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Autore: Ciarax    14/11/2021    0 recensioni
«...Ma perdere un soldato, e un amico, senza aver provato tutto per salvarlo è anche peggio. Il senso di colpa ti divorerà dall'interno, più di tutta questa devastazione che si sta per abbattere sulla Terra...»
«Sei giovane, ma hai perso già tanto e spero che tu riesca a trovare pace alla tua guerra interiore prima che ti logori, Sophia»
...
Ma quando la lotta non è combattuta con le armi ma è una guerra intestina che ti logora dall'interno... Non sei più sicuro di sopravvivere.
Ritornare alla vita civile dopo anni di servizio nell'esercito non è un viaggio facile e le cicatrici che sembrano rimarginate riprendono all'improvviso a sanguinare.
Ritrovatasi in mezzo alla vita degli Autobot, Sophia fatica a ritrovare il suo posto in una realtà che non sente più sua. Un'altra guerra non era certo quello che cercava e già esausta dall'affrontare le sue battaglie interne... Non è certa di sopravvivere.
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Warning: menzione e descrizione di scene di violenza, perlopiù negli ultimi capitoli.
Menzione di salute mentale alterata e disturbo da stress post traumatico anche se non nei dettagli è comunque un aspetto importante della storia.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2 – MONTANA
 
            «Nonno ma non avevi l’incontro con gli altri veterani almeno un’ora fa?»
            «Si, ma se tu continui a farmi preoccupare così possono anche smetterla di aspettarmi. Sono sopravvissuto alla guerra e tu mi vuoi uccidere di preoccupazione» borbottò l’anziano dopo aver finito di pranzare con la nipote.
Sophia poggiò le stoviglie all’interno del lavabo e abbassò la testa, frustrata. Respirò un paio di volte e socchiuse gli occhi solo per vedere il volto sempre corrucciato del nonno disteso in un’espressione calma ma seriamente preoccupata.
Detestava vederlo così.
            George Alder era fin troppo attivo per essere un uomo da un pezzo oltre gli ottanta anni, Tenente della Marina Militare dal quale era stato congedato con onore e da cui era partita l’aspirazione di famiglia per la carriera militare, il cui figlio e nipote ne erano un esempio. L’unica nipote che aveva e con cui condivideva la testardaggine e il decoroso senso del dovere che li hanno portati lontano in così giovane età nel militare.
Non era mai stato un uomo di molte parole anche se era in grado di ammettere quando qualcosa non andava, al contrario della nipote che si chiudeva in quella sua testardaggine che lo faceva preoccupare ogni volta. E proprio mosso dalla preoccupazione si era offerto immediatamente di tenerla con sé dopo il ritorno in patria dall’ultima missione in Iraq dopo il congedo dai Ranger.
Affrontare i problemi con una pistola era sempre più facile che affrontare quelli che si annidavano nella sua testa e questa situazione non sembrava voler cambiare a ridosso di quasi un anno.
            «Quel Myers ha chiamato di nuovo -la informò George scuotendo la testa con un sorriso bonario, -voi ragazzi siete parecchio uniti, forse dovresti chiamarlo. I compagni di squadra sono i migliori fratelli su cui puoi contare, Gracie»
Sophia accennò un sorriso sentendo il nomignolo dal suo secondo nome con cui il nonno era solito chiamarla quando era meglio dargli ascolto. Solitamente i suoi consigli non erano quasi mai infondati e tentare non le costava nulla.
«E va bene, più tardi lo chiamo se questo ti farà andare a quel maledetto incontro. Non voglio sentirti lamentare per tutta la settimana che non sei potuto andare a pesca con quei pezzi da mausoleo»
George finse un’espressione incredula e addolorata, «Questo era un colpo veramente basso, ragazza mia»
Sophia rise finendo di lavare i piatti e preparando l’ennesima tazza di caffè sia per lei che per il nonno che a breve se ne sarebbe andato con altri vecchi commilitoni del centro per veterani di guerra di Green Bay. Aveva preferito l’arruolamento nell’esercito anziché nei marine come il nonno ma aveva ereditato la loro stessa dipendenza dal caffè.
Toccarlo equivaleva a segnare la propria condanna a morte.
