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Autore: Shireith    13/10/2021    2 recensioni
Atsumu, degli artisti, aveva un’idea imprecisa, cangiante come il colore del cielo, e probabilmente sbagliata. C’erano i grandi, quei nomi che rivivevano quotidianamente sulle labbra delle persone che ne ripercorrevano il ricordo e i cui meriti avevano modellato indelebilmente la storia umana; e c’erano gli altri, quelli che, come Shouyou Hinata, gli davano l’impressione di essere squattrinati e con la testa tra le nuvole, persi a rincorrere chissà quale fantasia irraggiungibile.
[AtsuHina ● Artist & Writer!AU]
Writober, #13: ukiyo
Leggera menzione di depressione (per lo più il tema è trattato in modo velato).
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Shouyou Hinata
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Angolo di mondo su carta


(13 — ukiyo)

 Una coppia anziana gestiva l’ostello. Ogni volta che un nuovo cliente alloggiava da loro, puntino insignificante perso nella foresta e dimenticato come un’isola mai segnata sulle mappe, la moglie diceva al marito che non vi era arrivato intenzionalmente, ma nemmeno per caso. Doveva esserci una ragione, come se il fato o chi per lui rintracciasse i bisognosi e i disperati per condurli da loro.
 Era una bella storia, ma, a crederci, il vecchio mica ci credeva.
 
*
 
 L’anziano signore stirò le labbra in un sorriso e la luce della lampada gli si incastonò tra le rughe. Finì di tracciare il nome sul registro e sollevò il mento per osservare il giovane che qualche minuto prima aveva varcato l’ingresso. «È sicuro che vuole rimanere qui due settimane?»
 Il giovane annuì convinto, spalancando gli occhi limpidi, e solo osservandoli il vecchio si convinse che non stava mentendo, che le sue intenzioni erano sincere. Dopotutto gli aveva già spiegato cosa era venuto a fare, gli aveva persino mostrato un enorme zaino pieno zeppo di pennelli, colori, matite, penne, astucci, tele, quaderni.
 «Ecco a lei la chiave. Terza porta a sinistra.»
 Lo osservò agguantare la chiave, sorrise quando gli rivolse un caloroso grazie!, e lo seguì con lo sguardo mentre s’affrettava lungo il corridoio e spariva nella sua stanza.
 Le parole di sua moglie, rifletté, si erano provate false. Shouyou Hinata non aveva trovato quell’ostello per caso, l’aveva cercato per un motivo e quel motivo non era imputabile al caso, al destino, alla fortuna.
 L’unica fortuna che ebbe fu quella di arrivare all’ostello prima che scoppiasse un violento temporale, contrariamente a un secondo giovane che si presentò più tardi con i vestiti zuppi di pioggia e un’espressione infastidita, lo stesso fastidio che si palesò nella voce quando chiese di avere una stanza a nome di Atsumu Miya.
 «Quanto tempo vuole rimanere?»
 «Prima me ne vado e meglio è.»
 L’anziano non volle dar peso alla sua maleducazione e si limitò a offrirgli la chiave. «Quarta porta a sinistra.»
 
