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Autore: Little Firestar84    21/10/2021    0 recensioni
Questa storia partecipa a “Luoghi dell’Orrore” indetto sul gruppo facebook Il Giardino di Efp”
Triora. Un paese come tanti, ma con un'eredità pesante: un processo alle streghe. Donne uccise, perseguitate. Mandate al rogo.
Donne e luoghi che affascinano, con il loro potere ancestrale, la pittrice Caterina, che giorno dopo giorno, notte dopo notte, sente di perdersi, sempre di più... fino a non conoscere più se stessa.
Genere: Fantasy, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La stanza nel casolare della Cabotina, dove spesso aveva fatto visita a donne sole, giovani madri i cui figli non avevano padri, e bambini il cui unico sostegno era il piccolo orto che ormai da troppo tempo non dava cibo, causa la carestia, era divenuta la sua prigione. 

Quello che agli occhi dei suoi servi era stato un atto misericordioso, al vecchio e odioso commerciante a cui aveva rifiutato di concedere la sua mano, ai nobili e ricchi mercanti del paese, all’inquisitore mandato da Genova, erano prova inconfutabile che lei e quelle donne – donne sole, donne indipendenti, donne che avevano osato pensare con le loro menti – erano colpevoli.

Reato contro Dio. Commercio col demonio. Omicidio.

Isotta guardò la luna piena, il cielo plumbeo carico di nubi grigie, ed il suo intero essere fremette di terrore ed angoscia ad udire le urla e gli strepitii delle belve selvatiche provenienti dal bosco… ma quello non sarebbe stato il peggio. Sapeva già quale sarebbe stato il suo destino: lo stesso delle altre quattro donne che l’avevano preceduta. 

Il rogo. 

Lei, che aveva sempre creduto e venerato l’Altissimo, era ora accusata – calunniata – in quel modo osceno, e sebbene non le fosse stata concessa un’educazione al pari del fratello, conosceva abbastanza bene quel piccolo e gretto mondo da aspettarsi la condanna – per la sola colpa di essere donna, ed essere stata misericordiosa. 

No, si disse con rinata determinatezza, alzandosi dal freddo pavimento di terra battuta della sua cella su cui era caduta inginocchiata. Non avrebbe dato loro questa soddisfazione.

E se ormai loro avevano deciso che lei fosse sposa del Demonio… ebbene, allora li avrebbe accontentati!

Strappò, con veemente rabbia pazza, ad una ad una, le ciocche di ciò che un tempo erano stati il suo orgoglio, quei gloriosi capelli rossi un tempo lunghi, che l’inquisitore l’aveva costretta a tagliare corti, quasi fosse stata un paggio. Isotta fece  a brandelli la sua veste, un tempo candida, e senza bisogno di ago e filo, ma solo con nodi, abbozzò una bambola; non sembrava nulla di umano, ma un essere abbietto, mostruoso, demoniaco – come avevano deciso che lei fosse nel suo stesso animo. 

Con sguardo spiritato, Isotta strinse la creatura tra le sue mani, tremanti ormai in preda alla farneticazione. 

“Pagherete…” Sibilò a denti stretti, la voce che pareva nemmeno più sua, lontana, quasi provenisse da un altro mondo, o dall’oltretomba stesso, mentre il pensiero andava al suo accusatore, l’uomo che lei aveva avuto l’ardire di rifiutare… 

 

Caterina si svegliò di soprassalto, vittima, per l’ennesima notte consecutiva, dello stesso sogno. Alzandosi pigramente, più stanca di quanto non lo fosse stata quando aveva cercato di addormentarsi la notte precedente, scostò i lunghi capelli castani dagli occhi color smeraldo, che, causa l’insonnia, erano come coperti da un velo che li rendeva opachi, meno brillanti di quanto non lo fossero stati fino a qualche giorno prima. 

Spalancò la finestra della camera d’albergo, avvertendo, nonostante la lontananza, il profumo inconfondibile dell’aria di mare, che in quel piccolo borgo della Liguria si mischiava al profumo di bosco, terra umida, funghi e fogliame. 

Nella stradina sottostante – la strada centrale del paesello – la vita aveva già preso il via, e gli abitanti di Triora camminavano indaffarati, chi andando a fare le commissioni nelle botteghe, chi andando a lavorare, bambini che giocavano, correvano, le campane delle tante, troppe chiese che scampanellavano contemporaneamente… tutte tranne una, Santa Caterina, che un campanile non lo aveva più da tempo immemore, ma che ancora era venerata come un luogo di culto quasi mistico.

