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Autore: holls    02/12/2021    7 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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12. Universi paralleli

 

 

La prima volta che strinsi Oliver tra le mie braccia credetti di morire. Lo avevo adocchiato a una festa di amici ed ero rimasto subito colpito dal suo modo di esprimersi. Ogni frase trasudava conoscenza e cognizione, era sempre informato su tutto ma non ostentava superiorità. Le sue conversazioni spaziavano dalla politica alla musica di ogni genere, uno sconfinato panorama di interessi pronti a colmare ogni momento morto della sua giornata.

Piano piano, cominciò a riempire anche i miei, di momenti morti. Poi cominciò a riempire anche quelli vivi. Cominciò a riempire l’aria che respiravo e la mia stessa esistenza, senza che me ne rendessi davvero conto.

Quando ci abbracciammo la prima volta, come due amici, capimmo entrambi in quel momento che c’era di più, qualcosa che lui non riusciva a trovare nemmeno nel bagaglio di conoscenze che portava sempre con sé, ma che io riconobbi subito: amore.

Abbracciarsi fu come ritrovarsi, da amici ad amanti; il passaggio a un bacio fu impercettibilmente breve, quasi obbligato, una meta su cui entrambi sostavamo da tempo e di cui ci eravamo accorti solo in quel momento.

Quando le mie braccia si strinsero attorno al corpo di Nathan, invece, non ottenni nessuna rivelazione.

Mi aveva colto alla sprovvista e io avevo risposto altrettanto istintivamente, ma non avevo trovato le risposte che cercavo.

La sua schiena era calda e il suo busto entrava perfettamente nella mia stretta; la pelle del viso odorava di bagnoschiuma e, dai capelli, emergevano pungenti residui di tabacco.

Si staccò poco dopo con un sorriso, lasciandomi appena il tempo di capire cos’era successo.

Il mio primo contatto intimo dopo tanti, lunghi mesi.

L’unica cosa che quell’abbraccio ebbe in comune con quello di Oliver fu la sua scontatezza: stringere Nathan tra le mie braccia mi era sembrato un gesto naturale, un conforto da amico ad amico, e così rimase.

Forse speravo in una risposta. Forse speravo di riuscire a catalogare ciò che avevo sognato due notti prima, di poter dare un nome a quella sensazione che, anche in quel momento, mi sconquassò lo stomaco di fronte al suo sorriso dolceamaro.

È facile affrontare i propri fantasmi, quando hanno un nome; etichettare i sentimenti serve a esorcizzarli, e per me era sempre stato così semplice, abituato com’ero a organizzare i pensieri.

Invece osservavo Nathan e non capivo, non ci riuscivo; e quando lui aprì la bocca per dire qualcosa, io sperai solo che quei pensieri sparissero, come con un mal di testa fastidioso.

Passerà, mi dicevo.

«Scusa se sono piombato qui all’improvviso. Non disturbo, vero?»

Cercava di sorridere, ma in piccoli istanti il suo volto si rabbuiava, per poi tornare sereno quando posava nuovamente i suoi occhi sui miei.

«Figurati, ho appena finito di cucinare.»

Drizzò il capo verso la cucina e sbirciò con occhi curiosi, poi arricciò il naso per indovinare cosa avevo preparato.

Rimase molto sorpreso dal mio pollo al curry, effettivamente molto diverso dalla pizza a domicilio; sollevò poi il coperchio del tegame contenente piselli aromatizzati e mi parve soddisfatto.

«Wow. Sembra tutto molto buono.»

Quella fu l'ultima cosa che disse, prima di appoggiarsi al bancone e lasciare che il suo sguardo si perdesse nel vuoto. Cadde in un muto silenzio, fissava i tegami ma guardava oltre, e per un po' lo lasciai fare, mentre finivo di inzuppare il pollo nella salsa al curry. Quando mi accorsi, però, che sembrava essere stato risucchiato dai suoi pensieri, capii che era davvero successo qualcosa e che le mie intuizioni ancora una volta si erano rivelate giuste.

«Tutto bene?»

Lui uscì da quella sorta di trance, ma non fece in tempo a mettere su un finto sorriso, così si arrese e scosse il capo.

«Non proprio.»

Spostava gli occhi da una parte all'altra, come se dentro di sé stesse tenendo un discorso concitato che riusciva a esprimersi solo così.

«Vuoi andare in terrazza?»

Aprì la bocca per dire qualcosa, poi il suo sguardo fu catturato dai tegami, dai quali usciva un spiffero di fumo che si faceva strada verso l'alto.