*
 
 La sera prima Atsumu si era addormentato con la frustrazione che ancora gli pulsava nelle vene e nemmeno una notte di lunghissimo riposo servì a farlo sentire meglio. Si svegliò con i nervi ancora girati, non sapeva nemmeno lui per quale motivo, e con la schiena che implorava pietà per le troppe ore di sonno si alzò per farsi una doccia e vestirsi… peccato che non avesse vestiti oltre a quelli fradici che la sera prima aveva buttato per terra.
Merda.
 Ora il motivo del suo pessimo umore se lo ricordava eccome. La sera prima, un violento temporale l’aveva colto alla sprovvista e chissà per quale miracolo del cielo aveva trovato un ostello a ospitarlo. In tutto ciò non sapeva nemmeno dove, quando e come avesse perso il cellullare, ma fortunatamente il portafoglio era stato abbastanza magnanimo da non abbandonarlo nel bel mezzo del nulla.
 A differenza di suo fratello, che non si era fatto troppi scrupoli a scaricarlo come un sacco dell’immondizia a seguito di un violento litigio le cui ragioni scatenanti non erano assolutamente amputabili ad Atsumu.
 Forse lo erano eccome e Atsumu avrebbe dovuto semplicemente chiedere scusa a Osamu, ma quella poca voglia di farlo era svanita alla luce degli ultimi eventi e al suo posto era subentrato il desiderio di fargliela pagare come meritava.
 Con solo una canottiera e un paio di boxer a coprirlo, Atsumu uscì dalla camera e percorse il corridoio fino alla hall. A dargli il buongiorno, dall’altra parte del bancone, ci pensò una signora anziana e minuta – perché ovviamente non poteva avere la fortuna di incrociare l’uomo della sera prima, figurarsi.
 Persino un tipo come lui si sentì a disagio nel farsi vedere in mutande da una signora che avrebbe potuto essere sua nonna.
Me la pagherai, ‘Samu.
 «Ehm, salve. Sono venuto qui ieri sera per ripararmi da un acquazzone e ora i miei vestiti puzzano anche se sono asciutti. Non è che avreste un cambio? Posso pagare.»
 «Mio marito può darti altre mutande» – Atsumu desiderò morire – «ma per i vestiti non possiamo fare molto. Mio marito è molto più basso e smilzo di te, ragazzo, i suoi pantaloni ti andranno stretti e corti. Per non parlare delle mie gonne…!» E scoppiò a ridere da sola, senza che altri la imitassero, anche perché l’unica presenza oltre lei era Atsumu e non riusciva proprio a vedere il lato divertente della cosa.
 «Cara, suvvia, non mettere in imbarazzo i nostri ospiti!»
 Atsumu trasalì quando l’uomo che l’aveva registrato al bancone la sera prima gli apparve alle spalle silenzioso come un soffio nel vento.
 «Mi dispiace, non abbiamo vestiti che possano starti bene», proseguì, rivolto ad Atsumu, «ma penso di avere qualcosa che fa al caso tuo. Seguimi.»
 Se Atsumu aveva desiderato morire quando si era presentato alla vecchia con addosso mutande e canottiera, ora desiderava morire solo dopo aver commesso un fratricidio e, perché no, un secondo omicidio ai danni del vecchio, perché quello ebbe la brillante idea di presentargli un completo estraneo seduto a un tavolo.
 «Questo giovane ha i vestiti fradici e gli sono rimaste solo le mutande», spiegò il vecchio indicando Atsumu, «può prestargliene qualcuno?»
 Il ragazzo, dapprima, osservò Atsumu con due occhi sgranati e Atsumu rischiò di lasciare indietro il mondo che li circondava per colpa di quanto erano belli, ma non fece a tempo a perdersi in quella sensazione perché poi il ragazzo scoppiò a ridere e dovette provare più volte prima che riuscisse a smettere. Quando si fu calmato, le guance gli si erano ormai dipinte d’un rosso acceso e a niente servì dissimulare l’imbarazzo con qualche colpo di tosse, quindi masticò delle scuse nella speranza che compiessero l’impossibile e cancellassero l’accaduto dalla memoria dei due
 «Ho qualcosa che può fare al caso suo.»
 Il vecchio annuì soddisfatto e li lasciò soli.
 «Shouyou Hinata, piacere», esordì nuovamente mentre si alzava e faceva cenno ad Atsumu di seguirlo. Attraversarono la hall (la vecchia era sparita, del marito non c’era traccia), percorsero il corridoio e sparirono dietro la porta della stanza di Shouyou.
 «Ehm… tu sei?»
 «Atsumu Miya.»
 «Piacere, Miya-san
 «Atsumu va bene.»
 Non amava essere chiamato Miya, era troppo impersonale. Da che ne aveva memoria, per essere distinto da suo fratello, era sempre stato Atsumu. Per lui, a differenza di tanti giapponesi, il cognome aveva poca importanza – il suo, e anche quello degli altri.
 «Piacere, Atsumu-san
 Atsumu non ricambiò la cortesia, più perché distratto dai suoi pensieri che perché risentito per la risata di Shouyou, e si limitò a osservare il ragazzo che disfaceva la valigia alla ricerca di indumenti puliti. Atsumu avrebbe voluto fargli notare che era alto quanto un ragazzino delle medie e che i suoi pantaloni gli sarebbero arrivati poco sotto il ginocchio, ma il fatto che Shouyou avesse scartato diversi vestiti e che stesse ancora frugando lo fece desistere.
 «Ecco qua!» esclamò infatti Shouyou qualche istante dopo, mettendo da parte un paio di jeans e una maglietta e rigettando tutto il resto nella valigia. «Ero sicuro di averli ancora, mi sono dimenticato di toglierli. Sono del mio ex.»
 Atsumu prese la maglietta, la dispiegò per esaminarla e poté subito constatare che gli sarebbe andata bene. Fece la stessa cosa con i pantaloni e pronunciò un grazie rivolto a Shouyou, che a parte l’aver riso spudoratamente della sua condizione non si era macchiato di altri crimini e si era anzi dimostrato gentile nei suoi confronti.
 Sentendosi più a suo agio, soggiunse: «Mi daresti anche quelle mutande?»
 
