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Autore: blackjessamine    26/10/2021    5 recensioni
Non ci si può opporre alla tragedia: certe volte si deve solo assecondare ogni colpo inflitto dal destino, provando a trovare aspetti positivi anche nelle situazioni più terribili.
Ole non ci crede, non per davvero, ma a camminare con i Landmann si finisce per inciampare inevitabilmente in un rassegnato ottimismo.
[Storia partecipante all'iniziativa "Dolcetto o scherzetto?" indetta dal gruppo facebook L'Angolo di Madama Rosmerta]
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Il dilemma delle Case




 

Lista dolcetto, prompt 14: "Alcune delle cose più tremende che si possano mai immaginare sono state fatte con le migliori intenzioni". (Jurassic Park III)



 

Alcune delle cose più tremende che si possano immaginare sono state fatte con le migliori intenzioni.

Lo sapeva bene Ole, che da tutta la vita provava a sopravvivere a ciò che il resto del mondo considerava normale – è solo una cena, vedrai che sarà bellissimo confrontarti con i tuoi colleghi, dopo la conferenza – e che ai suoi occhi si trasformava in un qualche tipo di tortura.

Non lo aveva mai imparato Homer, che con le buone intenzioni ci dipingeva tutto il mondo, senza mai farsi scalfire dalle conseguenze che travolgevano lui e chiunque gli stesse accanto. E a stargli accanto a sopportare conseguenze e a prendere sulle spalle il fardello di ogni buona intenzione di Homer era Ole, sempre: lo era stato quando avevano quindici anni e nessuna consapevolezza di loro stessi e del mondo, aveva continuato ad esserlo anche nei lunghi anni di lontananza, facendo i conti con le assenze e i sentimenti che non si sopivano mai, e lo era adesso che l’età adulta si era insinuata tra di loro senza chiedere il permesso e sorprendendoli a ridere  come quando erano due ragazzini.

 

Le buone intenzioni di Homer si erano manifestate in una ventosa sera di fine ottobre, concretizzandosi nello studio del dottor Nissen sotto forma di una Anita dall’aria preoccupata che attraversava il corridoio premendosi al petto la cornetta del telefono.

“Era Homer, dottore. Le chiede di passare da lui appena chiude lo studio, perché c’è una cosa abbastanza urgente…”
In qualsiasi altro momento, Ole si sarebbe soffermato a riflettere sull’assurdità della situazione: Anita era la sua segretaria da dodici anni, loro due trascorrevano assieme almeno cinque ore al giorno ogni giorno e lei seguitava a chiamarlo dottore e a dargli del lei. Conosceva Homer da poco più di cinque anni, lo vedeva solamente nelle rare occasioni in cui lui si presentava in studio per trascinare Ole da qualche parte, eppure lui, per la donna, era Homer, e lei si sentiva autorizzata a dargli del tu, a ridere come una sciocca in sua presenza e a sventagliare le palpebre come se volesse utilizzarle per arieggiare tutta la stanza. 

Ole avrebbe pensato a tutto questo, se solo la preoccupazione non gli avesse afferrato lo stomaco in un nodo gelido: qualcosa di urgente non lasciava spazio alle riflessioni rilassate e buffe, e nemmeno alla sottile gelosia con cui Ole ormai aveva imparato a convivere senza nemmeno più sentirsi troppo infastidito. 

Fu questione di un attimo: prenditi pure il resto del pomeriggio libero, Anita, per fortuna non abbiamo più pazienti per oggi, e poi via di corsa ad attraversare il ponte per raggiungere i parcheggi più ampi e comodi dove Ole lasciava sempre la sua auto, pronto a coprire la distanza che lo separava dall’appartamento che da qualche anno Homer aveva affittato nel centro storico di Portland. 

 

Fu con un fremito di nervosismo che Ole litigò con il proprio mazzo di chiavi e la serratura dell'appartamento di Homer: Ole aveva cercato in tutti i modi di non farsi sopraffare dall'ansia e di tenere a bada i pensieri peggiori, ma lui non era fatto per stare lontano dai pensieri logoranti ed eccessivi.

