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Autore: acchiappanuvole    05/10/2021    2 recensioni
Erano davanti alla stazione, il treno che li aveva portati era già ripartito, una folla si accalcava ancora alle barriere: infermiere, soldati francesi e belgi, una vecchia vestita di nero con una stia di polli. Candy si voltò. In lontananza, come le aveva promesso il Dottor Martin, c’era la sua destinazione: Etaples.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Candice White Andrew (Candy), Terrence Granchester, William Albert Andrew
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
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New York marzo 1915
 
Due gocce di olio di lavanda sui polsi, il profumo la calmava. Le piaceva farsi consegnare quelle boccette adornate da nastrini lilla, la parfumeur le consegnava direttamente a casa in piccoli cestini carichi di fiori. Susanna si sentiva come una bambina ogni qualvolta la cameriera gliele portava in camera, quel piccolo regalo profumato la rasserenava. “Se fossi una bambina potrei chiamarti Lavender” sussurrò in direzione del ventre per poi scoppiare a ridere poco dopo “no è davvero terribile mi odieresti per tutta la vita.” Si adagiò meglio contro il cuscino del letto fantasticando sull’aspetto del bambino, forse con i capelli chiari come i suoi e gli occhi di Terence, oh sì Susanna era certa che gli occhi sarebbero stati uguali a quelli del suo amato. “Juliet” disse infine rivolta verso le vetrate della finestra “sì potrebbe essere questo il tuo nome, un riscatto per me per non averla potuta interpretare. Di certo con un destino meno tragico tesoro mio, farò in modo che tu sia la bambina più felice di questo mondo” sbatté le palpebre quasi sorpresa “ma se tu fossi un maschietto? In quel caso forse a Terence piacerebbe scegliere il tuo nome. Dovrò dirglielo prima o poi, cosa ne pensi? Temo che mamma sospetti qualcosa e la cameriera ha di certo notato che sono aumentata, sei un segreto che non posso più mantenere a lungo.”
Qualcuno bussò alla porta facendola sussultare, di lì a poco sua madre entrò nella stanza con il vassoio del tè.
“come ti senti tesoro?”
“sto bene mamma”
“con lo spavento che ti sei presa per colpa di quel Francis ho temuto potessi riammalarti”
“Francis è molto fragile mamma, quello che ha fatto non lo si può certo ritenere una colpa. Terence mi ha raccontato quanto accaduto, è stata la guerra a ridurre Francis in quello stato.”
“tu sei troppo buona figlia mia”
Susanna si incupì “è solo che so bene cosa significa desiderare di morire” si pentì un istante dopo di aver detto quella frase notando il pallore improvviso sul volto di sua madre.
“ma sono contenta di non aver saltato quel giorno, ora sono felice…ho davvero un ottimo motivo per esserlo.”
“il dottore viene più spesso ultimamente ma non mi da grandi informazioni sulla tua salute tirando in ballo il segreto professionale. Il mio povero cuore è già stato messo a dura prova a sufficienza perciò vuoi dirmi che sta accadendo?”
“nulla mamma, il dottore è solo gentile e vuole accertarsi che io mi stia rimettendo”
La donna la scrutò con attenzione “hai preso peso”
“mangio molto di più”
“la domestica mi ha detto che hai rimesso ogni mattina negli ultimi giorni”
“pare che io sia sotto stretta sorveglianza dunque”
“non alterarti ma sono tua madre e pretendo di sapere se c’è qualcosa che non va in mia figlia”
Susanna trasse un respiro “a parte essere storpia e trattata come una povera martire direi che non c’è nulla che non vada”
“Susanna!”
“perché non è forse la verità? Sono stanca di essere guardata con commiserazione specialmente da te, entri in questa stanza e mi carichi addosso la tua ansia, è come se fossi una bambola rotta e pare che tu non veda altro.”
“sono solo preoccupata per te Susanna, sono tua madre e per quanto possa sembrarti strano una madre ha a cuore solo i suoi figli, non lo puoi capire ora ma un giorno…”
Istintivamente Susanna le afferrò la mano stringendola “non ti sto biasimando mamma, capisco che tu soffra della mia condizione quanto e più ne soffra io, ma ho bisogno che tu mi dia forza specie ora, perché saprò molto presto cosa significa essere madre.”
La signora Marlow si ritrasse istintivamente “cosa vuoi dire?”