*
 
 Dopo essere uscito da camera di Shouyou con degli abiti decenti e soprattutto puliti, Atsumu aveva messo i suoi a lavare, si era concesso una doccia ed era tornato in corridoio senza un piano preciso in mente, quando l’anziana proprietaria l’aveva chiamato dalla hall e gli aveva detto che suo marito aveva preparato una colazione per lui e Shouyou. Atsumu si rese conto solo in quel momento di star morendo di fame e accettò subito l’invito, poco interessato che Shouyou Hinata fosse presente o meno.
 Eppure, quando si sedette allo stello tavolo e cominciò a spiluccare del riso, si rese conto che il silenzio lo metteva a disagio. Conosceva tante persone apatiche capaci di consumare un pasto senza spiccicare una sillaba e lui non era tra queste.
 Nemmeno Shouyou, a quanto pare, lo era: sembrò leggergli nel pensiero quando sollevò gli occhi dalla sua porzione di riso e glieli puntò in faccia. «Atsumu-san, come mai sei qui?»
 «Ieri un acquazzone mi ha colto alla sprovvista, o venivo qui o andavo a dormire in una grotta.»
 Shouyou rise e Atsumu decise in quell’istante che la risata di Shouyou era approvata, gli piaceva – gli diede l’impressione di essere cristallina come l’acqua di ruscello, naturale come il sole che tramonta la sera per risorgere la mattina.
 «Tu perché sei qui?»
 «Uhm» – Shouyou bevette un sorso d’acqua – «non lo so.»
 «Come non lo sai?»
 «Non lo so.»
 Atsumu aggrottò le sopracciglia scure. Era scemo?
 «Sono qui perché cerco qualcosa», proseguì Shouyou, «ma non so nemmeno io cosa. Ispirazione, credo.»
 «Per fare cosa?»
 «Dipingere.» Shouyou si leccò le labbra per cancellare le tracce di riso e si passò un fazzoletto sugli angoli della bocca. «Sono un pittore, Atsumu-san. Un artista.»
 «Oh, e hai i soldi per permetterti questo posto?»
 Atsumu, degli artisti, aveva un’idea imprecisa, cangiante come il colore del cielo, e probabilmente sbagliata. C’erano i grandi, quei nomi che rivivevano quotidianamente sulle labbra delle persone che ne ripercorrevano il ricordo e i cui meriti avevano modellato indelebilmente la storia umana; e c’erano gli altri, quelli che, come Shouyou Hinata, gli davano l’impressione di essere squattrinati e con la testa tra le nuvole, persi a rincorrere chissà quale fantasia irraggiungibile.
 «Certo che posso permetterlo», ribatté Shouyou e dal suo tono sembrava non avesse colto la malizia nelle parole di Atsumu. «Per ora ho in programma di rimanere qui due settimane, ma potrebbero diventare due mesi.»
 Forse squattrinato non era, ma la testa tra la nuvole, quella ce l’aveva sicuramente.
 Atsumu avrebbe fatto meglio ad andarsene il prima possibile da quel posto di matti – eppure.
 «Che cosa disegni, Shouyou-kun
 
