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Autore: Shily    02/11/2021    2 recensioni
James Adams ha ventisei anni, troppi straordinari alle spalle e due solide, ferree convinzioni.
La prima è che l'amore è la tomba della passione, la seconda è che deve sempre affidarsi al suo insistinto per non finire nei guai.
Quando però una sera, complici un temporale e un paio di birre, si trova stretto sul divano della migliore amica di sua sorella, con i calzini zuppi d'acqua e i riscaldamenti al massimo, l'intuito si rivela inevitabilmente un pessimo consigliere.
Ma soprattutto, James non fa sesso con una ragazza dalla bellezza di otto mesi, due settimane, quattro giorni e dodici ore - non che tenga il conto, eh - e lui l'astinenza non l'ha mai saputa praticare. Si troverà così a fare i conti con Annabeth, cresciuta a pane e favole Disney - lui, invece, è il classico cinico per tradizione - , oltre che con quei famosi fantasmi del passato di cui tanti parlano.
E mentre il mondo sembra premere perché lui superi il bivio di una vita, crescere o non crescere, con lei si ritroverà a fare la più grande delle sue cazzate.
Probabilmente a prendersi un raffreddore e tornare a casa sotto la pioggia si sarebbe evitato molti problemi.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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00. Chi dice donna dice danno 
 

"Bevilo tutto, bevilo tutto. Tutto, tutto, tutto."
Presi il bicchiere di birra che avevo davanti e me lo portai alle labbra. Strinsi gli occhi, reprimendo un colpo di tosse dovuto al bruciare lungo la gola. Il liquido scendeva giù senza difficoltà, fino a incendiarmi il petto. Mi sentivo vivo, carico, elettrizzato.
Alzai un pugno verso l'alto, facendo un ultimo sforzo e sbattendo il boccale vuoto con forza sul bancone. Intorno a me si levarono urla e cori, sorrisi trionfante e mi pulii il mento con la manica della camicia.
Una mano, brusca e inaspettata, mi afferrò il polso, portando anche l'altro braccio verso l'alto. "Sei un mostro," urlò mio cugino Robert, sovrastando il rimbombo della musica. "Questo è mio cugino, un vincente."
"Non si scherza con gli Adams," risi e feci cozzare le nostre fronti con uno schiocco.
Tirai in fuori il petto, beandomi della gloria: ero ufficialmente il re della serata.
"Cazzo, sei un animale," disse Dave, traballante sebbene seduto su uno sgabello. "Voglio la rivincita."
"Ma se non ti reggi in piedi," Robert poggiò un gomito sulla mia spalla, appoggiandosi con tutto il peso. "Sei andato, amico. Vero, Jim?"
Feci un cenno affermativo con la testa e mi portai una mano al petto, mentre una strana sensazione mi pervadeva il corpo. Uno strano rimbombo all'altezza dello stomaco mi provocò un formicolio, fino a quando pochi secondi dopo non mi esibii in un sonoro rutto.
Dave e Robert si scambiarono un veloce sguardo, entrambi interdetti, prima di urlarle all'unisono: "Il ruggito del campione."
Scoppiai a ridere, felice e spensierato, e mi alzai sulle punte alla ricerca di Bill, colui che completava quello strano e disadatto gruppo che formavamo.
"Eccoti," urlai una volta avvistata la figura alta e massiccia del mio amico. "Che fine avevi fatto? Hai visto che ho vinto? Mi devi cinque sterline."
"Eccolo che riscuote," mi prese in giro e mi battè una mano sulla schiena.
Mi ritrovai a tossire, massaggiandomi la spalla con una mano. "Vacci piano, amico. Sei un armadio, un'altra così e mi rompo."
Bill scosse la testa e rise. "Io vado, Jim. Ci sentiamo per la prossima."
"No,no,no," lo fermai e gli passai un braccio intorno alle spalle. "La notte è ancora giovane, perché vuoi andare?"
"Sono le tre passate, domani ho un meeting e Katie mi aspetta."
"Ascolta, Bill, lascia che ti spieghi una cosa sulle donne..."
"Bill?"
Lo guardai confuso: "Chi è Bill?"
"Non lo so, dimmelo tu. Io sono Bob."
"Chi?"
"Bob?"
"Chi è Bob?"
"Ma io," il ragazzo allargò le braccia esasperato. "Non mi chiamo Bill, James. Sono Bob."
A quelle parole schiusi le labbra dalla sorpresa. "Robert, Robs!" afferrai mio cugino per un braccio e me lo portai vicino. "Lui è Bob."
"Amico, è un piacere. Io sono Robert," gli porse la mano e sorrise.
