Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: edoardo811    09/10/2021    6 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


15

Il monte Fuji

 

 

Naito osservò il bozzolo di tenebre in cui Rosa era stata rinchiusa e serrò le labbra. Le cose non sarebbero dovute andare in quel modo. Avrebbe dovuto prendere Ama no Murakumo, non rapire quella ragazza.

La cicatrice all’occhio lo fece sussultare all’improvviso. Nonostante i giorni passati, ancora gli faceva male. Forse scontrarsi con quel gigante non era stata una buona idea; il suo corno spezzato era un segno piuttosto evidente del fatto che ancora non era abituato a combattere con un lato cieco. Se non altro, quella batosta gli aveva dato una lezione: combattere contro gli immortali era un’idiozia.

Affondò le mani in quella prigione oscura e liberò la ragazza. Non appena vide il suo volto pallido ed emaciato si fermò, rimanendo paralizzato. 

Era… bellissima. 

Uno strano brivido gli percorse la schiena. Perché non riusciva a smettere di pensarci?

Perché ogni volta che ripensava alla sua voce, ai suoi occhi, al suo viso, avvertiva quella stretta così forte al petto? 

Liberò Rosa e la afferrò sotto la schiena e le ginocchia. Sentì le mani sussultare a contatto con quel corpo soffice e caldo. Nonostante il tempo trascorso imprigionata, la sua pelle profumava di qualcosa che lui non riuscì a riconoscere, un odore dolce e inebriante nel quale avrebbe potuto perdersi per ore se solo avesse potuto, ma purtroppo non aveva tempo da perdere. Mancava poco all’arrivo del piccolo dio e loro dovevano farsi trovare pronti. La adagiò sopra il letto al fondo della stanza, dopodiché lo sguardo gli cadde sul braccio spezzato. Glielo sfiorò, lasciandosi scappare uno sbuffo pensieroso.  

Bunzo, Chioiji e Hikaru arrivarono in quel momento, a schernirlo come al solito. Purtroppo per loro, grazie al lavoro svolto, Naito aveva riacquisito il suo status di vicecomandante. Si era rotto la schiena per due anni, obbedendo ad ogni ordine. Non aveva portato Ama no Murakumo ad Orochi, ma lui aveva comunque ammirato il modo in cui avesse affrontato la spada, senza morire. E soprattutto aveva apprezzato quell’altro dono che gli aveva portato: la sorella del piccolo dio, un ostaggio perfetto. E non solo, era anche una vergine. Avrebbero potuto chiedere qualsiasi cosa ad Edward, così, ed erano certi che lui gliel’avrebbe data. Non avrebbe mai permesso che la sua adorata sorella morisse. 

«Così sarebbe questa la ragazza?» domandò Hikaru, avvicinandosi al letto ed osservando Rosa con uno strano sguardo. «È davvero graziosa. È quasi uno spreco doverla uccidere, non trovi anche tu, Naito-kun?»

Naito si irrigidì. Non era passato molto prima che quella riprendesse a chiamarlo con quel nomignolo. Ciò che era successo nella cella di quella prigione sembrava quasi essere uscito dalla sua mente, come se non fosse mai accaduto. «Non chiamarmi così» rispose, velenoso. «Lo detesto. E comunque non la uccideremo. Orochi ha stretto un patto con il ladro.»

«Giusto, il patto…» borbottò Bunzo, affiancandoli. Avvicinò la mano al volto di Rosa, con uno sguardo e un sorriso grondanti di viscidume. Naito gli bloccò il polso senza esitare un solo istante. «Che stai facendo?» sibilò.

«Tu che stai facendo?! Lasciami, schifoso mezzosan…»

Il pugno di Naito si infranse sul suo naso, scaraventandolo a terra. Le urla di Bunzo furono una sinfonia per le sue orecchie, mentre si contorceva sul pavimento. 

«Orochi è stato chiaro» asserì Naito. «La ragazza non va toccata.»

Bunzo ululò di rabbia, ma Naito lo ignorò. Aveva un compito da svolgere. Afferrò il polso di Rosa e si preparò a raccogliere il suo sangue come Orochi gli aveva ordinato, ma Hikaru lo fermò. Aveva avvertito una presenza oltre a loro. 

Si trasformò in volpe e saltò verso un punto imprecisato, agguantando l’aria con una mano. Rimase immobile per qualche istante, a guardarsi intorno e a tenere le orecchie drizzate verso l’alto, poi si ricompose. «È svanita.»

«Chi era?» domandò Naito, osservando i muri diffidente. Quel museo era la cosa più simile a casa loro, ma la cosa andava in entrambi i versi. Anche gli dei avevano maggiore influenza, lì dentro. Dovevano stare attenti.

«Non lo so» rispose Hikaru. Lanciò un’occhiata disgustata a Bunzo. «Va a darti una ripulita, Bunzo. Qui proseguiamo noi.»

Bunzo protestò con la voce storpiata dal naso rotto. «Ma quel bastardo mi ha…»

Hikaru si indurì. «Ora, Bunzo.»

Quel pennuto fastidioso sussultò, poi obbedì. Lasciò la stanza ma non senza aver lanciato un altro sguardo adirato verso di Naito. 

«Anche tu Chioiji.»

Lo tsuchinoko emise un verso che parve più lo squittio di un topolino, e anche lui si dileguò. Quando rimasero soltanto in due, un silenzio pesante calò tra loro. Naito intuì che se aveva voluto rimanere sola con lui era perché stava tramando qualcosa, ma non si lasciò distrarre. Graffiò il palmo di Rosa con la wakizashi, per poi far scivolare il suo sangue dentro una piccola botticina di ceramica, con dipinto sopra un kanji: . Sangue. 

Le tamponò la ferita con delicatezza. Ancora una volta, un brivido lo percorse mentre le toccava la mano. 

La voce di Hikaru perforò l’aria all’improvviso, facendolo irrigidire: «A che gioco stai giocando, Naito?» 

Lui le lanciò un’occhiata sottecchi. «Che vuoi dire?»

«Sai benissimo che la ragazza verrà uccisa. Il sangue che stai raccogliendo adesso non serve per completare il rituale. È solo un antipasto.»

Naito diede le spalle alla kitsune e assottigliò le labbra, riportando lo sguardo sopra il viso di Rosa. Ancora faticava ad accettare che si parlasse di lei come “cibo.” 

«Naito.» Hikaru si avvicinò a lui. Non poteva vederla, ma poteva percepire i suoi occhi conficcati sulla sua nuca. «Non dirmi che speri davvero che la ragazza si salvi.»

Altro silenzio. Naito drizzò la testa, osservando la finestra che si affacciava sugli edifici di San Francisco, di quel mondo così diverso rispetto a quello in cui era nato e cresciuto. Ogni cosa era diversa, lì. Anche lui si sentiva diverso.

Era irrequieto. Stanco. Voleva solo che quella storia maledetta finisse. 

Hikaru si mise accanto a lui, silenziosa come un’ombra. Non disse nulla e rimase concentrata anche lei sulla finestra. 

Le vene di Naito vennero travolte da un’altra scarica di brividi soffusi, quando riportò la sua attenzione sul volto pallido e soffice di Rosa. Il cuore cominciò a battergli con insistenza nel petto. Sfiorò il braccio rotto della ragazza svenuta e serrò la mascella. «Puoi guarirlo?» domandò all’improvviso.

Con la coda dell’occhio, si accorse di Hikaru che si voltava per scrutarlo con attenzione, le palpebre sottili. Naito ricambiò lo sguardo, avvertendo i nervi a fior di pelle, ma non per via della kitsune. Più pensava a cosa stava succedendo, più pensava a quello che sarebbe accaduto nel giro di poche ore, più sentiva il proprio stomaco annodarsi.

«Posso guarirla, sì. Ma sei sicuro di volerlo?» domandò infine Hikaru, dopo quel lungo attimo di silenzio. Quella domanda non sembrava riferirsi soltanto alla richiesta di guarirla.

Naito strinse i pugni. «Sì.»

Hikaru annuì. La sua espressione era indecifrabile. Si scostò una ciocca di capelli da di fronte al viso, rimasta libera dalla crocchia, dopodiché massaggiò con delicatezza il braccio di Rosa, che si illuminò di una pallida luce rossa.

Quando concluse il lavoro, diede le spalle al letto e serrò le palpebre. «Ricordi la domanda che ti ho fatto, due anni fa?»

Allora anche Hikaru se la ricordava. 

«Sì» rispose Naito. Non aveva mai smesso di pensarci.

«E la tua risposta qual è?»

«Non lo so.»

«Sarà meglio che ci pensi in fretta, allora.» Hikaru si allontanò da lui, dirigendosi verso la porta. Si fermò sull’uscio e un profondo sospiro scappò dalla sua gola, le spalle che si alzavano e riabbassavano lentamente. «Alla fine di questa giornata, Naito, quella risposta potrebbe salvarti la vita.»

