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Autore: muffin12    23/11/2021    6 recensioni
Doveva essere una serata normale, quella.
Un'amichevole di beneficenza, una rinfrescata veloce a casa, tutti tirati a lucido a festeggiare in un pub da quattro soldi lontani dalla decenza generale.
Atsumu avrebbe voluto bere un drink, ballare qualcosa, riuscire a vedere se poteva convincere il suo ragazzo a strusciarsi con lui in pista ma, ecco, quello svolgimento degli eventi non se l'aspettava.
Atsumu scopre nel modo più duro di avere una dignità.
Sakusa ... Sakusa no.
Genere: Comico, Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti!
 
Ho l’ansia. E quando ho l’ansia O mi do alle cotture pazze in cucina O penso roba strana. Dal momento che in questi giorni è meglio che non mi avvicini ai fornelli, ho scelto di buttarmi sullo scrivere qualcosa di stupido.
 
Non ha senso, non ha logica, dovevo solo sfogarmi. E rendere la vita di Atsumu un inferno.
 
Buona lettura!
 
 
 
When I Was Drunk
  
Una mano raggiunse il bordo inferiore della sua maglia, lenta e infida, oltrepassandolo per arrivare direttamente sui suoi addominali. I polpastrelli lo toccavano su, più su, fino a sfiorare quasi un capezzolo fin troppo interessato.
 
“NO!” Atsumu afferrò il polso – forte, ossuto, sacro – e lo tirò via. Unghie corte si aggrapparono alla sua pelle strisciando fino alla cinta dei jeans, cercando di infilarsi lì sotto con un obiettivo ben preciso e no, davvero, quello era infinitamente peggio. “No! Mani dove posso vederle.”
 
Sakusa sorrise. Aveva le guance dai rossi tondi come pomelli, i ricci sfocati che fuggivano da tutte le parti e gli occhi lucidi e un po’ vacui. Ma sorrideva, il grandissimo bastardo, sorrideva. “Cosa cambia?” Domandò. La voce era insidiosa, un accenno di sfida e tanta tanta sicurezza. Ne aveva da vendere, in quel frangente, ma non era bello sbattergliela in faccia in quel modo.
 
“Mi illudo di avere il controllo.” Brontolò Atsumu e Sakusa rise, incantandolo leggermente.
 
Fu un errore.
 
Approfittando delle due difese abbassate, si avventò sul suo collo come un fottuto vampiro, schiacciandosi contro di lui e, merda, era duro. Lo sentiva spingere contro l’anca come se volesse infilzarlo. “Omi, siamo in un vicolo.”  Piagnucolò Atsumu, perché quella situazione era tipo sedici volte più schifosa della media abituale e sapeva di non avere le forze per affrontarla. Ne era consapevole.
 
“Posso vederlo.” Lo sussurrò direttamente sotto la sua mandibola, succhiando piano per buona misura. Il suo ginocchio si alzò dritto tra le sue gambe ed era bello e forte e caldo e – cazzo, controllo Atsumu!
 
 “Quindi sai che il livello di igiene è praticamente nul- LE MANI!”
 
“Ma le stai vedendo.” Mugugnò Omi contrariato, risalendo con la bocca verso l’orecchio.
 
“Le voglio vedere lontane da me. Anzi, sai che ti dico?” Atsumu lo prese per le spalle e lo spinse, quel tanto che bastava per staccarlo con un POP! da sanguisuga. Non aveva calcolato lo stato effettivo del livello di stabilità di Sakusa, che si ritrovò a barcollare all’indietro come un manichino dai fili spezzati.
 
Nel panico, Atsumu afferrò il davanti della – costosissima – camicia del suo ragazzo, riportandoselo addosso e sentendo il sangue vagare gelato nelle vene. Sakusa, beata anima ubriaca, ridacchiò esilarato.
 
Doveva essere una serata normale, quella.
 
