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Autore: holls    14/10/2021    9 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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5. Angeli

 

 

Mi battei le mani da solo.

Complimenti, Nathan.

Avevo buttato tutto nel cesso. Non avevo detto che avrei dovuto lisciargli il pelo con qualche moina? Com’ero arrivato a riempirlo di belle parole in quel modo? Mi ero comportato in maniera davvero infantile e avevo fatto sfoggio della parte peggiore di me.

Cercai di dimenticare controllando la cassetta della posta. Come alzai lo sportellino, ne uscì un piccolo biglietto. Era sicuramente pubblicità insulsa, visto che c'erano parole a caso con date e luoghi, più una sigla sconosciuta, in basso a sinistra: WH.

Me lo infilai in tasca e rientrai in casa.

Mi sedetti sul letto, le gambe socchiuse e il gomito piantato sulla coscia, mentre il palmo accoglieva la mia tempia, sotto alla quale la mente non riusciva a darsi pace.

Per tutta la sera mi erano rimbombate in testa le parole di mio padre. Che ero un fallito, uno stupido, un ragazzo immaturo.

Se mi avesse visto quella sera, non avrebbe avuto che ragione. Forse ci aveva visto giusto. Forse avrei dovuto dargli retta.

Perfino Alan sembrava aver capito tutto di me.

Scommetto che le tue storie serie non sono durate nemmeno un anno.

Che colpo basso. Così dannatamente vero. Era tanto evidente che non sapevo tenermi stretto qualcuno per più di un anno?

Inizialmente pensavo che fosse colpa del destino, perché magari non avevo incontrato la persona giusta. Harvey era stata la mia storia più lunga, dopo di lui solo avventure. Nessuno che riuscisse a sopportarmi per più di tre mesi, anche se in genere non mi comportavo come avevo fatto quella sera. Ero un ragazzo normale, con interessi normali, nessuna inibizione sul piano sessuale. Ero l’amante perfetto, eppure non andavo bene a nessuno.

E ad Alan era bastata una sera per capirlo. Che ero un fallito, su tutti i piani. Proprio come aveva detto mio padre. Era così evidente la mia incapacità di sopravvivere in questo mondo?

Nascosi la testa tra le mani.

Avrei potuto almeno dire qualcosa durante il viaggio, cercare di mettere una pezza alla situazione; invece no. Avevo mandato alle ortiche ogni probabilità di portarmelo dietro per la festa. Non avrei sicuramente trovato un sostituto e Steve mi avrebbe sputtanato davanti a tutti, oltre al fatto che sarebbe tornato a ronzarmi intorno.

Il telefono, che avevo appoggiato sul mobiletto accanto al letto, vibrò. Chi poteva essere a quell’ora?

Andai nella categoria ‘Messaggi’ e visualizzai il mittente: Ashton. Il numero era salvato in rubrica. Strano.

Forse lo avevo salvato e non me ne ricordavo. A volte mi succedeva di compiere azioni e di scordarmene poco dopo.

Lasciai scorrere le mie dita sul pulsante centrale (era sempre stato così duro?) e il messaggio mi comparve sullo schermo.

 

Ehi, Al… com’è andata?

Spero di non aver combinato un

casino e che sia stata una

bella serata!

 

Rilessi quel messaggio ancora una volta.

Al.

Chi cavolo era? Di certo non io.

Ebbi un guizzo d’intuizione e scorsi di nuovo il contenuto di quel messaggio.

Al.

…Alan!

Un brivido mi corse lungo la schiena.

Avevo ancora il dito sul tasto centrale e, all’improvviso, capii perché sembrava così ruvido al contatto. Sbirciai gli altri tasti e mi accorsi che non erano così consumati come i miei.

Semplicemente perché non erano i miei.

Alan.

Era il suo cellulare!

Era identico al mio, in tutto e per tutto; di certo non era possibile distinguerli nel buio dell’abitacolo dell’auto. Lo avevo preso per sbaglio quando ero sceso dalla macchina, certo!

E ora? Che dovevo fare con quel messaggio? Avevo il diritto di usare il telefono di Alan, anche se per una giusta causa?