            Con un bacio sulla guancia ed un rapido saluto, in meno di un’ora si ritrovò da sola nella casa senza alcunché con cui occupare il pomeriggio. Erano a malapena passati tre giorni da quell’incidente notturno e ancora non ne aveva fatto i conti, si era chiusa nel suo solito silenzio e aveva preteso di non pensarci.
Se non ci avesse pensato, il problema non sarebbe sussistito.
            Passare una giornata relativamente tranquilla non le sembrava un piano così pessimo e da qualche settimana non dedicava la giusta attenzione all’M82 che custodiva con gelosia da quando aveva lasciato la divisa. Con il setter inglese Sam di quattro anni al seguito portò sul tavolo della cucina la propria Berretta e la custodia dove riponeva il fucile di precisione, smontato e scarico.
Passò con perizia ogni pezzo e ricontrollò più volte l’aggancio della parte superiore e inferiore del fusto controllando che non vi fosse alcun tipo di problema, il mirino telescopico e quello per la visione notturna erano perfettamente puliti e senza alcun graffio mentre anche la canna era stata accuratamente ripulita. Caricò una cartuccia scarica e caricò la prima volta, sparando a salve e sentendone soddisfatta il suono pulito e secco del cambio ad ogni colpo; canticchiò sottovoce mentre passava in rassegna la manutenzione alla propria Beretta mettendo per un attimo da parte il fucile di precisione.
            La musica sulla vecchia radio del nonno era fissa sulla stazione radio Jazz locale, i due non ascoltavano mai altro e non era raro che scappasse qualche divertente ballo di coppia sui brani più lenti. Era perlopiù un’attività frivola e spensierata ma era uno dei momenti che più preferiva con il tempo passato con l’anziano ex marine. Era da lui che aveva ereditato la passione per il Jazz e spesso non ascoltava altro anche quando era alla guida ma quel Topkick non ne voleva sapere di sintonizzarsi su quella stazione.
            A quel pensiero Sophia mise sul tavolo la pistola, si passò la mano tra le ciocche ramate che scappavano dalla coda improvvisata e fissò distrattamente la finestra quando un rumore agghiacciante la colse alla sprovvista. Il rumore era stato un improvviso schiocco metallico seguito da quello che sembrò un antifurto emesso ad una frequenza talmente alta da farle fischiare le orecchie che coprì immediatamente.
Sentì il rumore di alcune finestre infrangersi e solo dopo qualche secondo poté togliere le mani dalle orecchie e mettere cautamente un piede fuori casa, da dove le sembrò che provenisse il quell’allarme.
            Fuori dalla casa c’era solamente l’enorme pickup nero a quattro porte che non appena la vide si ritrasformò rapidamente e riprese la sua forma bipede. Sam era al fianco di Sophia e sorprendentemente non mostrava nessun atteggiamento difensivo, la coda era morbidamente lasciata penzoloni mentre con la testa seguiva curiosamente quell’enorme Cybertroniano in trasformazione.
Ironhide prestò poca attenzione all’animale e poggiò un ginocchio a terra cercando di mettersi allo stesso livello di Sophia, con qualche scarso risultato. L’espressione infastidita della donna era chiaramente leggibile e per un attimo l’Autobot si aspettò una sfuriata o qualsiasi cosa gli avesse fatto capire che era arrabbiata, tutte reazioni che aveva appreso grazie al World Wide Web a cui aveva facilmente accesso, e invece nonostante il volto contrito non arrivò nessun urlo, solo una gelida domanda.
            «Che bisogno c’era di provare a rendere sordi sia me che Sam?» la voce era bassa, calma mentre aspettava una spiegazione poggiata sullo stipite della porta con le braccia incrociate. Era una fortuna che la casa era abbastanza isolata, altrimenti sarebbe stato più complicato per l’Autobot riprendere la propria forma bipede e parlarle faccia a faccia.
            ­«Abbiamo trovato il ragazzo. Forse c’è una possibilità per ritrovare l’AllSpark» fu la spiegazione concitata che Ironhide le fornì ma gli parve subito chiaro dall’espressione confusa di Sophia che avrebbe dovuto sicuramente fornire altre spiegazioni.
            «Prepara in fretta quello che ti serve che dobbiamo andare. Gli altri Autobot saranno qui in meno di tre giorni e il viaggio è lungo» sospirò Ironhide riprendendo poi la forma del veicolo nero e attendendo l’inizio di quel viaggio.