"Ci conosciamo da una vita, ragazzi. Io e James andavamo a scuola insieme."
Ma certo! MI battei una mano violentemente contro la fronte, quello era Bob.
Bob l'armadio. Dalla scusa sempre pronta, con più ore di lezioni saltate alle spalle di quando fosse concesso e una riserva di erba sempre pronta.
Il mio amico Bob.
"Bob," esclamai all'improvviso e lo abbracciai commosso. "Ti voglio bene, amico."
"Anche io, Jim. Anche io," qualche pacca sulla schiena e mi allontanò. "Ma devo andare per davvero, domani Katie ha anche la visita dal medico."
Robert e io ci guardammo spaventati e assumemmo entrambi un'espressione seria.
"Cos'è successo, amico?" chiese mio cugino. "E' grave?"
"Per qualsiasi cosa noi ci siamo, lo sai."
"Siete proprio due coglioni, Katie è incinta e lo sapete."Ah. Giusto. "Io vado," infilò la giacca e tirò fuori le chiavi della macchina. "Se non riuscite a guidare chiamate un taxi, mi raccomando. E salutatemi Dave," con un cenno della testa indicò il ragazzo.
A quel punto mi voltai verso il punto indicato, trovando subito il mio amico collassato sul bancone del bar e con un rivolo di saliva che gli sporcava la guancia.
Finiva sempre così, con Robert che dimenticava persino il suo nome e Dave che si addormentava da qualche parte sull'orlo del coma.
Menomale che c'ero io a tenerli sulla retta via.
E Bob, ovviamente, che da quando aveva saputo di star diventato padre alternava momenti di gioia assoluta ad attacchi di panico fulminanti.
Salutammo un'ultima volta il nostro amico e Robert si espresse in un poco virile e malcelato singhiozzo a causa dell'alcol, che come diceva sempre lo rendeva "fin troppo sensibile, ho il cuore tenero io."
"Andiamo da Dave, coraggio," mi passò un braccio intorno alle spalle e, insieme, ci dirigemmo al bancone.
Mi accomodai sullo sgabello libero e presi a picchiettare sulla fronte del ragazzo. "È proprio morto. Dovremmo preoccuparci?"
"Ma no," Robert scosse la testa e alzò una mano verso il barista. "Ehi, John, me ne dai un'altra?"
"Mi dispiace, capo. Mi hanno detto di non darle più nulla," il ragazzo ci guardò da sotto le palpebre cadenti e raccolse uno strofinaccio. "Comunque io sono Jared."
"Ma questo è il mio locale, accidenti," sbottò Robert e si passò una mano sulla fronte, allontanando i ricci che vi si erano attaccati. "Jim, fa qualcosa."
"Io..." mi portai una mano all'altezza dello stomaco e feci una smorfia. "Credo di dover vomitare."
"Non questo, fa qualcosa per aiutarmi."
"Robs, sei più ubriaco del vecchio che viene ogni mattina. E non ricordi neanche il nome del tuo dipendente."
"Non c'entra, non me lo ricordo perché è nuovo."
"Sono qui da due mesi," s'intromise Jared e si sporse con un bicchiere verso un ragazzo.
Mio cugino, in risposta, si espresse tramite un ringhio e sprofondò con la testa nelle braccia.
Che delusione. Ormai non eravamo più giovani come una volta, adesso bastava qualche birra e subito capitolavamo - capitolavano, loro non io. Con un velo di malinconia ricordai le serate dei miei vent'anni, quando tiravamo fino all'alba e il giorno dopo eravamo subito pronti a ripartire.
Poi eravamo cresciuti e niente era stato più lo stesso: Robert aveva rilevato il locale con George e Marcus; Bob l'armadio si era innamorato e aveva un figlio in arrivo; io stesso ero forse quello cambiato di più da quando era successo il fattaccio: avevo trovato un lavoro, mi ero impegnato e qualche mese prima avevo anche portato una laurea a casa. Mia mamma aveva pianto per giorni e l'aveva appesa in salotto, proprio vicino alle foto di quand'ero piccolo.
Unica consolazione, Dave invece era sempre lo stesso ma almeno quello andava bene così.
"Robs," chiamai e cercai di alzarmi dallo sgabello. "Robs," feci una smorfia per la musica assordante che mi impediva di pensare. "Robert!"
Si mise dritto di scatto ed eseguì il tipico saluto militare. "Al servizio, signore."
"Ascolta, ho deciso: io vado."
"Vai dove?" si sporse per riuscire a sentire cosa dicevo.
"A parlarle. A Gambe chilometriche dico."