Alla fine, lo riappoggiai sul comodino. Erano affari suoi e io non avevo il diritto di immischiarmi.

 

Non erano nemmeno le dieci. L’appuntamento tra me e Alan, se di appuntamento si poteva parlare, non era durato nemmeno un’ora.

Tirai giù le coperte del letto e afferrai il pigiama, insieme a un paio di mutande pulite. Era presto per andare a dormire, ma quella giornata mi sembrava di averla già vissuta abbastanza. Portai con me anche il cellulare di Alan, come se averlo vicino mi assicurasse la sua incolumità, ma lo appoggiai abbastanza lontano dalla doccia, perché poteva capitargli qualcosa e non volevo certo essere io il fautore della sua morte.

Mi spogliai e mi infilai sotto l’acqua, poi lanciai un’occhiata al malefico oggetto a qualche passo da me. Non avevo il diritto di curiosare nel suo telefono, sarebbe stato tremendamente ingiusto.

Afferrai il soffione della doccia e mi buttai addosso un getto d’acqua calda, che cominciò ad accarezzarmi prima il petto e poi le cosce, liberandomi per un attimo da ogni sensazione negativa.

Lasciai che l’acqua mi rigasse il corpo, che spazzasse via ogni senso di inadeguatezza e vergogna che avevo provato quella sera.

Come un presagio, il cellulare vibrò appena. Spostai il mio sguardo verso quell’oggetto tentatore, ma mi ripetei che non erano affari miei, ancora una volta. Sospirai e rimuginai parecchio, tanto che chiusi l’acqua, perché le bollette mica si pagavano da sole.

Nonostante il clima estivo, le gocce sul mio corpo mi fecero rabbrividire, così afferrai l’accappatoio, uscii dalla doccia e lanciai un’occhiata a quel dannato cellulare, maledicendo già il momento in cui, come uno stupido, non mi ero accorto dello scambio. Avrei dovuto rivederlo per certo e che figura ci avrei fatto?

Quella dello sciocco, come sempre.

Sussultai. Per un attimo, mi parve che fosse stata la voce di mio padre a parlare. Una voce che ormai avevo fatto mia e che sembrava darmi continuamente indicazioni su come vivere la mia vita.

Che gran rottura di palle, risposi. Uno a zero per me.

Sbloccai il telefono, dopo aver accuratamente strofinato le mani sull’asciugamano, finché non era diventate perfettamente asciutte.

Eppure, quando lessi il messaggio sullo schermo, non potei non alzare gli occhi al cielo per quella perenne sfiga che sembrava non volermi abbandonare.

Memoria piena.

E se fosse stato un messaggio importante? E se il gestore avesse smesso di recapitarlo dopo un certo tempo?

Ma mica potevo permettermi di cancellare messaggi a mia discrezione. Era altrettanto vero, però, che quel messaggio poteva essere importante.

Strinsi le labbra, come se mi aiutasse a concentrarmi, come se potesse stimolare la mia mente nel partorire qualche idea brillante.

Purtroppo, non si accese nessuna lampadina.

Il messaggio poteva essere ancora di Ash o comunque qualcosa di importante, magari era una questione legata al lavoro. Una svolta nelle indagini, un dettaglio essenziale, un promemoria per l’indomani.

Avevo ancora il cellulare in mano e quasi mi tremavano le dita all’idea di ciò che stavo per fare. Aprii il menù generale e mi mossi fino a ‘Messaggi’. Forse c’era qualcosa che si poteva cancellare, come le informazioni sul credito del gestore. Dovevo fare quel tentativo.

Schiacciai ancora il pulsante.

Il telefono teneva in memoria solo trenta messaggi ed erano una carrellata di sms da parte di un certo Oliver. Tra gli ultimi ricevuti, compariva anche uno da parte di ‘Mamma’. Quel pensiero mi stranì, perché pensare che Alan avesse una famiglia e dei rapporti interpersonali era tutt’altro che un’idea scontata.

Sì, non ero esattamente l’esempio di gentilezza, quella sera.

