Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Green Star 90    04/10/2021    2 recensioni
Ci sono legami che si formano in maniera del tutto fortuita, altri che nascono per la convergenza di circostanze all’apparenza dettate più dalla volontà di un dio capriccioso che dalla causalità degli eventi, altri ancora che vengono fuori solo dopo il trapasso perché non sarebbe potuto accadere altrimenti. E nel terzo insieme era inclusa la strana amicizia che era venuta a crearsi tra l’anima di uno studente di Tokyo e quella di un capobanda di Napoli morti, a quanto constatato, più o meno alla stessa maniera seppur in circostanze differenti.
[spin-off di «Sotto i cieli di Afrodite»]
***
La bizzarra genesi in tre atti di un'amicizia ultraterrena.
Buona lettura.
Genere: Generale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bruno Bucciarati, Noriaki Kakyoin, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'Jojo in Heaven'
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2- Giorno di ordinario convivio

Giorno di ordinario convivio

 

convìvio s. m. [dal lat. convivium, der. di convivĕre «vivere insieme»], letter. – Convito, banchetto: le dolci reliquie de’ convivi (Ariosto). Il Convivio, titolo di un’opera dottrinale di Dante (quasi «banchetto di scienza» per i non letterati).

 

Se c’era una cosa che Kakyoin odiava più di tutte, se si eccettuava la mancanza di onestà, era quando le persone attorno a lui non si sentivano a loro agio, perché era come se lo avvertisse anche lui. E se gli altri stavano male ne conseguiva la sua contrizione.
Stava accadendo esattamente ciò al ristorante: come di consuetudine i buoni che sapevano di essere buoni desinavano al pian terreno, mentre i buoni che non sapevano ancora di essere buoni si autoisolavano su quello superiore a tracannare birra e a cantarsi canzonacce, quando capitava. E Kakyoin attendeva con la pazienza tipica degli immortali che gli spiriti al piano superiore smettessero i panni dei balordi per scendere giù e mostrare il loro vero essere; tuttavia, la pazienza diminuiva quando a mescolarsi tra gli ex criminali c’erano anime con le quali sentiva di avere un frammento di destino in comune.
Quel frammento di destino in comune era custodito gelosamente da tre ragazzi la cui freschezza dei volti, che tuttavia non nascondeva gli occhi guardinghi di chi aveva visto chissà quali e quante miserie, strideva tragicamente con le barbacce grigie, le gonne sudicie e il cicaleccio vernacolare. Qualcosa, di loro, gli impediva di infrangere il muro dell’indifferenza per fugare ogni dubbio sul legame nascosto che li teneva uniti e ciò si traduceva in sopracciglia aggrottate, pranzi abbandonati a metà e scoppi di stizza repentini.
Quel giorno, però, la stizza si era catalizzata in un silenzio pesante che gravava anche su coloro che pranzavano giù. Di sicuro non avrebbe risolto i loro screzi, ma Kakyoin era perlomeno intenzionato ad alleggerire i loro animi almeno fino al sopraggiungere del tramonto fittizio del quartiere del guazzabuglio, e lo spunto gli venne fornito dai due canestri che Perla stava premurandosi di portare sulla tavola alla quale stava pranzando in compagnia di Abdul e Speedwagon.
«Signor Robert, Mohammed, Tenmei» esordì la ragazza posando al centro della tovaglia i recipienti già tintinnanti di monete «vi annuncio che Caesar ha bandito una nuova scommessa, quindi siete invitati a votare»
«E questa scommessa su cosa sarebbe?» domandò Speedwagon da sopra la sua fetta di torta finita a metà «Non riguarda possibili appaiamenti, vero?»
Perla non parlò. Piuttosto fece roteare gli occhi in maniera eloquente verso il terzetto di italiani che stava ordinando il caffè.
«Vero?» incalzò Speedwagon preoccupato.
Abdul, nel mentre, aveva rovesciato la testa oltre lo schienale della sedia.
«Oh, quando la finirà quello scemo di fare stupidaggini? Se ci tiene così tanto a farsi fratturare un osso perché non va da loro a dirglielo in faccia?»
«Dice che se facesse così non ci proverebbe gusto, e poi perché sarebbe sicuro di batterli tutti e tre» riportò fedelmente Perla, che nel frattempo aveva sgraffignato un milkshake da un vassoio portato da un cameriere «Ma stavolta non gli voto contro, anche secondo me tra il biondo e il caschetto c’è del tenero».