La ragazza sorrise “aspetto un bambino mamma, è per questo che il dottore viene così spesso”
“ma com…non è possibile…io stessa ho sentito dire al dottore che per te una gravidanza è pericolosa” si premette le mani contro il petto come a voler strozzare un singhiozzo “non dovevi Susanna! Non…quel mascalzone!”
“mamma”
“ogni cosa è colpa sua, la fine della tua carriera, la tua condizione ed ora questo!
“mamma!”
“si è approfittato di te non pensando al rischio al quale ti sta esponendo, oltretutto fuori dal matrimonio!”
“smettila!smettila!smettila!” si sporse oltre il bordo del letto rischiando di cadere “sei ingiusta con Terence, lo sei sempre stata. Io lo amo e provo una gioia immensa per l’arrivo di questo bambino, come fai a non capirlo?! E’ come se potessi rinascere anch’io attraverso di lui e tu invece ne stai parlando come se fosse una sciagura.”
“perché lo è Susanna, lo è per la tua salute e la tua reputazione”
“reputazione? E’ questo che ti affanna tanto? Solo perché non siamo sposati?”
“Non è questione da poco e tu lo sai, come può non averti ancora chiesta in sposa sapendo quanto sta avvenendo!”
“Perché lui non sa nulla mamma!” Susanna quasi lo gridò “Terence non sa nulla del bambino”
“beh allora ci penserò io a farglielo ben presente” così dicendo la donna si avviò verso la porta
“se sarai tu a dirglielo ti odierò per sempre e mai, e giuro mai, ti rivolgerò ancora la parola”
“Susanna…”
“spetta a me, è una cosa che devo fare io nel momento che riterrò opportuno”
La signora Marlow tentennò, combattuta tra la rabbia, la necessità di ribattere e l’impulso di abbracciare forte sua figlia.
“come vuoi Susanna” lacrime scendevano silenziose lungo le guance “come vuoi tu figlia mia.”
 
***
Dalla tenda uscivano come una carezza nell’aria le note della Clair de lune, si espandevano sul silenzio delle trincee, sui volti esausti delle infermiere, sulle croci improvvisate sotto le quali giacevano nuovi morti. Le dita di Jonathan scivolavano sicure e delicate sulla tastiera del piccolo piano al centro di quel luogo che le giovani crocerossine avevano battezzato la tenda di decompressione. Un piccolo riparo di pochi metri dove si tentava di ricordare che al mondo poteva esistere ancora bellezza. Flanny stava in un angolo con le mani chiuse attorno ad una tazza di latta, dentro la parvenza di una bevanda calda allungata con del cognac le scaldava lo stomaco. Le altre infermiere, sedute sul pavimento e con gli occhi di chi non aveva più lacrime seguivano ipnotizzate i movimenti delle dita del ragazzo, non c’era suono di bombardamenti o di mitragliatori, quella notte regalava il suo silenzio ammettendo quella sola melodia che tutte desiderarono continuasse in eterno. Candy stava appena fuori la tenda, aveva cenato insieme alle altre con del pane e qualche patata e poi aveva provato il bisogno impellente di allontanarsi e stare sola. Era grata a Jonathan, a quella sua poeticità insita e a quella sua forza, la stessa forza che Candy sentiva di aver perduto. S’ allontanò in direzione delle grotte, un percorso che le sue gambe percorrevano a memoria senza che lei ne avesse contezza. Svoltare tra gli anfratti scuri, l’odore di sangue e disinfettante, quella notte anche i lamenti dei soldati erano timidi, forse anche loro, seppure si distinguesse sempre più fievolmente, riuscivano ad udire il pianoforte. Anne era ferma davanti ad un fornelletto che già faceva bollire l’acqua, era riuscita a dormire quel pomeriggio ma lo shock dell’attacco aereo l’aveva profondamente traumatizzata. “Anne va a riposare ci penso io ora”
“anche volessi non riuscirei a dormire” nel dirlo Anne si voltò, teneva stretta al petto una boccetta scura, avanzò di un passo verso Candy passandole un dito sul labbro superiore, la ragazza avvertì un intenso profumo “lavanda?”