«Non ti preoccupare, ceniamo.»

«Ho messo il coperchio apposta», e indicai i tegami coperti, in modo che contenessero il calore. «Possiamo anche mangiare tra mezz'ora o un'ora. Per me non fa differenza.»

Fissò la cena ancora una volta, come per valutare; poi sfilò sigarette e accendino dalle tasche posteriori, dopodiché mi sorrise.

«Cominci anche a leggermi nel pensiero.»

Mi superò e si diresse verso la terrazza, lasciandomi lì a pensare se quello fosse o meno un complimento. Lo raggiunsi che lui aveva già acceso la sigaretta, che aspirava con aggressività: ogni volta che se la portava alla bocca, la cartina bruciava molto più del solito.

«Harvey?»

Non era passato tanto tempo da quando ci eravamo lasciati e sapevo che si sarebbero visti, perciò ero quasi certo che fosse l'argomento giusto.

«Sì.»

Fece un altro tiro ed espirò molto rumorosamente, quasi soffiando scocciato. Terminò quel tiro con un colpetto di tosse.

«Non è andata come speravi?»

Sbatté il braccio contro la ringhiera dove era appoggiato.

«Era il primo appuntamento, cazzo. Mi aspettavo di più di una scopata. Mi ha detto che aveva un impegno ed è andato via.»

Tra me e me pensai che non era stato granché romantico, in effetti.

«Magari aveva davvero un impegno, no?»

Il suo sguardo era accigliato. Aspirò in modo rapido e corposo, e buttò fuori quasi subito.

«Non lo so. Forse.»

«Cosa ti fa pensare che non sia così?»

Tossicchiò un'altra volta. Mi domandai se avrebbe potuto soffocare.

«È una sensazione. Ti capita mai di avere delle sensazioni che non sai definire, ma che sai che sono giuste?»

Lo sapevo eccome. Una era proprio di fianco a me.

«Sì, mi è successo.»

«Ecco. Io me lo sento. Cioè, non lo so. Penso molte cose tutte insieme. Forse troppe.»

Alla fine, anche io non avevo altro che sensazioni su Harvey. Non potevo spacciargli i miei pensieri per verità.

«Io non sarei così negativo. Sono sicuro che ti manderà un messaggio per scusarsi e ti chiederà di vedersi ancora.»

Lui sbuffò, accompagnando quella risatina con un colpetto di tosse.

«Non lo so. Sarebbe bello se accadesse, ma non è proprio il tipo.»

Calò il silenzio e mi accorsi che tirava con più tranquillità, come faceva di solito. Il vento cambiò direzione e il suo fumo mi finì in faccia, per dissolversi poco dopo. Era acre e pungente, ma non era la stessa cosa che avevo pensato quando avevo annusato i vestiti per vedere se era il caso di lavarli. Non era nemmeno la stessa cosa che avevo pensato nel sogno.

«Tu credi davvero che mi scriverà?»

Nei suoi occhi, lessi tutta la speranza per quell'amore appena sbocciato. A me sembrava già appassito, ma non ebbi il coraggio di dirglielo.

«Se ti vuole davvero rivedere, direi proprio di sì.»

«Secondo te sono uno che vale la pena rivedere?»

In fin dei conti, io e lui eravamo lì, insieme. Mi resi subito conto che non era una risposta che potevo dare: troppo ambigua. Eppure sì, valeva la pena rivederlo. Era simpatico, ma non era nemmeno questo che voleva sentirsi dire. Non sapevo cosa rispondergli.

Lui ridacchiò.

«Scusa, era una domanda stupida. Volevo solo chiederti se ho qualche possibilità di interessargli davvero.»

«Io penso di sì. Ti ha cercato diverse volte, in fin dei conti. Non l'avrebbe fatto, se non avesse provato interesse per te.»

Sul viso gli spuntò un sorriso timido. Fece l'ultimo tiro ed espirò rapidamente come faceva sempre. Sembrava quasi che finire la sigaretta lo scocciasse.

Rientrammo in cucina e lui volò verso i fornelli. Poi sfoderò il suo sorriso migliore.

«Allora, mangiamo? Ho una fame da lupi.»

 

«Ah, era tutto buonissimo!»

Nathan si massaggiò lo stomaco e poggiò la testa sul muro dietro di sé.

«Mi fa piacere. Potresti imparare a cucinare anche tu.»

Lui ridacchiò e, per un attimo, mi sembrò essere tornato il ragazzo che avevo conosciuto subito dopo la rapina. Era bravo a mettere su quella maschera allegra, ma pensai che in quel momento, forse, era davvero felice.