Kakyoin non proruppe in una singola sillaba. Vuotò con un sorso i fondi del suo tè e guardò Speedwagon lasciare cadere una moneta nel secchiello dei “sì”, subito seguito da un riluttante Abdul. A giudicare dal modo con cui il biondo e il caschetto si guardavano quando gli capitava di beccarli a pranzo come quella volta non poteva non dare ragione a Caesar, peccato però che sussistesse un impedimento oltremodo increscioso: dare ragione a Caesar gli dava fastidio.
Posando la tazza con più lentezza del possibile sul piattino si guardò intorno alla ricerca di Jonathan o di Elizabeth: per sua fortuna né i vecchi Joestar né la temibile anima della temibile madre del signor Joestar erano presenti, quindi nessuno lo avrebbe punito. O almeno, avrebbe ricevuto una bella lavata di capo a marachella bella e compiuta, quindi si disse che il gioco valeva la candela.
Avvicinò a sé la fruttiera e pescò due ciliegie unite in cima dal picciolo. Le mise entrambe in bocca e coprendosi con un fazzoletto depositò i noccioli sul palmo della mano, dopo di che ne mise uno dentro ciascun cesto sotto gli sguardi di biasimo di Abdul e Speedwagon.
«Che c’è?» domandò con finta innocenza accavallando le gambe e incrociando le mani in grembo «Voglio solo far rallegrare qualcuno».
Perla, invece, aveva trattenuto una risata dal naso e guardato divertita i due commensali contrariati.
«E dai, non litigano da così tanto tempo che inizio a pensare vadano d’accordo»
«Io andare d’accordo con Caesar? Né oggi né mai!» espresse Kakyoin con convinzione «Piuttosto vado in purgatorio a bere sakè con Gray Fly!».
Perla lo guardò con sufficienza.
«Ti aspetti che ti creda?»
«Ovviamente no, per l’amor di Dio»
«Ah, mi sembrava» la ragazza terminò il suo latte e raccolse i cestini «ricorda che a Cherry non piace quando ti fai rompere il setto nasale, quindi cercate di andarci piano»
«Promesso» disse Kakyoin con solennità mentre Abdul scuoteva il capo affranto «e poi oggi non ho voglia di picchiarmi in sala con lui»
«Vallo a dire a Caesar» rimbeccò Perla alzandosi dalla tavola per raggiungere quella del destinatario della burla, in quel momento occupato a fare il cascamorto con la caposala «io mi siedo nell’angolo più remoto del locale e assisterò allo spettacolo mangiando popcorn, addio»
«Sayōnara» fu il saluto carico di cortese sarcasmo di Kakyoin, che non commentò gli occhi al cielo di Speedwagon.
«Presto o tardi mi spiegherai come hai fatto a diventare così scalmanato» gli disse Abdul incrociando le braccia come se stesse rimproverando il fratello minore ribelle «a volte non so cosa ti passi per la testa»
«Oh, sto recuperando il tempo perduto!» protestò Kakyoin senza però smettere di sorridere beffardo «E poi devo vendicarmi dell’ultima volta che mi ha gettato in acqua coi vestiti addosso»
«Al quale tu hai risposto con una gomitata sui denti» tenne a ricordare Speedwagon.
«Le rammento, signor Robert, che le mie reazioni prevedono sempre un tasso di interesse poiché non sono io quello che dà avvio agli alterchi» precisò Kakyoin che, senza mai aver smesso di prestare attenzione al tavolo di Caesar con l’udito, aveva intravisto Perla allontanarsi di gran carriera per nascondersi dove i piatti volanti non l’avrebbero colpita; ma a differenza dello scommettitore compulsivo lo studente non aveva intenzione di lasciar correre nemmeno una briciola di pane.
Senza strecciare le mani dal grembo, udì Caesar far strofinare la sedia contro il pavimento e afferrare i canestri con le monete. Intuendo ciò che sarebbe successo di lì a pochi istanti, Abdul e Speedwagon si allontanarono dal tavolo e si prepararono al disastro imminente.
La vittima dello scherzo si era avvicinata allo schienale di Kakyoin e respirava con le narici dilatate. Lo guardò in cagnesco col silenzio tipico che precede una burrasca e senza attendere che il rivale si girasse per guardarlo gli rovesciò il contenuto di entrambi i cestini sulla testa.