Sophia scosse la testa incredula, «Di cosa diavolo vai parlando? D’accordo che siamo isolati ma non puoi rischiare che qualcuno ti veda così, la gente ha reazioni improvvise»
            «Non c’è tempo per spiegazioni inutili, i Decepticon sanno che sei sotto la mia protezione e se me ne vado non esiteranno un attimo ad uccidere te e tuo nonno. Prepara la tua roba e andiamo, piccoletta» ordinò bruscamente Ironhide accendendo il motore con un rombo improvviso, prima di fare inversione di marcia e mettersi pronto col muso sulla direzione per uscire dalla proprietà.
Serrando la mascella Sophia rientrò in casa e salì rapidamente le scale fino alla sua stanza. Fissò per un attimo il borsone abbandonato vicino l’armadio e prendendolo ci buttò dentro un paio di cambi comodi e che le sarebbero bastati per un paio di settimane, le cose essenziali erano già all’interno e non ci mise più di cinque minuti a raccattare il necessario; era abituata a muoversi in fretta e le cose necessarie per lei si potevano contare sulla punta delle dita.
            Scese le scale con il borsone preparato allo stesso modo di quando veniva richiamata ogni volta in servizio in spalla, afferrò i documenti personali e qualche cosa da mangiare per dopo fino a fermarsi davanti il tavolo della cucina. Soppesò per un attimo le alternative e richiuse in fretta l’M82 smontato all’interno della custodia, infilò la Beretta carica nella fondina ascellare che assicurò attorno alle spalle e afferrò il termos pieno di caffè bollente prima di salire dal lato del guidatore.
Sperò che il breve messaggio lasciato in cucina bastasse per tranquillizzare il nonno sulla sua scomparsa improvvisa, l’uomo era vecchio ma non stupido e si sarebbe presto accorto anche della sparizione del borsone e del fucile. Sarebbe stata una breve gita di forse una settimana, aveva scritto ma non ne era sicura neanche lei.
            Un mugolio sul retro del Topkick attirò la sua attenzione quando richiuse la portiera del guidatore dietro di sé, Sam era sdraiato bonariamente sui sedili posteriori e con la testa poggiata sulle zampe aspettava paziente l’inizio di quel viaggio improvviso.
            «Quel sacco di peli non mi ha dato scelta» fu il semplice commento di Ironhide, breve e scorbutico come al solito.
Sophia accennò un sorriso dando una veloce grattatina tra le morbide orecchie del cane, «E tu non hai dato scelta a me. Considerala come la condizione per venire con te senza fare scenate inutili, Ironhide»
             «Come se tu fossi il tipo da farne» grugnì di risposta l’Autobot mettendo rapidamente in moto il motore e iniziando quello che si sarebbe rivelato un lungo tragitto.

            «Vuoi farlo smettere quell’animale?» domandò per l’ennesima volta Ironhide da un paio d’ore dopo che Sam continuava a voler insistere nel passare sul sedile anteriore e batteva ritmicamente le zampe sul sedile per avere attenzioni.
Sophia di tutta risposta sbadigliò, provando un po’ di pietà per il suo cane che non era abituato a rimanere in macchina per così tanto tempo, anche se era un animale tranquillo e che non aveva problemi a dormire per parecchio. Dieci ore di viaggio erano troppe anche per lui senza neanche una pausa.
            Era passata da un pezzo l’ora di cena ma nonostante questo Sophia non aveva fame e aveva passato gran parte del viaggio nel cercare di far sintonizzare la radio su una stazione che trasmettesse del Jazz ma Ironhide era stato irremovibile; ogni volta che trovava una stazione lui cambiava prontamente emettendo un fastidioso ronzio metallico, solo quando notò come l’umana aveva iniziato a canticchiare sottovoce una canzone in particolare appena l’aveva sentita su quella stazione decise di lasciarla. Farle sentire almeno una canzone era un vago modo per scusarsi di quel suo comportamento brusco, anche se non era certo del motivo di quella sua fissazione per quel genere di musica aveva comunque notato come sembrasse visibilmente più calma quando si lasciava un po’ andare alle note e pensò che in quel momento ne avrebbe avuto bisogno.
            Il sole era quasi totalmente tramontato e Sophia pensò se fosse il caso di accostare per la notte, non sapeva se e quando Ironhide avrebbe avuto bisogno di riposare ma quasi non ci fu bisogno di chiederlo quando si accorse che erano vicini alla città principale del Montana, Helena.