«Nah, è faticoso. Ci vuole troppo tempo.»

«Questo è vero, un po' di tempo ci vuole.»

«E allora perché lo fai?»

I primi tempi, Oliver tornava sempre mezz'ora dopo di me, più o meno. Il desiderio di preparargli qualcosa di decente era nato in maniera spontanea.

«Mi auguro che tu possa scoprirlo presto.»

Lui rise ancora e mi fece piacere vederlo così. Sembrava che anche la sua malinconia se ne fosse volata via in cielo.

«Che risposta zuccherosa. È quasi imbarazzante.»

Ridemmo entrambi e, in quel momento, avvertii una sintonia che non provavo da tempo. Non c'erano ostacoli nelle nostre chiacchierate, non c'erano silenzi imbarazzanti e, anche se la conversazione moriva, non mi sentivo in dovere di trovare subito qualcosa da dire.

Poi mi piaceva osservarlo. Avevo appena scoperto dell'esistenza del sigarettometro: mi sarebbe bastato osservare come fumava per capire cosa gli passasse per la testa. Poi c'erano i suoi sorrisi e i suoi sguardi: una qualsiasi combinazione delle due cose era sufficiente per capire se faceva lo stupido per imbarazzo o perché era felice, come in quel momento.

Pensai che ogni persona nuova era come un universo parallelo, lì da sempre, ma visibile solo quando entra in collisione col nostro. Da quando avevo conosciuto Nathan, avevo imparato tutta una serie di cose a cui non avevo mai fatto caso, cominciavo a considerare normali abitudini che avevo sempre trovato stupide e a soffermarmi su odori che, un tempo, avrei solo ignorato e disprezzato.

Mi sembrò quasi di aver vissuto un'intera vita in una campana di vetro. Ero stato bene o male sempre con le stesse persone, a contatto con modi di pensare simili al mio e con persone che avevano quasi sempre la mia stessa opinione. Nathan era molto diverso dalle persone che avevo conosciuto. Spesso era sconclusionato, ma, in qualche modo, riusciva sempre a raccapezzarsi; si era infilato in un tipo di relazione che conoscevo solo per sentito dire e aveva vizi e abitudini che avevo sempre liquidato con un'occhiataccia. Eppure, non sapevo nemmeno io come, sedeva alla mia stessa tavola e mangiava il cibo che avevo preparato per entrambi; ci parlavamo come due amici e stavo lì ad ascoltare i suoi problemi.

Se me l’avessero detto, non ci avrei mai creduto.

 

Finimmo di cenare e mi aiutò a rigovernare. Ci buttammo entrambi sul divano e provai un immediato sollievo, non appena sprofondai nella morbidezza della seduta.

«Come si chiama il locale dove andremo stasera?»

«Webster Hall, lo conosci?»

«Certo che lo conosco, è famosissimo! E non ti facevo tipo da locali.»

«Sorpresa.»

Di certo, non potevo rivelare a Nathan il motivo per cui eravamo diretti al locale. Ash e io avremmo dovuto muoverci comunque con discrezione, quindi la presenza di Nathan non era poi così ingombrante per le indagini. Anzi, in parte mi faceva piacere. Ash e io non avevamo mai troppo da dirci, ma Nathan sarebbe stato il perfetto collante per quella serata, visto che aveva legato con entrambi.

Ripensai per un momento a ciò che era successo in centrale, quando aveva scoperto di Oliver. Lì avevo provato, per la prima volta, il senso di intesa che aveva pervaso tutta la nostra serata fino a quel momento. Mi domandai se la presenza di Ash avrebbe di nuovo interrotto quella magia.

«Tra quanto dobbiamo essere là?»

Diedi una rapida occhiata all'orologio.

«Ash passerà tra una mezz’ora circa.»

Si voltò verso di me e mi fissò con gli occhi di un bambino che ha appena visto il suo giocattolo preferito.

Ridacchiai.

«Va bene, cosa vuoi?»

«Ho quasi finito le sigarette.»

Feci spallucce, anche se avevo capito dove voleva andare a parare, ma era divertente vedere la sua espressione speranzosa che presto avrei contrariato.

«E quindi?»

«Le devo ricomprare!»

Mi divertii a punzecchiarlo ancora un po'.

«Fallo domattina, no?»

Si voltò verso di me e cominciò a sbraitare con tono disperato.

«Ma ne ho solo due! Non posso restare senza! Mi viene l'ansia. Dai, usciamo! Ci sarà, qui vicino, uno di quei posti aperti tutto il giorno, no?»