Alzò le sopracciglia talmente tanto da farle quasi sparire sotto l'attaccatura dei capelli.
"Vai e conquista, cugino," alzò il bicchiere e gonfiò il petto. "E rendi onore agli Adams."
"A testa alta."
"E a cazzo duro."
Sistemai la camicia ormai sgualcita e, ignorando il prepotente mal di testa che mi martellava, mi diressi verso la mia meta.
Gambe chilometriche non era altro che la bella, bionda e formosa ragazza che mi guardava da quando eravamo entrati nel locale. Ci eravamo scambiati sguardi per tutta la serata e quello mi spinse di agire.
Che diamine, ero pur sempre il grande James Adams: avevo sempre avuto un certo ascendente sulle ragazze e non era certo a ventisei anni che avrei perso la carica distintiva.
Mi sistemai il colletto della camicia e feci qualche passo. Non appena mi trovai davanti a lei, spalancò gli occhi e, superata la sorpresa, sorrise.
"Ti conosco?"
"Dovresti," mi appoggiai al muro con una spalla, "Perché io ti conosco."
Gambe lunghe si scambiò uno sguardo complice con l'amica e si portò il bicchiere alle labbra, nascondendo il sorriso.
"Ah, si? Puoi ricordami chi sei?"
"L'uomo della tua vita e, visto che ormai siamo qui, sarebbe sciocco perdere altro tempo."
"Carina questa. Quante volte l'hai già provata?"
"Se dicessi che sei la prima?" sorrisi e ammiccai come mi aveva insegnato mio zio ai tempi d'oro - lui sì che ci sapeva fare con le donne.
Poi si era sposato e aveva perso tutto lo smalto che l'aveva da sempre caratterizzato. Non c'erano dubbi per me: il matrimonio era la tomba della passione. E dell'amore e della vita sociale.
"Non ci crederei mai," rispose e tese una mano. "Io sono Brooke."
"James, al tuo servizio," le strinsi la mano e, nel lasciarla, feci in modo di attardarmi più del dovuto. Alle ragazze piaceva sempre. "Ti va di ballare?"
Brooke sorrise, mostrando i denti banchi e dritti da dietro le labbra rosse. "Credo proprio di non potere, sono qui con la mia amica."
Mi voltai velocemente verso la ragazza al suo fianco che, altrimenti, bassa com'era non avrei visto.
E va bene, questa volta ero stato cattivo.
"Sono sicuro che non le dispiacerà, sarà solo per il tempo di una canzone."
Brooke però non era dello stesso avviso e, con l'aria di chi non ha intenzione di dartela vinta e con espressione fintamente dispiaciuta, si strinse nelle spalle.
Se solo la situazione me l'avesse permesso, sarei scoppiato a ridere senza ritegno: le donne a volte sapevano essere così scontate. A loro piaceva giocare al gatto e al topo, e non sarei stato certo io a deludere le convinzioni di Gambe lunghe.
"Allora ti lascio con la tua amica, è stato un piacere," risposi e, con un veloce occhiolino, le diedi le spalle.
"Aspetta," sentii le dita piccole e sottili della ragazza legarsi intorno al mio braccio e contrassi il muscolo. "Magari possiamo scambiarci i numeri."
Scontato, prevedibile e meraviglioso. Mi sarei dato una pacca sulla spalla da solo per la bravura dimostrata.
"Ne sarei onorato."
Sentivo lo sguardo di Robert su di me, attento a capire quale sarebbe stato l'epilogo della conversazione, e quando tornai al bancone cinque minuti dopo lo trovai in attesa del mio racconto.
"O sei sorprendentemente veloce o ti è andata male," fu l'accoglienza di mio cugino, che mi batté una mano sulla schiena.
Con studiata calma mi sedetti sullo sgabello e lo guardai di sottecchi. "Ho il suo numero," sventolai il telefono davanti ai suoi occhi e mi costrinsi a non voltarmi un'ultima volta verso di lei.
"Non è con i numeri di telefono che si fanno le guerre."
"E questa da dove ti è uscita?"
"L'ho sentita l'altro giorno in un film. È molto d'effetto, vero?"
"Lo è, ma non credo sia proprio così la frase," gli feci notare e controllai che Dave fosse ancora vivo.
"Non ti abbattere," fece dopo qualche minuti, "Si vedeva da subito che era una da occhi dolci e basta. Ti attirano nella loro trappola e poi... tac," tagliò l'aria con un braccio.
"Se lo dici tu," abbozzai e presi a giocare con una cannuccia. "Però è bella da far paura, vero?"