Anne annuì “la uso ogni tanto per calmarmi ma ormai è quasi terminata, la comprai il primo giorno che venni qui. Immagino sia introvabile ora” disse sconsolata “dammi i polsi” e prima che Candy potesse capire la ragazza le aveva versato qualche goccia su entrambi i polsi “ lo faceva mia madre quando ero bambina ed avevo gli incubi, la chiamava la magia lilla”
Candy l’annusò, il dolce sentore della lavanda per un istante le fece venire alla mente i prati fioriti della collina di Pony.
“Non sprecarla Anne” le pose una mano sulla spalla “ora preparati del latte caldo e cerca di dormire, stanotte mi sembra tutto tranquillo posso cavarmela da sola”
Anne inizialmente riluttante accettò poi di coricarsi per qualche ora “e va bene ma chiamami se dovessi avere bisogno”
Candy annuì per poi voltarsi verso le brande alle sue spalle, taluni soldati stavano dormendo, altri fissavano il nulla, più di una volta Candy si era domandata quali immagini orribili la loro mente dovesse riproporre, sui giovani volti scavati sembravano essersi snodati migliaia di anni, lo spazio per l’innocenza non esisteva più. Prese un profondo respiro passando in rassegna ogni branda, sistemò coperte e cuscini di fortuna, coprì chi rimaneva scoperto, offrì qualche parola di conforto a chi tremava, ed infine si diresse verso l’ultima branda accostata alla parete di roccia.
“Come stai questa sera Terence?” lo chiedeva ogni sera sapendo che non avrebbe ottenuto alcuna risposta “fuori un mio caro amico sta suonando il pianoforte credo ti piacerebbe” Candy dapprima evitò di guardarlo, non sarebbe stata in grado di nascondere il turbamento, gli sistemò le lenzuola sgualcite e la coperta, il volto in penombra del ragazzo non lasciava intendere quale fosse la sua espressione, ma Candy già la conosceva. Sporse il braccio oltre la testa di Terence per sistemargli il cuscino e fu in quell’attimo che si sentì afferrare il polso tanto che sussultò di sorpresa, la mano che l’avvolgeva era gelida.
“Terence”
Il ragazzo avvicinò il viso al polso di Candy, lo stesso polso sul quale Anne aveva versato le gocce di lavanda, alzò poi gli occhi a fissarla e quello che Candy vide la spaventò, gli occhi di Terence erano scuri, il mare più profondo che lascia indovinare l’abisso, c’era un dolore quasi palpabile in quegli occhi, in quell’espressione trasfigurata. Candy si accorse di tremare, un tremito simile a quello che la lasciava sfinita nei giorni di febbre, il silenzio le parve assordante.
“che cosa c’è Terence?” riuscì a dire in un tono neutro sperando che il ragazzo parlasse “cosa ti ha turbato? Me lo puoi dire lo sai, ti puoi fidare di me” la presa intorno al polso si fece meno salda e Candy si sentì vacillare, sapeva che se quel contatto si fosse spezzato Terence sarebbe tornato a rinchiudersi in un limbo dal quale lei non sarebbe stata in grado di tirarlo fuori e quel pensiero di impotenza la riempì di rabbia, non avrebbe permesso che accadesse. Istintivamente lo abbracciò, lo strinse forte come a volercisi aggrappare, fu impossibile non rievocare quel lontano inverno newyorkese, quando lui rincorrendola per le scale l’aveva abbracciata a sé, era stato un contatto così rapido, un addio così doloroso che Candy lo ricordava in ogni minimo particolare. Il corpo forte di Terence che la stringeva, le lacrime che entrambi avevano versato per quel destino beffardo che li divideva definitivamente. Ora quello stesso corpo era magro e pallido e portava un’infinità di ferite, e le più profonde non erano visibili ad occhio nudo e non sarebbero bastate bende e medicine per poterle guarire.
“Terence ti prego parlami, dimmi che ti ricordi chi sono, ti prego ti prego” ma la supplica non venne ascoltata, Terence lasciò il contatto senza dire una parola. In quel momento Candy era certa che Terence la stesse guardando, che la vedesse, sapeva chi era, sapeva che lei era lì e nonostante ciò le sue labbra restavano sigillate. I suoi occhi la fissavano con lo stesso sguardo distante con la quale l’aveva fissata per la prima volta sulla nave per l’Inghilterra, anzi quello sguardo era anche peggio. Se guardi a lungo nell’abisso l’abisso guarderà te. Quella frase imparata sui testi scolastici della Saint Paul’s school le ribalenò alla mente.
