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Autore: Ciarax    18/11/2021    1 recensioni
Le stelle cadenti hanno un significato positivo e costituiscono un'imperdibile occasione per esprimere un desiderio, quando brillano e illuminano il cielo immerso nell'oscurità, ignari che quello non è che il riflesso pallido della loro esistenza.
Quello che le persone ammirano con tanta adorazione non è che il residuo, la scia di quella che una volta bruciava di passione, la stessa passione che si era lentamente spenta in Alexis. Solo l'ombra di quello che alimentava il suo spirito libero.
Era difficile immaginare un incontro tanto casuale da essere in grado di ribaltare la sua visione della vita, alimentando silenziosamente quella piccola e flebile fiamma nel suo petto.
Dal testo:
'Alexis Nyla Allen. Vent’anni. Studentessa. Questo era quello che chiunque avrebbe potuto leggere sul quel maledetto pezzo di plastica che racchiudeva semplicemente parole. Parole che non dicevano assolutamente niente di lei, di ciò che era o pensava.'
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Donatello Hamato, Leonardo Hamato, Michelangelo Hamato, Nuovo personaggio, Raphael Hamato/ Raffaello
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo II
 


I’m just another shooting star disappearing in the dark
When we fall, we fall so hard


Buio pesto.

Era l’unica cosa che i suoi occhi sembravano percepire per un lungo minuto, prima di abituarsi lentamente e riuscire ad intravedere qualcosa dalle lenti degli occhiali completamente sporche e annebbiate. Ci mise qualche secondo a capire di star tremando, il freddo pungente che filtrava tra i vestiti bagnati e appiccicatisi alla pelle; i capelli rimasti miracolosamente asciutti ma liberi dalla costrizione del cappuccio che ora era alle sue spalle.

«È solo la metropolitana, è solo la metro… -bisbigliò tra sé e sé cercando di rallentare inutilmente il respiro, -solo più angusta e puzzolente…cazzo» Imprecò a denti stretti quando raggiunse l’ennesimo bivio.

Detestava ammetterlo ma non aveva la più vaga idea di dove fosse finita, impossibilitata a chiamare qualcuno anche volendo, il telefono completamente fuori uso dopo il tuffo in acqua. Nel punto in cui si era buttata non c’era alcuna scala o qualcosa su cui far presa per uscire, non che si sarebbe azzardata comunque, il rischio che quei tre energumeni fossero ancora lì in giro a cercarla era troppo alto anche solo per dare una possibilità.

Per quanto fossero anni che non ne avesse, le palpitazioni e la ben conosciuta sensazione di pesantezza al livello del cuore non le facevano presagire nulla di buono, mentre cercava di non avere alcun attacco di panico in quel momento. Non avrebbe avuto modo di chiedere aiuto, si sarebbe solamente scavata la fossa da sola, incerta persino di riuscire ad uscire con le sue sole forze.
La magra speranza di trovare un altro punto in cui poter uscire sembrò essere l’unica cosa a tenerla ancora lucida abbastanza da non andare in iperventilazione, mordendosi l’interno della guancia quando si accorgeva di rimuginare troppo su quella situazione decisamente a suo sfavore. Non aveva mai creduto di essere sfortunata ma quella giornata proprio sembrò volerle dimostrare ardentemente il contrario.

Per quanto il suo desiderio di cambiare e movimentare la sua vita, che iniziava a sentire sempre più stretta, fosse forte; in quel momento una escursione per le fogne di New York la portò solamente ad un bivio dopo l’altro. Quell’intricato sistema di tunnel e tubature si estendeva a ragnatela sotto l’intera metropoli, per quanto ne sapeva poteva essere sotto Central Park o a Chinatown. Poco importava in realtà quando, per tutto il tempo, non aveva incontrato nessuna scaletta o qualsiasi cosa che l’aiutasse ad arrampicarsi sopra le grate di alcuni tombini che incontrava sempre più di rado.

«Tunnel buio… o tunnel ancora più buio?» domandò a nessuno in particolare, sentendo la propria voce riecheggiare tra le pareti umide.
«Come faceva quella dannata filastrocca… - borbottò alla fine al limite della sopportazione, passandosi la mano tremante tra i capelli e continuando a girare in tondo sul posto, -alla destra… delle viole?... mentre a sinistra… risplende il sole!»