Caterina si scostò dalla finestra e si grattò il capo, sbadigliando in modo scomposto, mentre già si pregustava la tiepida doccia che sperava l’avrebbe svegliata da quello stato di torpore in cui era caduta da ormai fin troppi giorni.

Si guardò allo specchio: stanca, avvizzita, grigia… sembrava più vecchia, e forse nemmeno più lei, pareva quasi che i suoi stessi lineamenti stessero lentamente divenendo quelli di un’altra – a volte, le pareva quasi che il riflesso nello specchio nemmeno le appartenesse, ma fosse il volto antico di una qualche dama caduta in disgrazia.

Scosse il capo, e rise, dandosi della stupida: non aveva mai creduto alle favole, alla magia, alle storie. Si stava solo facendo suggestionare un po’ dai libri che stava leggendo, sulla storia di quel borgo in cui era incappata quasi per caso due settimane prima. 

Era stato uno dei suoi insegnanti all’Accademia di Belle Arti a dirle di prendersi un po’ di riposo, di tempo per riflettere su quale percorso desiderasse intraprendere: era un’ottima studentessa nella teoria, nel disegno più tecnico, ma, le aveva detto, i suoi quadri erano divenuti quasi piatti, mancavano di mordente e passione, come se avesse perso l’ispirazione.

Caterina aveva passato quei mesi estivi cercando, inutilmente, di disegnare, aveva iniziato tanti quadri, senza mai tuttavia finirne uno, ed un giorno, stanca, frustrata, aveva gettato a terra la tela e gli acrilici, ed aveva preso la macchina, iniziando a guidare. 

Così, senza meta. 

Fino a che non era arrivata in quel borgo, aveva parcheggiato la macchina e poi, blocco e matita in mano, aveva preso a camminare, quasi i suoi piedi fossero stati posseduti. Aveva percorso strade che non aveva mai visto, sentieri sconosciuti, ed era giunta davanti a quelle rovine, i resti del casolare della Cabotina, e aveva sfiorato, con dita tremanti, i cartelli, che narravano cosa fosse accaduto oltre cinquecento anni prima – donne torturate, donne portate al suicidio, donne bruciate vive. 

Il primo giorno, aveva osservato ognuna di quelle rovine, quelle casupole di pietra che l’Inquisizione aveva trasformato in prigioni, cercando solo una stanzetta quando era ormai notte inoltrata.

Il secondo giorno, si era recata in un negozietto all’ingresso del paese, ed aveva fatto incetta di libri, divorandoli senza sosta, rimanendo alzata fino alle prime luci dell’alba pur di scoprine sempre di più, incapace di smettere, quasi la sua stessa vita fosse dipesa da quello.

Solo ora usciva,  finalmente: intanto, però, i suoi blocchi si erano riempiti di schizzi, pensieri, citazioni di quei tomi che aveva divorato in modo bulimico e compulsivo, senza tregua; forse, non fosse stata sul punto di terminare l’ultimo blocco che si era portata dietro, non l’avrebbe mai fatto.

Aveva acquistato dei fogli e dei carboncini nella bottega di belle arti che vendeva anche bambole tradizionali raffiguranti le “streghe” delle leggende, e poi, desiderosa di prendere aria, si era messa a camminare. 

Ancora una volta, inconsciamente: guidata forse da qualcosa – istinto, caso, chissà.  Caterina non lo sapeva, né desiderava scoprire cosa le stesse accadendo, cosa fosse quella smania; sentiva rinascere dentro di sé il fuoco della passione, dell’ispirazione, e tanto le bastava. Non aveva ancora dipinto nulla di tangibile, ma era certa che le cose fossero sul punto di cambiare- se lo sentiva dentro, nel profondo. 

Raggiunse la Cabotina, e si sedette sulla panchina davanti ad una delle costruzioni; la celletta dava su uno strapiombo, ed era semi-distrutta, annerita come se fosse andata a fuoco,  circondata da moderne inferriate per impedirne l’accesso agli sconsiderati che non guardavano in faccia il pericolo.

Prese a disegnare. 

Le linee si susseguivano una per una, abbozzate, mentre invece nella sua mente il dipinto era perfettamente delineato, ormai giunto a compimento: una giovane donna che guardava la luna dalla finestra, imprigionata tra mura di pietra, agghindata in abiti cinquecenteschi. 