Un’amichevole di beneficenza, una rinfrescata veloce a casa, tutti tirati a lucido a festeggiare in un pub da quattro soldi lontani dalla decenza generale.
 
Atsumu avrebbe voluto bere un drink, ballare qualcosa, riuscire a vedere se poteva convincere il suo ragazzo a strusciarsi con lui in pista ma, ecco, quello svolgimento degli eventi non se l’aspettava.
 
Punto uno: non aveva bevuto nemmeno un bicchiere d’acqua.
 
Aveva toccato qualcosa di appiccicoso sul muro esterno del locale – quello su cui stava praticamente spalmato in quel preciso momento – e aveva virato dritto verso il bagno, facendo una fila infinita che era conclusa nell’attimo esatto in cui due tizi si decisero ad uscire dopo, a quanto pareva, una sveltina particolarmente focosa.
 
Raggiungere i lavandini era stata un’impresa epocale, riuscire a trovare un flacone di detergente ancora intero pura fortuna.
 
Non sapeva quanto tempo fosse rimasto là dentro. Sapeva solo che il suo livello di irritazione aveva raggiunto un picco sconosciuto alla scienza, perché in quel momento avrebbe potuto darsi al botta e risposta velenoso con Sakusa e fingere che non fossero preliminari strani, invece era bloccato tra un tizio che si faceva una canna – o almeno sperava fosse una canna -, uno che era arrivato direttamente fatto e tentando di convincerne un terzo – assolutamente andato - a togliersi dai coglioni, assicurandogli disperato che il cerbero a righe a guardia della porta non gli avrebbe fatto alcun male.
 
Punto due: non era riuscito a ballare.
 
Quando uscì dal bagno, spintonando una quantità oscena di gente neanche stessero regalando diamanti, vide Sakusa sorridergli e andargli incontro, prendendolo per le guance teneramente e ficcandogli la lingua in gola.
 
Quello lo scioccò.
 
Non poteva lamentarsi, per carità.
 
Il suo primo pensiero fu che finalmente – finalmente – Sakusa aveva capito che il PDA non era una qualche maledizione strana che gli avrebbe fatto cadere i capelli e che poteva iniziare con le coccole in piena vista, cosa che mai avrebbe creduto di poter anche pensare.
 
Il secondo fu che, effettivamente, la lascivia con cui Sakusa stava lavorando nella sua bocca stava a significare che doveva aver saltato la lezione sui PDA ed era passato diretto a quella sull’esibizionismo spinto. Le mani che raggiunsero il suo sedere, prendendolo a coppa e stringendolo possessive, sembravano confermare quell’idea.
 
Il terzo, sfortunatamente, fu che il suo alito e la sua bocca sapevano di alcool e zucchero. Non aveva saputo capire con precisione con cosa avesse a che fare, ma fu abbastanza da fargli strizzare gli occhi e maledire tutti i segaioli che bloccavano i bagni di questo mondo.
 
Punto tre:
 
Non c’era un fottutissimo punto tre, perché appena Sakusa aveva cercato di slacciargli i jeans, Atsumu lo aveva preso e lo aveva trascinato fuori da quel posto con l’intenzione di portarlo a mangiare qualcosa di grasso e unto, ingozzarlo con sei litri di acqua e ritornare a casa prima che facesse qualcosa di cui si sarebbe pentito. Non esattamente in quell’ordine.
 
Il suo unico errore fu di pensare che Sakusa avesse l’arrendevolezza tipica di Hinata, in quelle situazioni.
 
A sua discolpa, non aveva mai dovuto prepararsi ad un’eventualità del genere.
 
Fu una sorpresa, quindi, quando venne spinto al muro – appiccicoso – al di fuori del locale da Sakusa, che operava con un’unica cosa in mente, vento freddo sulla faccia e calore bollente sotto la sua maglia e su tutto il suo corpo.
 