Il rumore aveva fatto destare tutti i commensali in sala, inclusi quelli del piano superiore e il terzetto, che si era alzato per capire cosa stesse succedendo.
«Mi hai fatto toccare la tua saliva, mister mangiariso» inveì Caesar sovrastandolo con la propria stazza «quanto puoi essere disgustoso per fare una cosa del genere?».
Kakyoin si assicurò di avere ottenuto l’attenzione di tutti, e per tutti intese i tre italiani coi gomiti appoggiati alla balaustra sopra di loro, e con tutta la flemma di cui disponeva fece scivolare con un gesto della mano le ultime monete dalla divisa e si alzò per affrontare chi lo aveva macchiato con quell’onta.
«Ti scaldi facilmente» furono le prime parole che gli pronunziò a pochi centimetri dal volto, differenza di altezza permettendo «e poi quando limoniamo duro non sei così schizzinoso».
Speedwagon si era coperto la bocca con le mani, mentre Abdul aveva sgranato gli occhi fin quasi a farseli schizzare fuori dalle orbite. In alto, il ragazzo vestito di bianco aveva fatto sparire le sopracciglia dietro la frangetta senza degnarsi di chetare le risatine del suo compagno più giovane. Il capellone, invece, aveva espresso la propria sorpresa per il surrealismo della risposta contraendo il volto in una smorfia.
In tutto questo Caesar non si era espresso, attonito per la sfacciataggine con la quale veniva provocato dinanzi a una sala piena di anime in ascolto. Contrasse i pugni e la mandibola e, paonazzo, più paonazzo di un peperoncino maturo, gli sferrò un gancio che avrebbe colpito la mandibola se Kakyoin non l’avesse intercettato in tempo con un gesto fulmineo del palmo aperto.
«Fare finta di non conoscerci, come se tra noi non ci fosse niente» proseguì quest’ultimo alzando il tono di voce per farsi sentire «dillo, allora: dillo di fronte a tutti che per te sono soltanto un trastullo mentre io mi struggo in attesa di una dichiarazione che non arriverà mai! Basta, da ora in poi professerò la castità alla faccia tua! Trovati un altro sventurato che ti faccia divertire a letto».
Il silenzio, eccezion fatta per gli sghignazzi del ragazzino con la bandana arancione, era tombale, e non perché tutti, lì dentro, fossero morti: chiunque li conoscesse sapeva che Kakyoin stava bluffando per far sì che Caesar montasse su tutte le furie, ma i nuovi arrivati non avevano alcuna idea della dinamica di quel divertissement. O, per meglio dire, non sapevano se ridere o prepararsi ad assistere a una rissa, oppure entrambi.
«Brutto… !».
Caesar prese Kakyoin per il colletto con la mano libera, arrabbiato come poche volte nella sua “vita” da spirito. La messa in discussione della sua preferenza per le donne lo faceva sragionare, e il fatto che lo facesse proprio colui che gli aveva soffiato da sotto il naso una delle ragazze più carine del paradiso alimentava la serie di scherzi e di screzi che si facevano a vicenda.
Kakyoin gli afferrò il polso e lo torse con il peso del proprio corpo senza badare alla piega innaturale che stava assumendo il gomito. A Cesar non piaceva dare il peggio di sé in presenza delle donne, quindi decise di sfruttare questo vantaggio praticamente regalatogli.
«Dai, ti fai fregare così?» gli sibilò malignamente «Mi stai deludendo».
Senza attendere replica accorciò la distanza che lo separava dall’avversario allargandogli le braccia entrambe bloccate e, sollevandosi sulle punte dei piedi, gli stampò fulmineo un bacio sullo zigomo, proprio sopra la voglia.
L’intero ristorante proruppe in una risata collettiva che echeggiò tra i bicchieri e le porcellane. Prima che Kakyoin mollasse la presa ebbe il tempo di vedere i tre italiani che ridevano a crepapelle piegati in due sull’inferriata della balaustra come mai avevano fatto da quando li aveva visti alla processione della notte degli ellebori; avendo quindi compiuto la sua missione lasciò andare i polsi di Caesar, ancora confuso per quanto accadutogli, si allontanò con un saltello, infilò nuovamente la mano nella fruttiera, ne estrasse una terza ciliegia e la lanciò con tanto di occhiolino al ragazzo col caschetto che la prese al volo, sorpreso da quel piccolo regalo inaspettato. Dopo di che attraversò la sala zigzagando e fuggì via con ancora le risate di commensali e camerieri che gli risuonavano nelle orecchie.