Se ne andò, lasciandolo da solo con i suoi pensieri e con quella domanda che da due anni continuava a torturarlo.

Che cos’era lui?

Hachidori balenò di nuovo nella sua mente. Ferita, sanguinante, pallida e spaventata. Subito dopo rivide Rosa, in quell’arena buia, con la stessa espressione sul suo volto.

A quel pensiero, Naito si incupì.

Non avrebbe mai potuto immaginare che quella sarebbe stata l’ultima conversazione che avrebbe avuto con Hikaru.

 

***

 

Era stanco di quel tragitto. Quando tutto sarebbe finito, Naito ripromise a sé stesso che non avrebbe più messo piede nelle valli del Monte Tate per molto, molto tempo.

Procedette a passo spedito, ignorando la pioggia che batteva su di lui, la neve che scendeva, il vento tagliente e gli sporadici sprazzi di sole che di tanto in tanto facevano capolino in mezzo a quel clima rigido.

Non c’era più un solo attimo da perdere. Sia il Clan Tsubaki che gli uomini del Re l’avevano già trovato, era certo che era solo questione di tempo prima che riapparissero. Doveva trovare l’elisir prima che lo raggiungessero. Quando lo avrebbe consegnato agli dei, sperando che il piano funzionasse, allora avrebbe potuto pensare al resto dei suoi problemi.

Il Monte Fuji apparve sullo sfondo, imponente e maestoso, facendo sembrare tutto il resto delle pulci al suo confronto. Non c’era mai stato, nemmeno Orochi l’aveva mai portato lassù. Se ne era sempre tenuto alla larga, forse perché non ci trovava niente di interessante, o forse perché spaventava pure lui. E forse per questo motivo avrebbe dovuto spaventare anche Naito, ma in realtà non lo fece affatto. Dopo tutto quello che aveva vissuto, una montagna era l’ultima delle sue preoccupazioni. Qualunque cosa lo attendeva lassù, era pronto ad affrontarla.

Aveva viaggiato per un altro giorno intero, quindi era di nuovo notte quando cominciò la salita. Pioveva a dirotto, i sentieri erano scivolosi e infangati, completamente deserti e poco illuminati dal bagliore fioco della luna. Naito strinse i denti, mentre gli stivali affondavano nella terra inzuppata e i vestiti si infradiciavano. Forse avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo prima di salire.

Non passò molto prima che la pioggia diventasse neve e l’aria cominciasse a rarefarsi. Naito avanzò imperterrito, stringendosi bene dentro l’happi di Miyamoto; il freddo era tale che perfino lui stava cominciando a patirlo.

Fitte nubi avvolgevano il monte. Normalmente era impossibile scorgerne la cima in ogni caso, ma a causa di quello strato denso di nuvole gli sembrava di star marciando a tentoni verso una dimensione ultraterrena.

C’era qualcosa nell’aria, cominciò a realizzare. Una forte presenza, un’energia opprimente come una cappa nella quale era impossibile respirare. I passi cominciarono a costargli sempre più fatica, gli stivali affondavano nel terreno di dita e dita di profondità, rendendogli quasi impossibile camminare. Il freddo divenne sempre più brutale, al punto che i cominciò a battere i denti contro il suo volere. Non gli era mai successo niente del genere, prima di allora. Negli inverni più rigidi e nelle estati più torride, non aveva mai patito né il freddo né il caldo. In quel momento invece gli sembrava di poter congelare.

Un forte vento iniziò a ruggire contro di lui, mentre la terra tremava con irruenza, rischiando di fargli perdere l’equilibrio. Strinse i denti, costretto a lottare contro quelle violentissime intemperie. Era come se la montagna si stesse rivoltando contro di lui per impedirgli di andare avanti. Tutt’un tratto gli tornò in mente quello che Ami gli aveva detto prima di partire.

Il Monte Fuji era sacro. Vivo. 

A quel punto comprese: la montagna non era abitata da creature pericolose. La montagna era la creatura pericolosa. Un mostro colossale che minacciava di farlo precipitare nell’oblio con quel vento e quel terremoto inarrestabili.

Naito piantò i piedi a terra e trattenne il respiro, attingendo a tutte le proprie forze per resistere; non avrebbe permesso ad una roccia gigante di fermarlo.

La voce di una donna tuonò nell’aria all’improvviso, facendolo trasalire: «Torna indietro

Il ragazzo venne sbalzato all’indietro da una folata di vento molto più forte e finì con la schiena a terra, inzaccherandosi le gambe e le braccia di neve e fango, il corpo che vibrava incontrollabile a causa degli scossoni della montagna.  

«Creatura immonda. Non sei la benvenuta qui. Vattene, prima che ti distrugga

«Chi… chi parla?» domandò Naito, al vuoto. La sua voce si smarrì in mezzo alla nevicata come un gemito spaventato.

L’intera montagna sembrava parlare, con un tono fragoroso che pareva il rumore di una frana: «Il mio nome è Konohana Sakuya-hime e sono la dea che protegge questo luogo. Non permetterò a un mostro come te di violarlo

«Non… non voglio violare niente!» gridò Naito, ora in ginocchio, le mani che affondavano nella fanghiglia. «Voglio solo arrivare in cima!»

«E perché mai vorresti arrivare in cima? Io so chi sei. Hai attaccato il Santuario Meiji. Sei pericoloso. Non ti permetterò di insediarti nel mio regno

«C-Che cosa?!» Naito sentì il sangue gelargli nelle vene, ma non per il freddo. «Io non ho attaccato il Santuario Meiji! È stato Kagu-Tsuchi! Lui mi ha…»

Il Monte Fuji sembrò scuotersi dall’interno, tanto da farlo scivolare su un fianco. «Silenzio! Non te lo ripeterò ancora: torna indietro o pagane le conseguenze.»

Mentre lottava per rimettersi in piedi, Naito avrebbe voluto urlare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione, ma si trattenne. Una montagna intera stava per abbattersi su di lui, gridare non sarebbe servito a niente. «Non voglio fare niente di male a questo luogo!» esclamò, stringendo i pugni. «Sto solo cercando Tsukuyomi!»

Per un momento, la voce tacque. La terra smise di tremare, il vento cessò e anche la neve parve scendere con meno insistenza. «… Tsukuyomi? Davvero?»

Una luce apparve di fronte a lui all’improvviso, squarciando le tenebre. Una luce… rosa, seguita da un fortissimo profumo di ciliegi in fiore.

Una donna apparve in mezzo al sentiero, levitando sopra la neve fangosa. Lo scrutò severa per alcuni istanti. Era giovane, con il viso ovale e capelli lunghi e rosa, intrecciati con rametti di ciliegio da cui erano sbocciati dei fiori rigogliosi nonostante non fossero collegati a nessun albero.

«Sei qui per mandare via quell’impiastro?» gli domandò, fluttuando rapida verso di lui. Il suo kimono dello stesso colore dei fiori sventolò nell’aria, come una vestaglia fatta di petali rosa e bianchi. Non c’era più alcuna traccia del suo tono severo e austero di poco prima: ora era squillante e spazientito. «Finalmente! Dopo tutti questi millenni stavo cominciando a perdere le speranze! Perfino Kuninotokotachi1 si è levato di torno quando quello è arrivato! Mi ha mollata qua, sola con quell’assassino, ti rendi conto?!»

Naito riuscì a rimettersi a fatica in piedi, non credendo alle sue orecchie. «U-Un momento… che cosa?»

Sakuya-hime agitò le mani infastidita. «Da quando quel vile è stato esiliato si è piazzato qui abusivamente. Le ho provate tutte per farlo andare via. Tempeste, nevicate, terremoti, ma niente da fare, lui non vuole saperne di sparire! Ho chiesto aiuto ad Amaterasu, ma nemmeno lei vuole avere niente a che fare con lui! Sono disperata! Allora, sei qui per cacciarlo?»

«I-Io… sì. Sì, è così» biascicò Naito, pensando di essere appena incappato di fronte al più grosso colpo di fortuna di sempre. O alla più grande stramba che avesse mai incontrato. «Quindi… quindi Tsukuyomi è davvero qui?»

«Sì, sì! Si è perfino costruito un palazzo! Ma come si è permesso?! La mia bella montagna… insidiata in questo modo, come se i mortali non l’avessero già rovinata abbastanza! È terribile…»

«Già… terribile.»

«Oh, ma tu…» La dea gli sorrise colma di gratitudine. «… sei qui per aiutarmi! Allora non sei malvagio come dicono!»

«N-No, certo che no…»

«Grazie! Grazie!» Sakuya-hime si spostò e gli indicò il sentiero con un braccio. «Prego, continua sempre dritto, non puoi sbagliarti! Mi raccomando, concialo per le feste anche da parte mia!»