Ed eccolo lì, a cercare di non far uccidere il suo ragazzo ubriaco per una spintarella leggera e tentare di camminare per arrivare alla macchina, che nella situazione di merda in cui si trovava non ricordava più dove avesse parcheggiato.
 
Non aveva mai visto Sakusa ubriaco. Non avrebbe mai voluto farlo.
 
Prese un sorso d’aria gelida che gli inondò la gola arsa, le palpebre socchiuse di stanchezza improvvisa.
 
Sakusa lo stava guardando e, cazzo, era bellissimo. Aveva smesso di ridacchiare, ma le guance erano ancora colorate, la bocca era lucida e gonfia e gli occhi, quei bellissimi occhi, chiedevano solo una cosa. Sakusa la esternò, non pienamente soddisfatto di limitarsi alle sole intuizioni. “Ti voglio ora.”
 
“No, Omi.” Atsumu sentì la sua voce distrutta, un piagnucolio lamentoso che gli usciva dalla gola e che tentava di non farlo piangere. “Non è vero.”
 
“Non mi vuoi?” E poteva vedere quel labbro sporgere in un broncio, lo sguardo intristirsi e quei ricci scomposti renderlo ancora più tenero. Aveva gli occhi lucidi, una lacrima che si stava raggruppando all’angolo e il naso che si stava arrossando velocemente e non voleva farlo piangere, davvero. Gli avrebbe dato tutto.
 
Atsumu aprì appena la bocca, pronto ad accontentarlo per qualsiasi cosa – sempre con decenza - perché era un pasticcio schifoso quando si trattava di lui, ma un piccolo, minuscolo, singhiozzo uscì dalla gola di Sakusa e lo riportò sui giusti binari, facendolo riprendere come uno schiaffo in faccia. “Sei tu che non mi vuoi.” Precisò secco, lasciandogli i polsi e poggiando le mani sulle sue spalle, allontanandolo.
 
“Ma io ti voglio.”
 
“Non è vero.”
 
Sakusa inclinò i fianchi in avanti, strusciandoglisi contro e sì, lo voleva, lo sentiva forte e chiaro. Atsumu strizzò le palpebre quasi a farsi male.
 
“Omi, se non stai fermo faremo qualcosa di indicibile in questo vicolo schifoso e me ne fregherò delle conseguenze, della tua crisi di nervi di domani e dei giorni a venire e dell’omicidio sicuro di cui ti macchierai quando ti ricorderai cosa è successo.”
 
“Mi sta bene.” Mormorò, facendosi ancora più vicino in un modo che, Atsumu ne era sicuro, era praticamente impossibile. Maledizione alla sua flessibilità, maledizione a quel corpo meravigliosamente elastico che riusciva ad appiccicarsi anche con le spalle tirate così lontane. La mano sinistra riuscì a raggiungerlo e Atsumu l’afferrò d’istinto. Sakusa si imbronciò di più. “Perché non mi lasci?”
 
“Perché a quanto pare ho una decenza.” Ringhiò a denti stetti. “Perché hai standard. E non vuoi scopare in questo posto.”
 
“Vuoi una sega?” Gli chiese e la domanda posta così candidamente riuscì a farlo impazzire. “Un pompino? Posso farlo.”
 
“Cazzo, che diavolo ti ha passato Bokkun?” Sakusa ridacchiò, allungando il collo per cercare di baciarlo. Atsumu tentò senza successo di fare un passo lontano dal muro. “Dove ne trovo di più?”
 
“Ho bevuto il suo drink.” Rivelò, riuscendo a liberare la mano. Atsumu lo vide fissare incantato il suo palmo per alcuni secondi come se gli stesse raccontando le storie della buonanotte, prima di decidere che era meglio utilizzarlo per raggiungere il cavallo di Atsumu.
 
“Hey, mani dove posso vedere. Ricordi?” Lo sgridò Atsumu, riuscendo a sfuggire da quella mano curiosa slittando con i fianchi di lato e intuendo una via di uscita. “Da quando bevi dal bicchiere di Bokkun?”
 