“sei crudele Terence” strinse i pugni “così crudele e ingiusto! Credi di soffrire solo tu?! Beh guardati intorno, questi ragazzi non sono da meno di te, nemmeno io lo sono, credi di aver visto cose terribili ma le ho viste anch’io, le vedo ogni giorno e non mi merito questo silenzio! Non merito che tu mi guardi a quel modo!” di nuovo l’impulso di schiaffeggiarlo, di sperare in una sua reazione, se l’avesse colpita sarebbe stato meglio di quell’insopportabile nulla.
“Candy!”
Anne le fu alle spalle cingendola “Candy cosa accade perché sei così scossa?”
“mi spiace” fu tutto ciò che Candy riuscì a dire “mi dispiace Anne dovrò farmi sostituire, ora non me la sento, non me la sento di restare qui dentro, ho bisogno di un po’ di tempo, un po’ di tempo da sola basterà”
“va bene Candy non devi preoccuparti, esci a prendere aria come hai detto tu è tranquillo qui e posso cavarmela, ho già dormito nel pomeriggio e non sono stanca”
“perdonami Anne”
“non c’è nulla di cui io debba perdonarti”
Candy si allontanò velocemente, le sembrava che le pareti della grotta le si stringessero addosso lasciandola senza fiato, quando l’aria esterna la investì fece qualche passo prima di gridare, un grido che le veniva dalle viscere e che aveva trattenuto per troppo tempo. SI ritrovò in ginocchio sul terreno polveroso, non c’era più musica, non c’erano più le luci nelle vicine tende, c’era solo l’insopportabile silenzio dell’attesa, l’attesa della morte.
Qualcuno le adagiò una giacca sulle spalle, riconobbe il tocco gentile di Jonathan ma non ebbe il coraggio di voltarsi per guardarlo.
“Andiamo a passeggiare alla spiaggia signorina Andrew, ci sono le stelle e la luna in cielo se solo avrai il coraggio di alzare lo sguardo”
“non ne ho la forza Jonathan” si strinse nella giacca “ho appena fatto una cosa terribile”
Jonathan le si inginocchiò accanto non aggiungendo nulla ed aspettando fosse lei a proseguire
“sono scappata Jonathan, sono scappata dai miei doveri, non ce l’ho fatta…”
“e dove mai saresti scappata Candy? Qualche metro fuori dalla grotta per prendere aria e buttar fuori quello che ciascuno di noi qui ha dentro?”
“io sono un’infermiera e un’infermiera non deve mai lasciare soli gli ammalati”
Jonathan accese una sigaretta “ti do una notizia Candy, prima di essere un’infermiera sei anche un essere umano e onestamente credo che nessuno ti biasimerà se diserti per qualche minuto”
“non si diserta dalla vita delle persone”
“vero” Jonathan buttò fuori il fumo “ma per non disertare dalla vita del prossimo bisogna prima non disertare dalla propria e il contesto non permette grandi variazioni se non gridare nella notte quanto questo mondo faccia schifo, cosa credi che abbia fatto io stasera suonando quel pianoforte?”
“vorrei essere migliore di quel che sono, vorrei essere come te e Flanny, vorrei non lasciarmi sovrastare da tutto questo.”
La sigaretta finì a terra ancora accesa “tutto questo sta sovrastando chiunque Candy, fingiamo solo che non sia così ma tu non sai quante volte ho meditato di buttarmi dal Point Sublime. Quello che ho visto nella trincea è quello che tu vedi ogni giorno Candy, non credo che avrei mantenuto una gran sanità mentale fossi stato al tuo posto”
“è la prima volta che mi sento così impotente Jonathan, ho già conosciuto la morte di persone che amavo ma tutto questo forse è troppo da sostenere”
“torna in America Candy”
La ragazza scosse il capo “non voglio tornare in America, mi è quasi più insopportabile il pensiero di rientrare che non quello di restare qui. Non posso abbandonare tutto questo. Odierei i verdi prati di Lakewood, faticherei a sorridere con i miei amici e so che non sarei più in grado di vedere la collina di Pony con la stessa gioia di un tempo. Mi consola il fatto di sapere che le persone a me care sono al sicuro, mi consola sapere che c’è un oceano che le separa da questo orrore” finalmente riuscì a guardarlo “detesto il fatto di essere scappata così, di aver avuto l’impellenza di fuggire”
“da chi sei fuggita Candy?”
