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Autore: MinatoWatanabe    13/10/2021    5 recensioni
NaruHina | GreekAU!
"Fui certo di sentire il mio cuore perdere un battito. Era lei. La ragazza del mio sogno. La somiglianza era tanto forte da essere inquietante. La sua pelle era pallida e rifulgeva alla luce delle torce e della luna, quasi il corpo emanasse luce propria. L'espressione era grave e triste, come dettato dalla tragedia, ma una cosa in particolare attirò la mia attenzione: gli occhi. Erano tanto chiari da sembrare traslucidi."
(dal capitolo 2)
Storia partecipante al contest "What time is it? It's SUMMERTIME" indetto dal gruppo Naruto Fanfiction Italia
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Hinata Hyuuga, Jiraya, Naruto Uzumaki, Toneri Ōtsutsuki | Coppie: Hinata/Naruto
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Prompt: Vacanze con lo zio Archeologo
Genere: Romantico/Drammatico
Verse: GreekAU!
Pair: NaruHina
Personaggi principali: Naruto Uzumaki, Hinata Hyuga, Jiraya, Kakashi Hatake, Toneri Otsutsuki, Hiashi Hyuga
Avvertimenti: nessuno
Rating: giallo

 

 

Poiché non potevo fermarmi per la Morte
Lei gentilmente si fermò per me
La Carrozza non portava che Noi Due
E l'Immortalità (…)

 

Emily Dickinson, Poiché non potevo fermarmi per la morte

 

1

Micene

 

La ragazza di cui non conoscevo il nome sussurrò il mio. I suoi occhi, chiari come la luna, erano fissi nei miei.
«Non sei costretto a farlo.»
Come una marionetta manovrata da una divinità presi la sua mano, pallida e fredda.
«Lo so.» la mia voce uscì come un suono innaturale, qualcosa che non riconoscevo. Non era la mia voce.
Presi un respiro, e saltai.

 

*

 

Con gli occhi secchi e la vista sfocata cercai di riprendermi. Le bocchette del clima sparavano aria gelida sul mio viso. I finestrini erano alzati, ma il rumore dell'esterno si infiltrava senza problemi nell'abitacolo dell'utilitaria di terza categoria sul cui sedile mi ero addormentato. Accanto a me Jiraya sembrava pienamente concentrato su quei pochi chilometri che ci separavano dalla nostra sosta. Percepivo un pungente olezzo di sudore, se il mio o il suo non era chiaro, probabilmente quello di entrambi. La radio passava canzoni in una lingua che capivo poco e male, e ad una velocità tale da essere ancora meno chiara.

Ricordavo a malapena l'atterraggio, il jet lag stava iniziando a farsi sentire. L'aeroporto di Atene era piccolo e sporco, non quello che ci si aspetterebbe da un centro di partenze e arrivi internazionali di una capitale europea. Jiraya mi aveva avvisato del fatto che la Grecia era quanto di più diverso ci potesse essere dagli Stati Uniti, e a primo acchito non ero certo che la sua affermazione avesse un'accezione positiva. La macchina che aveva preso a nolo non aiutava sicuramente nello smentire la mia teoria.

Era l'estate dei miei ventidue anni, ed ero stato trascinato in Grecia contro la mia volontà. Più o meno.
Mancavano solo pochi mesi alla mia laurea, tuttavia ancora non avevo un tassello fondamentale: l'elaborato finale. Un'opera che racchiudesse la mia idea di arte. La cosa sarebbe già problematica di per sé, senza bisogno di ulteriori complicazioni, ma c'era di più. Non so bene come definire quella condizione senza scadere in banali clichè, molto romantici e molto poco attinenti alla realtà: blocco creativo, mancanza d'ispirazione... esistono una moltitudine di modi per definire la sfortunata condizione di cui ero vittima. Nel mio caso la triste verità era che molto semplicemente non avevo voglia di dipingere. Il solo pensare di prendere in mano la tavolozza mi faceva orrore.

Vedendomi chiuso in casa, perennemente sdraiato sul divano a sgranocchiare popcorn e consumare blockbuster, zio Jiraya decise di portarmi con sé in Grecia.