Una strega? Forse. Di certo, una vittima, come d’altronde lo erano sempre state tante, troppe donne.

“Bello per essere uno schizzo.” Sussultò quando sentì un respiro caldo soffiarle sul collo. Si alzò in piedi, stringendo al petto il blocco, quasi questi avesse potuto proteggerla, e guardò chi aveva parlato; un giovane, bello, forse troppo, palestrato, forse suo coetaneo, se ne stava con le mani in tasca dei jeans e la scrutava con sguardo beffardo. 

“Non volevo spaventarti,” le disse lui, porgendole la mano con il sorriso sul volto. Se ne stava lì, impalato, mentre lei continuava a fissare quel palmo apparentemente soffice e liscio, entrambi incuranti dei turisti che passavano loro intorno, giovani italiani vestiti in modo casual nemmeno fossero stati in un ristorante, attempati tedeschi e svizzeri invece agghindati con pesanti pantaloni e scarponcini da trekking.

“Io sono Stefano, lavoro alla Cabotina.” Continuò, e Caterina strinse gli occhi, incredula: come poteva lavorare in quel luogo, di casupole diroccate? La stava forse prendendo in giro? Sì, doveva essere così: la credeva una sciocca ragazzina sognatrice. Caterina si irrigidì, strinse i denti e lo guardò, colma di rancore verso di lui e l’intero genere maschile, ma Stefano dovette capire cosa stava pensando, perché scoppiò a ridere e si grattò il capo, lanciandole uno sguardo curioso. “C’è un locale qui vicino che si chiama Cabotina, come il covo delle streghe. Io ci faccio il barista e se serve il DJ.”

Caterina non aprì bocca; si limitò a fissarlo: cosa si aspettava che facesse? Avrebbe dovuto fare domande, fingere un interesse che era ben lungi dal provare? Desiderava solo una cosa, sedersi nuovamente sulla panchina e ricominciare a disegnare, permettere a quella donna di prendere vita sulla carta.

“Ho capito, sono di troppo.” Il ragazzo, fingendosi imbarazzato in un modo esagerato, distolse lo sguardo, e si schiarì la voce. “Io vado. È stato un piacere. Credo.”

Stefano le dette le spalle, e prese a camminare lungo un sentiero sterrato, in mezzo alle rovine, e Caterina lo guardava allontanarsi, perplessa; allungò un braccio nella sua direzione, quasi avesse potuto toccarlo, sfiorarlo, raggiungerlo, e si domandò lei stessa il perché di tale gesto. 

Un attimo prima, non aveva desiderato che la solitudine e la pace per poter creare; adesso, sentiva come una voce dentro di lei, che la spingeva verso di lui.

Colpo di fulmine? Ne dubitava: nemmeno ci credeva. Lussuria? Nemmeno – era bello, certo, come ci si aspettava da un giovane che lavorava in un locale che, a detta sua, doveva essere trendy, ma lo era di una bellezza sfrontata, esagerata, quella che lei aveva sì raffigurato, ma mai cercato in un uomo al cui fianco avrebbe desiderato passare del tempo.

Ma allora, cos’era?

Ancora una volta, Caterina non lo sapeva. 

Ancora una volta, non desiderava avere risposta.

“Io…” Lo chiamò, con voce tremante, quasi incerta, il suono poco più che un sussurro. “ASPETTAMI!” 

Stefano si fermò, e si voltò verso di lei; la ragazza stava correndo, incerta su quel sentiero stretto e ripido, verso di lui, stringendosi il blocco al petto, la borsa che ballava e colpiva il suo fianco ad ogni passo che faceva. Strinse gli occhi, e la guardò, incuriosito, aspettando che fosse lei a parlare, a spiegarsi. Motivare quel repentino cambio d’opinione.

Gote arrossate, lei stette ad un passo da lui, cercando gli occhi divertiti, ma timida ed insicura, quasi lei stessa non sapesse spiegarsi quel gesto, o non sapesse come comportarsi in una simile circostanza.

“Ti va di venire a provare uno dei miei cocktail?” lui le domandò, sfacciato, anticipandola ed evitando che quell’imbarazzante silenzio si prolungasse all’infinito. “Analcolico, tranquilla… o magari…. Ti andrebbe uno spuntino? Sembri una che ha dimenticato di mangiare!”