Io lo fissai serio e sospirai, lasciandogli intendere che i suoi problemi di astinenza non mi toccavano. Ma dopo aver giocato la carta della disperazione, usò quella degli occhioni imploranti. Alla fine, non trattenni più una risata e lui alzò le braccia in segno di vittoria.

«Uno a zero per me. Forza, mettiti le scarpe.»

«Agli ordini.»

E mi misi le scarpe.

 

Nathan camminava un passo avanti a me. Non appena se ne accorgeva, rallentava un poco per tornarmi accanto, ma non durava molto; era così impaziente che riprendeva subito a camminare un po' più veloce.

Questa sua astinenza mi fece sorridere. Sarebbe potuta anche scoppiare una bomba accanto a lui, ma il suo unico pensiero era comprarsi il pacchetto di sigarette. Aveva proprio bisogno di stringerlo tra le mani, come un bambino che ha bisogno dell'orsetto per dormire.

Non mi capacitavo di come potesse dipendere così tanto da qualcosa, ma forse era solo un modo come un altro per avere qualche certezza nella vita.

Non appena entrammo nel piccolo supermercato, si fiondò alla cassa, tanto che dovetti accelerare il passo per stargli dietro.

«Un pacchetto di Marlboro, grazie.»

Gli vidi tirare fuori dal portafogli una banconota da dieci e depositarla sul bancone, poi aprì anche il vano spiccioli. Credendo di aver avuto un'allucinazione, controllai il prezzo esposto sul cartellino: dodici dollari. Fu esattamente la cifra che gli disse il negoziante.

Ero sbigottito e quell'espressione mi rimase addosso anche quando fummo usciti dal negozio: costavano una follia.

«Grazie. Credevo di impazzire.»

«Ho notato.»

Lo osservai in adorazione del suo pacchetto e mi chiesi quante altre volte ancora avrei dovuto assistere a una scena come quella. Giunsi alla conclusione che quello era solo l'ennesimo meteorite che dall'universo di Nathan era piombato nel mio, dopo la collisione.

Continuai a trovare quel fenomeno assai interessante e mi domandai quante altre cose avrei potuto imparare stando con lui.

«Posso chiederti una cosa?»

«Finché non sono domande strane, va bene. Una volta un tipo mi ha fermato per strada e mi ha chiesto se poteva fotografarmi i piedi. Feticisti, strana gente.»

Scoppiai a ridere. Non ebbi difficoltà a immaginarmi la scena.

«No, no. Niente piedi.»

«Va bene. Spara.»

Accanto a noi passò una coppietta e aspettai che fosse abbastanza lontano. Nathan si voltò a guardarmi, in attesa che facessi la mia domanda.

«Tu fumi solo sigarette?»

Lui si fermò all’improvviso e io feci altrettanto, un passo davanti a lui. Il suo sguardo era incredulo e non stentai a crederlo. Probabilmente gli sembrava una domanda strana - e chi non l’avrebbe pensato? -, ma il mio era semplice interesse.

«Cos’è, una domanda-trabocchetto?»

«No, sono solo curioso.»

Lui continuò a fissarmi con quegli occhi a metà tra il serio e il faceto, per poi vederli propendere verso la prima opzione.

«Vuoi sapere se mi fumo anche gli spinelli? La risposta è no. Solo sigarette. E non mi interessano nemmeno le droghe pesanti. Quelle sì che ti friggono il cervello e io mi sento già abbastanza rincretinito di mio.»

Quella risposta mi sollevò. Non mi sarebbe cambiato niente all’atto pratico, ma l’idea di dover accettare solo qualche sigaretta era di gran lunga migliore del dover accettare tutto l’arsenale di droghe in circolazione. In ogni caso, pensai che saremmo comunque rimasti amici, qualunque cosa si fosse fumato.

«Una canna non ha mai ucciso nessuno, comunque. Adesso è il mio turno per le domande, giusto?»

«Prego.»

«Perché me l’hai chiesto?»

Ridacchiai. Ero quasi certo che fosse ancora convinto che lo stavo spiando o che stessi conducendo qualche indagine su di lui.

«Semplice curiosità, te l’ho detto. Non sono abituato a questo genere di cose.»

«Ah, giusto. Tu sei quello per bene e io il ragazzaccio da guardare dall’alto al basso.»

Di primo acchito pensai che fosse serio, ma poi sorrise amichevolmente e io feci lo stesso.