«Uhm… va bene.» Naito le passò accanto, premurandosi di girarle alla larga, mentre quella continuava a sorridergli con sguardo spiritato.

«Finalmente riavrò la mia montagna!» la sentì esultare, mentre lui procedeva lungo il sentiero. Deglutì al pensiero di come avrebbe reagito quando avrebbe scoperto che in realtà lui non era affatto lì per aiutarla. Ma per allora si augurava di trovarsi già molto distante dal Monte Fuji.

Proseguì, intontito e un po’ sballottolato da tutto quello che era successo. Se non altro ora la montagna non stava più combattendo con lui. Camminare era molto più semplice quando non c’erano trombe d’aria, la terra che tentava di risucchiarlo e la grandine che lo travolgeva.

Anche se era partito proprio per quello, sapere che davvero Tsukuyomi si trovava lì fece nascere emozioni contrastanti in lui. Nel bene e nel male, quella era davvero la fine del suo percorso. Avrebbe incontrato il dio che era stato esiliato e avrebbe scoperto la verità, se davvero lui era il traditore che aveva liberato Orochi oppure no, e soprattutto, in un modo o nell’altro, avrebbe avuto l’Elisir di lunga vita. Non se ne sarebbe andato per nessuna ragione senza di esso.

Stava albeggiando quando arrivò in cima. Era stanco, ferito, coperto di neve e fango, e qualcosa gli diceva che la parte peggiore doveva ancora arrivare.

Si fermò per qualche minuto, per riprendere fiato e riposare un po’ le gambe. La nebbia era salita, avvolgendo il paesaggio a valle del monte, ma lasciando scoperta la cima. Quella vista gli ricordo le Rovine Takeda. Provò una fitta allo stomaco al pensiero di ciò che era successo laggiù, due anni prima.

Che cosa sarebbe successo se Hachidori l’avesse ascoltato, quella notte? Se si fossero ribellati insieme a Orochi? Forse sarebbero morti entrambi. Anzi, sicuramente sarebbe andata così. Eppure, avrebbe preferito fosse successo quello. Avrebbe preferito morire credendo che anche lei ricambiava i suoi sentimenti, piuttosto che vivere fino a scoprire che lei aveva sempre cercato di usarlo e poi vederla spirare di fronte ai suoi occhi.

Scacciò via quei pensieri. Rimpiangere Kairi era inutile. Per una volta, si ritrovò a fare affidamento agli insegnamenti di Orochi: doveva rimanere concentrato su quello che contava, ossia trovare Tsukuyomi.

Continuò a camminare, avvicinandosi verso il gigantesco cratere sulla cima del Monte Fuji. Sapeva che si trattava di un vulcano inattivo da tanto tempo e si augurò che non decidesse di svegliarsi proprio mentre lui era in visita. Ne dubitava, ma con la sua sfortuna non poteva essere certo di nulla.

Fece vagare lo sguardo lungo il paesaggio brullo, fatto di rocce, sabbia e neve. Visto da lontano il Monte Fuji era meraviglioso. Visto da vicino… un po’ meno. Naito costeggiò il cratere. Quella dea della montagna aveva menzionato un palazzo, perciò si voltò in ogni direzione sperando di riuscire a scorgerlo. Non vide nulla, a parte un torii grigio e solitario in lontananza. In assenza di alternative migliori, Naito si avvicinò per studiarlo meglio. Quando lo raggiunse constatò di aver fatto un viaggio a vuoto. Non c’era nulla, lì. Il torii si affacciava sul bordo del monte, dove quel mare di nebbia stava coprendo ogni cosa senza lasciare scampo.

Il sole cominciò a filtrare l’oscurità del primo mattino, illuminando la cima con le sue striature rossastre. Pensò che forse avrebbe potuto attendere il giorno per controllare meglio quel luogo, quando qualcosa si mosse tra la neve accanto al torii all’improvviso.

Un coniglietto bianco spuntò fuori quasi dal nulla, reggendo in bocca un ramoscello. Naito schiuse le labbra per la sorpresa. Il vecchio Musashi aveva parlato proprio di un coniglio. L’animaletto corse fino al cratere e vi si tuffò dentro senza un solo attimo di esitazione. Naito si riscosse dallo stupore e lo inseguì fino al bordo, da dove lo vide saltellare agilmente tra la neve e la terra nera, dirigendosi verso un cumulo di pietre al fondo della conca brulla.

Naito assottigliò le palpebre confuso, poi lo vide meglio. Non era soltanto un cumulo di rocce: c’era un edificio laggiù. Con il buio non l’aveva notato, ma ora, man mano che la luce si faceva più forte, poteva vederlo meglio. La struttura era simile a quella dei templi in cui era già stato, alte colonne grigie con più tetti neri squadrati e a spiovente sovrapposti gli uni sugli altri.

Non ci mise molto a notare anche un altro dettaglio: stava svanendo. Man mano che la luce aumentava sulla valle, quel palazzo sembrava mimetizzarsi sempre di più tra le rocce, come se rigettasse i raggi del sole.

Non ci aveva pensato, ma forse per trovare Tsukuyomi occorreva che ci fosse la luna piena. E, per ovvi motivi, il sole non doveva piacergli affatto. Naito si maledisse per non averlo capito subito e saltò nel cratere, cominciando a correre con quanto fiato avesse ancora nel corpo. Non era un coniglietto, ma grazie alla sua agilità riuscì ad attraversare la conca in breve tempo, senza scivolare sopra la neve.

Più si avvicinava, più il palazzo sembrava farsi più grande. Quello che era parso una catapecchia da lontano ora sorgeva tra le rocce come un imponente edificio di più piani, anche se dall’aspetto molto trascurato, con le pareti scrostate e i tetti rotti. C’erano alcune statue rovinate ai lati del portone d’ingresso, raffiguranti una figura con i capelli lunghi e lo sguardo severo. Dovevano essere le statue del dio, ma stavano diventando sempre più difficili da vedere. Naito si rese conto di avere la luce del giorno alle calcagna, in tutti i sensi. Solo in quel momento si domandò cosa sarebbe successo se il palazzo fosse svanito con lui dentro. Sarebbe svanito anche lui? Sarebbe… morto?

Per un attimo pensò di fermarsi e aspettare la notte dopo. Poi, però, si accorse del portone che iniziava ad aprirsi lentamente da solo, per far entrare il coniglietto. A quel punto decise di mandare al diavolo il buonsenso e si gettò al suo seguito.

Il portone si chiuse con un pesantissimo tonfo un istante dopo il suo ingresso, mandando un getto d’aria tale da farlo barcollare. Naito si guardò alle spalle, accorgendosi di quel colosso di legno alto almeno cinque metri completamente sigillato a bloccare l’uscita. Da lì non sarebbe più passato.

Riportò l’attenzione sull’ingresso, accorgendosi delle pareti bianche, marmoree, con lanterne di carta appese che mandavano la loro fioca luce nel corridoio spoglio. Il pavimento era sporco, coperto di neve a tratti quasi sciolta, a tratti ancora fresca, terra e sabbia, come se in quel luogo fossero sempre entrate persone che non si erano mai prese la briga di pulirsi le scarpe. E conigli, anche.

Avanzò incerto sopra il lungo tappeto rosso e logoro, tenendosi pronto a sguainare le armi al primo segnale di pericolo, e si addentrò nella casa del dio.

La prima cosa che notò fu l’odore. Aveva dormito di nascosto in alcune stalle durante le sue fughe da bambino. L’odore che stava sentendo non era forte come quello, ma era simile, di pelo e mangime per animali.

Le pareti erano di quel colore bianco e spento, con alcune patine di muffa negli angoli. Di tanto in tanto incappò in alcuni arazzi e quadri, raffiguranti individui senza volto. Nel senso che il volto era stato strappato via dalle tele, lasciando un cratere al loro posto. Alcuni erano scarabocchiati con disegni volgari di matita o inchiostro, altri invece sembravano stati investiti da intere secchiate di vernice. Naito non riconobbe i soggetti dei disegni, ma non ci mise molto a capire che doveva trattarsi di altri dei.

Qualcuno non doveva aver preso affatto bene l’esilio.

Entrò in un grosso atrio colonnato, che portava a diverse stanze chiuse da porte scorrevoli di carta e legno. Una era spalancata e conduceva in un altro corridoio, che pareva addentrarsi ancora più in profondità. L’odore si fece più intenso e per terra cominciò a scorgere qualcosa, oltre alla sporcizia. Alcuni residui di carote mangiucchiate, teste di insalata consumate a metà e lasciate a marcire e una miriade di altri ortaggi sgranocchiati e abbandonati a loro stessi.