“L’ho rubato.” Oooh, questo spiegava tutto. O, meglio, non spiegava niente, ma almeno avrebbe avuto un compagno in meno da uccidere. “Era buono.”
 
“Omi, non si rubano i drink di Bokkun.” Anche perché Bokuto aveva l’anormale capacità di trovare la roba più distruttiva possibile e uscirne minimamente intaccato, era un cazzo di carro armato.
 
Sakusa non beveva spesso e, quando lo faceva, era sempre qualcosa di stranamente delicato e snob, come limoncello dei più profumati limoni italiani, champagne degli acini grassi coltivati nelle vigne del sud della Francia, vino rosé vomitato dagli invisibili unicorni rosa, roba da sorseggiare piano con aria di sufficienza. Non pachamama, cervello di scimmia, orgasmo urlante o qualsiasi cosa curiosa fosse scritto nel menù degli alcolici.
 
“E di Hinata.” Atsumu riuscì a fare un passo indietro ma Sakusa gli si spalmò addosso, attaccando la sua gola con la lingua. “E di Inunaki.” Ad Atsumu veniva da piangere.
 
“C’era qualcosa ordinato da te?” Domandò ironico, girando la testa per evitare un nuovo attacco diretto e – eccola! La sua ancora di salvezza! Lucida e punteggiata della brina della notte, in attesa, parcheggiata a circa tre metri da loro. Non era mai stato più contento di vedere la sua auto. “Omi, andiamo in macchina.”
 
Per tutta risposta, Sakusa gli portò le mani dietro la nuca, lo tirò a sé e lo baciò.
 
Era lento, languido, bagnato. Passava la lingua sul palato, giocava con la sua arricciandola possessiva e vogliosa, viaggiava sui suoi denti come a volerne imparare ogni cosa e muoveva quelle labbra in un modo che, davvero, era impossibile per qualcuno nel suo stato. Ma era sempre stato bravo a baciare, un’abilità di cui entrambi non erano a conoscenza fino a quando non avevano deciso di scoppiare nello spogliatoio parecchi mesi addietro.
 
E Atsumu era debole, cazzo, era sempre stato debole per quella bocca. Sentiva le ginocchia come gelatina e le membra andare a fuoco, le dita dei piedi che si arricciavano dentro le scarpe e la coscia di Sakusa sul suo inguine che lo invitava a muoversi, a spingere, a cercare un sollievo che non poteva permettersi. Gemette, perché era dannatamente bravo, perché era dannatamente bello, perché voleva finire la serata esattamente in quel modo con meno alcool in circolo e più lucidità nel cervello ma, avrebbe dovuto saperlo, niente andava mai come voleva.
 
Sakusa si staccò morbidamente, le labbra lucide di saliva e l’espressione appassionata e languida. Atsumu piagnucolò. “Ti prego, Omi, andiamo in macchina.”
 
“Lo facciamo là?” Sussurrò e mosse il bacino contro di lui, facendo uscire un lamento decisamente erotico da entrambi. “Senza preservativo.”
 
“Cazzo, non puoi dire cose del genere.” Lo sentì ridacchiare e dondolò di nuovo, il cervello che si riempiva velocemente di foschia. “Fermati.”
 
“Ma ti piace.”
 
“Lo so che mi piace, appunto perché mi piace ti devi fermare.” Sakusa ridacchiò di nuovo, staccandosi di qualche centimetro e Atsumu agì. Lo prese per il polso e lo trascinò verso l’automobile approfittando del momento, lo poggiò allo sportello e lo guardò accasciarsi lento sul finestrino mentre cercava le chiavi nel giubbotto. “Sei cattivo.” Lo rimproverò e Sakusa stirò un sorriso sornione. “Cattivo, ubriaco e cattivo di nuovo.”
 
“Hai mai pensato di farlo in macchina?”
 