“Cosa? No!” Lei rispose, indispettita, gonfiando nemmeno fosse stata una bambina offesa le guance. Tuttavia, la sua ritrosia fu ben presto smascherata dal suono del suo stomaco, che brontolando reclamava nutrimento: Caterina arrossì, ma ben presto entrambi stavano ridendo, il suono pieno, vivo, forte come un urlo nella quiete di quelle montagne.

Caterina si morse le labbra, e fece cenno di sì col capo. Stefano, mani in tasca dei jeans, prese a camminare davanti a lei, voltandosi di tanto in tanto per controllare che lei lo stesse seguendo, e nel frattempo parlava, riempendo il silenzio e stemperando la tensione del primo incontro, quello fortuito. 

“Allora… io sono Stefano Canepa, ho ventitré anni e faccio il barista tra una lezione e l’altra di giurisprudenza giù a Genova…” Stefano si voltò e prese a camminare all’indietro, fissando con sguardo divertito la sconcertata giovane, che era una maschera di terrore all’idea che lui potesse cadere o inciampare e rovinare lungo quelle scarpate brulle. “Cosa mi dici di te, oltre del fatto che sai disegnare molto bene?”

Lei arrossì. Fece una corsetta e lo raggiunse, e sfiorò con la mano destra le dita di lui. “Il mistero rende le cose molto più eccitanti, non trovi?”

Stefano la guardò a bocca aperta, stupefatto da quell’improvviso cambiamento; poi, scoppiò a ridere, ed entrambi presero a correre in direzione della Cabotina.

Caterina non sapeva perché si fosse comportata così: ma sentiva dentro di sé che era la cosa giusta da fare. Una voce insistente, nel retro della sua coscienza, le suggeriva che quel ragazzo, quel luogo, sarebbero stati cruciali per il suo futuro.

    

Una storia di quelle adolescenziali, la classica avventura estiva, o forse il bisogno di cambiare: Caterina si diceva che il suo rapporto con Stefano era solo questo. Eppure, sentiva che c’era qualcos’altro sotto, qualcosa che sentiva a pelle - anzi, sotto la pelle- che non sapeva spiegare.

Lui non era il suo tipo, né dal punto di vista intellettuale, né dal punto di vista fisico; lei amava gli artisti, i dandy, lui, nonostante gli studi universitari, era un patito del pallone e della palestra; lei aveva sempre preferito giovani dagli occhi e capelli scuri, amava far scorrere le dita in folte criniere nere ribelli mentre faceva placidamente l’amore, lui era un biondino con occhi azzurri sfuggenti, che, visto come l’aveva approcciata, all’amore preferiva di gran lunga il sesso. 

Yin e Yang, opposti che si attraevano? Forse – ma Caterina sentiva che c’era qualcos’altro, sotto. Non sapeva nemmeno lei perché, nonostante sentisse sempre una punta di fastidio quando era in sua compagnia, desiderasse stare con lui. 

Anzi, no: non desiderava stare con lui. Ciò che lei voleva era che lui si perdesse per lei ed in lei, impazzisse, non desiderasse null’altro che starle accanto. 

E ci stavano molto, insieme - nonostante il loro fosse solo un rapporto platonico per il momento, frutto sì di un flirtare- anche pensate- ma a cui mancava ancora la componente prettamente fisica, e non certo perché Stefano non la volesse. Anzi: lui non sembrava fare mistero del crescente desiderio che nutriva per la giovane. 

Nelle due settimane dal loro incontro, Caterina aveva preso a frequentare assiduamente il locale di lui, rimanendo, fino a che non chiudevano, seduta al bancone, osservandolo lavorare, civettuola come mai. Il giovane si sentiva frustrato, bruciava di desiderio, agognava perdersi in quel corpo dall’aria vagamente androgina, ma lei si negava, fingendo di essere una ragazzina innocente che non voleva capire come andasse il mondo.

Per due settimane era stato gentiluomo, le aveva portato la colazione nella camera d’albergo in cui lei non lo faceva entrare, le aveva offerto i drink al locale, l’aveva portata a cena, a pranzo, ma nulla. Lei si ostinava a trascorrere le sue giornate a creare quel dipinto, nemmeno lo ritenesse degno di essere esposto in una vera galleria d’arte o un museo. 

Se quella ormai lontana mattina, che sembrava ormai perdersi nelle nebbie del tempo, le linee nere sull’immacolata carta bianca lo avevano affascinato, adesso ne provava repulsione, le disprezzava, e vedeva Caterina non come un’artista dall’animo sensibile, ma poco più che una miserabile imbianchina che rincorreva un sogno impossibile, una sciocca ragazzina con la testa tra le nuvole.