Non fece però in tempo a domandarsi cosa avrebbe potuto trovare oltre la soglia che si ritrovò a dover parare l'assalto di un bolide dai ricci scuri lanciatosi a tutta velocità contro il suo stomaco. 

"Papà! È arrivato Ole! Posso smettere di fare i compiti?"

Timmy urlò tutto questo con il viso ancora premuto contro la giacca di Ole, stringendolo in uno di quegli abbracci che ormai fuori casa rifiutava con l'aria di un uomo vissuto, ma che dentro casa, a sette anni, continuava a cercare con insistenza.

"No che non puoi smettere! Come fai a smettere di fare una cosa che non hai nemmeno iniziato?" 

La voce di Homer era un rimprovero stanco e decisamente poco convinto proveniente dal piccolo salotto. 

Quando si affacciò sulla soglia del salotto, Ole rimase sgomento: qualcosa era successo lì dentro, ma quel qualcosa era lontanissimo dai pensieri angosciosi che l’uomo aveva cercato di tenere a bada attraversando la città. 

Il divano color senape era stato addossato alla parete, rendendo inaccessibile il minuscolo terrazzino su cui Homer amava cenare nelle sere d’estate. Al centro della stanza era stato trascinato il tavolo della cucina, su cui faceva bella mostra di sé uno strano ibrido di storia e meccanica: una macchina da cucire che doveva avere almeno cinquant’anni occupava buona parte dell’attenzione di Homer, che tuttavia trovò il tempo di alzare lo sguardo e regalare a Ole lo stesso sorriso pieno di entusiasmo e un pizzico di adorazione con cui Timmy di solito salutava il fattorino delle pizze. 

“Ah, eccoti, finalmente!”

“Ma che cosa stai facendo?”
“È il mio costume di Halloween!”
A gridare quest’ultima cosa fu Timmy, che pensò bene di attraversare la stanza con un drappo di stoffa scura calcato in testa e le braccia allungate in avanti, calpestando senza troppa preoccupazione i quaderni di scuola che ricoprivano il tappeto.

“Ah, certo. Da cosa ti vesti, da mummia-zombie?”
Timmy si fermò di colpo, le mani sui fianchi e un’espressione sconcertata visibile anche attraverso il drappo nero.

Questo è solo un pezzo di stoffa. Quello è il mio costume di Halloween. Cioè, quasi. Papà dice che lo sarà, e se non lo sarà, domani lo portiamo alla nonna che di sicuro lo sa aggiustare”.

Incuriosito, Ole si avvicinò al tavolo, osservando le lunghe dita agili di Homer accarezzare distrattamente un taglio della stessa stoffa con cui suo figlio stava pasticciando.

“Non dovrà aggiustare niente, sta venendo perfetto”.
Così dicendo, armeggiò con attenzione con leve e levette e pulsanti dalla funzione ignota della macchina da cucire, liberando il fagotto di stoffa dalla presa della navetta e mostrando con orgoglio quella che sembrava una lunga cappa nera. 

“Oh, ehm, bello. È… un mantello?”
Ole era titubante, più preoccupato di spegnere l’entusiasmo sul viso di Homer che di aumentare l'indignazione di Timmy.

“Sì, è un mantello! E domani andiamo a comprare la cravatta rossa, e poi anche gli occhiali, e la nonna sta intagliando la bacchetta!”
Timmy brandì una matita dalla gomma mangiucchiata, agitandola nell’aria e puntandola contro il petto di Ole, che fu tentato di alzare le mani in aria. Si fermò in tempo, però, domandandosi se anche le matite-bacchette richiedessero una reazione spaventata. Del resto, era piuttosto sicuro di aver intuito che cosa rappresentava quel mantello nero, ma non era certo di ricordare maghi e streghe pronti ad arrendersi alzando le mani in alto. 