Continuammo a camminare verso casa, in una serata insolitamente silenziosa per essere a New York. Circolavano così poche macchine che era possibile, per un momento, ascoltare il suono del silenzio, mentre il rombo dei motori era ovattato e lontano. Alzando gli occhi al cielo, si poteva perfino scorgere qualche stella.

Nathan camminava ancora a passo svelto, eppure pensavo che ormai avesse sedato le sue ansie.

«Tutto bene?»

«Non devo fumare.»

«Oh, finalmente una frase intelligente.»

Si girò verso di me e mi fece una linguaccia.

«Seriamente! Sennò sforo la mia quantità giornaliera.»

«Complimenti per la tenacia.»

Lui mi guardò contrariato, mentre io osservavo la sua astinenza fare capolino. Non avevo davvero idea che potesse manifestarsi in quel modo; certo, lo avevo letto su qualche libro, ma la pratica differiva sempre dalla teoria, che spesso fatica a rimanere in testa. Invece, pensai che non avrei mai scordato quel modo isterico con cui si fregava le mani per poi metterle in tasca, tirarle nuovamente fuori e sfregarle, in un ciclo continuo.

Riprendemmo a camminare, ma lui era veramente irrequieto.

«Dai, distraimi.»

«È così forte questa crisi?»

«Sì, perché ho i pacchetti in tasca e non posso tirarli fuori!»

Allungai una mano verso di lui.

«Dalli a me, allora.»

Lui si fermò e io feci altrettanto; poi mi guardò negli occhi, come a cercare di capire se ci fosse un tranello sotto. Mi stava studiando come aveva fatto poco prima, ma, senza staccarmi gli occhi di dosso, sfilò i due pacchetti dalle tasche posteriori e me li porse.

«Non perderli, capito?»

Presi entrambi i pacchetti dalle sue mani.

«Stai tranquillo.»

«Non so cosa mi stia succedendo. È una cosa dell’ultimo periodo.»

«Forse è per via di Harvey.»

Nathan soffiò una risata.

«Non lo so. Non credo.»

Il suo viso si rabbuiò. Riprendemmo a camminare, ma poco dopo mi ritrovai avanti a lui: aveva allentato il passo. Osservava il marciapiede e il suo solito sorriso malizioso gli era sparito dal viso: sembrava lo stesso che aveva avuto prima di mangiare, ma non ero sicuro che fosse per lo stesso motivo.

Fu in quel momento che mi accorsi che non sapevo granché di lui, per quanto stessimo andando d’accordo; ed era più che normale, visto che ci conoscevamo da poco più di due settimane, ma l’intesa che si stava creando mi aveva dato l’impressione di conoscerlo da almeno qualche mese.

«Veramente hai incontrato qualcuno che voleva fotografarti i piedi?»

Lasciò che un sorriso di circostanza si insinuasse in mezzo alla malinconia che lo aveva avvolto.

«Sì, davvero.»

«Spero che tu non abbia accettato.»

«Figurati. Era un tipo innocuo, se n’è andato dopo che gli ho detto di no. I peggiori sono quelli che insistono. O quelli che ti mettono direttamente una mano sul culo.»

In quel momento, fui quasi contento di essere un tipo comune, che non suscitava la minima attenzione negli sguardi altrui.

«Stasera non dovrebbero esserci problemi, visto che è un locale per etero.»

«Davvero? Quindi non andiamo a cercarti un fidanzato?»

Mi lasciai scappare una risata e mi morsi la lingua subito dopo. Avevo bisogno di una balla, e in fretta.

«Stavolta non tocca a me.»

«Ho capito! Cerchiamo una ragazza per Ash? Figo! Ma perché vorrebbe portarsi dietro il suo amico gay?»

Balla numero due in arrivo.

«Sarebbe un po’ da sfigati andarci da soli, non credi?»

Arrivammo sotto al portone di casa. Infilai una mano nella tasca destra dei pantaloni e con due dita tirai fuori le chiavi.

«Mi fa strano sentire la parola ‘sfigati’ in bocca a te. Non è qualcosa che diresti.»

Girai la chiave nella toppa e spinsi il portone.

«Forse sono sotto una cattiva influenza.»

Aprii il portone e lasciai passare Nathan.

Lui mi rispose col suo sorriso malizioso.

 

Rimanemmo a chiacchierare finché non arrivò Ash. Nel frattempo, mi aveva riempito la testa con le sue paranoie da astinenza, insieme a domande sul locale e qualche gossip su Ashton. Quando montammo in macchina - io davanti e Nathan dietro -, fui quasi sollevato.