Le avrebbe insegnato la lezione- a non fare la preziosa, a non stuzzicare gli uomini per poi tirarsi indietro. Le avrebbe insegnato come andava il mondo: avrebbe preso quello che era suo di diritto.

“Stefano, guarda che i clienti aspettano!” La titolare lo rimproverò; Stefano strinse i denti, irritato che una donnicciola avesse avuto l’ardire di rimproverarlo così, davanti a tutti. Le lanciò uno sguardo carico di odio, a cui lei replicò con stizza – quel posto, difficilmente sarebbe stato ancora  a lungo suo. Poco male, si disse: Stefano ambiva a ben altro che servire mezzi ubriachi e tossici per il resto della vita, quello era stato solo un passatempo, un modo per riempire i suoi giorni tra un impegno e l’altro e rimorchiare ragazze. Tutte quelle con cui ci aveva provato ci erano state - chi per voglia, chi aiutata dallo stordimento dell’alcool. 

Tutte, tranne una, lei, quella che lo aveva stregato, ammaliato... che lo ossessionava, nemmeno fosse stata l’unica e sola.

La musica e le luci da discoteca, i fumi artificiali, riempivano l’aria del locale, rendendolo quasi magico, stregato, un connubio perfetto per il Festival Delle streghe che stavano festeggiando quella domenica sera. Stefano gettò lo straccio che aveva in mano sul bancone, sbuffando, e si massaggiò il collo indolenzito, e fu allora che la vide, e rimase a bocca aperta. Ammaliato. 

In mezzo alla folla di giovani che ballavano, di corpi aggrovigliati, di urla, vedeva e sentiva solo lei, quasi fosse stata una sirena che lo chiamava, non con la voce ma con i suoi occhi verdi. Caterina gli sorrise, complice, e si portò una mano al petto, all’altezza del seno, tracciando con un dito un peccaminoso percorso che lasciava ben poco all’immaginazione, e lo accendeva del più primitivo desiderio. 

Mordendosi le labbra, Caterina si voltò, e prese a camminare in mezzo agli avventori, che sembravano lasciarle spazio nemmeno fosse stata una celebrità, o una dea scesa in terra- e chissà, forse lo era, perché era diversa, non aveva nulla della giovane innocente che lei era stata fino a quella mattina. Stefano la seguì, incapace di udire le urla del capo che lo intimava di tornare al lavoro, lo minacciava di licenziarlo, ma sentiva il sangue ribollire nelle vene, era come se una forza lo attirasse verso di lei.  

Doveva seguirla. Doveva averla.

Nonostante fosse agosto, su Triora era scesa una leggera nebbia; la luna piena, però, faceva capolino tra le nubi, e gli illuminava la strada, mostrandogli dove Caterina stesse andando. La seguì: ormai conosceva quei sentieri, quei vicoli, come se fossero stati la sua casa. 

La raggiunse nello stesso posto in cui si erano incontrati, davanti a quella casetta dell’antica, vera Cabotina che aveva servito da prigione ad Isotta Stella, la nobildonna che aveva scelto la morte al rogo; Caterina era giunta oltre la cancellata, e sull’orlo dello strapiombo stava guardando il vuoto.

“Cate… torna qui…” La intimò, sentendo improvvisamente freddo, mentre in lontananza, nei boschi, un lupo ululava, solitario.

Lei si voltò ridendo - le risate dei bambini, dei ragazzi, e gli fece la linguaccia. Scosse il capo, comportandosi nemmeno fosse stata una bambina. 

“Vieni tu da me!” Gli intimò, danzando nel suo candido abito bianco. La ragazza si morse le labbra, e prese a muoversi al ritmo di una musica inesistente, il corpo sensuale che lo chiamava a sé. 

Era una pazzia, era pericoloso: però Stefano non poteva resistere. 

Incurante di tutto, la raggiunse, e le si fermò vicino, guardandola quasi lei fosse stata un’apparizione, o la sua sola ragione di vita. 

La amava? No. Eppure… eppure, in quel momento, lui aveva bisogno di lei come dell’aria stessa. Come del cibo. Forse, perfino di più: non credeva sarebbe potuto sopravvivere, se non avesse assaggiato almeno una volta quelle labbra carnose che lo chiamavano a loro.