Un arazzo molto più grosso degli altri era appeso nell’atrio. Questa volta Naito riconobbe chi rappresentava: Amaterasu, la regina degli dei, che sorgeva in mezzo a due montagne illuminando i suoi sudditi. L’unico motivo per cui intuì che si trattava di Amaterasu fu la veste bianca e rossa tipica delle sue raffigurazioni e i raggi del sole che sorgevano da dietro di lei, perché il viso non era affatto il suo: al suo posto era stato disegnato quello di un’altra persona, un uomo con i capelli nivei, come se stesse cercando di prendere il suo posto con la forza.

Naito rimase paralizzato ad osservare quel dipinto. Cominciò a domandarsi se fosse saggio proseguire. Le premesse, per il momento, non sembravano affatto buone. Forse Tsukuyomi era davvero sceso dalla Luna, ma alcune rotelle gli erano sicuramente rimaste lassù.

Udì un fracasso in lontananza all’improvviso, come il rumore di qualcosa che si rovesciava. Sguainò la wakizashi senza esitare e osservò il corridoio oltre l’atrio. Il rumore era arrivato da là. Assottigliò le labbra e decise di andare avanti.

Non si sarebbe mai aspettato quello che lo attendeva.

Sbucò in una balconata che si affacciava su un’immensa stanza, che sembrava in tutto e per tutto un’officina. C’erano banchi da lavoro, tavoli lunghissimi, utensili, mensole cariche di fiasche, barattoli e contenitori pieni fino all’orlo di sostanze a lui irriconoscibili. Non era l’officina, tuttavia, la parte più sconvolgente, ma chi ci stava lavorando.

Conigli. Decine, centinaia di coniglietti bianchi, eretti sulle zampe posteriori sopra degli sgabelli e che, dotati di pestelli e mortai, stavano macerando foglie, erbe e chissà che altro, producendo un rumore costante e regolare simile al ticchettio di un orologio. In un angolo di quel salone immenso notò un altro coniglio, con il pelo grigio, intento a ripulire i cocci di qualche vaso che era caduto a terra. Con scopetto e paletta, stretti nelle zampine.

Naito pensava di averne viste tante, durante i suoi viaggi. Era stato il servitore di un mostro millenario che aveva cercato di rovesciare il mondo. Aveva conosciuto dei, piccoli dei, demoni, di tutto e di più.

Tutto quello gli sembrò molto più assurdo di qualsiasi altra cosa avesse mai visto. I conigli pestavano dentro i mortai, poi andavano a versare qualunque intruglio stessero producendo dentro una gigantesca vasca posta al centro della stanza, con al suo interno delle pale che giravano mosse da un perno attaccato al soffitto. Il macchinario produceva un forte ronzio, pari a quello di uno stormo di mille vespe.

Non ebbe idea di quanto tempo trascorse così, immobile, a osservare quella scena, incapace di credere al suo occhio. Probabilmente avrebbe continuato ancora per ore, se una voce alle sue spalle non avesse parlato all’improvviso: «E tu chi sei?!»

Per poco Naito non precipitò dalla balconata per lo spavento. Si voltò di scatto, sollevando la wakizashi, prima di essere investito da un’aura di potere tale da fargli accapponare la pelle.

Un uomo era apparso di fronte a lui, chiuso dentro un kimono nero e blu, con ghirigori scintillanti. Aveva lunghissimi capelli bianchi legati in una coda, su cui era riposta una tiara con incastonata una gemma a forma di mezzaluna, che lasciavano scoperto il volto glabro e allungato, dagli zigomi alti, macchiato da un’espressione severa. Gli occhi erano scuri come la notte, le iridi bianche come due lune piene.

Naito rimase pietrificato di fronte a lui. Si rese conto che i ghirigori sul suo kimono si muovevano da soli, animati da una vita propria. Non erano semplici puntini bianchi, ma stelle. Intere costellazioni erano sparpagliate lungo il suo abito.

«Allora?!» incalzò l’uomo con voce seccata, facendo un passo verso di lui. «Rispondi! Chi sei?! Come hai fatto ad entrare?!»

«I-Io…» Naito non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma non riusciva a parlare come avrebbe voluto. Era come paralizzato di fronte a lui.

«Ti ha mandato quella lagnosa di Sakuya-hime, vero?! Beh, va pure a riferirle che io non ho alcuna intenzione di andarmene da qui finché mia sorella non verrà a implorare strisciando il mio perdono per ciò che mi ha fatto! Solo allora, forse, considererò l’opzione di sloggiare! Tutto chiaro?!»

Quando menzionò sua sorella e la dea della montagna, Naito riuscì a riscuotersi. Non c’erano dubbi: quello… quello era davvero Tsukuyomi.

Il dio esiliato, colui che aveva voltato le spalle agli altri e ucciso Ukemochi. Uno dei tre figli di Izanagi, nonché fratello minore della regina stessa degli dei.

L’aveva trovato. Non gli sembrava vero. Ora, però, iniziava la parte difficile. «Non… non sono qui per questo» riuscì a formulare, parlando a fatica a causa dello stupore e anche, in parte, del timore che stava provando.

Tsukuyomi conficcò gli occhi sulla wakizashi di Naito, che soffocò un’imprecazione. Si affrettò a rinfoderarla e sollevò le mani in segno di resa. «Non voglio combattere. Sono qui per l’Elisir di lunga vita.»

«L’ELISIR DI…» Il dio alzò la voce e gli puntò contro un indice. Per un istante le stelle sul kimono si trasformarono in vortici di luce fuori controllo, ma si calmarono quando anche lui si ammansì. Si schiarì la gola e ostentò finta ignoranza. «Non so di cosa parli. Non c’è nessun Elisir di lunga vita qui. Ora sparisci, prima che ti scaraventi giù dal monte personalmente.»

Naito ignorò la minaccia. «Sì che è qui invece. Lo stanno producendo quei conigli.»

«Ti stai sbagliando. Tu cerchi Chang’e, la mia corrispettiva cinese. Qui produciamo solo dolci di riso. Mi dispiace, hai fatto un viaggio a vuoto, addio adesso.»

Lo stupore e il timore di Naito cominciarono ad essere rimpiazzati da una profonda sensazione di fastidio. Lanciò uno sguardo verso i conigli e gli intrugli verdognoli nei loro mortai. «Quello non mi sembra affatto riso.»

Le guance di Tsukuyomi diventarono paonazze. Si morse un labbro, mentre le costellazioni ricominciavano a dare di matto. «Stammi bene a sentire, piccolo impertinente, non ho alcuna intenzione di darti l’elisir, chiaro?!»

«Quindi lo produci davvero tu…» mormorò Naito.

«Certo che lo produco io! Chang’e si è presa tutto il merito, ma sono io che l’ho creato, io ho salvato la vita di quel coniglio, non lei! Quella… quella… quella gran donna…» Tsukuyomi arrossì di nuovo, forse al pensiero della dea cinese. Ridacchiò da solo, poi sembrò ricordarsi di Naito e riacquisì la sua aria arrabbiata.

«In ogni caso, la risposta è no! È sempre la stessa storia con voialtri, vi fate vedere soltanto quando volete chiedermi un favore, o quando volete accusarmi di qualcosa che non ho fatto! Mai uno che venga a fare un favore a me! Mai uno che venga a chiedermi scusa! È tutto un “Tsukuyomi, fai questo, Tsukuyomi, fai quello, Tsukuyomi, vattene da qui!” oppure “Ama no Murakumo è sparita: è colpa di Tsukuyomi! Hanno fatto evadere Yamata no Orochi: è colpa di Tsukuyomi! Hanno rubato quello stupido specchio: COLPA DI TSUKUYOMI! SEMPRE E SOLO COLPA MIA!»

«Un momento… quale specchio?» domandò Naito.

«Bah!» Tsukuyomi si incamminò lungo il balcone, diretto verso una porta che conduceva ad una rampa di scale. Naito cominciò a seguirlo tenendosi a debita distanza, mentre il dio della luna si metteva a sproloquiare senza controllo: «Ha davvero importanza? Quello che conta è che tutti quanti sono convinti che io stia cospirando alle spalle di mia sorella, ma non hanno nessuna prova! Mi accusano e basta, come sempre!»

Scesero al piano di sotto e si addentrarono nell’officina. I conigli smisero di impastare e saltarono tutti sull’attenti non appena video il dio. Sollevarono perfino le zampette in dei saluti militari, ma Tsukuyomi gesticolò nervosamente anche verso di loro. «Sì, sì, tornate al lavoro.»

Sospirò esausto, posandosi le mani sui fianchi e rimanendo ad osservare la vasca al centro del salone. «Ho fatto un solo errore, millenni e millenni fa, e ancora oggi ne pago le conseguenze. Tutti mi trattano come se fossi l’origine di ogni male. Va bene, forse ho perso le staffe quella volta, e con questo? Chiunque avrebbe fatto la stessa cosa ad Ukemochi! Sono stato pure gentile a darle quella morte rapida!»