Ormai che la frittata era fatta e la privacy violata, volli vedere cosa ci fosse in quei messaggi. Sentivo qualcosa, dentro di me, che mi intimava di non farlo, di pensare a cosa sarebbe successo se lo avessero fatto a me. Che poi, chi mi garantiva che Alan non stesse facendo lo stesso?

Dall’altra parte, comunque, mi sentivo un ragazzino, conscio del fatto che tanto nessuno lo avrebbe mai scoperto.

Mi infilai dentro al letto, cuscino dietro la schiena, pronto per la mia lettura.

Intuii che questo Oliver doveva essere una persona importante, per lui – sennò non avrebbe tenuto ben ventotto suoi messaggi.

Un pianto e un lamento, un sospiro profondo e un senso di colpa sotterrato e rinterrato.

Sei la persona migliore che io abbia mai incontrato, Al, e sono felice di averti al mio fianco.

Messaggio zuccheroso numero uno. Avanti il prossimo.

Sei troppo buffo quando imiti Larry King, ma lo sai già! Sto ancora ridendo come uno scemo!

Altro messaggio zuccheroso. Ma stavamo parlando dello stesso Alan? Non ce lo vedevo proprio a fare imitazioni e a far ridere qualcuno, sembrava più un tipo da funerale, di quelli che tengono quegli sguardi mesti e affranti ogni minuto della loro esistenza.

Decisi di passare oltre e di saltare quel condensato di glicemia, incuriosito com’ero dal messaggio prima di quello di sua madre. Mi chiesi che tipa fosse. Alan somigliava a lei o al padre? Probabilmente non lo avrei mai saputo.

Ma cosa vuoi chiedermi? Non puoi dirmelo per messaggio? Vabbè, aspetto stasera :)

Già, cosa voleva chiedergli? Visti gli altri messaggi, pensai per un momento che volesse fare a Oliver una proposta di matrimonio. Chissà, forse gliel’aveva fatta davvero e Oliver aveva rifiutato – come lo capivo! Avrebbe spiegato il perché di molte cose, effettivamente. Quell’atteggiamento scontroso, distante dal mondo… Poteva essere un’idea.

Infine, come ciliegina sulla torta, rimaneva solo il messaggio di sua madre. Perché lo aveva conservato? Mi resi conto che probabilmente ero io quello a non poter capire. Era già tanto se mia madre sapeva comporre un numero; dubitavo fortemente che sapesse scrivere un messaggio. Di papà non c’era nemmeno da parlarne.

Mi accingevo a scoprire cosa ci fosse scritto di tanto importante nel messaggio della mamma e mi sentii carico di un’emozione particolare. Forse era il fatto che l’Alan descritto in quei messaggi sembrava completamente diverso da quello che avevo conosciuto, oltre al fatto che stavo ficcando il naso in faccende di famiglia, che di certo non mi riguardavano.

Sarà dura, tesoro, ma ce la farai.

Ecco, lo sapevo. Oliver aveva rifiutato la proposta e l’aveva mollato. Il messaggio, però, non finiva lì.

Sono sicura che Oliver è lassù, che ti sta guardando, a vegliare su di te e ad augurarti il meglio. Un abbraccio.

Sentii un gelido formicolio percorrermi da capo a piedi.

Cazzo.

Non sapevo se avesse accettato o meno la fantomatica proposta di matrimonio, frutto della mia fantasia. Perché qualunque fosse stata la risposta, quel matrimonio non era stato celebrato.

Oliver era morto.

Il fidanzato di Alan era morto.

Adesso capivo la freddezza, il distacco, il male di vivere.

Controllai la data del messaggio e feci un rapido calcolo.

Otto mesi.

L’uomo della tua vita portato via, così.

Se prima avevo voglia di sprofondare per l’immensa figuraccia, ora avevo voglia di sparire dalla faccia della Terra per almeno sei mesi.

Ma la ruota gira e il karma colpisce; avrei dovuto restituire ad Alan quel telefono, prima o poi.