“Sei… sei diversa…” Stefano sospirò, le palpebre pesanti, mentre con la punta delle dita le sfiorava il viso. Ed era vero: solo allora si rese conto appieno di quanto effettivamente Caterina fosse cambiata- e non solo nell’animo, muovendosi sfacciata per lui, intrigante. 

Gli occhi erano più luminosi, i capelli erano stati tagliati corti, ribelli e arruffati, e tinti di rosso. Anche l’abito che aveva indosso: non era nel suo stile, lei che aveva sempre indossato jeans e camicie, abiti comodi.

Gli ricordava qualcosa: ma cosa? Era come una chiamata ancestrale, a cui lui sapeva di non dover rispondere… eppure, nonostante tutto, non poteva resisterle. E come una sirena, Stefano era certo che lei sarebbe stata la sua dannazione.

“Sei venuto…” lei gli disse, la voce bassa e roca, posandogli i palmi sul torace. “Sei venuto… come tutti gli altri prima di te.”

Il giovane aggrottò la fronte, incapace di capire appieno cosa lei stesse dicendo; si limitava a seguire i movimenti della donna, il corpo che fremeva pregustando gli imminenti piaceri della carne.

Il piede cedette, e Stefano si voltò, mentre riprendeva l’equilibrio, guadando indietro, d’abbasso: lo strapiombo. Se non avesse fatto attenzione, sarebbe potuto cadere, gli sarebbe bastato un solo passo falso, un movimento azzardato. 

Sorrise, cercando il viso di Caterina, desideroso di aggrapparsi alle sue braccia e tornare su un terreno più sicuro, ma ingoiò a vuoto quando vide come lei lo stava guardando: gli occhi erano rossi, come insanguinati, e pazzi, non sembrava nemmeno più lei, era quasi come se un altro volto si fosse sovrapposto a quello della ragazza tanto desiderata.

Il volto del dipinto che Caterina stava dipingendo. 

Il volto che Stefano aveva visto in immagini ricreate per il museo del paese. 

Il volto di Isotta Stella.

Aprì la bocca, ma nessun suono ne uscì: ogni suo muscolo era come paralizzato, e Stefano non poté fare nulla quando quella donna – quella creatura che ormai non aveva più nome – lo spinse con un semplice tocco sul petto. 

Un dito: le era bastato solo questo. E Stefano era caduto lungo il dirupo, l’unico suono che si era udito era stato quello del cranio, che si rompeva in due sfracellandosi contro i massi, mentre il sangue copriva il volto esamine, trasformando Stefano in una maschera di orrore, celando per sempre la sua bellezza al mondo.

La ragazza alzò il volto verso il cielo, scoppiando in una risata maniacale;  le nuvole sparirono,  la nebbia si diradò, e Caterina si sentì percorsa come da una corrente elettrica nel suo intero corpo. Si destò come se avesse dormito per giorni, settimane, e si guardò intorno, incapace di capire appieno dove fosse, e come fosse finita lì, per giunta vestita in quel modo. Sentì freddo al collo, e lo sfiorò: cosa era successo ai suoi capelli, quando li aveva tagliati? Il suo ultimo ricordo era quello di aver lavorato al dipinto, anzi, di averlo terminato: all’ultimo però aveva fatto un’aggiunta, inserendo ai piedi della donna una bambolina, che nelle ultime settimane aveva più volte visto nei suoi sogni.

Si sentì come attanagliata dal terrore, e prese a correre, incerta su quei tacchi, in direzione della Chiesa di santa Caterina, che, posta al di fuori del paese, giaceva in rovina, oscura presenza dove però era certa avrebbe trovato riposo e pace. 

Cadde a terra. Il vestito, un tempo candido, si sporcò, di terra, fango, polvere e sangue, sbrandellandosi. Anche le sue mani erano rovinate: tagli, spine, Caterina sentiva il dolore delle unghie rotte, quasi fossero state strappate a forza dalla carne, e piangendo disperata si chiese se avrebbe potuto ancora dipingere. Se sarebbero mai ritornate come prima.

Sentì nuovamente quella sensazione di freddo, e si rialzò, in preda ad un terrore sconosciuto, arcaico, e corse, i polmoni che le bruciavano per lo sforzo, guardandosi indietro alla ricerca di un inseguitore che non era nemmeno certa esistesse davvero.

Continuava ad inciampare, a perdere l’equilibrio: non si era resa conto di aver perso una scarpa.