«Quindi non sei stato tu a far evadere Orochi?» domandò Naito, sentendosi a disagio.

«E perché avrei dovuto? Io non voglio avere nulla a che fare con quell’essere abominevole.»

«Ma… e chi è stato, allora?»

«E io che diamine ne so? Probabilmente qualche dio geloso di mia sorella. Forse mio fratello minore, o forse uno dei miei fratellastri più grandi. Sono in tanti a volere il suo posto, sai?»

«Però… il tuo litigio con… tua sorella, allora? Insomma, avrebbe senso se… se…»

«Se cercassi di vendicarmi? Non sei l’unico a pensarla così. Ma vi sbagliate. Non voglio il trono di mia sorella. Non voglio il suo stupido regno, ho già il mio, di regno!» Tsukuyomi allargò le braccia, accennando all’officina. «Qui comando io! E ho servitori fedeli! Non mi serve nient’altro!»

Vi fu un altro frastuono di ceramica che si rompeva. Il dio della luna si voltò verso il coniglio grigio. «Roger! È la terza fiala che rompi questa settimana! Quella te la detraggo dalla paga!»

Il coniglietto cominciò a pulire i cocci di ceramica, senza apparire turbato dalla minaccia.

Tsukuyomi scosse la testa con disappunto, anche se pareva abituato a quel genere di cose. «Come stavo dicendo, non voglio il trono di mia sorella. L’unica cosa che voglio da lei sono delle scuse per quello che mi ha fatto.»

«Intendi l’esilio?»

«Intendo dire tutto quanto!» urlò Tsukuyomi, voltandosi di nuovo verso di Naito. «Dimmi un po’, tu come ti sentiresti ad essere l’unico escluso della famiglia?! Non è piacevole, sai?! Quest’estate stavamo per scontrarci con i greci! E sai quando l’ho saputo io? Quando ormai il pericolo era già passato! Gli dei, tutti gli dei greci e giapponesi più importanti si sono incontrati al palazzo di mia sorella per stilare una tregua, tutti tranne me! Il mondo è stato sull’orlo del baratro e nessuno è venuto a dirmelo, l’ho scoperto da solo! Pensi che sia divertente?! Pensi che sia bello essere trattati in questo modo, dimenticati, abbandonati, ricordati soltanto per un errore commesso migliaia e migliaia di anni fa?! La mia unica compagnia sono questi conigli…» mormorò, accennando ad alcuni operai al lavoro coi pestelli. «… da quando quel piccoletto si è sacrificato per me, ho capito che loro sono gli unici di cui posso davvero fidarmi. Gli unici che non mi giudicano per quello che ho fatto.»

Il rumore di un'altra fialetta che si infrangeva a terra giunse alle loro spalle. Tsukuyomi sospirò pesantemente, ma non si arrabbiò. La sua espressione raccontava tutto quello che c’era da sapere. Naito non credeva che avrebbe mai visto un dio triste, eppure stava succedendo proprio di fronte al suo occhio.  Non aveva idea di che cosa stesse facendo, ma provò a confortarlo. Sì, aveva davvero bisogno di quel maledetto elisir. «Forse… forse se le chiedessi scusa lei…»

«Credi che cambierebbe qualcosa?!» tuonò Tsukuyomi, interrompendolo, comportandosi come se quelle parole fossero state un falò appena acceso sotto il suo fondoschiena. «Lei non vuole più saperne di me! Ai suoi occhi sono un assassino, ormai. Mi… mi ha cacciato perché aveva paura che potessi fare del male anche a lei.»

Strinse i pugni e i denti. Sembrava arrabbiato, ma Naito riconobbe il dolore nel suo sguardo. Tirò su con il naso, come se stesse per piangere.

«“Sei un dio malvagio” mi ha gridato, prima di esiliarmi dal Takama-ga-hara.» Sferzò l’aria con la mano, strizzando le palpebre con forza. «Beh, non sono io quello che ha sempre cercato di prendere il suo posto, non sono io quello che distrutto le sue risaie e che l’ha fatta fuggire in lacrime dentro una caverna! Sono sempre stato dalla sua parte, l’ho sempre supportata, perché era mia sorella! Non le avrei mai fatto del male, mai! Ma non si è fidata di me. Non… non è giusto.» Abbassò la testa e la sua voce si ridusse ad un sussurro incrinato: «Io… io le volevo bene.»

Qualcosa nel suo sguardo smarrito, nel suo tono di voce affranto, fece capire a Naito che era sincero. Non era lui il dio che aveva liberato Orochi. Era solo un povero disgraziato che era stato rigettato da tutti i suoi simili e che si era ritrovato tagliato fuori dal mondo. Un altro disgraziato con cui aveva molte più cose in comune di quando potesse immaginare.

«Mi dispiace» mormorò Naito, incapace di guardarlo ancora. Sapeva qualcosa sul convivere con uno sbaglio che non lasciava tregua. E lui aveva trascorso pochi mesi in quel modo, consumato dal rimorso. Tsukuyomi doveva aver passato tutti quei millenni così, a rimpiangere ciò che aveva perso, solo, ferito e abbandonato.

Naito rimase ad osservare i coniglietti al lavoro, assorto, e si domandò ancora una volta cosa si dovesse provare a vivere in quel modo, concentrati unicamente sul proprio dovere ed ignorando tutto il resto. Niente battaglie, guerre, faide tra dei, nulla, solo un mortaio, un pestello e un intruglio verdognolo.

Si accorse che Tsukuyomi si era fermato ad osservarlo con gli occhi socchiusi, come se si stesse domandando se fosse sincero oppure no. Naito resse lo sguardo, avvertendo di nuovo la pelle formicolare. Poteva essere strano, triste e pazzo quanto voleva, ma Tsukuyomi rimaneva comunque uno degli eredi di Izanagi. Irradiava energia pura, qualcosa che avrebbe fatto fuggire da lui perfino Kagu-Tsuchi.

«Sì, beh, non me ne importa niente se ti dispiace» sbottò, riacquistando il tono acido e scorbutico con cui si era presentato. «Non so nemmeno perché ti ho parlato di tutto questo, a dire il vero. Avanti, vattene da casa mia. Non te lo ripeterò ancora.»

Naito assottigliò le labbra. «Non posso andarmene. Non senza l’elisir.»

Tsukuyomi fece un sorrisetto beffardo. «Ma davvero? E dimmi, mezzosangue, per quale motivo dovrei consegnarti il mio bene più prezioso?»

«Perché…» Naito tacque, ponderando sulle parole giuste da usare. Non sapeva se il dio avrebbe creduto o meno a quello che stava per dirgli, ma aveva soltanto un modo per scoprirlo. Lo osservò dritto in quegli occhi che sembravano essere ritagli di notte e gli spiegò la sua situazione.

Al termine del racconto, Tsukuyomi serrò le palpebre. «Capisco. Vorresti farci del bene.»

«Sì. Sì, è così.»

«Non posso aiutarti.»

«Ascolta, io…» Naito si interruppe, prima di schiudere la bocca sbalordito. «Un momento, mi credi?!»

«Certo che ti credo. Non saresti arrivato fin quassù a chiedermelo, altrimenti. Inoltre, ciò che mi hai raccontato…» Tsukuyomi sospirò. «Io meglio di chiunque altro posso comprendere come ti senti. Ma non posso lasciare che tu consegni il mio elisir al Giappone.»

Lo stupore di Naito si mischiò con la delusione. «Ma… perché?»

«Perché? Hai davvero il coraggio di chiedermi “perché” dopo tutto quello che ti ho raccontato?» Le narici del dio si dilatarono come quelle di un Ushi-oni imbizzarrito. «I giapponesi non si meritano nulla da me. Sono l’ultima ruota del carro, per loro, il dio meno importante in assoluto. La gente a malapena si ricorda della mia esistenza.»

«Non è vero, esistono molti santuari dedicati a…»

«A me? Sì, certo, esistono. Li hai mai visti?»

Naito esitò. «Ehm…»

«Vai a darci un’occhiata, quando hai tempo. E dopo passa nei santuari che hanno eretto per i miei fratelli, o per quella presuntuosa di Inari, e prova a venire ancora a dirmi che ai giapponesi importa davvero qualcosa di me.» Tsukuyomi fece un verso infastidito. «Sono il dio della “Luna” nel paese del “Sol Levante”. Le cose erano difficili per me già da prima del mio esilio. Puoi solo immaginare come sono andate dopo.»

«Ma… e allora perché produci l’elisir?»

