamente e con rancore.
«La verità è che non volevo conoscervi prima del tempo perché desideravo
riusciste dove io ho fallito» fu la chiosa inaspettata del più anziano «vedervi
tribolare durante quei cinquanta giorni, prendervi cura l’uno dell’altro,
scherzare come foste amici di vecchia data… tutto svanito in poche ore. Volevo
che fossi tu a proteggere Joseph da quel momento in poi, che gli rendessi la
vecchiaia meno tormentata, che… non lo so, diventare per suo nipote quello che
io non sono stato per lui. Per me l’inferno è stato vederti morire senza che io
o lo stesso Joseph potessimo fare niente, dopo che finalmente avevi trovato
qualcuno che ti capisse, dopo aver vendicato Cherry perché avevi vissuto sulla
tua pelle quello che ha subito lei. Non volevo che i nostri destini si
incrociassero perché adesso se Joseph pensa a me è come se pensasse anche a te
e… non te lo meritavi, non dovevi fare la mia stessa fine. Ecco perché ce l’ho sempre
con te anche se non esagero con le mazzate. Le donne… quelle c’entrano poco,
solo il dieci per cento se proprio devo quantificare».
Caesar tacque in attesa di una risposta. Kakyoin se ne restava zitto e si
asciugava gli occhi con la manica. Quando piangeva lo faceva sempre in silenzio
e aveva accortezza di non farlo vedere se non alle anime di cui si fidava. Poche
erano le cose che lo turbavano al punto da fargli incrinare l’immagine di
studente onorevole col viso pulito e le maniere cortesi, ma quando ciò accadeva
quei pochi che lo avevano visto spogliato della propria maschera gli facevano
la stessa confessione:
«Aw, non mi piace vederti piangere, se poi usciamo di qui e le ragazze ti
vedono in questo stato daranno la colpa a me» Caesar tolse un filo d’erba dai
capelli di Kakyoin e glieli arruffò ancora di più.
«Tanto…» Kakyoin tirò su col naso «è fattuale che anche in lacrime il
sottoscritto resti più bello di te»
«Certo, come no» tagliò corto Caesar alzandosi, ogni traccia di livore
scomparso come per incanto «non ti allargare troppo adesso»
«Questo non posso prometterlo» anche Kakyoin si alzò, il naso ancora
congestionato e i vestiti umidi di terra e sudore «innanzi tutto mi hai ridotto
a una schifezza il gakuran, e poi non mi piace quando mi si toccano i capelli»
«Tranne quando lo fa Cherry» lo canzonò Caesar.
«Sì, sì, tutta invidia la tua» Kakyoin gli pungolò il petto con l’indice teso «con
te era una partita persa fin dall’inizio»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo» Caesar schiaffeggiò la mano di Kakyoin per
allontanarla da sé «diamine, come ha potuto dire a un uomo affascinante e
focoso come me che le ricordo suo fratello? Questo paradiso è farlocco, altro
che!»
«Beh, almeno io non ci provo con tutte… Sai, Jean-Pierre faceva la stessa cosa
quando viaggiavamo assieme, e poi siete entrambi biondi²…»
«Smettila!» abbaiò Caesar.
«Occhi chiari, faccia da scemo…»
«Ti ho detto di finirla!»
«Massa muscolare inversamente proporzionale alle sinapsi…»
«Ti strozzo!».
Caesar si lanciò all’inseguimento di Kakyoin e, quasi senza accorgersene, erano
già fuori dal labirinto a rivedere il sole e i colori delle piante. Non seppero
per quanto corsero né si diedero la noia di riconoscere le anime che incrociavano e che si
domandavano chi o cosa avesse strappato via dagli spiriti i loro corpi ancora
giovani; sapevano soltanto che avrebbero continuato a bisticciare e a fare pace
finché ne avessero avuto voglia ed energia, finché, spogliati una volta e per
sempre dalle pene della loro breve esistenza, non avessero deciso di dire addio
al loro involucro psichico per rinascere nella stessa terra che li aveva visti
perire prematuramente.
̴
Se si percorreva per intero il campo dei caduti si finiva
con l’incontrare il confine segnato dai salici piangenti, oltre ai quali
scorreva un fiumiciattolo che trasportava i liquami mefitici dagli inferi per
essere riversati nella parte di mare riservata alle anime del purgatorio.
Coloro che si avventuravano fino a lì erano da ritenersi temerari perché poteva
capitare l’incontro poco piacevole con uno spirito empio o, peggio ancora, si
rischiava di finire trascinati dalle acque putride qualora ci si decidesse di
attraversarlo per esplorare l’altra parte.