E intanto tenevo ancora in mano il cellulare col messaggio di ‘Mamma’, che, in barba alla mia curiosità, avrei preferito non aver mai aperto. Perché chissà con che occhi mi aveva guardato Alan, chissà cosa aveva pensato di me, che per divertimento ci avevo provato, mentre lui, probabilmente, si struggeva per Oliver. Forse ripensava a lui e si chiedeva continuamente perché stava a perdere tempo con me – e non perché era uno stronzo.

Decisi che dovevo davvero scomparire dalla sua vita, che dovevo riporre quel cellulare sul comodino e smetterla di ficcare il naso in questioni che non erano le mie. Quel trentunesimo messaggio poteva essere importante quanto voleva, ma non avrei toccato nemmeno una virgola di quel telefono. Era sacro e chissà come stava soffrendo Alan, in quel momento, al pensiero che il suo unico ricordo di Oliver era in mano a un semi-sconosciuto di cui non aveva nemmeno una buona opinione.

Ma come lo poggiai sul mobiletto, pronto a spegnere la luce e a nascondermi sotto le coperte, ecco che prese a vibrare. Mi ripetei ancora che poteva essere importante, quasi come un mantra, e così non disubbidii al mio senso del dovere che mi portò a scoprire che, a chiamare, ero io stesso.

O meglio, il mio numero.

Cioè Alan.

Le connessioni complicate alla sera non erano il mio forte.

Avrei dovuto rispondere? Non avevo deciso di sparire dalla sua vita?

Tuttavia ripensai all’importanza che doveva avere per lui quel telefono. Quella chiamata voleva solo assicurarsi che il feticcio di Oliver stesse bene e chi ero io per negare tanto sollievo a qualcuno?

«Pronto?»

Dall’altra parte, un sospiro.

«Ci siamo scambiati i telefoni.»

In altre circostanze sarei stato sarcastico, ma in quel momento non me la sentii.

«Sì, me ne sono accorto. Come facciamo?»

Un attimo di esitazione.

«Puoi passare domani, università permettendo. Ci terrei a riaverlo in fretta. Sai, mi serve per lavoro.»

Quella che qualche ora prima mi sarebbe sembrata freddezza, ora mi appariva come una fragilità mascherata da quel tono lapidario.

Il lavoro, come no.

C’era la sua vita dentro quel telefono.

«Certo, passo appena finiscono le lezioni. O te lo riporto quando esci da lavoro.»

«Ok, va bene.»

Il tono era diverso. Più dolce, quasi sollevato.

Intanto, io che mi sentivo ancora tremendamente ingiusto nei suoi confronti.

«Volevo chiederti scusa per stasera. E anche per le altre volte.»

Una risatina.

«A cosa devo l’onore?»

Lo avevo definito scassaballe. Doveva aver pensato che ero un povero stupido, un ingenuo che non sapeva niente di lui. Il più delle volte era una mera frase fatta, ma non c’era situazione più calzante di quella.

«Non posso essere pentito?»

Usai il suo stesso tono canzonatorio, in quello che voleva sembrare un clima mite.

Ma lui scattò subito sulla difensiva, quasi avesse intuito all’istante il pericolo di lasciare il cellulare nelle mani di qualcuno che non fosse lui, come un amante che ha qualcosa da nascondere.

«Vabbè, ci vediamo domani. Se puoi, rimani un po’ di più, perché ho un paio di cose da chiederti.»

Ecco, mi aveva sgamato. Fu il mio primo pensiero, seguito dalle domande che sicuramente avrebbe voluto pormi: ‘Hai letto i miei messaggi?’ oppure ‘Hai scoperto di Oliver, vero?’.

Dovevo prepararmi a confessare le mie malefatte. Ma ehi, era per una giusta causa. L’avevo fatto in buonafede.

«Va bene, a domani. Buonanotte.»

Glielo augurai con una voce calda e sommessa, ma non sensuale come mio solito. Sembravo più un padre che dà la buonanotte al figlio, dopo il bacetto sulla tempia.

«A domani.»

Niente augurio per me. Ma, ormai, non ci facevo più caso.