"Non così tanto," si strinse nelle spalle. "Certo, ha un gran bel paio di..." mimó con le mani il suo apprezzamento, "Ma niente di più. Non pensarci troppo, domani è un nuovo giorno."
Cosa strana le ragazze, comunque. Anzi no, cosa strana le donne perché finché erano giovani come te, desiderose solo di divertirsi e fare esperienza andava tutto alla grande. Si era sulla stessa lunghezza d'onda, si volevano le stesse cose, si era chiari... poi crescevano e diventano complicate.
Anzi no, rettificai per la seconda volta, poi crescevano e volano sposarsi. Proprio non le capivo.
A ventisei anni, ormai, potevo vantare una certa esperienza oltre che un numero spropositato di donne in famiglia, ma per me sarebbero sempre state un enigma.
Insomma, mi sembra un'equazione elementare: sei bella, sono bello. Ti guardo, mi guardi. Lo voglio, lo vuoi.
Però poi ogni volta facevano finta di no per qualche motivo a me sconosciuto. Possibile che un ragazzo non potesse divertirsi e basta?
Io di impegnarmi non ne avevo voglia ed ero sicuro che Brooke, infondo ma proprio infondo, fosse della mia stessa opinione.
Donne, valle a capire.
"Jim," mi richiamò Robert, distogliendomi dai pensieri suicidi. "Sono almeno... quanti, sei mesi che non vai con nessuna?"
"Ma i cazzi tuoi mai?"
Per la precisione erano otto mesi, due settimane, quattro giorni e - guardai l'orologio - dodici ore ma dopotutto chi teneva il conto? Per amor proprio, tuttavia, preferii non dirlo.
Incrociai le braccia sopra al tavolo e vi nascosi la testa dentro, mentre Robert continuava a blaterare qualcosa di incomprensibile. Da ubriaco perdeva qualsiasi facoltà discorsiva, dando l'impressione che la lingua si arrotolasse su se stessa.
"Ho fame. Andiamo a magiare?"
"Robs, sono le quattro del mattino."
"Da quando abbiamo un orario per fare le cose?"
Mi ritrovai a dargli ragione e, ignorando un rumore lontano di vetri infranti, mi portai una mano allo stomaco. "Ho fame anche io, ci prendiamo un kebab?"
A quelle parole si illuminò e scattò in piedi. "Ha aperto uno qui di fronte fantastico," annunciò e fece un cenno di saluto a Jared dietro al bancone. "Anche se ho qualche dubbio sulla qualità dei prodotti."
"Dave, coraggio, svegliati," cominciai a scuotere il ragazzo per una spalla. "Amico, andiamo!"
A smuovere la situazione ci pensò Robert, si avvicinò al suo orecchio e urlò con forza: "DAVE! POLIZIA!"
Lui a quelle parole scattò in piedi e cadde dallo sgabello. "Non ho niente, lo giuro."
Robert e io ci scambiammo un'occhiata fugace e scoppiamo a ridere, aiutandolo a rialzarsi.
"Dobbiamo andare a lavoro? È già ora?" chiese Dave stranito mentre uscivamo all'aria aperta.
"Cazzo, è vero," mi portai una mano alla testa: era la fine. "Domani è lunedì. Se faccio tardi un'altra volta, Owen mi apre il culo."
"Non preoccuparti, Jim," Robert si accese una sigaretta e socchiuse gli occhi per il vento. "Sei o non sei la punta di diamante di quel posto?"
"Non sono proprio nessuno," mi schernii. "Anzi, se farò tardi sarò disoccupato, ecco cosa. Dammene una, và."
Afferrai il pacchetto di sigarette e ne presi una, portandomela alle labbra. Era il caso di proclamare la nicotina come patrimonio dell'umanità.
Proprio in quel momento un gruppo di ragazze, dovevano essere cinque o sei, passò davanti a noi e, senza ritegno alcuno, mi sporsi per seguirne la scia.
"Brutta cosa l'astinenza, eh?"
"Ma vaffanculo, Robs."


 
🍓



"Adams, hai fatto le ore piccole stanotte?"
Sbuffai e, stropicciandomi gli occhi assonnati, scossi la testa. Sistemai l'elmetto protettivo in testa, controllando contemporaneamente la pianta del progetto, e un brivido di freddo mi attraverso la schiena.
Repressi un sonoro sbadiglio, dato che il capo cantiere Owen era ancora fermo su di me e non era il caso di ammettere che sì, avevo fatto le ore piccole, e spalancai le palpebre per impedire che si chiudessero.