Alexis piroettò sul posto prima di battere il piede a terra e fermandosi esattamente con la testa rivolta verso il tunnel alla sua sinistra. Di sfuggita, era uguale a quello che si stava lentamente lasciando alle spalle: l’umidità e la muffa che filtrava dalle pareti di mattoni crepati in più punti, l’acqua torbida che lentamente refluiva nel canale centrale, gli squittii rari e distanti di ratti…

Non ci sarà il sole ma si sente odore di pizza.

Pizza… che la fame le stesse giocando un brutto scherzo? Alexis si bloccò dopo meno di una decina di metri che aveva imboccato quel nuovo tunnel, abbastanza grande rispetto agli altri da non provocarle spiacevoli costrizioni al petto mentre tentava di tenere a bada una claustrofobia di cui non aveva mai sofferto.

«Ci deve essere un punto di uscita se si sente odore di pizza qua sotto» mormorò poi riprendendo la lenta esplorazione sperando finalmente di aver preso l’uscita giusta.
Dopo solo altri venti passi qualcos’altro per poco non le fece venire un infarto, saltò sul posto reprimendo a forza un urletto stridulo per la sorpresa. Qualcosa vicino il suo piede si era appena illuminato e continuava a lampeggiare ad intermittenza emettendo un suono simile ad un allarme, riecheggiando tra le pareti che restituivano un eco alquanto lugubre in risposta.

Accelerò il passo istintivamente ritrovandosi a correre alla cieca, ignorando involontariamente il buio e dirigendosi senza pensare verso un’altra biforcazione. Aveva proseguito a lunghe falcate rischiando più volte di scivolare di nuovo in quell’acquitrino mentre si ripeteva sottovoce quella nenia che da piccola la aiutava sempre a rallentare il respiro e in qualche modo a tenersi ancorata a quello che la circondava.

Il rumore di quell’allarme era oramai distante e fu una serie di forti rumori provenire da una delle biforcazioni alla sua destra che attirarono la sua attenzione. Bloccandola nel mentre di compiere l’ennesimo passo, si fermò.

O sono impazzita… o qui c’è qualcuno.

Sopprimendo il proprio istinto di sopravvivenza che urlava ad ogni fibra del suo corpo di tornare indietro e tentare un’altra strada, Alexis mandò giù il groppo in gola che per un attimo le impedì di respirare, «Qui o c’è qualcuno che mi può aiutare o morirò divorata dagli alligatori delle fogne»

«Com’è possibile che non la trovi più?» riecheggiò d’un tratto una voce dal fondo del tunnel.

Alexis sgranò gli occhi dallo spavento, sentiva il sangue pomparle nelle vene ad un ritmo quasi insostenibile. Rallentò il passo prima di fermarsi in prossimità del punto di snodo con più canali di scolo, fiancheggiando il muro e tentando di riprovare per l’ennesima volta ad accendere il cellulare. Una singola vibrazione in risposta e poi nulla, era morto di nuovo lasciandola sola.

Non sono alligatori… ovviamente gli alligatori non parlano, ma chi diamine può vivere qui sotto?

Di senzatetto New York ne era strapiena, vivevano agli angoli delle strade secondarie, nei sottopassaggi della metropolitana e in qualsiasi buco abbastanza comodo per vivere in mezzo alla strada. Di certo le fogne non sembravano il punto ideale da usare come rifugio, angusto e maleodorante era anche fin troppo facile perdersi lì sotto.

«Un attimo prima era vicina il sistema di ventilazione! Ha iniziato a correre e l’ho persa» una seconda voce la riscosse dai propri pensieri.

Quegli sconosciuti, almeno due da quanto aveva sentito erano probabilmente ad una ventina di metri più in fondo. Le voci erano entrambe dal timbro inconfondibilmente maschile e, in un istinto innato di curiosità, Alexis fece appena capolino dall’angolo di muro dietro cui si era ingenuamente rintanata: quell’enorme tunnel sembrò portare ad una fine. Solo un rigagnolo d’acqua scorreva placidamente ai suoi piedi, mentre quella che doveva essere un’illuminazione di fortuna attenuava il buio pesto in cui era stata immersa fino a quel momento, troppo fioca per poter distinguere l’ambiente attorno a sé ma abbastanza da non farla sbattere contro qualche muro.

«Non può essere sparita nel nulla, Donnie»

Donnie?

«Ragazza? C’è una ragazza qui?» esclamò una terza voce, di poco più stridula e dal timbro giovanile.

Erano tre le voci che sembrò carpire in quel momento, ignorando i battiti del cuore che sentiva risuonare forsennatamente nelle orecchie. Non aveva modo di capire con estrema precisione di cosa stessero parlando, sembravano immersi in una discussione alquanto accesa e il rimbombo si sommava all’eco delle parole precedenti restituendole semplicemente un groviglio di discorsi incomprensibili.