«Allora? Mi hanno detto che stasera vai a rimorchiare.»

Ash mi lanciò un’occhiata fugace che ricambiai senza destare sospetto, poi sorrise e mise in moto.

«Così pare.»

«Hai già adocchiato qualcuna? O andiamo a scatola chiusa?»

Nathan era un fiume in piena e Ash ne stava venendo completamente travolto. D’altronde, al telefono avevo avuto solo il tempo di dirgli che saremmo stati in tre, perché poi Nathan era uscito dal bagno e non mi ero potuto sbilanciare di più.

«Sembri quasi più eccitato di me.»

«No, è solo in astinenza da nicotina.»

Nathan si affacciò verso i sedili anteriori dove eravamo io e Ash, poi mi canzonò con una smorfia.

«Spiritoso. Guarda che il mio è un problema serio!»

«Almeno quanto il tuo dilemma sul risvolto dei pantaloni.»

Sentii una manata piombarmi sulla spalla, così mi voltai verso Nathan, che mi fece una linguaccia.

«Oh!», e il grido di Ash ci zittì tutti e due, «Si può sapere quanti anni avete?»

«Io ventuno, lui quaranta.»

Ashton scoppiò a ridere e io evitai di replicare per non trascinare quella stupida discussione. Mi misi a guardare fuori dalla finestra, ma c’era ben poco da osservare: eravamo quasi bloccati nel traffico.

Sentii un colpetto arrivarmi sul collo. Scattai subito verso Nathan, che però mi stava rivolgendo uno dei suoi sorrisi alla ‘Stavo solo scherzando’. Pensai che non aveva neanche bisogno di dirlo, perché non era un ragazzo cattivo e ormai stavo imparando a prendere i suoi scherzi come tali.

«Mi togli una curiosità, Ash?»

Nathan era tornato alla carica.

«Dimmi.»

«Perché ti sei portato dietro Alan?»

Non potevo vederlo, ma sapevo che Nathan stava per sghignazzare. Ce l’aveva sempre lì, sul punto di venir fuori.

«Non è ovvio? Mi servirà per rifiutare cortesemente le ragazze che non mi interessano.»

Nathan esplose come una bomba a orologeria. In realtà sorridevo anch’io, ma non volevo dargliela vinta.

Mi batté un’altra pacca sulla spalla.

«Complimenti, sei appena stato promosso a scacciamosche!»

Scossi il capo e sospirai.

«Eri così docile, un’ora fa.»

«Cosa sono, un cagnolino?»

Ridacchiai per l’immagine che mi si formò in testa. La ricompensa per essere stato buono era una carezza sulla testa e una sigaretta.

«Ragazzi, su. Siete peggio di una coppia sposata.»

Quelle parole furono una doccia fredda in piena estate, mai gradevole, neanche col caldo. Ci ero cascato. Mi ero addirittura ripromesso di non citarlo più nei miei pensieri e invece mi ero ritrovato a quel punto senza rendermene conto. Avevo perso la cognizione di ciò che, in quel momento, era giusto e sbagliato per mantenere viva la mia esistenza; così mi zittii subito e, per il resto del viaggio, mi limitai allo stretto indispensabile.

Ma Nathan e Ash erano così affiatati che non ci fecero neanche caso.

 

Davanti al locale c'era una fiumana di gente impressionante, sovrastata solo da una cappa di fumo che rendeva l'aria irrespirabile, ovunque uno si girasse. Ci mischiammo nella bolgia di gente, scegliendo uno dei punti meno inquinati e aspettando che le porte si aprissero. Nathan aveva lo sguardo perso verso un gruppetto di fumatori e immaginai che dovesse provare una grande invidia. Sorrisi all'idea che quel pensiero lo ossessionasse così tanto, ma in fondo una dipendenza era proprio questo. Sembrava la sua unica preoccupazione, un pensiero che potevi provare a spintonare via, ma che tornava alla carica per il contraccolpo.

Poco dopo, fu lui a distogliere lo sguardo da quello che doveva apparirgli come un’invitante fetta di torta, per tornare tra noi e ricominciare a tartassare Ashton.

«Allora? Che ragazze ti piacciono?»

«Alte, bionde e aggressive.»

Nathan scoppiò a ridere.

«Hai le idee chiare, vedo.»

Alzò quindi il mento per sbirciare tra la folla, forse in cerca dell'anima gemella per Ash... almeno fino a quella sera.

«Quella?»

Indicò una ragazza come l'aveva descritta Ashton, tranne per il fatto che appariva molto posata nei modi, particolare che non gli sfuggì.