Avevo vissuto con lui da che ne avevo memoria. Lo avevo sempre chiamato zio, nonostante non fossimo parenti. Sapevo solo che era stato il maestro di mio padre e per lui, che non aveva mai avuto figli, era stato come averne avuto uno adottivo. Pertanto era parso naturale che, alla morte dei miei, avvenuta appena dopo la mia nascita, e in assenza di parenti prossimi, fosse lui a prendersi cura di me. Aveva però sempre preteso che lo chiamassi zio, anziché nonno. Probabilmente uno scudo ideale contro l'avanzare dell'età. Era un grecista. Un fissato della Grecia classica, in parole povere. L'arte e la cultura Ellenica erano la sua più grande passione, dopo la storia. Ovviamente la condizione necessaria perché qualcosa fosse considerabile “arte” era che fosse stata realizzata prima dell'avvento dell'ellenismo. A nulla valsero i miei tentativi di spiegargli che il mondo era andato avanti, e che Policleto non rappresentava più il canone. Era inutile discutere con lui, rimaneva arroccato sulle sue posizioni senza alcuna possibilità di dibattito costruttivo. E proprio questo fu il motivo della mia iniziale avversione per l'arte greca. Per un periodo cercai di prenderlo per sfinimento, lasciando scientemente in giro per casa i miei libri di arte contemporanea: Kiefer, Hanson, la land art, tutte porcherie a suo dire. Di queste porcherie mi nutrii nelle prime battute della mia formazione artistica, finché non mi vennero a noia. Iniziai a guardarmi intorno per curiosità personale, più che per ripicca, e ciò coincise con il momento in cui smisi di discutere di arte con Jiraya.

Uscimmo dall'autostrada per immetterci in una statale polverosa, in cui si aveva l'impressione di viaggiare sotto una perenne cortina di fumo. Nonostante l'aria sparata al massimo sentivo il sole caldo sul braccio vicino al finestrino. E questo mi faceva temere la temperatura che avrei potuto trovare all'esterno. Il caldo non era mai stato un problema per me, ma si preannunciava una temperatura davvero difficile da sopportare.

Jiraya svoltò in corrispondenza di un cartello verdastro e arrugginito per immettersi in un viale alberato, che per un attimo nascose l'auto dai raggi del sole. Mi stupì la familiarità con cui si destreggiava tra le strade della Grecia. Prima che nascessi aveva vissuto lì per diversi anni, e come lui anche mio padre e mia madre. Tuttavia quel giorno non aveva avuto bisogno di alcuna mappa o indicazione, come se si fosse trattato di un tragitto che percorreva quotidianamente. Parcheggiò la macchina a fianco di un'altra molto simile e spense il motore.

«Ecco qua: Micene»
«Li so leggere anche io i cartelli, e che cavolo...» sbuffai slacciandomi la cintura.
«Che hai? Ti hanno pisciato nell'acqua?»
«No... ho sonno.»
«Di tempo per dormire ne avrai appena arriveremo a Nauplia, pensa al posto incredibile in cui siamo adesso. Micene è stata il centro nevralgico della Grecia antica per molto tempo.»
«Wow...» risposi ironico.
Jiraya mi attirò a sé stringendomi per il collo e mi sfregò le nocche sulla testa, come quando ero bambino.
«Ahia piantala! Puzzi!» risi.
«Ah sì?» sniffò teatralmente nella mia direzione «Beh, neanche tu sai proprio di fiori ad essere onesti!»

Jiraya era certamente uno zio atipico: burbero il più delle volte, con una malsana passione per novelle erotiche di serie B, dedito alle donne sopra ogni cosa. Ma era anche la persona a cui volevo più bene al mondo. Forse non ero in grado di esprimerlo ad alta voce, ma ero certo che lui lo sapesse. E sapeva anche come prendermi quando ero scazzato, su questo non c'era alcun dubbio.

Aprii la portiera venendo investito dal caldo secco di una fornace.

«Ma sei serio?»
«Cosa?»
«Io torno in macchina e riaccendo l'aria condizionata.»
«Non se ne parla neanche, prendi il cappello e andiamo, non permetterò che tu ti perda uno dei siti archeologici più belli del mondo. Muoviti!»

Mi seccava ammetterlo ma aveva ragione. Le imponenti mura di Micene si stagliavano grigie e severe in quell'ambiente bucolico. Dal selciato si sollevava una nuvola di polvere ad ogni nostro passo.

In lontananza, appoggiato ad un albero del prato, un uomo con i capelli grigi e una mascherina chirurgica agitò la mano nella nostra direzione. Jiraya ricambiò il saluto, con un sorriso.