 

La mattina successiva avevo il turno al mini-market. Rimpiansi le lezioni all’università, in quel periodo sospese, e i bocchettoni di aria condizionata che ti facevano persino venire voglia di studiare, a meno che tu non capitassi in quelle aule in cui si era guastata. E chi aveva voglia di prendere appunti, quando quei fogli davanti a te diventavano un preziosissimo ventaglio?

Afferrai il volantino delle offerte del Best Deals e cominciai a sventolarmi sulla faccia i cereali a un dollaro e mezzo. Dovetti interrompermi solo quando un cliente arrivò alla cassa, ma poi la mia mattinata riprese a scorrere tranquilla, in quell’innaturale silenzio estivo e col pensiero, spesso fugace, che il tizio dagli occhi verdi tornasse per vendicarsi.

Posai il volantino e da sotto il bancone tirai fuori le parole crociate. Con una mano mi misi a scrivere e con l’altra continuai a sventolarmi, e intanto pensavo a chi potesse essere lo sceneggiatore statunitense perseguitato dal maccartismo.

«Ciao, Nathan!»

Afferrai le parole crociate alla velocità della luce, ma non ce ne fu bisogno: era solo Nelly, la proprietaria della libreria qualche metro più in giù.

«Ehi! Mi hai spaventato.»

Lei rise e appoggiò il mento sui palmi delle mani, con i gomiti saldamente appoggiati al bancone.

«Me ne sono accorta. Posso aiutarti con qualche definizione?», e indicò le parole crociate davanti a me.

Nelly indossava una maglietta con uno scollo generoso, col quale pensava forse di attirare la mia attenzione. Nel suo sguardo non c’era malizia, ma non capivo mai se adottasse certe posizioni per tastare il terreno o se fosse una mera casualità.

In ogni caso, era un sortilegio che su di me non sortiva alcun effetto.

«Non importa, grazie.»

Tra di noi calò il silenzio. Si sentiva solo il rombo del motore di qualche macchina che passava di lì e il ticchettio dell’orologio sopra la mia testa. Sia io che Nelly guardavamo altrove, alla ricerca di un argomento di conversazione.

Nelly non era sempre stata così. Dall’inizio di quell’anno era cambiata in modo repentino: spesso la vedevo persa nei suoi pensieri, per poi tornare un attimo dopo con un sorriso che cercava di nascondere la malinconia nei suoi occhi. Molly era certa che fosse stata mollata dal fidanzato storico, ma erano solo sue congetture a cui non avevo dato mai troppo peso, se non per passare il tempo.

C’era stata una volta, una sola, unica volta in cui Nelly stava per aprirsi. Io le avevo detto che era cambiata e che non capivo cosa le fosse successo. Avevo letto nei suoi occhi un dolore immenso, ma non si era mai tramutato in parole, perché l’arrivo inopportuno di un nuovo cliente la fece desistere dal raccontarmi qualcosa.

Io non mi ero più azzardato a chiederle altro, perché avevo capito che non ne parlava volentieri, e mi pareva di forzarla. Così aspettavo che fosse lei a farsi avanti, ma in quegli otto mesi non era mai successo.

«Certo non saprei come fare senza questi passatempi. Oggi non viene veramente nessuno e mi sto rompendo.»

Lei sorrise in modo meccanico, poi uscì dalla trance in cui si immergeva fin troppo spesso.

«Ah! Hai sentito della rapina?»

Non potei fare altro che ridere di gusto.

«Ho sentito sì! Ero uno dei testimoni, sai?»

Nelly sgranò gli occhi per la sorpresa.

«Davvero? E cosa è successo?»

«Non più di quanto abbiano detto al telegiornale. Poi sono andato in centrale a rilasciare una dichiarazione e lì ho trovato un poliziotto assolutamente insopportabile.»

Ripensai a quanto era successo la sera prima, ma il mio commento rientrò in quelli oggettivi e impossibili da contestare.

«Un poliziotto della NYPD?»