La porta della chiesa che portava il suo stesso nome era a pochi metri da lei, nonostante le sembrasse di non raggiungere mai quel luogo così vicino; col cuore che le scoppiava nel petto e la paura che quasi la immobilizzavano, Caterina allungò il braccio per toccarla, quasi la pietra consacrata con cui l’abbazia era stata edificata avesse potuto esorcizzare lei e quel luogo, ma non ci riuscì: cadde ancora a terra, e quando alzò gli occhi dal brullo selciato, lo vide, che incombeva su di lei. 

Un caprone: enorme, il manto nero lucente, le lunghe corna acuminiate, gli occhi gialli, che bruciavano con un fuoco che nulla aveva di mortale.

 Caterina si alzò in piedi, e piangendo, maledicendo la sua vita, il suo sangue, gli eventi che l’avevano condotta in quel luogo stregato, indemoniato, prese a camminare all’indietro, mentre ad ogni passo suo, la creatura avanzava verso di lei. 

Caterina lanciò un urlo, quando con la schiena andò a sbattere contro il muretto di pietra che la separava dal vuoto; si voltò a guardare la creatura, che continuava ad avvicinarsi, incombendo inesorabile, il muso piegato in un ghigno che le ricordava una risata malata e pazza, perversa.

Con le ginocchia sbucciate, la ragazza salì sul muretto, e osservò il vuoto, il fiume lì, in fondo alla vallata: quel destino sarebbe stato migliore di qualsiasi cosa le fosse potuta capitare una volta che il mostro l’avesse raggiunta.

Il caprone si erse in piedi, camminando verso di lei dritto, sulle zampe posteriori, quasi fosse stato un uomo, e allungò gli zoccoli verso di lei. Caterina ebbe un attimo di esitazione, forse per quanto ciò che le stava accadendo la stesse stupendo, e rimase immobile, alla mercè del’obrobrio.

Un attimo di esitazione, uno solo, tanto era bastato alla creatura per afferrarla per il collo. Stringendo le zampe intorno alla colonna d’avorio, la sollevò da terra, e strinse, strinse, fino a che gli occhi non le girarono nel capo, e privata dell’ossigeno, Caterina perse i sensi.

Quasi fosse stata uno straccio vecchio, la creatura la gettò oltre il muretto, con vile disprezzo, e mentre all’improvviso la Cabotina andava a fuoco, mentre lei attendeva che la morte la portasse via, Caterina, finalmente, ricordò per intero quel sogno che per settimane l’aveva perseguitata;  mentre i suoi occhi si facevano vitrei ed una risata sinistra riecheggiava in lontananza nell’aria, una sola lacrima le bagnava il volto.

“Pagherete…” Isotta sibilò a denti stretti, la voce che pareva nemmeno più sua, lontana, quasi provenisse da un altro mondo, o dall’oltretomba stesso, mentre il pensiero andava al suo accusatore, l’uomo che lei aveva avuto l’ardire di rifiutare… “La mia anima non avrà pace fino a che anche l’ultimo dei tuoi discendenti non sarà andato incontro al mio stesso atroce destino, Giuliano Canepa!”

Gettò la bambola in un angolo della cella, e poi si issò sul davanzale della finestra, e guardò giù, il vuoto: il precipizio, rocce e rovi, con in piccolo fiume che placido vi correva in fondo.

Isotta spalancò le braccia, ed i suoi occhi verdi brillavano, ridendo, mentre un sorriso maniacale le dipingeva il viso dalla carnagione di porcellana, che nemmeno la prigionia aveva reso meno affascinante. 

Mentre si lasciava cadere nel vuoto, gli arruffati capelli mossi, il bel manto rosso fuoco che tutte le donne di alto rango della signoria di Genova le avevano invidiato, le andarono negli occhi, impedendole di vedere a cosa stesse andando incontro. 

Il capo si scontrò con una pietra acuminata, e mentre il corpo senza vita rovinava per la scarpata, la veste rimaneva impigliata nei rovi, lasciando il giovane corpo nudo, coperto di lividi, bruciature e le ferite che in quell’atto estremo Isotta si era procurata.

Nella Cabotina, la sua cella andava a fuoco, solo una cosa rimaneva intatta: quella bambola spettrale, che sembrava ridere con la voce pazza della sua creatrice, ed un’altra – la voce che l’aveva accompagnata verso la morte. 

   
 
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