Tsukuyomi afferrò una fialetta da un bancone e gliela sventolò di fronte al naso. «Per darlo a tutti gli altri! Ho ordini che mi arrivano da ogni parte del mondo, India, Cina, Egitto, c’è anche un tizio francese che continua a ordinarlo. E anche i greci me lo chiedono, a volte. Usano il principio attivo dell’elisir per creare il nettare e l’ambrosia. O forse sono io a usare il principio attivo del nettare e l’ambrosia. Non mi ricordo, non ha importanza, il punto è che sono disposto a darlo a chiunque, chiunque, purché non sia un giapponese! Questo paese non merita la mia brillantezza. E la cosa include anche te. Mi dispiace per la tua storia, mi dispiace per i cari che hai perduto, ma non ti darò l’elisir.»

Naito non aveva alcuna intenzione di accettare “no” come risposta dopo tutto quello che aveva passato. In un modo o nell’altro, sarebbe uscito da lì con l’elisir. «Che cosa vuoi in cambio?»

«Mh?» Tsukuyomi posò la fialetta. «Che cosa?»

«Che cosa vuoi in cambio dell’elisir» spiegò Naito. «Hai detto che nessuno ti fa mai dei favori. Te ne farò uno io, purché sia… alla mia portata. Sei d’accordo?»

Tsukuyomi lo squadrò con le labbra socchiuse per lo stupore. Per un istante Naito pensò che stesse davvero per accettare, ma poi lo vide scuotere la testa, anche se con un sorrisetto. «Apprezzo la tua inventiva, ma non esiste nulla che tu possa darmi in cambio dell’elisir. Chiedimi qualsiasi altra cosa e sarò lieto di fartela avere, in cambio del giusto favore, ma l’elisir è fuori discussione.»

Naito strinse i pugni. La testardaggine di Tsukuyomi cominciava a dargli sui nervi. «Cerchi di attirare le attenzioni di tua sorella, vero?»

L’occhiata che gli rivolse Tsukuyomi fu molto diversa da tutte quelle che aveva ricevuto prima. «Che cosa vorresti insinuare?»

«Sto insinuando che sei esattamente come la tua luna, hai bisogno del sole per brillare. Senza, non sei niente.»

«Mezzosangue, ti consiglio di tacere, prima che…»

«Guarda questo posto.» Naito tese una mano verso un banco da lavoro al di sotto di un calendario con fotografie di conigli. «Tu questo lo chiami regno? Questi sarebbero sudditi?! Non offendetevi, non ce l’ho con voi» aggiunse, anche se i conigli non gli prestarono attenzione. «Dici di essere un dio brillante, ma io non vedo nessun dio qui. Vedo solo un codardo che ha paura di affrontare le conseguenze delle sue azioni.»

Sapeva di star correndo un rischio enorme a dire quelle parole, ma non aveva altra scelta. Aveva capito che persona fosse il dio. L’aveva capito… perché era proprio come lui.

Le stelle sul kimono di Tsukuyomi cominciarono a vorticare all’impazzata. Gli lanciò un’occhiata di odio puro, mentre le sue iridi si tingevano di rosso, come lune di sangue. Immagini orribili balenarono nella mente di Naito, morte, carestie, terremoti e distruzione. La pelle gli si arricciò di nuovo, mentre Tsukuyomi digrignava i denti. «Sarà meglio che inizi ad implorare il mio perdono, mezzosangue, perché altrimenti…»

«Hai commesso un errore.» Naito alzò la voce, reggendo lo sguardo del dio, sentendo le proprie ossa sussultare per via dell’energia disumana che stava impregnando l’aria. «Ma cos’hai fatto fino ad oggi per cercare di porre rimedio? Isolarti in questo modo, ad aspettarti delle scuse che sai che non arriveranno mai, non è la soluzione. Se davvero pensi di meritare la fiducia di tua sorella, se davvero ritieni di essere un dio importante, allora smettila di nasconderti e datti da fare per dimostrarlo, perché credimi, la gente non lo capirà da sola. Tua sorella soprattutto. Se davvero vuoi che le cose cambino, dimostra a tutti che non sei malvagio come credono.»

Il respiro di Tsukuyomi si fece pesante. Rimase immobile, ad osservarlo inespressivo. Naito era sicuro che lo avrebbe attaccato, e a quel punto non aveva idea di cosa avrebbe fatto. Di una cosa era certo, sarebbe uscito da quel luogo con l’elisir, in un modo o nell’altro. Aveva sconfitto Kagu-Tsuchi: avrebbe sconfitto anche lui.

All’improvviso, però, il dio distolse lo sguardo. Le iridi gli tornarono normali e il kimono smise di agitarsi. Un lungo mugugno gli scappò dalle labbra, mentre si voltava verso la vasca al centro dell’officina, dove quell’intruglio verdognolo continuava a girare ignaro di tutto. La profonda tristezza di poco prima lo assalì nuovamente e Naito realizzò di avere il cuore che minacciava di saltargli fuori dal petto. C’era mancato davvero un soffio.

«Pensi… pensi che dovrei ignorare quello che è successo con mia sorella?» domandò il dio, con voce smorta. «Anche se mi ha cacciato?»

«Penso solo che… covare rancore sia inutile» rispose Naito, attingendo a ciò che aveva imparato da Edward e da Konnor. «Le cose non vanno sempre come vorremmo. L’ho capito io, mio malgrado, e la mia vita non è che un frammento infinitesimale se paragonata alla tua. Perché non puoi capirlo anche tu?»

Tsukuyomi sospirò. Non sembrava esserci più alcuna traccia della sua furia di poco prima. «Non è così semplice, mezzosangue. Vorrei tanto che lo fosse. Però…» Gli lanciò un’occhiatina rapida, assottigliando le palpebre, prima di riportare l’attenzione sulla vasca. Cominciò a borbottare tra sé e sé: «E se fosse che… no, mi sto sbagliando… ma forse è davvero lui… non posso esserne certo. Però è un mezzosangue, deve pur significare qualcosa…»

Naito sbatté le palpebre un paio di volte. Cominciò a pensare che avesse del tutto perso il senno. «Ehm… scusa, ma che stai…»

Tsukuyomi si voltò di scatto, folgorandolo con un’occhiata molto diversa da quelle di prima. Ora, sembrava che ci fosse un luccichio malizioso nei suoi occhi. Batté le mani un paio di volte. «Ragazzi, per oggi può bastare così. Andate pure a riposarvi.»

I conigli posarono pestelli, mortai, attrezzi e quant’altro e scesero dagli sgabelli, dirigendosi in fila ordinata verso la porta che loro avevano preso per entrare. Le pale dentro la vasca si fermarono da sole all’improvviso, interrompendo quel ronzio interminabile.

«Tu» affermò Tsukuyomi, indicando Naito. «Seguimi.»

Cominciò a camminare senza nemmeno aspettarlo. Naito sbatté le palpebre un paio di volte, domandandosi cosa diamine gli fosse preso, e obbedì. Lo guidò verso una porta scorrevole al fondo dell’officina divenuta improvvisamente vuota e silenziosa. Attraversarono una stanza piena di scatoloni sigillati e impilati tra di loro, con sopra scritti indirizzi e nomi, probabilmente i clienti a cui era indirizzato l’elisir.

Lesse i nomi più svariati, la già menzionata Chang’e – a cui era dedicato uno scatolone molto più grande con tanto di bigliettini di auguri – e molti altri che non conosceva, come Asclepio, Khonsu, Ecate, Nicolas Flamel, Eris, mentre gli indirizzi indicavano Grecia, Francia, Egitto, Wyoming, Cina, Inferi, Tartaro, Alfa Centauri, e così via.

«Ultimamente siamo sommersi di richieste» borbottò Tsukuyomi, aggirando una pila di “Campioni Gratuiti” che sembrava reggersi in piedi per miracolo. Naito ipotizzò che Roger non passasse di lì molto spesso. «Poco male, finché mi pagano io non mi lamento» proseguì il dio.

«E con cosa ti pagano?»

«Oh, con un sacco di doni fantastici!» Tsukuyomi accennò alle costellazioni che ondeggiavano sul suo kimono. «Belle, vero? Sono opera di Nyx, la dea della notte. Le ha fatte in cambio di qualche migliaio di fialette. Un’altra gran donna. Sapere che c’è lei a fare compagnia alla mia Luna mi fa sentire molto meno solo. A quanto pare, però, lei è davvero una dea malvagia, quindi mi hanno proibito di farci altri affari. Peccato, credevo di piacerle.»

Naito corrucciò la fronte. Era strano per lui sentire parlare degli dei in quel modo, dopo tutti gli anni trascorsi a desiderare di ucciderli tutti. In effetti, era strano il solo fatto che si trovasse lì, in termini così pacifici con uno di loro, uno dei tre fratelli, per giunta. Se Orochi l’avesse visto…

Serrò le labbra. Orochi era morto. Non doveva più pensare a lui.