Quando Caesar e Kakyoin volevano restare da soli a ragionare delle loro vite
passate e a leccarsi le ferite che si procuravano a vicenda si rifugiavano
sotto uno dei salici a osservare il corso innaturale del fiume che invece di
discendere risaliva dai bassifondi dell’aldilà. A nessuno dei due era mai
venuto in mente di vedere cosa ci fosse dall’altra parte, anche perché se pure
lo avessero voluto non avrebbero potuto farlo in quanto erano soliti giungere lì
dopo una scazzottata, zoppicanti e sporchi tanto quanto quello Stige impervio.
Kakyoin guardava con occhi socchiusi lo scorrere del fiume e teneva la testa
appoggiata sulla spalla di Caesar. Respirava lentamente e con una mano si
tastava il costato per contare quante costole gli avesse rotto quel bastardo di
un Marcantonio, mentre il Marcantonio si toccava piano il setto nasale deviato
da una gomitata e il labbro spaccato.
«Mi hai rotto tre costole… ahia» mormorò lo studente sistemandosi meglio fra il
tronco e il bicipite di Caesar «Stai battendo la fiacca»
«Non è vero» rimbeccò l’altro lasciando stare il naso e guardandosi il polso
slogato «L’altra volta te ne ho rotte due»
«Sì, ma in aggiunta mi avevi dislocato un omero e fracassato una rotula, invece
stavolta riesco a camminare senza dovermi aggrappare da qualche parte per non
cadere»
«Però ti ho assestato un bel gancio allo stomaco» gongolò Caesar «mancava poco
che vomitassi sulle scarpe di quel bersagliere, fortuna che ti sei trattenuto
in tempo perché era lì lì per prenderti a calci sul muso»
«Idiota…» sibilò Kakyoin trattenendo una smorfia di dolore «mi sa che stavolta
dovremo aspettare un po’ di più per guarire del tutto… Jonathan sarà una furia
quando torneremo a casa»
«Appunto, tanto chi ci insegue» Caesar sputò un residuo di saliva sanguigna
sull’erba e chiuse le palpebre «Senti…» disse subito dopo, intendendo di voler
cambiare discorso.
«Che vuoi?»
«Tu… riguardo a quello che ho detto prima che facessimo a botte… insomma, a
Joseph voglio bene come un fratello, ma tu…»
«Anche io voglio molto bene al signor Joestar»
«Sai a chi mi sto riferendo, non fare lo gnorri. Ricordati che ho visto tutto
di te, anche quella cosa».
Ci fu un attimo di silenzio. Poi Kakyoin in espresse con un:
«Ah»
«Eh»
«Quello?»
«Quello. Abu Dhabi, millenovecentottantotto»
«Mh» mugolò Kakyoin «sai anche leggere il calendario adesso, sono stupefatto»
«Dai!» sbuffò Caesar scocciato «Ma a te piacciono sia le ragazze che i
ragazzi?»
«Può darsi…» Kakyoin si girò appena per guardarlo,
ma lui teneva ancora gli occhi chiusi «Però mi piacciono di più le ragazze.
Contento adesso? La tua curiosità è stata soddisfatta?»
«Sì… diciamo» Caesar aprì un occhio per saggiare la reazione di Kakyoin alla
rievocazione di quel ricordo, poi lo richiuse prima che se ne accorgesse
«Cherry lo sa?»
«Ma se gliel’hai detto tu stesso prima ancora che Geb mi accecasse!»
«Giusto» Caesar fece una smorfia di disappunto nei confronti della propria
sbadataggine «io comunque con te non ci limono, fossi anche l’ultima anima
rimasta sul paradiso»
«Ma chi ti vuole…» rispose di rimando Kakyoin «Non sei il mio tipo»
«Ti piacciono i mori»
«E le more»
«E le more».
Furono le ultime parole che si scambiarono prima di addormentarsi sfiniti. Se
solo non se le fossero date di santa ragione si sarebbero accorti del terzetto
di italiani che esplorava quella parte di Oltrevita per la prima volta,
sorprendendosi di vederli dormire assieme come se non avessero mai litigato. Il
ragazzo col caschetto nero intimò agli altri due di fare silenzio e di
proseguire per il loro cammino senza disturbarli. Prima, però, si concesse di
guardare in faccia il giapponese che gli aveva regalato la ciliegia: la prese
dalla tasca, ne staccò il picciolo e la masticò lentamente. Quando ingoiò la
polpa un’altra ciliegia era già nella sua mano, pronta per essere mangiata.
***
¹Le rose gialle sono probabilmente tra le varietà col maggior numero di significati. Oltre all'attribuzione di sentimenti negativi come la gelosia e l'invidia, nel contesto del racconto tale tipologia simboleggia anche gioia, solarità e vera amicizia.²Anche se i capelli argentati di Polnareff sono canonici, ho preferito adottare per lui la palette dell'OVA come ho fatto in precedenza con Jotaro e Kakyoin.
Alla prossima con l'ultimo capitolo.
xoxo