«Dì un po' eremita porcello ma per fare l'archeologo è necessario essere dei matusa?»
«Razza di impertinente, cosa stai dicendo?»
«Siete tutti vecchi, è piuttosto evidente, ho solo detto ad alta voce quello che tu non volevi dire.»
«Io ho trentasei anni, non sono poi così vecchio. I capelli grigi ingannano»
Sussultai. Quand'è che si era avvicinato tanto? A guardarlo meglio in effetti non dimostrava un'età molto diversa da quella che aveva dichiarato.
«Ciao.» disse con tono neutro alzando solo leggermente la mano.
«Kakashi! Come sei cresciuto!» disse Jiraya.
«Già. Tu invece sei sempre uguale.» continuò l'altro con la stessa cadenza atona. Dopodiché spostò lo sguardo su di me.
«Lui è...»
«Il figlio di Minato e Kushina, esatto.»
Jiraya non lo nominava quasi mai. Ed ogni volta quel nome aveva per me un suono innaturale, come se fosse qualcosa di estraneo, anziché il nome di mio padre. L'uomo annuì e mi tese una mano.
«Mi chiamo Kakashi Hatake, sono stato un allievo di tuo padre, piacere.»
Strinsi la mano non sapendo bene come comportarmi.
«Aspetti, com'è possibile che sia stato allievo di mio padre, se lui è morto più di vent'anni fa?»
«Kakashi è stato molto precoce, è uno di quelli che chiamano geni. Ed oggi è considerato il più eminente grecista vivente.»
«Il secondo, in realtà.»
«E il primo chi sarebbe?» chiesi sinceramente ammirato.
Kakashi si limitò a fare un cenno in direzione di Jiraya, che distolse lo sguardo.
«Io sono in pensione, Kakashi, e tu mi hai superato da un bel po'. E visto che siamo qui in visita mi piacerebbe che tu parlassi un po' al nostro Naruto del sito meraviglioso in cui siamo, poi parleremo dei nuovi scavi.»
«In pratica devo fare il baby-sitter.» considerò. Il suo tono stava cominciando a scocciarmi.
«Ehi, io non sono mica un moccioso, e che cavolo!» reclamai piccato.
«Nonostante la giovane età Naruto è un artista molto promettente. Magari non è la mente più acuta che conosci, ma ha del talento, quindi non andarci piano.»
«Ma sarai tu una mente poco acuta, eremita dei miei stivali!» esclamai, ormai rosso d'imbarazzo.
«Senti un po', vai a fare questo benedetto giro del sito con Kakashi e basta!» rispose a tono Jiraya.
«E tu perché non vieni?!»
«Ma sei matto? Ci saranno quaranta gradi e io sono un matusa!» rispose in tono canzonatorio e salutandomi con una mano mentre si avvicinava ad una macchia di alberi poco distante.

Kakashi ed io ci avviammo pigramente verso l'ingresso del sito.
«Devo spiegarti la storia della porta dei leoni?» soffiò Kakashi. Il suo tono, come poco prima, era annoiato e piatto. Non riuscivo a capire se lo fosse perché era effettivamente annoiato, o se quello fosse il suo tono di voce normale.
«No, la conosco bene.»
«Bene, esponimela.»
«Cos'è un'interrogazione?»
«Nah... se fossi il tuo professore non mi sarei offerto di spiegartela sul sito, avrei preteso che tu la conoscessi già, altrimenti non avresti nemmeno messo piede in Grecia.»
«Non so perché ma la cosa non mi sorprende...»
«Prego?»
«Niente. La porta dei leoni è l'accesso principale alla cittadella di Micene. Fu chiamata in questo modo per il disegno scolpito sul triangolo di scarico. Il nome “porta dei leoni” è di per sé erroneo, dal momento che quelli raffigurati non sono leoni, ma leonesse, impennate sulle zampe posteriori e con quelle anteriori poggiate sullo stilobate di una colonna minoica.»
«Adeguato, direi. Datazione?»
«Non ho assolutamente idea,» ammisi candidamente «e comunque le date di realizzazione delle opere d'arte classiche sono tutte ipotetiche.»
«Ipotetiche non direi, approssimative al massimo. Nel nostro caso siamo nel quattordicesimo secolo avanti cristo.»
«Un secolo non è esattamente un periodo ristretto.»
Kakashi sbuffò.
«Visto che la conosci, cosa ti suscita vederla dal vivo?» il tono della sua voce, questa volta sembrò subire una leggera modifica.
«Come?»
«Che emozione ti trasmette?»
Mi colse impreparato. Non mi era mai stata fatta una domanda del genere.
«Sei un artista no? Lavori con le emozioni. Non credevo di metterti in crisi con una domanda di questo tipo.»
«Credo... che mi susciti un certo grado di soggezione...»
Kakashi aggrottò la fronte.
«Intendo dire: è una porta di pietra, gigantesca, alle porte di una città militare. Se ci penso mi sembra di stare guardando una matrona severa e intransigente.»
«Inusuale come immagine, ma hai reso bene l'idea. A parte la soggezione, cosa ne pensi?»
«Immagino che abbia il suo fascino...»
«Non ami l'arte classica, vero?»
«Ma no, in generale mi piace, è che la scultura non è esattamente il mio pane.»
«Ah no? E cosa lo è?»
«La pittura, direi.»
Kakashi sollevò un sopracciglio scettico.
«Non hai le mani un po' troppo grandi?»