“Ah, ho capito! Sei Harry Potter, vero?”

Timmy non fece in tempo a illuminarsi di un sorriso soddisfatto che Homer fece scivolare a terra il mantello, voltandosi a fissare Ole con aria sconcertata.

“Conosci Harry Potter?”
“S-sì?”
“Ma davvero?”
Ole annuì di nuovo, non riuscendo a mettere a fuoco lo sconcerto di Homer. C’era molto che non riusciva a mettere a fuoco – compreso il motivo urgente per cui Homer lo aveva trascinato da una parte all’altra della città mentre era impegnato a cimentarsi con taglio e cucito – ma ormai si era abituato a dover camminare sempre un passo indietro, quando si trattava di provare a stare al passo con Homer. La mente di quell'uomo viaggiava semplicemente ad una velocità diversa, e Ole aveva ormai imparato a farsi travolgere e abbagliare da quel ritmo impossibile da arrestare. 

“Be’ sì, ho visto qualche film, come tutti…”
"Sentito, papà? Sei solo tu che non li hai visti!”, intervenne Timmy, trionfante, per poi regalare a Ole un’espressione complice e vagamente sprezzante, aggiungendo: “ha dovuto cercare le foto su internet, per farmi il mantello!”
Ole si guardò bene dallo specificare che la sua conoscenza si limitava a qualche scena captata fra le pubblicità in televisione, nelle sere in cui teneva l’apparecchio acceso per farsi compagnia mentre faceva ordine nei suoi appunti. Non aveva nessuna intenzione di disilludere Timmy: era  molto più divertente e appagante far credere a Homer di essere l'unico inesperto di maghi e maghetti.

Ole sedette con cautela su una sedia, spostando scampoli di stoffa e rocchetti di filo. 

“Hai chiamato Anita perché avevi bisogno di aiuto urgente per cucire?”
Homer non provò nemmeno a trattenersi: fissò Ole e scoppiò a ridere, una risata piena e contagiosa. Una risata capace di scaldare Ole da dentro, come e più di un abbraccio.

“A parte che non le ho mai detto che fosse urgente, è lei che esagera sempre. E comunque no, non ho bisogno di aiuto per cucire. Sono un chirurgo, conosco le basi”.

Ole evitò di far notare che un mantello non funzionava esattamente come uno sterno, e soprattutto che quando operava lui non utilizzava una Singer vecchia di cinquant’anni per ricucire i pazienti. Ma del resto il risultato era davvero notevole, per trattarsi del suo primo esperimento alla macchina da cucire. Non che fosse una novità vedere Homer eccellere in qualcosa, fosse anche qualcosa che provava a fare per la prima volta.

“Abbiamo bisogno di te perché dobbiamo prendere le tue misure”.

“E perché non sappiamo di che Casa sei”, intervenne Timmy con aria grave, come se questo spiegasse qualsiasi urgenza Anita avesse potuto avvertire nella loro telefonata.

“Sì, anche. Che poi non è che io abbia capito così bene cosa siano queste Case… cioè, quello che studia la mente umana sei tu, eh, ma non mi sembra che i tratti specifici di una personalità si articolino in questo modo, ma magari sono io che…”
“Papà!”
Al rimprovero del figlio, Homer scosse le spalle e tornò a concentrarsi su Ole, investendolo con tutta la forza dell’entusiasmo che gli brillava negli occhi.

“Scusa. Libri per bambini, semplificazioni ai fini di trama, ci sono. Sì, insomma, dobbiamo capire quale sia la tua Casa per decidere di che colore fare i dettagli del tuo costume”.

“Del mio…”
Ole cominciava a intuire qualcosa, ma quello che stava intuendo non gli piaceva per niente.

“Io non ho bisogno di nessun costume”.
“Papà!”