Con tutta la velocità di cui disponeva superò il quartiere del guazzabuglio, salutò fugacemente il barone Zeppeli che rischiò di essere travolto dalla foga della sua corsa, infilò il cunicolo che conduceva all’ufficio postale in quel momento vuoto, aprì la porticina di servizio e si ritrovò nel prato sempiterno del giardino di Mitra. Rallentò la corsa e, per non turbare la calma del luogo, si diresse verso i roseti a passo svelto.
Solo allora si arrestò per prendere fiato. Col respiro pesante e le mani appoggiate sulle ginocchia, attese all’ingresso del labirinto che Caesar gliele suonasse di santa ragione, perché sì, l’aveva combinata grossa.
Invece che dall’uscio dell’ufficio postale, la zazzera bionda del rivale apparve dalla parte opposta, probabilmente dalla spiaggia o dal confine con gli inferi, tremante di furia, anche lui col respiro pesante per la corsa e la voglia di spaccagli la faccia.
«Lurido pezzo di merda!» fu la prima cosa che gli disse una volta individuato «Era questo che volevi fare, eh?».
Kakyoin si era drizzato e, spalla appoggiata a una delle pareti dell’ingresso, squadrava Caesar assottigliando gli occhi a mandorla.
«Da quando ti conosco ho sempre voluto sapere se veramente mi detesti o se la tua è solo una farsa. Picchiami quanto ti pare, ma fallo qui dentro, ammesso che le viti non ti scaraventino fuori prima che tu possa pensarci»
«Tanto non mi freghi, col cavolo che entro con te» rispose Caesar che, però, forse per effetto della magia attrattiva del luogo, si stava avvicinando sempre di più ai roseti «Vieni via da lì e affrontami»
«No» Kakyoin tirò fuori dalla tasca il pettine e se ne servì per sistemarsi il ciuffo scarmigliato «piuttosto vieni tu»
«Scordatelo!»
«Per favore»
«Piuttosto la morte!»
«Ma tu sei già morto»
«Non fare il fiscale, hai capito cosa voglio dire»
«L’ho capito così bene che finalmente sei arrivato» disse Kakyoin indicando i piedi di Caesar col pettine «Ti ho fregato di nuovo».
Caesar guardò Kakyoin, poi si guardò i piedi e infine i roseti che sbocciarono rivelando le rose più gialle¹ che il paradiso potesse generare. Era giunto alla soglia del labirinto senza accorgersene e adesso fissava con sguardo ebete Kakyoin che finiva di pettinarsi.
«Come si dice dalle tue parti? Che questo è un segreto di Pulcinella?» rinfilò il pettine in tasca e gli diede le spalle per avviarsi tra le viti «Ho sempre saputo che non mi hai mai odiato, ma tranquillo, non dirò a nessuno che siamo entrati da soli»
«Se ci tieni a saperlo in questo momento ti odio tantissimo» Caesar attraversò a passi pesanti la soglia per seguire l’amico-nemico lungo il percorso notturno illuminato dalla mezzaluna «ti odio quando cerchi di farmi fare a botte di fronte alle donne»
«Le donne si divertono quando ci vedono litigare» gli fece presente Kakyoin «e quella ridicola mossa fatta tanto per stropicciarmi la camicia era una scenata, chi di risse se ne intende se n’è accorto benissimo. Peso quanto una tua gamba e per la stazza che ti ritrovi dovresti potermi fratturare le ossa ogni volta che ti provoco, ma non accade mai, ti lasci sempre sopraffare… Posso sapere il perché?».
Caesar abbassò il capo. Per tutta risposta infilò le mani in tasca e calciò l’aria come se in mezzo all’erba ci fossero dei sassolini.
«Prima dimmi perché al ristorante mi hai provocato» disse piano, quasi avesse paura che orecchie indiscrete potessero udirlo.
«Volevo far ridere delle persone che non sono ancora venute qui dentro» Kakyoin fece spallucce e continuò ad avanzare un po’ dove gli capitava, eludendo facilmente i vicoli ciechi «e che mi auguro lo facciano presto»
«Ti importa così tanto delle altre persone?»
«Almeno tanto quanto te. E a te ci tengo in maniera particolare perché… perché nel tuo essere irascibile dimostri un’onestà che ho visto in pochi altri quando ero ancora vivo, rappresenti quasi tutto quello che mi piace trovare in un essere umano».