*
 
 Quando varcarono la soglia della camera di Shouyou, Atsumu si disse che lo stava facendo solo come passatempo ed era vero. La curiosità, quella è tipica dell’essere umano, e non poteva negare di averne almeno un pizzico; ma se era lì, nella stanza di un estraneo di cui ora indossava i vestiti, era per ingannare il tempo. Voleva farla pagare a Osamu e di certo non sarebbe tornato a casa quel giorno, né quello dopo ancora e quelli a venire.
Magari tra una settimana…
 «Che cosa vuoi che ti mostri?»
 Atsumu alzò le spalle. «Dovresti dirmelo tu, sei tu l’artista.»
 Ci fu un breve silenzio – e poi: «Atsumu-san, pensi che questo sia una specie di scherzo, vero?»
 Atsumu si sentì messo con le spalle al muro. Eppure il tono di Shouyou non era accusatorio né risentito, niente lasciava intendere che qualcosa l’avesse offeso. Sembrava pura e semplice curiosità, la sua.
 «Un po’ lo capisco, credo», proseguì Shouyou, approfittando della mancanza di una risposta. «Anch’io prima di appassionarmi all’arte la sottovalutavo. Mi sembrava un argomento da gente vecchia e spocchiosa che si ritrova nei musei e discute di gente morta trecento anni fa lisciandosi la barba per ore intere.»
 Atsumu accennò un sorriso. «Mi sembra una cosa fin troppo specifica.»
 «Però è quello che pensi.»
 «Più o meno, sì.»
 Shouyou annuì mentre continuava a frugare nello zaino enorme al centro del letto. «Lo pensavo anch’io. Mi piacerebbe dimostrarti che hai torto, ma non avresti potuto scegliere momento peggiore.»
 «E perché?»
 Shouyou sbuffò. «La mia arte fa schifo. Più del solito.»
 «Il famoso blocco dello scrittore. O meglio, dell’artista.»
 Shouyou scosse la testa. «No, è qualcosa di diverso. Come se… qualcosa dentro di me si fosse rotto.»
 Atsumu schiuse le labbra, ma non uscì nessun suono. Gli sembrò che niente di quello che poteva dire fosse all’altezza di quello che lesse nel volto di Shouyou – e non seppe nemmeno lui cosa vi lesse, in quegli occhi. C’era tutto, troppo.
 Avvertì uno strano disagio gorgogliare nella pancia, ma quello se ne andò assieme al mondo che si celava dietro gli occhi di Shouyou quando il ragazzo scosse la testa.
 «Atsumu-san, te ne vai oggi, vero?» chiese. «È un peccato.»
 Era un peccato, per Shouyou, non potergli dimostrare che si sbagliava su tutto, non poter ribaltare le sue convinzioni come le sue si erano ribaltate anni prima, quando aveva scoperto i mille volti dell’arte.
 Era un peccato, per Atsumu, andarsene da lì e non rivedere Shouyou mai più, passando forse una vita intera a chiedersi cosa quel ragazzo incontrato in un angolo di mondo volesse mostrargli.
 «No, non me ne vado oggi.»
 Aveva pensato di rimanere una settimana al massimo, il tempo necessario a far prendere a Osamu un bell’infarto e farlo preoccupare.
 Ora, invece, voleva rimanere per sempre.
 «Anch’io, come te, mi tratterrò per un po’. Non so quanto, non ci ho pensato.»
 Era bravo a mentire, Atsumu (bravissimo).
 
«Atsumu-san,
facciamo colazione insieme?»
«Certo.»
 
«Shouyou-
kun,
il vecchio ha fatto il tè,
ne vuoi un po’?»
«Arrivo!»
 
«Tornate nelle vostre stanze?»
«No, rimaniamo un altro po’.»
 
 
 «Ukiyo?»
 «Ukiyo», ripeté Shouyou. «Non sai cos’è?»
 «Mai sentito.»
 Shouyou prese ad armeggiare con un cavalletto di legno nel tentativo di sistemarlo vicino al letto. «Significa “mondo fluttuante”, un mondo bello ma effimero che ti spinge a cogliere il momento prima che sia troppo tardi. Un po’ come la nostra permanenza qui.»
 «E questo cosa c’entra col fatto che mi hai invitato in camera tua alle cinque di mattina?»
 Atsumu aveva pensato che fosse in cerca di una sveltina e a essere onesto l’idea non gli era dispiaciuta, ma non c’era bisogno che Shouyou sapesse.
 «Perché voglio cogliere l’attimo. Chi avrebbe mai detto che in questo angolo sperduto avrei incontrato un altro artista squattrinato come me?»
 Atsumu non poté ignorare il sarcasmo che macchiò le parole artista e squattrinato. Arricciò il naso. «Non ti ho confessato che sono uno scrittore perché mi sfottessi.»
 Shouyou rise piano. «Scusa, scusa.»
 «Allora, questo ukiyo
 «Ah, sì. Atsumu-san, vuoi essere la mia musa?»
 