Atsumu si morse il labbro tanto forte da fargli male, perché non doveva cedere. Sakusa stava là, morbido, le guance rosse e l’aspetto più accessibile del mondo, quel sorriso soddisfatto di chi sa quali bottoni premere per farlo esplodere.
 
Ovviamente ci aveva pensato. C’erano ben pochi posti in cui non aveva pensato di farsi un giro con il suo ragazzo, ma c’erano sempre stati quei limiti che lo tenevano con i piedi per terra, che lo ancoravano alla realtà. Sembrava fosse la serata giusta per fargli rimpiangere ogni fantasia sporca.
 
Aprì lo sportello posteriore. “Riesci a entrare da solo?”
 
 Sakusa inclinò la testa. “No.” Cinguettò ridendo e Atsumu imprecò in venti lingue differenti.
 
Seppe solo di avergli afferrato il braccio per aiutarlo. SI ritrovò invece seduto sul sedile con Sakusa in grembo e pensò malignamente che quello stronzo non fosse così ubriaco come voleva far credere. “Devo guidare.” Lo informò retorico sperando di instillargli un po’ di compassione. Fallì.
 
Sakusa cominciò a baciarlo e dondolare su di lui, cercando di togliergli il giubbotto con mani impacciate – e solo da quello capì che non lo stava prendendo in giro ed era veramente alterato. Sakusa era un bastardo concentrato quando doveva spogliarlo – riuscendo a farlo slittare dalle sue spalle e nient’altro. “Omi.” Cercò di chiamarlo e le sue labbra si spostarono sulla sua mandibola, leccando e mordicchiando, respirando forte. Stava diventando lento, più sciatto e per quanto gli piacesse, Atsumu capì che era quasi finito l’incubo. “Omi, dobbiamo andare.”
 
“Non voglio.” Piagnucolò, la presa che diventava piano piano sempre un po’ più debole. Sakusa risalì con le mani sul suo viso, accarezzandogli piano le guance prima di affondare le dita tra i capelli e baciarlo come se ne andasse della sua vita.
 
Atsumu ebbe un’illuminazione.
 
“Ma io voglio il letto.” Riuscì a dire con le labbra schiacciate contro le sue. Bastò quello per bloccarlo del tutto, vedendolo lentamente tirarsi indietro e sedersi sulle sue gambe, lo sguardo corrucciato di fiacco ragionamento. Poteva puntare su quello, inventarsi qualche bisogno completamente fasullo e sperare fosse di animo caritatevole. “Voglio andare lento, voglio baciarti e tenerti. Nel letto.”
 
“Io lo voglio duro.” Borbottò, cercando sicuramente di capire dove fosse l’inganno. Sakusa era intelligente, ma in quel momento era anche completamente andato e, se se la fosse giocata bene, Atsumu avrebbe avuto per la prima volta in assoluto la meglio. Era un evento da incidere nella pietra.
 
“Ma qua non c’è un materasso morbido.” Provò a dire e poté vedere limpidamente le rotelle del suo ragazzo girare affannate, cercando di aggirare la logica della frase. Stava tentennando, era ora di affondare il colpo. “Non vuoi farlo tra le lenzuola pulite?” Mormorò soave e vide la prima crepa, lì dritta nei suoi occhi. “Con il lubrificante, con le salviette.” Portò le mani sulle sue cosce coperte dai pantaloni, massaggiandole piano e affondando le unghie nel muscolo. “Andiamo per tutta la notte e poi facciamo la doccia.”
 
Lo vide leccare il labbro inferiore, mordendolo pensoso. C’era quasi, l’aveva quasi convinto, mancava solo un ultimo passo e l’avrebbe potuto mettere a dormire. Atsumu si giocò l’ultima carta. “Pulirò il divano.”
 