Arrivarono a un’altra zona del palazzo, dall’interno sembrava molto più grande che dall’esterno. L’odore che Naito aveva sentito all’ingresso gli aveva ricordato una stalla. Ora, erano finiti proprio dentro una stalla.

C’erano mucchi di fieno stipati contro le pareti, vaschette e mangiatoie vuote appoggiate alle rastrelliere e alle recinzioni per bovini. Nonostante fosse piuttosto grande, abbastanza da contenere almeno una ventina di mucche, ce n’era soltanto una, in un angolo indisturbato, che se ne stava con la testa china sopra un mucchietto di fieno.

Solo che non era una semplice mucca. Non appena furono più vicini, Naito si rese conto con un misto di sorpresa e orrore che il corpo, sì, era quello di un bovino, ma il muso, la testa, era quella di un umano.

«È un kudan2!» esclamò, non credendo ai propri occhi. Non ne aveva mai visto uno prima di quel giorno, ma sapeva cosa fossero. Erano molto rari, e con buona ragione: ogni volta che ne appariva uno, eventi terribili si verificavano.

«Sì» annuì Tsukuyomi, posandosi le mani sui fianchi. «È apparso qualche giorno fa sulla cima del Monte Fuji.»

«Ma perché l’hai portato qui?!» domandò Naito, inorridito. «Sono portatori di sventura!»

«Non sono loro a portare sventura. Loro annunciano che la sventura sta per arrivare. Sono messaggeri, profeti, per così dire. E…»

«La guerra scoppierà» borbottò il kudan proprio in quel momento, sollevando il muso dal fieno, con voce che ricordava proprio il muggito di una vacca, impossibile da capire se fosse maschile o femminile. «La notte eterna… giungerà.»

«Parla in rima» riuscì soltanto a dire Naito, forse perché era troppo sconvolto da quelle frasi per pensare ad altro.

«Le profezie devono essere in rima… suppongo.» Tsukuyomi sollevò le spalle. «Non ne ho idea. Non sono mica quel pallone gonfiato di Apollo. Fatto sta che…»

«L’araldo fallirà…» Il kudan si era accorto di loro e si era avvicinato, dimenticandosi del suo pasto. Conficcò i suoi occhietti proprio su di Naito, studiandolo con attenzione e producendo un lungo verso gutturale. Il suo volto era quello di uomo in tutto e per tutto, con capelli corti, neri, e le guance grassocce. «… se il mezzosangue non lo aiuterà» concluse, prima di voltarsi e tornarsene al suo fieno.

«È da quanto è qui che continua a ripetere le stesse frasi» spiegò Tsukuyomi, mentre Naito rimaneva immobile, atterrito. «L’araldo che fallisce, la guerra che scoppia, la notte che…»

«La vergine sanguinerà!» muggì il kudan.

Tsukuyomi fece una smorfia. «Sì, anche quello.»

Naito si riscosse. Era la seconda volta che qualcuno menzionava la vergine. Ed era anche la seconda volta che sentiva parlare di guerra. «Che… che significa tutto questo?»

«Io… non ne sono molto sicuro» rispose Tsukuyomi, massaggiandosi il mento. «So solo che araldi che falliscono, guerre che scoppiano e notte eterna non promettono bene.»

«Non… non ne hai parlato con gli altri dei?»

«Oh, certo, lo farei volentieri, ma c’è un problema: SONO IN ESILIO!» Tsukuyomi si schiarì la voce. «Scusa, non volevo urlare. Comunque, gli altri dei mi odiano, penserebbero che sto soltanto cercando di distrarli dai problemi più immediati.»

Naito appoggiò la mano sopra la recinzione, angosciato. «Quali problemi più immediati?»

«Mh? Mi pare di averlo già detto prima. Yata no Kagami è scomparso.»

«A-Aspetta… quel Yata no Kagami? Lo Specchio Sacro?!»

«Già. E senza di quello mia sorella rischia di spegnersi.»

L’aria venne risucchiata fuori dal corpo di Naito. Ecco cos’era lo specchio menzionato da Tsukuyomi, poco prima. Si riferiva a quello, Yata no Kagami, lo specchio che gli dei avevano appeso fuori dalla grotta di Amano Iwato per far uscire Amaterasu dopo la sua scomparsa3. «Che significa che… che la regina “rischia di spegnersi”? Credevo che fosse solo… sì, insomma, uno specchio. Perché dovrebbe essere così importante?»

«Perché l’essenza vitale di mia sorella è rimasta impressa in esso, dopo che è uscita da quella caverna. Aveva perso la sua luce, la sua voglia di vivere, e l’ha ritrovata grazie a quello specchio. Lo specchio, serve per aiutarla a illuminare il mondo. Senza, il suo potere è dimezzato. E più tempo trascorrerà senza di esso, più la sua luce continuerà ad affievolirsi, finché non si spegnerà del tutto. E questo kudan ha detto che “la notte eterna scenderà.”»

«La notte eterna giungerà!» urlò il kudan. 

«Scendere, giungere, è la stessa cosa!» replicò il dio, inviperito. Per tutta risposta, la mucca ripeté il verso esatto.

«Non accogliere mai un kudan in casa tua. Sono di pessima compagnia» si lamentò Tsukuyomi.

«Quindi… tua sorella rischia di spegnersi?» mormorò Naito, giusto per essere sicuro di aver capito bene quanto grave fosse la situazione. Ricordò all’improvviso le parole di Ibaraki, sul fatto che Amaterasu fosse vulnerabile. Non gli aveva mentito. E aveva parlato di una guerra, proprio come il kudan. 

Tsukuyomi scrollò di nuovo le spalle. «Già, così sembra.» Cercava di apparire disinteressato, ma Naito avrebbe giurato che fosse teso tanto quanto lui. «Ma non è tutto. Mia sorella non è stupida, sapeva di essere in pericolo, e in qualche modo sapeva che un mezzosangue sarebbe stato importante per il suo futuro. Quest’estate, dopo che la guerra è stata sventata, lei ha scelto un mezzosangue come suo campione. Gli ha donato Ama no Murakumo e l’ha incaricato di usare la spada per proteggerla. Tuttavia, l’ha chiamato in quel modo, “araldo.” E a quanto pare…»

«L’araldo fallirà» dissero Naito e il kudan insieme.

«Sì. Ma solo se…» Tsukuyomi lo scrutò con attenzione. «… “il mezzosangue non lo aiuterà.”»

Naito non ci mise molto a capire dove la discussione stava andando a parare. «Pensi… pensi che il mezzosangue sia io?!»

«Beh… diciamo che se fossi tu, sarebbe vantaggioso per tutti» spiegò Tsukuyomi. «Se tu aiutassi l’araldo a impedire la notte eterna, e dicessi a tutti che sono stato io, Tsukuyomi-no-mikoto, il dio della Luna, a mandarti… ne gioveremmo entrambi, non pensi?»

«Ma tu sei un dio, non faresti prima ad intervenire tu stesso? Perché non…»

«Hai sentito il kudan. Non si parla di “dei”, ma di un mezzosangue. Il fato non si può riscrivere, Naito. Le cose possono, e devono, andare solo in un modo. E in ogni caso, questa è la tua occasione per ottenere quello che vuoi. Quando gli dei vedranno un han’yō combattere per loro, realizzeranno che la tua specie non è malvagia. E allo stesso tempo, quando Amaterasu capirà che sono stato io a mandarti ad aiutarli, mi sarà debitrice eterna e sarà costretta a riammettermi nel Takama-ga-hara. Già mi immagino la sua faccia sorpresa quando scoprirà che è salva grazie a me. Ah! Non vedo l’ora. La farò strisciare ai miei piedi!»

Cercava di mostrarsi arrogante e pieno di sé, ma Naito intuì subito il suo reale stato d’animo. Era angosciato per Amaterasu e voleva davvero aiutarla, perché le voleva ancora bene, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo ad alta voce. Un sorriso nacque sul suo volto senza che nemmeno se ne rendesse conto.

«Che hai da sorridere?»

«Nulla.» Naito riportò lo sguardo sul kudan, che continuava a mangiare e a muggire quei versi. Tra tutti loro, quello della vergine che sanguinava gli rimase più impresso. Che… che si trattasse di Rosa?

Anche il Re voleva sapere di lei. Non poteva essere solo un caso. Il pensiero che lei potesse essere in pericolo si conficcò nella sua mente, causandogli un nodo allo stomaco. Era di nuovo di fronte a una scelta: poteva dire di no, tirarsi indietro e lasciare che qualcun altro combattesse quella battaglia… oppure poteva combattere per la giusta causa.