“dal dolore…”
Jonathan l’abbracciò ponendole un bacio sulla fronte “lascia che ti stringa signorina Andrew dopotutto con me puoi stare tranquilla sono piuttosto innocuo” Candy ricambiò quell’abbraccio, così differente da quello che aveva dato a Terence, la disperazione stava lasciando spazio al calore consolante di Jonathan.
“profumi come un giardino della Provenza” le sussurrò all’orecchio “se chiudo gli occhi potrei essere in un prato di lavanda”
“ci andremo insieme Jonathan, promettimi che quando tutto questo finirà mi porterai in un vero prato di lavanda, che correremo fino a sfinire il respiro e grideremo, grideremo così forte da assordare il mondo”
“te lo prometto Candy” Jonathan l’aiutò a rialzarsi, era stato spontaneo azzardare quella promessa pur sapendo che non sarebbe stato certo facile poterla mantenere. Candy si asciugò gli occhi che tuttavia non sembravano voler obbedire la sua volontà, riuscì a guardare Jonathan e si morse le labbra, si era appoggiata a lui, alla sua forza così come si era appoggiata alla forza di Flanny, improvvisamente il senso di colpa si faceva più intenso, non sapeva nulla dei pensieri di Flanny così nulla conosceva del sentire di Jonathan.
“sei riuscito a trovarlo?” riuscì solamente a chiedere
“no, non ci sono riuscito” mormorò lui faticando a nascondere un tremito nel tono di voce, un tremito appena percettibile ma che Candy era sicura stava vibrando nel cuore del ragazzo con intensa pena.
“hai suonato per lui stasera vero Jonathan?”
Jonathan riuscì a sorridere “non so se sono così altruista Candy, ho suonato per me, ho suonato al me stesso che pensa a lui. Sono un americano egocentrico in fin dei conti”
 ***

New York maggio 1915

Jonathan ripiegò il giornale sul tavolo, le luci del dell’Algonquin erano soffuse, camerieri servivano distillati europei mentre un brusio vivo di intellettuali e giornalisti rimbalzava sulle pareti di mogano scuro.
“modestamente lo reputo un buon articolo ma quella cotica del capo redattore ha avuto a che dire, lo voleva più scandalistico più…com’è che ha detto…” Jonathan si premette teatralmente l’indice in mezzo la fronte “ah sì piccante!”
Scott dall’altro lato del tavolo lo fissava senza capire “non ti seguo”
“sì a lui non gliene frega nulla che io abbia recensito la drammaturgia dello spettacolo, lui vuole sapere cosa accade nella compagnia Stradford, cosa combina quello che doveva essere l’attore di punta, il dramma della Marlow ecc.”
“parli del figlio della Baker?”
Jonathan sorrise divertito “e tu che ne sai della Baker!?”
Scott sembrava imbarazzato “beh so che è un’attrice famosa”
Il sorriso si allargò “oh buon cielo scommetto che tu sei uno di quelli che tiene una foto di Eleonor Baker e Mata Hari nella tasca interna del doppiopetto.
Scott arrossì “non dire idiozie” ma era facile indovinare le sue emozioni, sotto la frangia rossiccia gli occhi color nocciola non sapevano mentire “so solo chi sono tutto qui”
“aha” Jonathan si bagnò le labbra con del brandy, nonostante la ramanzina del capo redattore quella sera si sentiva euforico, era la prima volta che Scott prendeva l’iniziativa di uscire con lui, in un posto così interessante come l’Algoquin per giunta. Ormai si conoscevano da tre anni, un’amicizia inizialmente complicata, fatta di scontri per i loro caratteri così opposti, eppure era stato quell’essere in direzioni contrarie che aveva attratto Jonathan, nel giro di poco si era riscoperto a pensare a Scott costantemente e, pur tentando di negarlo a sé stesso, a nutrire un sentimento che poco o nulla aveva a che fare con l’amicizia disinteressata. Naturalmente si era ben guardato da far capire a Scott quello che provava, sapeva che l’amico sarebbe fuggito a gambe levate probabilmente insultandolo pieno di disgusto. Ingoiò il brandy e accese una sigaretta, diventava sempre più difficile dissimulare quell’interesse.
“hai mai pensato all’amore?” chiese d’un tratto Scott e Jonathan rimase qualche istante a fissarlo tossichiando fumo. Si schiarì la gola “prego?”