Era un po’ deludente vedere che fu quello a fare la magia. Ok, Sakusa si era sempre lamentato del sofà che Atsumu aveva comprato di propria iniziativa con una passione che non provava nemmeno per il disinfettante in offerta, voleva il divano di pelle perché quello in tessuto si sarebbe riempito di schifo in mezzo secondo – parole sue – ma che le sue abilità amatorie arrivassero seconde a qualcosa di inanimato, beh, era un bel colpo al suo orgoglio.
 
Sakusa gli diede un bacio leggero sulle labbra a suggellare quel patto disperato, poi smontò dalle sue gambe goffamente per accomodarsi, docile per la prima volta in tutta la serata, sul sedile posteriore. Atsumu mise da parte la stilettata contro la sua mascolinità e si sbrigò a legarlo con la cintura di sicurezza. Lo vide sbadigliare e lasciarlo fare, accoccolandosi meglio con la testa contro il finestrino.
 
“Ora andiamo a casa, ok?” Arrivato al posto del pilota, accese la macchina e riuscì a rilassarsi completamente con il rombo morbido del motore che gli arrivò alle orecchie. Respirò tranquillo per la prima volta.
 
“Volevo davvero farlo in macchina.” Sentì borbottare dietro di lui, il tono di voce deluso e quasi rise.
 
“Omi, ti giuro che è ampiamente sopravvalutato.” Il tragitto non era lungo, fortunatamente. Una decina di minuti in tutto. Non sarebbe sopravvissuto, altrimenti, a quello che uscì dalla bocca del suo ragazzo subito dopo aver detto “Insomma, non siamo più adolescenti.”
 
“Ci penso da quando ci siamo incontrati la prima volta.” Atsumu frenò a secco scattando con la testa indietro a guardarlo e soltanto tutti gli dei di Kita-san gli permisero di farla franca con la strada completamente vuota a quell’ora infame. “Quando eravamo ad-“ Lo vide corrucciare le sopracciglia, la testa contro il vetro. “Adol-”  
 
“Cosa cazz-”
 
“-enti. Adolenti.” Era arrivato al punto di inventarsi parole ma, in quel momento, era solo troppo allibito dalla rivelazione per prestargli la doverosa attenzione. “Eri veramente odioso.” Sospirò Sakusa, guardando fuori dal finestrino, calmo e sonnolento. Stava combattendo contro la stanchezza arrivata tutta d’un tratto, cercando di tenere gli occhi aperti. Sbadigliò di nuovo. “Ma volevo sapere.”
 
“Ti decidi a dirlo adesso? Quando non so nemmeno se domani ricorderai qualcosa?”
 
Mormorò roba incomprensibile, sistemandosi meglio con il collo. “Omi, amore della mia vita, non puoi dire queste cose e addormentarti.” Ma ormai l’aveva perso, le palpebre basse e le ciglia curve sulle gote. Un cherubino di più di un metro e novanta estremamente molesto che gli aveva appena rivelato qualcosa che non avrebbe mai dovuto ascoltare.
 
Era questa la sua vita, adesso. Morire dietro a quel bastardo, preferendo averlo addormentato al sicuro che ubriaco in un locale.
 
Atsumu ringhiò, strofinandosi la faccia con palmo forte. Non aveva bevuto nulla, eppure quella rivelazione gli fece ronzare la testa come se fosse brillo.
 
Sakusa cominciò a russare piano e Atsumu, con un sospiro, decise di ripartire.
 
Una volta arrivati, avrebbe dovuto comprare da asporto in qualche fast food schifoso, preparare acqua e aspirina e venti litri di caffè. Sperò che Sakusa si fosse solo appisolato e che, un po’ l’aria fredda della notte, un po’ il tempo, riuscissero a renderlo un po’ più lucido e collaborativo.
 
L’indomani gli sarebbe scoppiata la testa e sarebbe stato insopportabile, sperando non fosse il tipo da vomitare anche l’anima, ma non era un problema di adesso.
 
In quel momento, doveva solo pensare a trovare il modo di riuscire a fargli fare le scale di casa.       


 
   
 
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