Dopo il kebab Robert aveva insisto per guarda l'alba, fino a convincermi per esasperazione. Sei proprio un quindicenne, mi aveva preso in giro, ma con la vista della città davanti e una birra in mano non avevo potuto che apprezzare la testardaggine di mio cugino.
Peccato che così facendo non ero riuscito a tornare a casa, la quale distava più di un'ora dal cantiere, e mi ero limitato a lavarmi i denti a casa sua.
E a scroccare la colazione, ovviamente. Altrimenti che gusto c'era?
Mi guardai brevemente intorno, individuando poco distante da me Dave, così stanco da rischiare di cadere faccia a terra. Come sempre era la certezza a cui appigliarmi in qualsiasi momento. Dove c'ero io, sapevo che ci sarebbe stato anche lui e viceversa: in ogni cazzata, ogni sgridata, ogni risata lui era lì con me.
Avevamo fatto sempre tutto insieme noi due: dal primo bacio con due gemelle perfettamente identiche, alle feste incasinate dell'Università.
C'era stato alla mia prima sbronza, quando era finita con la mia prima ragazza - che, preso dalla foga dei quattordici anni, avevo dichiarato essere la donna della mia vita - e, sopratutto, in quello che era stato il periodo buio della mia vita. Quando tutto mi era sembrato andare a rotoli e non vedevo la fine del tunnel in cui mi ero infilato.
Dave era sempre stato al mio fianco, nonostante i numerosi difetti di entrambi e il fatto che insieme sembrassimo regredire ai tempi dell'adolescenza.
Proprio in quel momento alzò la testa verso di me e mi fece un cenno veloce. Stanco com'era, pregai che non finisse per tagliarsi un braccio e mi voltai verso il capo cantiere Owen, ancora fermo su alcuni blocchi di cemento e le braccia conserte.
Quello mi odiava e non era una mia mania di persecuzione, come aveva detto Robert più di una volta. A dirmelo era stato l'uomo stesso uno dei miei primi giorni di lavoro allo studio di architettura Thoughtbilders.
"Capo," fece una voce dietro di me, "Hanno portato dei carichi, dove li mettiamo?"
Con ancora lo sguardo sui fogli mi voltai verso la voce alle mie spalle.
Stef - che in realtà era Stefanie ma odiava sentirsi chiamare in quel modo - era una delle poche donne che lavoravano sul campo e che era riuscita a guadagnarsi un posto in un mondo competitivo come quello architettonico.
Ogni volta non riuscivo a impedirmi di guardarla con un velo di ammirazione e timore allo stesso tempo. Era di quelle donne - anzi no, persone! - che ti fanno sentire incredibilmente piccolo e inadatto.
Aveva coraggio e lo sfoggiava fieramente.
"Ti ho già detto di non chiamarmi capo, ho fatto l'esame finale solo da qualche mese," la ripresi scherzoso.
"Però sei il capo del mio gruppo, no?" obiettò Stef e annuii, il ragionamento non faceva una piega.
Decisi di sorvolare sulla questione e di tornare a lavoro, quella giornata avevo già avuto due richiami per colpa della lentezza post sbornia.
"Lasciali pure lì, comunque," risposi infine. "Ci pensiamo dopo noi."
Lei annuì e indicò un punto alle sue spalle, dove gli altri l'aspettavano. "Allora andiamo da Owen, oggi è più scorbuto del solito."
Una vibrazione attirò la mia attenzione e, con un'occhiata in direzione degli altri, tirai fuori il telefono dalla tasca del pantalone.
Era un messaggio di mia cugina Rebecca che mi ricordava di passare a prendere la pizza quella sera, prima di raggiungerli. Menomale che c'era lei a farmi da promemoria personale per tutto o mi sarei scordato persino di andare a dormire la sera.
Abbiamo anticipato di un'ora o Leanne si addormenta di nuovo.
Sbuffai una risata e risposi, magari nel pomeriggio avrei scritto a Brooke Gambe lunghe. Alzai un braccio e mi annusai: magari prima facevo una doccia.






A pié di pagina:
Sono così emozionata che non avere idea. Ho tante aspettative e speranze per questa storia, però allo stesso tempo sono così piena di timori che non avete idea.
Concludo con tre punti:
A. Questo è l'unico capitolo che supera le tremila parole. Per una volta ho deciso di fare capitoli più brevi, e quindi una storia un po' più lunga.
B. Questo è il prologo, e preparatevi perché già dal capitolo 3 ci sarà da divertirsi.
C. Mi raccomando che il dividi paragrafo (🍓) non è casuale, chi indovina avrà una piccola anticipazione.


Au revoir!



 
   
 
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