“ti ho chiesto se hai mai pensato all’amore”
Jonathan fece finta di riflettere “sì, immagino di sì. E tu?”
“a volte” rispose con tono incerto “ce ne sono tante specie diverse”
“davvero?”
“Beh i figli amano i genitori. I genitori amano i figli. Poi si può amare un amico, un uomo può amare una donna o più di una. Può amarne una dopo l’altra o due nello stesso tempo. Può essere innamorato e può amare veramente. Ci sono moltissime possibilità.”
“non credo che una donna sarebbe poi molto lusingata nel sentirti dire così” rise Jonathan faticando a dissimulare un certo nervosismo poiché per quanto lo riguardava a quelle possibilità non era interessato e le allusioni agli uomini che amavano le donne, dette da Scott, gli davano una pungente sensazione di fastidio. Vuotò altro liquore nel bicchiere per poi tornare a fissare il volto di Scott, un volto che lui reputava straordinario, vissuto, con un’espressione abituale di malinconia dolce e un po’ frastornata. Sembrava molto più vecchio ma aveva poco più di vent’anni. Sentiva che, se avesse confessato l’inconfessabile ( e l’avrebbe fatto perché orami aveva raggiunto il Rubicone) non avrebbe osato guardarlo più in faccia, aveva troppa paura. Spostò la visuale su una donna che sedeva ad un tavolo dietro Scott e fissò il suo ridicolo capellino ornato da una vistosa penna di fagiano.
“E poi” cominciò, con una voce di un tono sopra quella che avrebbe voluto, schiarendola nuovamente “poi immagino che un uomo potrebbe…amare un altro uomo.”
Scott alzò gli occhi su di lui e Jonathan si pentì di aver parlato, gli istanti di silenzio parvero eternità e cercò, senza grandi risultati, di uscirsene con una battuta in merito, come un gioco o una presa in giro.
“Certamente” rispose Scott sorprendentemente, addentando la ciambella che aveva nel piatto con soddisfazione “ottima” sentenziò.
Jonathan si sentiva morire, gli restava al massimo un minuto da vivere perché era certo il cuore avesse smesso di battere, la sua testa sembrava una betoniera, i polmoni si erano gonfiati, le orecchie erano tappate, gli occhi non distinguevano più la piuma di fagiano. Trenta secondi. Venti. Dieci.
“per esempio” commentò Scott “io ti amo”
Jonathan per la prima volta si ritrovò senza parole.
“non avevo intenzione di dirtelo, ma chissà come ho cambiato idea”
“credo mi stia venendo un attacco cardiaco Scott”
“credi sia il fumo?”
“no”
“l’alcol?”
“smettila”
Scott rise “ti stanno tremando le mani”
“credi sia un sintomo di un attacco cardiaco?”
“non lo so”
“neanch’io” riuscì a deglutire e ritrovare aria ai polmoni “forse è felicità, una tremenda devastante felicità, così improvvisa ed estrema che è come una specie di attacco di cuore”
Scott ora lo guardava serio e sollevato come se anche lui avesse ostentato sicurezza per dissimulare la tremenda paura che doveva aver provato nel dirgli quelle cose, e tuttavia era stato molto più coraggioso di lui.
“stai dicendo sul serio?”
“che mi sta venendo un attacco di cuore?”
“no che…sei felice di quello che ti ho detto”
“oh caspita sì!”
Scott parve titubante “perché non me lo hai mai detto?”
Jonathan gli prese istintivamente la mano “evidentemente non ho il tuo coraggio Scott, avevo una paura tremenda che non avresti più voluto vedermi”
“avevo paura anch’io…ne ho tuttora. Ma non sarei più riuscito a tenermelo dentro, non potevo”
“ne sono felice”
“e ora?”
“ora?”
“sì ora che faremo…”
Jonathan sorrise stringendogli più forte la mano “ora vivremo Scott, sfideremo tutto e tutti ma vivremo e ci ameremo”
“la fai sembrare facile”
“no non lo è ma non ho intenzione di lasciarti andare, dovessi anche arrivare a rincorrerti all’altro capo del mondo”
Scott rise più rilassato “la fai sembrare una minaccia”
“chissà magari lo è” e ridendo a sua volta si sporse in avanti rubando un fugace bacio, il brusio intorno si spense per qualche istante per poi riaccendersi con più vivacità di prima.
 
  
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