Non sapevo se sentirmi lusingato o infastidito dal fatto che Kakashi mi stesse osservando con tanta attenzione, dal momento che le mie mani non erano tanto grandi da attirare l'attenzione ad un'occhiata distratta. Semplicemente non erano piccole e delicate.

«E questo che c'entra con il saper dipingere bene?»
«Non so, ma tutti i pittori che conosco hanno delle mani molto aggraziate, mente le tue suggeriscono una certa... energia. Sembrano quelle di una persona passionale ma poco razionale.»

Non mi era chiaro il collegamento logico tra le due cose ma accettai il commento, dal momento che non si era allontanato poi molto dalla realtà dei fatti.

«La creatività è la capacità di ordinare il caos interiore. Tanto più grande e turbolento è il caos che ci portiamo dentro, tanto più interessante sarà l'opera, ma tanto più complicata ne sarà la realizzazione.»
«Questa non è farina del tuo sacco.» affermò Kakashi, con la sicurezza di chi sta affermando un'ovvietà.
«No, del mio professore.»
«Dev'essere uno in gamba.»
«Sì, lo è.» Iruka incarnava perfettamente la vaga definizione di “uno in gamba”.

Ci fu qualche istante di silenzio in cui proseguimmo la salita, entrando finalmente nella cittadella. Più procedevamo e salivamo verso la cima della collina, più il vento spirava, infondendomi un briciolo di sollievo dal caldo torrido. In quel momento, senza il sole battente ad impedirmelo, mi resi conto della sensazione intensa che la visita mi stava procurando. Era qualcosa di profondo, intimo. Come se avessi potuto sentire il clangore degli scudi, le grida dei soldati, il rumore di migliaia di passi di tutti coloro che erano stati lì prima di me. Non mi sarei mai aspettato che un sito archeologico potesse fare questo effetto. Arrivati sulla cima, con un unico sguardo potei abbracciare l'intero sito: era enorme. Sentii come fossero mie le sensazioni dei sovrani di Micene. Mi sembrava di poter essere il re del mondo.

Sorpresi Kakashi a fissarmi di sottecchi. Distolse lo sguardo non appena intercettai i suoi occhi.
«Perdonami, è che gli somigli in modo incredibile, al maestro Minato intendo.» disse senza che io avessi bisogno di chiederlo. Mentre lo diceva la maschera di noia e sufficienza si dissolse, fornendomi un'apertura.
«Com'era?» chiesi. Kakashi annuì, come per prendere atto che non avevo mai avuto la possibilità di passare del tempo con lui.
«Unico. Non ho mai conosciuto un uomo tanto brillante ed allo stesso tempo tanto sensibile e comprensivo. Vedi... quando lo conobbi ero in un momento difficile. A quei tempi ero in pessimi rapporti con mio padre, così ero scappato di casa. Frequentavo il primo anno di liceo e tuo padre era il mio insegnate di storia. Ero certo di non aver mai lasciato trapelare nulla ma lui, in qualche modo, sapeva. Sembrava che con un solo sguardo potesse comprendere tutto ciò che nascondevo. Conoscendomi temeva che potessi imboccare la strada dell'autodistruzione, e perciò mi diede uno scopo: lo studio della Grecia. La forza della sua passione risuonò dentro di me, e anche io non potei evitare di cominciare ad amare la storia del popolo Ellenico. Nutrì la mia neonata passione con letture, spiegazioni e notti di chiacchierate davanti ad un caffé a casa sua e di tua madre. Dopodiché, alla prima occasione utile, mi portò con sé in Grecia. Non so dove sarei oggi se non fosse stato per lui.»

Annuii. Con un cenno del capo mi invitò a seguirlo.
Sulla cima della collina stava arroccato un ulivo. Il tronco era storto e nodoso. Kakashi si avvicinò e ne accarezzò la corteccia. Iniziò a spiegarmi la storia della pianta di ulivo e la sua importanza per il popolo dell'Ellade. Ma il suo racconto di poco prima aveva instillato in me un sospetto che non riuscivo ad ignorare.