Se fosse scoppiata davvero una guerra, i piccoli dei sarebbero corsi in aiuto dei loro genitori, Rosa inclusa. Ripensò a cosa quella ragazza avesse fatto solo per cercare di fermarlo. Lo aveva affrontato senza guardarsi indietro neanche una volta, per difendere le persone a cui teneva, per difendere suo fratello. Avrebbe dato la vita, se fosse stato necessario, per quella causa. E quel pensiero lo fece rabbrividire.

Ma non c’era solo lei. Edward, Konnor, i loro amici, il ragazzo che aveva incontrato a Yokohama, Kate Model…

Kairi. I mezzosangue. Tutti i mezzosangue, anche quelli per metà dei. Erano tutti coinvolti, tutti avrebbero combattuto, tutti avrebbero rischiato la vita. Alcuni di loro già l’avevano persa.

Naito strinse i pugni. «Va bene, Tsukuyomi. Ti aiuterò. Che cosa devo fare?»

«Mia sorella ha incaricato l’araldo di proteggerla» cominciò a spiegare Tsukuyomi, picchiettandosi il mento. «Ma stando al kudan, lui fallirà se non riceverà aiuto da un mezzosangue. Perciò, credo che la soluzione più logica sia mandarti in occidente, da lui. Trovalo, proteggilo e aiutalo a fare qualsiasi cosa mia sorella gli abbia ordinato di fare.»

«E come lo trovo?»

«Non sarà così difficile. È un semidio, dopotutto. Si chiama Edward Model.»

Naito spalancò l’occhio, il sorriso che si dileguava dal suo volto. «Edward?!»

«Lo conosci? Bene, renderà tutto più semplice. Forse dovrete ritrovare Yata no Kagami. Ci stanno già pensando il mio stupido fratello minore e i suoi lacchè a cercarlo, ma non credo proprio che troveranno nulla. Non credo nemmeno che vogliano trovarlo.» Tsukuyomi fece una smorfia. «Non riesco a credere che Amaterasu si fidi ancora di lui.»

Non sembrava correre affatto buon sangue tra lui e Susanoo.

«Tieni, prendi anche questo.» Tsukuyomi spalancò la mano: una fiaschetta di ceramica gli apparve nel palmo. «Un campione gratuito monouso del mio elisir.»

Naito era ancora scosso dall’idea di dover cercare proprio Edward. Di nuovo. Afferrò la fiaschetta con mano tremante.

«Se le cose si mettessero male, dovrebbe aiutarvi» spiegò il dio.

«Ehm… “dovrebbe”?»

«L’elisir è potente, ma è anche instabile. Può avere… molti effetti. Devi essere certo di volere quello giusto.»

«Perché deve sempre essere tutto così criptico?»

«Non hai idea di quante volte mi sia fatto la stessa domanda. Ma se il nostro piano funzionasse, l’araldo non fallirà, il che significa che forse riusciremmo a salvare mia sorella.»

«La notte eterna…»

«Abbiamo capito!» urlò Tsukuyomi, riuscendo, incredibilmente, a zittire il kudan.

Naito osservò la fiaschetta. Era bianca, chiusa da un tappino di sughero, con un solo kanji nero dipinto sopra: . Vita.

Così, quello era il suo nuovo obiettivo. Doveva tornare in America e trovare Edward. Non solo, doveva aiutarlo. Tutt’un tratto, la fialetta sembrò farsi molto più pesante, come se il suo contenuto non fosse più un semplice intruglio di dubbia provenienza ma qualcosa di molto, molto più grande. Qualcosa di più simile al “destino del mondo”, o diavolerie del genere.

Inoltre, il verso della vergine continuava a ronzargli in testa. Stava tornando in America, da Edward, per di più. Il che significava che…

Un brivido gli percorse la schiena.

Rosa.

L’avrebbe rivista.

«Allora, sei pronto?»

Naito trasalì. «Per cosa?»

«Per andare in occidente, no?» Tsukuyomi sollevò le mani, che cominciarono a brillare di bianco. Un sorrisetto folle apparve sul suo volto. «Forza, non abbiamo un solo istante da perdere!»

Naito spalancò l’occhio. «Un momento, che cosa stai…»

«Buon viaggio!» esclamò il dio, sferrandogli un ceffone che lo scaraventò verso il soffitto, in tutti i sensi. Naito urlò a perdifiato, mentre la terra si staccava dai suoi piedi e cominciava a volare incontrollabile. Attraversò il soffitto come se fosse fatto d’aria, sfrecciò in una stanzetta piena di conigli che sgranocchiavano carote, che alzarono le zampine in segno di saluto, e subito dopo si ritrovò in cielo, con il Monte Fuji che diventava un puntino indistinguibile alle sue spalle.

«E ricorda di dire a tutti che ti ho mandato io, Tsukuyomi-no-mikoto!» tuonò la voce del dio, da qualche parte imprecisata attorno a lui. «Buona fortuna! Che la Luna ti mostri la via, Naito!»

«AAAAAAAAAAAH!»

La terra svanì. Le nuvole lo circondarono, ogni cosa divenne una macchia indistinta. L’unica cosa a cui riuscì a pensare, fu che sarebbe morto all’atterraggio.

 

 

 

 

 

1 Il Monte Fuji nel mito è abitato da due divinità: Sakuya-hime è la dea che protegge la montagna, la stessa che abbiamo incontrato, Kuninotokotachi invece è il dio che abita sulla cima, che però in questa storia si è convenientemente levato di torno quando è arrivato Tsukuyomi. Che bella coincidenza!

I greci hanno l’oracolo, i romani l’augure, i giapponesi hanno la mucca parlante. Beh, che c’è? Non l’ho mica deciso io. Comunque il kudan è uno yōkai, mezzo uomo mezzo bovino, con il dono della profezia. Ogni volta che ne appare uno è per annunciare eventi catastrofici, ma ascoltandolo è possibile prevenirli.

3 Se ricordate, nel primo capitolo questa leggenda ci venne illustrata proprio da Miyamoto e Naito. E anche nell’ultimo capitolo della Spada del Paradiso possiamo trovare Amaterasu di fronte ad uno specchio, quello specchio.

 

 

 

 

Salve gente! Spero che questo lunghissimo capitolo vi sia piaciuto! Ammetto che per me è stata una faticaccia da scrivere, all’inizio, ma sono davvero soddisfatto del risultato finale e soprattutto sono soddisfatto di com’è venuto Tsukuyomi. Devo ammetterlo, inserire nuovi dei è stata una delle cose più belle di queste storie, i tre fratelli, Izanami, perfino Sakuya-hime è stata spassosissima, nonostante il breve cameo. Ah, sì, c’è anche Kagu-Tsuchi. Meglio non parlare troppo di lui.

Comunque, all’inizio pensavo di ricoprire il monte Fuji di mostri pericolosi, mi immaginavo Naito che arrivava in cima combattendo come un pazzo, però poi c’ho riflettuto meglio e, dopo alcune ricerche, mi sono reso conto che sarebbe stata una cosa stupida. Il monte Fuji è considerato un luogo sacro, quindi è sicuro per le persone che vanno a visitarlo, oltretutto è protetto proprio da Sakuya-hime, perciò ho deciso di farlo sì, pericoloso, ma per i mostri e non per i mortali. Però alla fine tutto si è risolto per il meglio, quindi hurrà!

Per finire, la parte finale in effetti ricorda un po’ quando Percy e Leo sono stati catapultati a Ogigia. E per quanto l’idea mi alletti… Naito non finirà ad Ogigia, però finirà in un posticino altrettanto interessante, prima di arrivare in America. L’ultimo capitolo sarà sempre il prossimo, ma prima di chiudere con il ritorno in America ci sarà una piccola tappa altrove e non vedo l'ora di mostrarvela. 

In ogni caso, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, io mi sono divertito tantissimo. Riguardo il kudan e la profezia, ho fatto qualche ricerca e ho visto che il kudan in realtà non parla proprio in indovinelli o cose del genere, quindi non ho fatto nulla di troppo elaborato, ho solamente messo lo yōkai che… dice quello che accadrà. Semplice, veloce e pulito. 

E sì, Amaterasu continua a farsi rubare le cose. Povera. 

Bene, grazie per aver letto, spero che il capitolo vi sia piaciuto e, quasi dimenticavo, voglio ringraziare infinitamente Nanamin per questo bellissimo disegno di Tsukuyomi (e di Roger):

 

Tsukuyomi


Grazie mille, mi ha davvero lasciato senza parole! Penso che il nostro Tsukuyomi sia appena diventato il dio più gnocco mai visto. E grazie anche tutti voi per aver letto, ormai manca poco, solo più un capitolo e poi ci si rivedrà tutti, spero, ne Il Velo Invisibile! (e la raccolta, sì, sì, la raccolta). 

Alla prossima!

 

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: edoardo811