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Autore: flyerthanwind    15/10/2021    1 recensioni
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La vita di Sam è quanto di più normale esista: ha una gemella che la conosce meglio delle sue tasche, un fratello con cui condivide la passione per il calcio e una squadra a cui tiene più della sua media scolastica –ma questo non ditelo alla madre!
Eppure, dal giorno in cui un vecchio amico di suo padre si trasferisce in città, la situazione prende una strana piega. Innanzitutto, le motivazioni del trasferimento appaiono strane, suo padre è strano e i sentimenti sono strani. Questo perché il figlio del tipo di cui sopra ha uno strano potere attrattivo nei suoi confronti.
Ottimi presupposti per una bella dose di disagio, non vi pare?
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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La domenica è sacra

La domenica pomeriggio era un giorno sacro per gli sportivi di casa e, dato che eravamo in netta maggioranza – tre contro due –, la mamma e Amelia non si opponevano più di tanto alle nostre idee malsane, che fossero svegliarsi all'alba per allenarsi o stare fuori tutto il giorno per andare allo stadio. Magari a piedi, così, giusto per non perdere l’allenamento.

E perché eravamo fuori di testa, ovviamente.

Quella domenica, tuttavia, non stava per succedere nulla di così estremo. Lucas, che giocava nella squadra di calcio della nostra scuola, aveva la prima amichevole pre-campionato e, nonostante non fosse andato in ritiro né si fosse allenato poiché aveva passato le ultime tre settimane in Africa, il mister aveva comunque deciso di convocarlo. Lui era uscito di casa subito dopo pranzo per salutare i suoi compagni di squadra, con cui si sarebbe poi recato al campo, mentre io e papà lo stavamo raggiungendo poco prima del fischio di inizio.

Papà si faceva in quattro per presenziare alle nostre partite e, a meno che non fosse fuori città per lavoro, non ne perdeva una. Era stato lui a trasmetterci quella passione – quel vizio, come lo definiva la mamma quando io e Lucas la facevamo disperare palleggiando in salotto – per cui si sentiva quasi in dovere di controllare se i nostri mister stessero facendo un buon lavoro.

La mamma, invece, preferiva sostenerci a distanza, spesso direttamente dal soggiorno di casa: era piuttosto terrorizzata dall'idea che i suoi calciatori preferiti fossero messi ko durante una partita, per cui spesso e volentieri si teneva alla larga.

Non capiva nulla di calcio e lo sport in generale la repelleva, come qualsiasi cosa che presumesse sforzo fisico e sudore; tutto ciò, unito al suo animo belligerante di mamma chioccia, la spingeva a tenersi lontana dai nostri incontri. Quel giorno poi, con una figlia malata in casa, aveva avuto la scusa perfetta per evitarlo.

«Non posso credere che il vostro mister non vi abbia ancora convocate» disse mio padre mentre prendevamo posto sugli spalti. Mi stavo lamentando del fatto che il preside desse più credibilità alla squadra maschile che a quella femminile, indignandomi per quella disparità di trattamento, e sapere che avevo l'appoggio di mio padre mi rassicurava.

Certo, non poteva andare da quel vecchio bacucco a dirgliene quattro, ma il suo sostegno era sempre gradito, soprattutto quando mi lasciava invitare le mie compagne di squadra per allenamenti extra nel nostro giardino. Dovevamo pur arrangiarci quando quel misogino concedeva il campo per gli allenamenti a quei calciatori da strapazzo tutti quadricipiti e niente cervello…

Sì, parlavo anche di mio fratello! Solo perché aveva avuto la fortuna di nascere in una bellissima famiglia con una sorella fantastica, non era immune agli insulti verso la sua squadra di scimmioni, i quali spesso e volentieri avevano schernito me e le mie compagne. Ovviamente in sua assenza, perché insultare una delle sue sorelle davanti a Lucas equivaleva a morte certa.

Purtroppo nella scuola, nonostante il ventunesimo secolo e le lotte femministe, c'erano ancora dei balordi convinti che le ragazze non sapessero giocare a calcio e, siccome alcuni dei loro genitori erano tra i principali finanziatori della scuola, non era difficile capire perché la maggior parte dei fondi fossero destinati alla squadra maschile.

Noi ragazze eravamo più abbandonate a noi stesse, con il mister che era anche l'insegnante di educazione fisica e che non riceveva un lauto compenso per il suo lavoro, per cui spesso la sua condotta lasciava a desiderare. Nonostante ciò, lo adoravamo: era un grande motivatore e grazie a lui eravamo riuscite a classificarci abbastanza in alto nello scorso campionato, ma i nostri risultati erano stati oscurati dalla squadra maschile che invece aveva vinto il primo premio.

Ovviamente avevo festeggiato per mio fratello e per i nostri amici, ma avrei spaccato il naso di Martin Hurt molto volentieri quando era venuto a vantarsi con me delle loro gesta. Mi conosceva, sapeva perfettamente che ero la sorella di Lucas e quanto lo sostenevo, ma, nonostante ciò, aveva sminuito la mia squadra e le mie amiche.

Se non fosse stato per Amelia che l'aveva liquidato in due parole, probabilmente le avrei prese di santa ragione. Sì, perché io potevo anche essere arrabbiata, ma lui rimaneva un bestione di un metro e ottanta con più muscoli che cervello e mi avrebbe sicuramente disintegrata. Per fortuna c'era la mia gemellina a vegliare su di me.