A Caesar scappò un sorriso, Kakyoin non seppe se per l’imbarazzo o perché gli piaceva sentirsi fare certi complimenti. Ma quello che si sarebbero detti immediatamente dopo avrebbe infranto l’aria di letizia con la quale era entrato nel labirinto.
«Sei davvero una testa di cazzo»
«Anche io ti voglio bene»
«Sto dicendo sul serio» Caesar sollevò il capo. Il sorriso era scomparso e al suo posto le labbra contratte si preparavano a prorompere segreti che custodiva da oltre settant’anni «pensi che professare l’onestà ci abbia fatto bene? Che in cambio abbiamo ottenuto qualcosa di bello o di importante? Io nemmeno volevo farlo l’eroe»
«Ah, no?» Kakyoin si fermò e, voltandosi, rivelò un’espressione improvvisamente indurita da quanto aveva appena ascoltato «Dimmi, chi è che nasce con l’idea di voler fare l’eroe? Io di certo no, e comunque l’onestà non si professa per avere un tornaconto, ma perché è la cosa giusta da fare, perché mi fanno schifo i sotterfugi e i doppi fini».
A Caesar scappò un’imprecazione triviale talmente volgare che se gli angeli fossero esistiti veramente non avrebbero indugiato nel gettarlo per direttissima all’inferno.
«Se i sotterfugi ti fanno schifo allora sappi che tu e Mohammed siete le ultime persone che avrei voluto conoscere» sputò quindi «magari avreste potuto non giocare a fare i martiri e a continuare a vivere, così Jotaro non si sarebbe ammalato di depressione e almeno lui avrebbe avuto uno straccio di amico col quale invecchiare assieme».
Kakyoin gli si avventò contro all’improvviso, colmo di rabbia e coi pugni serrati, pronto a disattendere le leggi del luogo, a fargli male, a prenderlo a testate o a pestargli un occhio, ma stavolta Caesar fu pronto a contraccambiare: gli torse entrambi i polsi, li fece girare dietro la schiena e gli placcò la testa a terra usando tutta la forza che non aveva mai usato contro di lui.
«Non ti permettere di nominare Jotaro» quello di Kakyoin era un sibilo al fiele appena udibile «che ne sai tu di quello che abbiamo passato e del perché sono qua?»
«Io so tutto di voi, ho visto anche il tuo funerale e tutte le lacrime che Jotaro piange quando ha un crollo emotivo» Caesar lasciò andare Kakyoin e si sedette sull’erba a gambe incrociate, sicuro che per almeno il tempo della permanenza nel labirinto non avrebbe cercato di attaccarlo una seconda volta «ho visto Joseph crescere Holly, conoscere Josuke e adottare Shizuka mentre tu ti incaponivi a non voler vedere niente di ciò che accade laggiù, ma di questo non te ne faccio una colpa… avessi subito io quello che è capitato a te probabilmente avrei la nausea del mondo dei vivi».
Mentre il più anziano diceva quelle cose Kakyoin si ricomponeva lentamente e si scostava i capelli nuovamente spettinati dalla fronte. Teneva lo sguardo basso, pur senza abbandonare l’aria vendicativa che lo contraddistingueva quando qualcuno lo sottometteva, e si mise anch’egli seduto cercando di cacciare indietro uno spasmo del diaframma.
«Ed è anche diventato bisnonno, quel vecchio bacucco di un inglese» proseguì Caesar «si chiama Jolyne, è la bambina più affettuosa che si possa conoscere e il suo colore preferito è il verde… A questo punto ti chiederai perché ti stia sciorinando tutte queste informazioni» fece una breve pausa durante la quale cercò di stabilire un contatto visivo con Kakyoin, ma quello lo eludeva continuando a guardarlo obliquamente e con rancore.
«La verità è che non volevo conoscervi prima del tempo perché desideravo riusciste dove io ho fallito» fu la chiosa inaspettata del più anziano «vedervi tribolare durante quei cinquanta giorni, prendervi cura l’uno dell’altro, scherzare come foste amici di vecchia data… tutto svanito in poche ore. Volevo che fossi tu a proteggere Joseph da quel momento in poi, che gli rendessi la vecchiaia meno tormentata, che… non lo so, diventare per suo nipote quello che io non sono stato per lui. Per me l’inferno è stato vederti morire senza che io o lo stesso Joseph potessimo fare niente, dopo che finalmente avevi trovato qualcuno che ti capisse, dopo aver vendicato Cherry perché avevi vissuto sulla tua pelle quello che ha subito lei. Non volevo che i nostri destini si incrociassero perché adesso se Joseph pensa a me è come se pensasse anche a te e… non te lo meritavi, non dovevi fare la mia stessa fine. Ecco perché ce l’ho sempre con te anche se non esagero con le mazzate. Le donne… quelle c’entrano poco, solo il dieci per cento se proprio devo quantificare».