            «È meglio se riprendiamo il viaggio domani mattina, ancora non mi hai detto dove dobbiamo andare ma vista la fretta che hai immagino che non ci vorrà molto altro tempo»
All’improvviso Ironhide rallentò la velocità, fino ad allora quasi sempre fissa sugli oltre centonovanta chilometri orari, «Il punto di atterraggio nell’area ad ovest del continente»
            «Ascolta, abbiamo altri due giorni e probabilmente per domani pomeriggio saremo dall’altra parte del Paese senza problemi, io e Sam abbiamo bisogno di riposare però e probabilmente anche tu. Qui vicino… c’è la mia vecchia città, possiamo stare dai miei se vuoi» il tono con cui aveva detto le ultime parole era leggermente incerto e la presa che aveva sullo sterzo si rafforzò per un attimo.
Sophia accennò un sorriso quando sentì il motore scendere pesantemente di giri, dandole il chiaro segno di come fosse il suo turno di prendere il posto alla guida. Schiacciò la frizione e con un rapido cambio di marce rialzò il contachilometri e uscì dalla strada su cui viaggiavano quando intravide la segnaletica che dava per la città di Helena. Non ci volle più di un quarto d’ora per raggiungere una strada che non dava altro che su immense praterie per chilometri, le case erano poche e più che di cittadine si parlava di piccoli agglomerati urbani sparsi qua e là tra le colline.
            Clancy era una piccola cittadina di passaggio e una volta attraversato il quasi inesistente centro urbano, imboccarono l’unica strada battuta che conduceva nel cuore di quelle montagne che circondavano il paese. Le case erano poche e per la maggior parte erano circondate da enormi terreni recintati principalmente per i cavalli e altri animali da pascolo che circolavano liberi nelle loro zone.
La casa era abbastanza grande e su due piani quella davanti cui si fermò Sophia, parcheggiando vicino l’altro pickup presente di fronte il porticato. Le luci dentro la casa erano ancora accese e spegnendo il motore poggiò la fronte sullo sterzo ed espirò a fondo.
            Era quasi un anno e mezzo che non andava a trovare i suoi genitori e per parecchi mesi non li aveva sentiti neanche per telefono, erano stati tenuti informati sulle sue condizioni solo grazie alle chiamate del nonno che si preoccupava per lei in ogni momento. Quella decisione era stata una mossa non calcolata ma le era venuto d’istinto fermarsi qui una volta vista la segnaletica che aveva indicato loro di aver superato il confine del Montana.
            Il rumore attutito di una porta aperta e poi richiusa le fece alzare la testa e senza aspettare un secondo di più uscì dal veicolo lasciando la portiera aperta per permettere a Sam di scendere con lei, fedelmente al suo fianco. Sophia si ritrovò faccia a faccia con un uomo sulla cinquantina, i capelli corti e dal taglio militare lasciavano comunque intravedere qualche accenno di grigiore anche se il ramato era il colore predominante.
            L’uomo la superava di parecchi centimetri e squadrandola da capo a piedi rimase per un attimo in silenzio a guardarla, studiandosi entrambi a vicenda prima che sul suo volto un accenno di sorriso addolcì i tratti regolari del viso, «Usare quel maledetto cellulare proprio non ti entra in testa, eh?» la rimbeccò bonariamente l’uomo passandole un braccio attorno alle spalle e stringendola forte a sé senza dire altro.
            Sophia sorrise contro il suo petto e ricambiò debolmente, lasciando che l’odore familiare di casa lavasse via i pensieri negativi e gli orrori che continuavano a ripresentarglisi nella mente ogni volta che chiudeva gli occhi da quasi due mesi. Non ricordava l’ultima volta che il padre l’aveva abbracciata in quel modo; eppure, il tono che aveva usato era lo stesso di sempre, anche quando l’aveva sentito durante l’ultima missione in Iraq e dopo avergli dato la notizia della morte del suo compagno di squadra. La sua voce non era cambiata di una virgola, sempre calmo e pacato e poi con i gesti esprimeva tutto.