«Kakashi, posso farle una domanda?»
Mi guardò con l'aria di chi non capisce ma annuì.
«Perché mi ha raccontato tutto questo?»
«Beh l'ulivo non è trascurabile nella tradizione agricola dell'antica Grecia, ha anche radici mitologiche, pensa che la città di Atene...»
«Non parlo del maledetto ulivo, intendo il discorso su mio padre. Si tratta della sua storia personale, e non era tenuto a raccontarmela. È stato Jiraya a chiederglielo?»
Kakashi annuì.
«Forse non sei poi così ottuso come crede lui, vero?»
«No, direi di no.»
«Sì, è stato Jiraya a chiedermi di parlarti di lui. Crede tu ne abbia bisogno.»
«Ma perché adesso?»
«Sei “bloccato”, no? E poi hai ventidue anni: ti stai affacciando all'età adulta. Questo è un momento difficile nella vita di qualsiasi uomo. E per te, che non conosci tuo padre, lo è sicuramente ancor di più.»

Il primo istinto fu quello di rifiutarmi di ascoltare quello che mi stava dicendo, dopotutto cosa poteva saperne lui. Ma da qualche parte, dentro di me, sentivo che non era del tutto assurdo. Che anche se non ne ero consapevole, probabilmente sentivo dentro di me una certa ansia. E rabbia, soprattutto. Rabbia contro il mondo. Da bambino ero sempre riuscito ad esternarla con il mio comportamento esagitato. Ma crescendo era diventato più difficile, e questo conflitto irrisolto si era radicato ancora più profondamente in me.
Il dipinto che non riuscivo a produrre avrebbe dovuto rappresentare la mia arte e la mia essenza. Ma la verità era che io non sapevo chi ero. La vita mi aveva portato via i miei genitori prima che potessero aiutarmi a capirlo. E ora, nonostante la presenza costante di Jiraya, avevo paura di essere da solo contro il mio futuro, senza un passato che mi donasse stabilità.

«Può essere che abbia ragione. Credo di avere il diritto di essere incazzato con la vita. È colpa sua se i miei non ci sono più. E anche se so che non avrei potuto fare nulla, non credo riuscirò mai ad accettare tutto questo.»

Ci fu qualche secondo di silenzio in cui ci guardammo negli occhi. Kakashi stava probabilmente cercando le parole giuste. Ad un certo punto si illuminò, e proferì: «Forza! Forza, figlio!/C’è ancora, nel cielo, il grande Zeus,/che tutto scruta, che tutto governa./Affida a lui la tua rabbia che trabocca di dolore,/e non angustiarti troppo nell’odio per i tuoi nemici./Ma non dimenticare: il Tempo è un dio gentile.1»
«Cosa?» involontariamente un sorriso mi sorse sulle labbra, al sentire quelle parole.
«I greci erano un popolo di saggi,» disse con tono nostalgico, come se stesse parlando di un vecchio amico «ad esempio questo passaggio è di Sofocle.»
Ero sinceramente ammirato. Di arte ne capivo abbastanza, ma in letteratura ero una capra patentata.
«Ora che ci penso, capiti a Micene nel momento giusto: questo è il periodo delle rievocazioni, e stasera mettono in scena l'Elettra. Dovresti venire. Potrebbe farti bene.» disse Kakashi.
Annuii. E riconobbi che probabilmente l'idea di Jiraya di portarmi in Grecia non era stata poi così assurda.



 

Note:

  1. Sofocle, Elettra, traduzione dal greco di Angelo Tonelli, Marsilio, 2004




 


L'angolo di Minato-kun:
Buongiorno a tutt*, 
questo è il primo capitolo di questa mini-long per il contest "What time is it? It's SUMMERTIME" indetto sul gruppo Naruto Fanfiction Italia da Voglioungufo e rekichan, con i quali mi scuso per l'imperdonabile ritardo. Mi impegnerò al massimo perché i capitoli arrivino tutti puntuali. 
Il prompt, non appena l'ho visto, mi ha immediatamente ispirato questa storia, che spero possa piacere sia ai giudici sia a chi la leggerà. Sono contento di poter finalmente pubblicare una NaruHina, coppia che amo molto, ma sulla quale non scrivo quasi mai. 
Ci risentiamo domani per il prossimo capitolo!

 

   
 
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