Caesar tacque in attesa di una risposta. Kakyoin se ne restava zitto e si asciugava gli occhi con la manica. Quando piangeva lo faceva sempre in silenzio e aveva accortezza di non farlo vedere se non alle anime di cui si fidava. Poche erano le cose che lo turbavano al punto da fargli incrinare l’immagine di studente onorevole col viso pulito e le maniere cortesi, ma quando ciò accadeva quei pochi che lo avevano visto spogliato della propria maschera gli facevano la stessa confessione:
«Aw, non mi piace vederti piangere, se poi usciamo di qui e le ragazze ti vedono in questo stato daranno la colpa a me» Caesar tolse un filo d’erba dai capelli di Kakyoin e glieli arruffò ancora di più.
«Tanto…» Kakyoin tirò su col naso «è fattuale che anche in lacrime il sottoscritto resti più bello di te»
«Certo, come no» tagliò corto Caesar alzandosi, ogni traccia di livore scomparso come per incanto «non ti allargare troppo adesso»
«Questo non posso prometterlo» anche Kakyoin si alzò, il naso ancora congestionato e i vestiti umidi di terra e sudore «innanzi tutto mi hai ridotto a una schifezza il gakuran, e poi non mi piace quando mi si toccano i capelli»
«Tranne quando lo fa Cherry» lo canzonò Caesar.
«Sì, sì, tutta invidia la tua» Kakyoin gli pungolò il petto con l’indice teso «con te era una partita persa fin dall’inizio»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo» Caesar schiaffeggiò la mano di Kakyoin per allontanarla da sé «diamine, come ha potuto dire a un uomo affascinante e focoso come me che le ricordo suo fratello? Questo paradiso è farlocco, altro che!»
«Beh, almeno io non ci provo con tutte… Sai, Jean-Pierre faceva la stessa cosa quando viaggiavamo assieme, e poi siete entrambi biondi²…»
«Smettila!» abbaiò Caesar.
«Occhi chiari, faccia da scemo…»
«Ti ho detto di finirla!»
«Massa muscolare inversamente proporzionale alle sinapsi…»
«Ti strozzo!».
Caesar si lanciò all’inseguimento di Kakyoin e, quasi senza accorgersene, erano già fuori dal labirinto a rivedere il sole e i colori delle piante. Non seppero per quanto corsero né si diedero la noia di riconoscere  le anime che incrociavano e che si domandavano chi o cosa avesse strappato via dagli spiriti i loro corpi ancora giovani; sapevano soltanto che avrebbero continuato a bisticciare e a fare pace finché ne avessero avuto voglia ed energia, finché, spogliati una volta e per sempre dalle pene della loro breve esistenza, non avessero deciso di dire addio al loro involucro psichico per rinascere nella stessa terra che li aveva visti perire prematuramente.

̴

Se si percorreva per intero il campo dei caduti si finiva con l’incontrare il confine segnato dai salici piangenti, oltre ai quali scorreva un fiumiciattolo che trasportava i liquami mefitici dagli inferi per essere riversati nella parte di mare riservata alle anime del purgatorio. Coloro che si avventuravano fino a lì erano da ritenersi temerari perché poteva capitare l’incontro poco piacevole con uno spirito empio o, peggio ancora, si rischiava di finire trascinati dalle acque putride qualora ci si decidesse di attraversarlo per esplorare l’altra parte.
Quando Caesar e Kakyoin volevano restare da soli a ragionare delle loro vite passate e a leccarsi le ferite che si procuravano a vicenda si rifugiavano sotto uno dei salici a osservare il corso innaturale del fiume che invece di discendere risaliva dai bassifondi dell’aldilà. A nessuno dei due era mai venuto in mente di vedere cosa ci fosse dall’altra parte, anche perché se pure lo avessero voluto non avrebbero potuto farlo in quanto erano soliti giungere lì dopo una scazzottata, zoppicanti e sporchi tanto quanto quello Stige impervio.