Questa volta, nella voce di Timmy c’era una vena leggermente implorante, e fu con un brivido di orrore che Ole vide l’occhiata che padre e figlio si scambiarono. Era un’occhiata fatta di pura intesa, l’occhiata di un Landmann che aveva in testa un’idea piuttosto precisa e aveva tutte le intenzioni di realizzarla. E Ole non era mai stato capace di resistere alle richieste di un un solo Landmann, sotto il fuoco incrociato di due sguardi ugualmente accesi non aveva alcuna speranza.

“Poi ne parliamo. Intanto, facciamo questo esperimento mentale: allora, qual è la tua Casa di Hogwarts? Io direi che quella dei cattivi è da escludere a colpo sicuro”.

Ole avrebbe voluto intervenire, risolvere una volta per tutte la questione del costume, ma Timmy si inserì nella conversazione con la sua voce squillante di entusiasmo: 

“No, Ole non può essere un Serpeverde! E neanche tu, papà. Io sono ovviamente Grifondoro, ma voi due… non lo so. Tu forse Corvonero”.

Homer aggrottò la fronte, cercando in Ole un aiuto che Ole non gli seppe dare: 

“Aspetta, i Corvonero quali sono? Quelli intelligenti?”
Timmy annuì, mordicchiandosi l’interno della guancia – il gesto che in lui denotava profonda concentrazione.

“Sì, ma non proprio. Cioè, studiano, e quelle cose lì, ma sono anche un po' strani… Ole secondo me è più un Tassorosso”.

Ole represse a stento una smorfia, suo malgrado coinvolto dalla conversazione.

“Ma i Tassorosso non sono quelli inutili?”
Timmy si strinse nelle spalle, senza mai smettere di mordicchiarsi l’interno della guancia.

“Sì, ma no. Cioè, sono buoni, e sono dei bravi amici. Secondo me fanno un sacco di cose, ma non attirano l’attenzione e quindi noi non lo sappiamo. A me i Tassorosso sono simpatici!”

Il sorriso con cui Timmy concluse il suo discorso confuso bastò a scaldare il cuore di Ole, che avrebbe voluto sporgersi in avanti e stringerlo in un altro abbraccio. Invece, si limitò a sospirare e ad accettare il suo destino. 

“Bene, allora è deciso, Ole è Tassorosso, e quindi lo sono anche io, perché ovviamente avrei detto al Cappello Chiacchierino che anche se sembriamo diversi abbiamo bisogno di stare nella stessa Casa, se no non funzioniamo. Mi volete, no, voi simpatici, bravi e buoni?”

Dietro la maschera di leggerezza e divertimento, Ole lesse la sincerità nelle parole di Homer, e capì di essere completamente fregato. 

Fregato, senza speranze, completamente in balìa di quei due manipolatori sorridenti.

Perché dopo il sorriso di Timmy e il discorso di Homer lui non sarebbe stato capace di negar loro niente, fosse anche prestare la sua casa a tutta la classe di Timmy per una sfrenatissima festa di Halloween.

“Valuteremo attentamente la tua candidatura”, replicò, consapevole che Homer aveva già visto oltre il suo finto distacco.

“Ottimo! Allora adesso vieni qui, che ti prendo le misure”.

E mentre Homer armeggiava con un metro a nastro, Ole si decise a conoscere il proprio destino.

“Si può sapere perché dovrei aver bisogno di un costume da Tassorosso?”
“Per portarci a fare dolcetto o scherzetto!”, intervenne Timmy, ora seduto placidamente sul tappeto, il libro di matematica in grembo – aperto a testa in giù, ma Ole valutò che era comunque un piccolo progresso rispetto a quando il libro si trovava sotto i suoi piedi.

“Per portarvi?”
Homer si fece più vicino, intento com’era a misurare la distanza fra le spalle di Ole. Erano così vicini che Homer non dovette nemmeno chinarsi molto in avanti, per sussurrare qualcosa con voce pacata e fintamente indifferente all’orecchio di Ole.