*
 
 Per Shouyou cogliere l’attimo significava rendere Atsumu il suo perfetto burattino e servirsi di lui senza chiedere il permesso. Shouyou Hinata era gentile, solare, aveva un sorriso che poteva sciogliere i ghiacciaci e mani calde come acqua in ebollizione, ma quanto gliele metteva addosso la sua bontà d’animo s’assopiva e lui diventava una bestia famelica.
 Quando gli mostrò cosa indossare e gli spiegò come posare davanti alla finestra affinché potesse catturare la giusta luce Shouyou era dolce come zucchero, poi il marionettista addormentato – belva famelica che armeggiava i fili che facevano muovere Atsumu – si svegliava, scaraventava Shouyou da una parte e prendeva il sopravvento.
 Le ore e i giorni passavano nel silenzio più totale, dall’alba al tramonto, con Shouyou che tirava fuori fogli e ancora fogli e dipingeva tele su tele senza mai esserne vagamente soddisfatto.
 Andò avanti così finché, una di quelle sere in cui si ritrovavano a parlare loro due soli – «Atsumu-san, posso vederti nudo?»
 
*
 
 I pantaloni e la maglietta su cui si era versato il caffè la sera prima, quando Shouyou aveva avanzato la sua offerta, erano in lavatrice – nella stanza di Shouyou, Atsumu non indossava né quelli né nient’altro. Era nudo, l’aria tiepida che gli pizzicava la pelle come mille aghi senza nessuno indumento a difenderlo.
 Non provava imbarazzo.
 Non aveva nulla da nascondere.
 Solo che la belva famelica, poco dopo che Shouyou gli aveva chiesto se avesse freddo o meno, gli puntò gli occhi addosso come a volerlo disintegrare con lo sguardo e Atsumu capì che cosa volesse dire essere nudo.
 Shouyou lo osservava come se non lo stesse vedendo davvero, come se al suo posto, per lui, ci fosse il quadro che la mente già progettava di finire. Atsumu si sentì inutile, come se per la belva non fosse altro che un ammasso di carne e ossa di cui servirsi finché non ne avesse avuto abbastanza.
 Ma, di lui, la belva non se ne faceva nulla. Non voleva l’uomo, non voleva lo scrittore, solo quello che simboleggiava, per così dire. Desiderava scavargli dentro e strappargli l’anima, modellarla a suo piacimento senza nemmeno chiedere il permesso, forse perché agli artisti delle convenzioni sociali non importa e del permesso non se ne fanno nulla.
 Solo che per piegare quell’anima al suo volere, prima avrebbe dovuto capirla, studiarla come aveva fatto con l’anatomia umana o con la struttura di un edificio quando ancora l’arte gli sembrava nulla più di matita su carta.
 «Atsumu-san», disse Shouyou all’improvviso, passandosi la lingua sul labbro superiore (Atsumu deglutì), «c’è qualcosa che non mi hai detto?»
 «Eh?»
 Una ruga si formò, incastonandosi tra le sopracciglia, quando Shouyou domandò: «Perché sei rimasto? Cioè, perché sei rimasto, davvero, a parte la storia di volerti vendicare su tuo fratello?»
 Atsumu era nudo dalla testa ai piedi, non aveva nemmeno le mutande. Shouyou, con le guance sporche di colore e gli occhi spalancati, lo fissava senza battere ciglio.
 Formavano un quadro bizzarro e nemmeno bello che avrebbe fatto ridere chiunque tranne loro.
 «Potrei chiederti la stessa cosa.»
 Un silenzio interminabile calò sulle loro teste come un lenzuolo che anziché infondergli calore fece gelare il sangue nelle vene di Atsumu. Si sentiva solo, molto più lontano di quanto in realtà non fosse, il ticchettio del vecchio orologio a pendolo in corridoio.
Tic tac, tic tac, tic tac.
 Atsumu si sentiva come se stesse camminando su un filo sottilissimo, come se una crepa si fosse appena formata sul terreno, come se un giudice con una parrucca strana e con in mano un martello gigante lo osservasse dall’alto in basso con lo sguardo maligno pronto a sputare la sua sentenza.
Tic tac, tic tac, tic tac.
 La belva famelica e il giudice si fusero e lo osservarono senza fiatare come se non avessero ancora decretato la sentenza.
Tic tac, tic tac, tic tac.
 «Atsumu-san, posso metterti a nudo sulla tela?
Posso disegnarti come ti vedo davvero?
 «Come preferisci.»
Ti prego, fallo.
 