Kakyoin guardava con occhi socchiusi lo scorrere del fiume e teneva la testa appoggiata sulla spalla di Caesar. Respirava lentamente e con una mano si tastava il costato per contare quante costole gli avesse rotto quel bastardo di un Marcantonio, mentre il Marcantonio si toccava piano il setto nasale deviato da una gomitata e il labbro spaccato.
«Mi hai rotto tre costole… ahia» mormorò lo studente sistemandosi meglio fra il tronco e il bicipite di Caesar «Stai battendo la fiacca»
«Non è vero» rimbeccò l’altro lasciando stare il naso e guardandosi il polso slogato «L’altra volta te ne ho rotte due»
«Sì, ma in aggiunta mi avevi dislocato un omero e fracassato una rotula, invece stavolta riesco a camminare senza dovermi aggrappare da qualche parte per non cadere»
«Però ti ho assestato un bel gancio allo stomaco» gongolò Caesar «mancava poco che vomitassi sulle scarpe di quel bersagliere, fortuna che ti sei trattenuto in tempo perché era lì lì per prenderti a calci sul muso»
«Idiota…» sibilò Kakyoin trattenendo una smorfia di dolore «mi sa che stavolta dovremo aspettare un po’ di più per guarire del tutto… Jonathan sarà una furia quando torneremo a casa»
«Appunto, tanto chi ci insegue» Caesar sputò un residuo di saliva sanguigna sull’erba e chiuse le palpebre «Senti…» disse subito dopo, intendendo di voler cambiare discorso.
«Che vuoi?»
«Tu… riguardo a quello che ho detto prima che facessimo a botte… insomma, a Joseph voglio bene come un fratello, ma tu…»
«Anche io voglio molto bene al signor Joestar»
«Sai a chi mi sto riferendo, non fare lo gnorri. Ricordati che ho visto tutto di te, anche quella cosa».
Ci fu un attimo di silenzio. Poi Kakyoin in espresse con un:
«Ah»
«Eh»
«Quello?»
«Quello. Abu Dhabi, millenovecentottantotto»
«Mh» mugolò Kakyoin «sai anche leggere il calendario adesso, sono stupefatto»
«Dai!» sbuffò Caesar scocciato «Ma a te piacciono sia le ragazze che i ragazzi?»
«Può darsi…» Kakyoin si girò appena per guardarlo, ma lui teneva ancora gli occhi chiusi «Però mi piacciono di più le ragazze. Contento adesso? La tua curiosità è stata soddisfatta?»
«Sì… diciamo» Caesar aprì un occhio per saggiare la reazione di Kakyoin alla rievocazione di quel ricordo, poi lo richiuse prima che se ne accorgesse «Cherry lo sa?»
«Ma se gliel’hai detto tu stesso prima ancora che Geb mi accecasse!»
«Giusto» Caesar fece una smorfia di disappunto nei confronti della propria sbadataggine «io comunque con te non ci limono, fossi anche l’ultima anima rimasta sul paradiso»
«Ma chi ti vuole…» rispose di rimando Kakyoin «Non sei il mio tipo»
«Ti piacciono i mori»
«E le more»
«E le more».
Furono le ultime parole che si scambiarono prima di addormentarsi sfiniti. Se solo non se le fossero date di santa ragione si sarebbero accorti del terzetto di italiani che esplorava quella parte di Oltrevita per la prima volta, sorprendendosi di vederli dormire assieme come se non avessero mai litigato. Il ragazzo col caschetto nero intimò agli altri due di fare silenzio e di proseguire per il loro cammino senza disturbarli. Prima, però, si concesse di guardare in faccia il giapponese che gli aveva regalato la ciliegia: la prese dalla tasca, ne staccò il picciolo e la masticò lentamente. Quando ingoiò la polpa un’altra ciliegia era già nella sua mano, pronta per essere mangiata.

***

¹Le rose gialle sono probabilmente tra le varietà col maggior numero di significati. Oltre all'attribuzione di sentimenti negativi come la gelosia e l'invidia, nel contesto del racconto tale tipologia simboleggia anche gioia, solarità e vera amicizia.
²Anche se i capelli argentati di Polnareff sono canonici, ho preferito adottare per lui la palette dell'OVA come ho fatto in precedenza con Jotaro e Kakyoin.


Alla prossima con l'ultimo capitolo.


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