Sobbalzò leggermente solo quando sentì l’ennesima voce, quella che era risuonata più autoritaria e bassa nel timbro tra le tre. Le sembrò che per qualche secondo tutto tacesse, facendole aggrottare la fronte e venire a conto che forse quello poteva essere stato tutto frutto della sua mente.

Un’impercettibile folata di vento le scompiglio i capelli prima che potesse anche solo processare quello che aveva appena sentito. Alexis emise un verso di dolore quando, balzando indietro per lo spavento, mise il piede in fallo finendo sedere a terra. Troppo concentrata sul dolore improvviso al fondoschiena non si accorse della seconda figura che corse dietro alla prima.
Le voci erano decisamente più distanti da quanto si sarebbe aspettata, le distorsioni e l’eco in quella fitta rete di gallerie e tunnel rendeva difficile orientarsi. Anche se qualcuno viveva lì, non c’era verso che avrebbe potuto muoversi con tanta agilità quasi in piena oscurità.

«Deve essere stato un ratto. Mi spavento anche con l’aria che respiro qui sotto» mormorò Alexis con un sospiro.

Non c’era nessuno lì sotto, era impossibile. Gli umani necessitano di luce per sopravvivere, lì le condizioni igieniche sarebbero state proibitive per chiunque. Doveva essere semplicemente la sua testa a farle scherzi decisamente fuori luogo in un momento delicato come quello: il semplice gocciolare dell’acqua l’aveva scambiato per un allarme e quelle voci non dovevano essere altro che dei ratti. Una colonia di ratti particolarmente rumorosa doveva essere nelle vicinanze, passando troppo tempo lì sotto deve essersi confusa solo per avere un minimo di conforto che ci fosse qualcuno lì oltre che lei.

«Questo si che è un problema»

La stessa voce autoritaria di poco prima. La conferma lampante che non doveva aver solo immaginato quelle voci, ma questo voleva dire che veramente qualcuno viveva in quello spazio angusto e dimenticato dal mondo.

Alexis non seppe con quale forza serrò la mascella, impedendosi in qualunque modo di emettere anche solo un fiato. Se fosse stata aggredita quello non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua situazione già in precario equilibrio: la caduta, anche se innocua le aveva tolto le poche energie rimaste. Le gambe erano scosse da piccoli tremiti, i muscoli spossati dal lungo tragitto che aveva percorso a dagli improvvisi scatti in corsa quando si era spaventata. Era coperta da vestiti zuppi d’acqua da quelle che potevano essere almeno un paio d’ore se non di più, con le temperature gelide delle notti newyorkesi riusciva a sentire la fatica che il suo corpo stava facendo per mantenerla ad una temperatura corporea accettabile.

«Ciao…»

Maschio. Non c’era dubbio. Troppo buio però per carpirne i tratti o a malapena seguirne la sagoma.
La voce era leggera, aveva parlato in modo lento come si parla ad un cucciolo spaventato. Forse fu quella innocente premura, magari anche involontaria, a spingere Alexis ad alzare di poco lo sguardo che aveva tenuto fisso a terra fino all’ultimo.

«Fermati, Mickey. Non ti avvicinare» lo riprese il secondo individuo, una nota più dura nella voce.

Non aveva paura di lei, questa era ovvio. Alexis aveva distinto chiaramente il proprio battito fermarsi per una frazione di secondo quando tutto quello che poté distinguere furono solo due sagome scure a pochi metri da lei. Non fu in grado di fermare lo stupido pensiero che forse… i tre ubriachi da cui era scappata prima sarebbero stati il male minore visto come si stavano evolvendo le cose.

«Ma non vedi come trema? È così piccola e indifesa» aggiunse quello che sembrò essere il più giovane dei due. Non c’era alcuna ostilità quando parlava, e per quanto trasudasse una certa impazienza sembrò quasi esserci uno sforzo nel mantenere un tono di voce più basso e pacato.

La stavano decisamente trattando come un animale selvatico appena abbagliato da fari di una macchina. Era in trappola e non poteva dar loro torto se quella era l’impressione che gli stava dando: sentiva il proprio corpo tremare dal freddo, dalla stanchezza che piano piano le intorpidiva gli arti e il lieve dolore alla caviglia su cui era caduta quando si era spaventata prima.

«Ci aspetta un lungo hashi» sospirò quello dal timbro inconfondibilmente più basso.

 
   
 
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