«Nah, mi sembra troppo timida.»

Mi disinteressai presto della vicenda e lasciai che Nathan indicasse ad Ashton un altro mezzo milione di ragazze. Sembrava come la commessa che cerca di rifilarti qualcosa a tutti i costi mostrandoti ogni capo del negozio, anche se Nathan sembrava avere buon gusto.

Intanto, cominciava a fare fresco. Eravamo ancora fermi lì, a lasciare che la nuvola di fumo ci avvolgesse a poco a poco. Per via di questo, Nathan sembrò calmarsi almeno in parte.

Osservai il locale, un casermone travestito da discoteca, grazie all’insegna al neon e al logo che andava e veniva. Proprio nel momento in cui si illuminò completamente, il mio sguardo fu come catturato e lo riconobbi: il toro! Sbattei gli occhi un paio di volte, perché volevo esserne sicuro; e quando fui certo di non aver avuto un’allucinazione, scrutai l’insegna più a fondo, aspettando che tornasse a illuminarsi, e ogni volta ebbi la conferma che la mia vista non mi aveva ingannato. Il logo del Webster Hall era identico alle bozze trovate sul quaderno di Michael e somigliava, in un certo senso, ai disegni che qualche buontempone gli aveva lasciato sulla macchina.

Non sapevo ancora cosa potesse significare, ma capii che non poteva essere solo un caso; forse quei due elementi erano collegati. Mi appuntai mentalmente quel dettaglio che mi appariva così importante, poi tornai con la testa alla realtà, a Nathan e Ashton che discutevano di quale ragazza fosse più adatta al mio collega.

Io, però, non capivo quand'è che saremmo entrati.

«Scusate la domanda, ma cosa ci facciamo ancora qui in piedi?»

Nathan e Ashton si voltarono verso di me, cercando di capire se stessi dicendo sul serio.

«Di' la verità», disse Ash, «non sei mai venuto in discoteca, vero?»

L'espressione di Nathan era quella di qualcuno che sarebbe scoppiato a ridere da un momento all'altro e, per la prima volta dopo gli anni dell'adolescenza, mi sentii quasi in imbarazzo, il bambino di fronte agli uomini vissuti. Sapevo che era una sciocchezza, ma gli sguardi che mi puntavano addosso ebbero l'effetto di mettermi praticamente in soggezione. In quello di Ash lessi anche una punta di rivalsa.

«In effetti, no.»

I due si scambiarono un'occhiata complice e in me si fece strada un pizzico di indisposizione. Quando erano insieme, mi tagliavano fuori dal mondo: e se di Ashton poteva sembrarmi anche normale, non mi capacitavo di come potesse essere lo stesso con Nathan. Con lui avevamo anche avuto occasioni di maggiore intimità, eppure sembrava un'altra persona.

O forse ero io che non riuscivo a tenere lo stesso atteggiamento che avevo quando eravamo da soli?

«Comunque, stiamo solo aspettando che aprano», continuò Ash. «Ah, e mi raccomando: non perdere il bigliettino che ti daranno all'entrata.»

Io mi limitai ad annuire. Lo vedevo che fremeva dalla voglia di spiegarmi qualche altra cosa ancora, ma scelsi di non dargli quella soddisfazione. Cercai solo di tenere a mente di non perdere il bigliettino, a qualunque cosa servisse.

Dopo pochi secondi, si udì un mormorio generale e la gente cominciò a spingere.

Non mi ci volle una laurea per capire che potevamo entrare.

 

La prima cosa che notai fu l'assordante rumore. Se il volume della radio che Nathan aveva messo per andare alla festa mi era sembrato alto, quello superava di gran lunga ogni mia immaginazione. Impiegai qualche momento per abituarmi e per resistere all'impulso di scappare a gambe levate.

La seconda cosa che notai fu il gioco di luci: si accendevano e spegnevano ritmicamente, facendo apparire la realtà come una pellicola a cui manca qualche fotogramma. Per fortuna, quell'effetto finì quasi subito, per essere sostituito da un'alternanza del bagliore, che comunque lasciava sempre la pista in penombra.

Ricordando la mandria di persone ad aspettare fuori, mi domandai subito come potesse entrare tutta in quel locale che era già diventato strapieno. Ragazzi e ragazze si strusciavano tra loro senza poter fare altrimenti, tanto la pista era affollata e tanta la difficoltà di muoversi senza urtare qualcuno.