Lo sguardo di Nelly si fece indagatore, come se fosse sul punto di cogliere un nesso sfuggente. Qualunque esso fosse, volò via nel momento in cui una ragazza si fiondò nel negozio.

Clara, la ragazza di Ryan, si era piantata sulla soglia a riprendere fiato, mentre sia io che Nelly la guardavamo, in attesa di nuovi sviluppi. Clara cominciò a venire verso il bancone e Nelly ne approfittò per salutarmi. Ancora una volta, ebbi come l’impressione che volesse dirmi qualcosa, ma il destino aveva scelto altre strade.

Non appena Nelly ebbe chiuso la porta dietro di sé, portai il mio sguardo su Clara. Cercava in tutti i modi di non dare a vedere il fiatone e di nascondere quel suo sguardo accigliato a metà tra la preoccupazione e la disperazione. Si guardò intorno un paio di volte, poi mi puntò con occhi imploranti.

«Possiamo andare di là, per favore? Devo parlarti.»

Non mi aveva nemmeno salutato e trovai la faccenda piuttosto strana.

Io valutai la sua richiesta e provai a trattare.

«Ma sono da solo, qui. Non posso abbandonare il bancone.»

Clara unì le mani in un gesto di preghiera.

«Per favore. Sarà una cosa breve.»

Alla fine accettai. Le feci strada verso il retro e mi fermai non troppo lontano dalla porta, con l’orecchio teso all’arrivo di eventuali nuovi clienti.

Clara, intanto, cominciò a mordicchiarsi le unghie. Si accanì in particolare su quella del pollice, che aveva spezzato male e che ora cercava di limare con altri piccoli morsi.

«Allora, che succede?»

La mia domanda le permise di dare tregua alla sua unghia.

«È Ryan. Non lo riconosco più. Tu ne sai qualcosa?»

Immaginai che fosse venuta a parlarmi di quello. Per certi versi ne fui quasi sollevato, perché mi diede la conferma che non ero l’unico a trovarlo strano.

Esitai un attimo prima di parlare. Ripensai alla scena a cui avevo assistito, quella in cui Ryan inspirava rumorosamente. Ne era a conoscenza?

«Ho notato anche io che è strano da un po’ di tempo a questa parte. Purtroppo, però, non mi ha detto niente. Io e lui non ci parliamo più così tanto.»

Sul volto di Clara lessi la delusione dell’ennesimo buco nell’acqua. Pensai che avesse già chiesto anche ad altre persone e capii che tutte le avevano dato la stessa risposta.

«L’altra sera è pure tornato con una spalla slogata e un livido enorme sul braccio destro, lo sai? Mi ha detto che si è fatto male giocando a calcetto, ma lo sai anche tu che non può essere vero.»

Lo sapevo bene, sì: qualche settimana prima mi era scappato detto a quella povera ragazza davanti a me, perché non avevo fatto in tempo a frenare la lingua. Ryan non giocava più a calcetto da una vita, ma per la verità erano molte le cose che non faceva più, da quando era tornato dalle vacanze.

«Mi dispiace, Clara. Non so che dirti.»

Lei abbozzò un sorriso di circostanza e io mi sentii un verme. Non ero certo che quella che avevo visto sul muretto fosse droga, anche perché quando ero arrivato lì non c’era ormai più niente. Le mie erano solo congetture, ma non potevo spararla così grossa col rischio di sbagliare.

«Fa niente. Grazie lo stesso. Se tu dovessi notare qualcosa, anche la più piccola, ti prego di dirmelo, senza peli sulla lingua.»

Il senso di colpa cominciò a divorarmi piano piano, ma mi salvò il pensiero di non essere totalmente sicuro di ciò che avevo visto.

«Certo, non preoccuparti.»

Clara mi salutò appena e fuggì via dal locale. Rimasi solo coi miei pensieri e provai a ripensare a Ryan, ma senza trovare una spiegazione.

E poi c’era anche Alan, con cui mi sarei dovuto incontrare tra non troppo, e cominciai a costruire discorsi da premio Nobel su quello che avevo scoperto di lui.

Al pensiero di dirne solo uno, però, tremavo.

   
 
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