            John Alder aveva sentito la mancanza dell’unica figlia che aveva e quasi non gli sembrava vero che ora la stava abbracciando stretta a sé. L’aveva trascinata dentro casa con il cane al seguito e non aveva lasciato neanche alla moglie Patricia di interrompere il suo interrogatorio, voleva sapere tutto quello che era successo da quando era stata congedata. Sapeva della diagnosi da stress post traumatico e sapeva anche della terapia che stava seguendo con una psichiatra ma oltre quello le notizie su di lei erano state sempre più rare, salvo le settimanali chiamate in cui il padre, il nonno George lo chiamava per tenerlo informato.
Quella che aveva davanti era un’ombra però, era davanti a lui ma gli occhi castani erano spenti e il volto una maschera indecifrabile, persino a lui che non aveva mai avuto problemi o la minima difficoltà a carpire ogni minimo cambiamento nello stato della figlia tanto erano simili. Adesso però anche lui si arrese all’evidenza che qualcosa non andava, non pensava che i comportamenti insoliti che l’anziano gli aveva comunicato qualche settimana prima fossero un indice così importante di qualcosa di più grave. In fondo, saltare qualche appuntamento poteva capitare o l’insonnia che a volte colpiva anche lui, retaggi probabili della vita militare e che ancora si facevano sentire parecchi anni dopo aver smesso.
Qui qualcosa non andava, ma il comportamento di Sophia ad un primo impatto sembrava raccontare tutt’altro e prima che tutti andarono a letto, John sperò che quella volta il suo istinto avesse fatto cilecca.
…­­­­­
            «Non riesci di nuovo a spegnerti?»
Sophia scosse la testa, neanche certa che l’Autobot potesse vederla nella sua forma trasformata ma poco importava, il debole verso che fuoriuscì dalla radio le diede conferma che l’aveva vista.
            «Anche tu sei ancora sveglio però» gli fece notare Sophia poggiando il gomito sul finestrino del passeggero e gettando uno sguardo fuori l’abitacolo, dove intorno ancora era tutto buio e tranquillo.
            «Controllavo che nessun Decepticon fosse nelle vicinanze» puntualizzò allora il Topkick, una nota rude nella voce metallica.
Sophia emise un lieve suono per fargli capire come avesse sentito le sue parole e i due rimasero in silenzio per un paio di minuti. Nonostante l’ora tarda era completamente sveglia e questa volta non era a causa del sonno leggero o dei rumori del nonno mentre dormiva.
            Con lo sguardo perso fuori per un attimo si beò della tranquillità di quella cittadina minuscola sperduta nel Montana. Anche se vicino il grande centro cittadino di Helena, Clancy era abbastanza piccolo come paese e non era difficile affermare come tutti si conoscessero tra di loro. L’aria pulita e la boscaglia a ridosso della sua vecchia casa e del terreno di famiglia le trasmettevano una pace che non provava da diversi mesi, permettendole di tornare a respirare senza la costrizione di un peso sul suo petto.
            «Non sembri felice di esserti fermata qui, potevamo anche continuare il viaggio di notte» commentò Ironhide interrompendo pacatamente quella quiete che si era venuta a creare tra i due.
Sophia spostò lo sguardo verso la radio e passò distrattamente una mano sopra il sedile in pelle, tracciandone delicatamente ghirigori immaginari con la punta delle dita, «Sarebbe stato peggio che i miei avessero saputo che ero passata di qui senza fermarmi a salutarli o evitare le chiamate di mia madre. Questo era il male minore»
            «Ma così sei tu che non hai la possibilità di ricaricarti – puntualizzò allora l’Autobot, con fredda e pura logica, -Possiamo anche andarcene adesso se vuoi, piccoletta»
            La donna scosse leggermente la testa, accennando un sorriso a quel nomignolo, «Se vuoi beccarti dei fori nella carreggiata da mio padre, fa pure»
La voce di Ironhide si acquietò per qualche secondo prima di borbottare qualcosa in un insieme di incomprensibili ronzii e rumori metallici. Non sapeva di cosa stesse parlando ma dal tono non era difficile immaginargli come si fosse dissuaso da quella fuga in piena notte.




--- Note ---
La storia è parecchio breve rispetto ai miei standard ma è comunque abbastanza lenta, sinceramente non avevo intenzione di pubblicarla né qui né su wattpad avendola scritta più per sfizio personale ma almeno gli do un senso.

Ciarax
   
 
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