“Sì, quest’anno ho promesso alle mamme degli amici di Timmy che li avrei accompagnati io nel giro. Ma sono nove bambini, e la Pearson dice che sono troppi per una persona sola, e allora io le ho già detto che non sarei stato da solo… insomma, se non hai voglia di venire, ti capisco, ma a quel punto credo che lei mi si appiccicherà tutta la sera”. 

Alla menzione di Eloise Pearson, la rappresentante dei genitori della classe di Timmy che sembrava sempre trovare una qualche scusa per telefonare a Homer negli orari meno opportuni cercando di invitarlo a casa sua per discutere di qualche gita scolastica o delle feste di fine anno, Ole sentì l’irritazione crescere in lui.

Era sciocco, perché Ole sapeva che Eloise rappresentava una minaccia solo per sé stessa: i suoi modi di fare erano talmente irritanti che più tempo cercava di passare con Homer, più Homer si spazientiva e si avvicinava al concreto rischio di rifilarle una risposta tagliente – un evento praticamente unico, dato che Homer sembrava capace di andare d'accordo anche con i sassi. 

Eppure Ole non riusciva a tollerare i modi di quella donna e la sua assoluta mancanza di ritegno nel lanciare sguardi maliziosi a Homer anche in sua presenza.

Timmy, finalmente perso nei suoi compiti, non li stava nemmeno più ascoltando, così Ole si sentì in diritto di puntualizzare:
“Io vengo perché quella tizia è capace di rifilarti delle caramelle piene di droga, ma sappi che questa mossa ti fa guadagnare trenta punti da Serpeverde. Non sono sicuro che tu ti meriti di stare con noi simpatici, buoni e bravi”.

Homer, però, aveva un sorriso così luminoso che Ole non risucì nemmeno per un istante a continuare a fingersi offeso. Davanti a quel sorriso, non poteva importargli niente di una Eloise Pearson qualsiasi, dei nove bambini a cui non sarebbe mai stato in grado di badare o del costume che si sarebbe vergognato a morte di indossare. 

“Mi farò perdonare, promesso”. 

“Ti farai perdonare con almeno mezzo chilo di cioccolato in presenza dei bambini e una bottiglia di vino quando i nani saranno rispediti alle rispettive famiglie”.

Ole non lo credeva possibile – accadeva ogni singola volta, ma era sempre una sorpresa – eppure il sorriso di Homer si allargò ancora di più.

“Mi sembra un prezzo ragionevole, signor TassoCoso. E comunque", aggiunse Homer, la risata ancora posata sulle labbra, "è molto valoroso da parte tua volermi difendere dal pericoloso assalto della Pearson. Forse questo fa di te un Grifondoro. Non usciremo mai dal dilemma delle Case!"

Ole tornò a sedere, prendendosi la testa fra le mani e osservando sconsolato il mantello di Timmy. Avrebbe odiato con tutto sé stesso presentarsi ai vicini di Homer vestito in maniera imbarazzante. Avrebbe odiato cercare di fare conversazione con dei bambini che non fossero Timmy, avrebbe odiato le occhiate curiose e incredule delle mamme dei suddetti bambini, incapaci di rassegnarsi all'idea che Homer al suo fianco volesse una persona come Ole.

Ma lo avrebbe fatto, perché anche le cose più terribili, sotto lo sguardo di un Landmann, si coloravano solo di luce positiva.





 

 


 

Note:

Devo fare una confessione: da quando per la prima volta ho osato sganciare Ole e Homer dal contesto di Harry Potter per scrivere su di loro anche nella sezione delle storie originali mi frulla per la testa l'idea di scrivere di loro che, pur in un contesto del tutto babbano, si travestono da personaggi di Harry Potter. Così, una strizzatina d'occhio fra me e me.

Quest'anno ho colto la palla al balzo: mi rendo conto che si tratta di una storia davvero sciocchissima e priva di senso, una cosa scritta proprio per me, più che per altri, ma insomma, io mi sono molto divertita, e questo è quello che conta, suppongo.



 



 

   
 
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