⊰·⊱

Il tifo sfegatato di Kate mi aveva accompagnata per l'intera partita mentre papà si era limitato a stare in silenzio e applaudire per la nostra squadra, come suo solito. Ogni tanto si lasciava andare, ma preferiva rimanere pacato per non disturbare i giocatori: sosteneva che i genitori tifosi avessero una pessima influenza sui figli, per cui si limitava a cenni di assenso e occhiate orgogliose quando Lucas si rendeva partecipe di un'azione.

Kate, d'altro canto, era la mia migliore amica nonché compagna di squadra; tifare per lei era più che doveroso e farlo rumorosamente era il suo modo preferito. Dubitavo ne conoscesse un altro, in effetti. Se non fosse stata una calciatrice sarebbe stata capo cheerleader, proprio non riuscivo a immaginarmela in un ambiente diverso da un prato verde a consumare le corde vocali e perdere la dignità con cori discutibili.

A fine partita eravamo volate giù dagli spalti per intercettare i nostri prima che entrassero negli spogliatoi e complimentarci per la vittoria. Lucas fu ovviamente il primo a notarci – ci avrebbe individuato persino a chilometri di distanza con il suo family radar, come lo chiamava lui –, ci attese vicino agli spogliatoi insieme a Garret Jones, un suo compagno di squadra.

Volai tra le sue braccia lasciando che mi sollevasse da terra nonostante fosse sudato fradicio; il puzzo tipico del post partita era qualcosa che mi era mancato in quell’estate perché non aveva solo a che fare con il sudore: era più una miscela di adrenalina, endorfine e serotonina. Intanto, mentre venivo adagiata a terra, anche papà e un altro paio di persone ci raggiunsero.

Qualcuno mi si gettò direttamente ai piedi, afferrandomi le caviglie scoperte per sincerarsi della loro integrità, poi asserì ironico: «Oh, per fortuna le caviglie ci sono ancora, temevo che l'altra sera avresti usato i tacchi per mutilarti».

Gli tirai uno schiaffetto sulla testa, spettinando i ciuffi bruni che gli si erano incollati al collo mentre papà mi rivolgeva un'occhiataccia e poi soffocava malamente una risatina con Lucas. Si sentiva sempre in dovere di rimproverarmi quando dicevo qualcosa di inopportuno – tipo minacciare di mozzarmi le caviglie se non mi avesse portato via da quello stupido evento – ma lo faceva più che altro per sostenere la mamma, unica donna che non odiasse quegli strumenti di tortura meglio noti come tacchi a spillo. E Amelia, che ovviamente sarebbe apparsa leggiadra anche con un paio di scarponi antinfortunistici.

«Sono contenta che mio fratello ti faccia ascoltare le mie note vocali, Boot» lo apostrofai con un sorriso irriverente. Malcolm Boot era uno dei compagni di squadra più simpatici di mio fratello, nonché quello che riceveva più insulti e scappellotti sul collo a causa della sua condotta. Spesso appariva totalmente fuori controllo, ma era un buon amico e un bravo terzino.

«È un peccato che tu non abbia segnato oggi» Kate si rivolse direttamente a mio fratello, facendogli gli occhi dolci. Aveva una cotta per lui all'incirca dal primo momento in cui l'aveva visto, ma si rifiutava categoricamente di ammetterlo. 

Roteai gli occhi – un gesto che fece sorridere sia Garret che Malcolm, entrambi fin troppo consapevoli di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve – mentre Lucas si apprestava a spiegarle come quei difensori l'avessero puntato, pavoneggiandosi comunque per essere riuscito a eluderli e mandare in goal l’azione che li aveva portati in vantaggio.

Mio padre, intanto, si era allontanato per chiacchierare con l'uomo dell'evento, Klaus Rogers, e accanto a loro mi sembrò di vedere anche Austin. Non ci eravamo scambiati molte parole se non i soliti convenevoli: lui mi aveva detto di avere sedici anni e che avrebbe frequentato la nostra scuola perché aveva una buona squadra di calcio, anche se era un po' distante da casa sua; io gli avevo detto di avere sedici anni e che anch'io giocavo nella squadra, dopodiché avevamo lasciato che gli adulti prendessero le redini della conversazione ed eravamo semplicemente passati in secondo piano, ognuno impegnato a farsi gli affari propri.

Paradossalmente mi ero sentita intimorita da lui, come se i suoi modi eleganti e cortesi potessero stonare con la mia personalità ingombrante, facendomi risultare grottesca al suo cospetto. Sapevo di non esserlo, Maeve Miller aveva allevato una tribù ben educata, ma, nonostante ciò, non ero riuscita a interagire con lui.

Dunque, non eravamo abbastanza in confidenza perché lo invitassi ad unirsi a noi; non conosceva nessuno lì in mezzo, nemmeno mio fratello, per cui decisi di non intromettermi e continuare la chiacchierata con gli altri senza voltarmi a guardarlo.

Non che non avessi avuto una buona impressione di lui, anzi: nonostante non avessimo scambiato più di due parole era risultato distaccato ma gentile e, sebbene ci fosse qualcosa in lui che mi attirava – forse era masochismo il mio, mi piaceva non sentirmi all’altezza! –, non ritenevo che fossimo abbastanza in confidenza per coinvolgerlo.

Quando papà tornò accanto a noi, avvertendomi che a momenti saremmo andati a casa, disse anche che i Rogers ci avevano ufficialmente invitati a cena da loro per il giorno seguente. Sorrisi pensando al fatto che la mamma avrebbe dato di matto per il poco preavviso, perché non sapeva cosa portare, quale dolce preparare, quale bottiglia di vino regalare; quando lo feci presente a papà rise anche lui, contagiando anche Lucas e minacciandoci di non dire alla mamma che aveva segretamente riso di lei.

Sì, decisamente quella era la volta buona in cui la mamma ci avrebbe fatto fuori.

   
 
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