*
 
 Una mattina, all’ostello, Atsumu raccontò a Shouyou che il suo editore l’aveva mollato. Atsumu aveva pubblicato diversi romanzi sotto un nome di penna e avevano riscosso molto successo, ma dall’ultimo suo lavoro la sacca da cui traeva ispirazione si era svuotata e più Atsumu scavava per trovarne qualche rimasuglio più quella spariva. Era come se ogni volta che poggiava le dita sulla tastiera un mostro famelico se ne approfittasse per prosciugargli idee e parole.
 (E un po’ Atsumu aveva paura perché il mostro forse ce l’aveva anche dentro.)
 
*
 
 Una mattina, all’ostello, Shouyou trovò finalmente le parole e disse ad Atsumu di non aver paura dei mostri, non ce n’era bisogno – lui ne aveva avuto paura quando la scuola d’arte l’aveva rifiutato, ne aveva paura quando la gente gli diceva che l’arte era solo un passatempo e che lui prima o poi avrebbe dovuto trovarsi un lavoro vero; ne aveva una paura matta perché aveva solo vent’anni e quelli bastavano ad ammazzarlo quando le aspettative e le incertezze sul futuro gli schiacciavano le spalle fino a fargli male.
 A volte, di morire, Shouyou ne aveva voglia, una voglia bollente che lo ustionava da dentro e che ciononostante lui nascondeva sotto mille sorrisi un po’ veri e un po’ falsi.
 A volte, di lasciar vincere il mostro famelico che gli mangiava le viscere, Shouyou ne aveva voglia.
 Ma che anche Atsumu ne avesse voglia, che anche lui andasse in giro con un’ombra pesante e scomoda che lo seguiva a prescindere di una qualsiasi fonte di luce che la proiettasse, questo a Shouyou non piaceva.
 «Atsumu-san, vuoi vedere il dipinto?»
 
*
 
 All’ostello alloggiavano solo Atsumu Miya e Shouyou Hinata, era da un po’ che non avevano altri clienti. Come tutte le sere, si intrattenevano davanti al camino e parlavano.
 Al vecchio sarebbero mancati – quei due giovani avevano portato tanti colori nel loro ostello e solo ora il vecchio si rendeva conto che senza di loro quell’ostello era un po’ grigio.
 Quella sera, Shouyou stava mostrando ad Atsumu il suo ultimo dipinto. La tela era perlopiù imbrattata di nero, un tratteggio sporco e casuale che somigliava a una gigantesca tempesta capace di scuotere i monti e asciugare le acque dei mari. Al centro una macchia rosa con un puntino di biondo spezzava il nero: la figura umana, rannicchiata in posizione fetale, congiungeva i palmi delle mani per sorreggere una piccola fiamma.
 «Vedi, Atsumu-san? La fiamma è debole ma resiste», esclamò Shouyou.
 Il vecchio non capì di cosa stesse parlando. Non sapeva perché gli occhi di Shouyou gli sembravano così accessi anche da tutti quei metri di distanza, non sapeva perché Atsumu tardava a rispondere e rimaneva immobile a fissare l’altro ragazzo, in tutta onestà non sapeva nemmeno perché gli venne da sorridere.
 
*
 
 Una coppia anziana gestiva l’ostello. Ogni volta che un nuovo cliente alloggiava da loro, puntino insignificante perso nella foresta e dimenticato come un’isola mai segnata sulle mappe, la moglie diceva al marito che non vi era arrivato intenzionalmente, ma nemmeno per caso. Doveva esserci una ragione, come se il fato o chi per lui rintracciasse i bisognosi e i disperati per condurli da loro.
 Era una bella storia e, a crederci, il vecchio dopotutto ci credeva.
   
 
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