Sulla destra intravidi un ragazzo scuotere un cocktail in dirittura d'arrivo e intuii che fosse il bar. Sopra la testa, c'era un altro piano, forse un pochino più appartato e meno confusionario.

Le casse pompavano una musica oggettivamente perfetta per essere ballata: la batteria scandiva il ritmo veloce, il testo era pressoché inesistente, ma dava modo di seguire la melodia, piuttosto orecchiabile.

Ashton e Nathan avevano già cominciato a muoversi a ritmo di musica. Io provai a imitarli, ma mi sentivo ingessato e ridicolo anche solo a ripetere i loro movimenti; decisi che per il momento avrei rinunciato.

Nathan ondeggiava il corpo in modo molto sinuoso. I suoi movimenti seguivano il ritmo e sembravano espressione della stessa incisività della musica, dello stesso dinamismo. Era molto piacevole guardarlo; sembrava davvero un tutt'uno con la melodia.

Anche Ashton ballava tutto sommato bene, ma non come Nathan, a cui ogni passo sembrava suggerito dalla musica stessa, piuttosto che da qualche guida letta su un giornaletto.

Nathan si voltò poi verso di me, continuando a ballare e intonando le parole della canzone, anche se potevo solo vedere le sue labbra muoversi; mi mostrò poi qualche mossa e, con uno sguardo, mi invitò a fare altrettanto, ma non ne ero davvero capace. Mi affascinava la sua simbiosi con la musica, sembrava che non potesse vivere d'altro, sigarette a parte. Continuava a cantare quella canzone dal testo ripetitivo e banale, ma non sembrava interessarlo: a lui bastava cantare, essere sulla lunghezza d'onda della musica che lo circondava. Era la stessa cosa che avevo notato quando era passato alla radio il suo gruppo preferito: li aveva messi a tutto volume non per fare una tamarrata, ma per lasciarsene avvolgere.

Scendemmo in pista e, per quelli che a me sembrarono minuti interminabili, mossi il mio corpo a ritmo di musica, come Ash e Nathan. Mi costò un notevole sforzo: mi sentivo gli occhi di tutti puntati addosso, li vedevo ridacchiare ed ero quasi certo che parlassero di me. Il mio imbarazzo era tale da farmi diventare quasi paranoico. Fare l'asociale era l'ultima delle mie intenzioni, ma a poco a poco mi era diventato difficile anche muovere un solo muscolo. Lì dentro, poi, faceva un caldo pazzesco, fattore che accentuò il tremendo disagio che stavo provando.

Feci cenno agli altri due che mi sarei diretto verso il bar: Nathan annuì semplicemente, mentre Ashton si sentì in dovere di mostrare tutto il suo disappunto per la mia decisione. Quella sera era davvero insopportabile.

Mi feci largo tra la folla, a suon di gomitate e spintoni - di certo non potevo chiedere loro di spostarsi. Mi irritava sentire la loro pelle strusciarsi sulla mia, le loro facce scocciate perché avevo interrotto il loro divertimento, vero o presunto; e quando arrivai, finalmente, in un punto dove quei ragazzi non mi stavano attaccati come amebe, ebbi la necessità di ripetere a me stesso perché ero lì.

È solo per le indagini, mi dicevo.

In quel momento, sentii la mancanza del divano di casa e delle coccole di Oliver. Mi venne spontaneo voltarmi e osservare tutta quella gente, tutte quelle persone che non significavano niente per me. Non avevo più la complicità e l'affetto di nessuno, nemmeno l'amicizia di qualcuno che mi spiegasse a cosa serviva la tesserina che mi avevano dato all'entrata, anche se la scritta "Una bevuta" mi aveva aiutato abbastanza.

Dovevo contare sulle mie sole forze per affrontare ogni problema, anche il più banale. Se cedevo, mangiavo la polvere. E se non riuscivo a rialzarmi, cadevo a terra. Ero invisibile agli occhi di tutte quelle persone, come loro lo erano per me. Occhi che vedono, ma non osservano, che lasciano correre.

Con l'ausilio dei gesti, riuscii a ordinare una bibita non troppo alcolica, ma anche se lo fosse stata non mi sarebbe importato più di tanto.

Non mi importava più di niente e di nessuno, e non era un buon segno. Ricordavo l'ultima volta che era successo: ero steso a letto, pancia in giù, una mano sotto il cuscino. Mano che aveva sfiorato il calcio della pistola, che aveva accarezzato tutte le sue curve, che aveva studiato il grilletto.

Poi l'avevo afferrata. L'avevo impugnata. L'avevo trascinata fuori dal suo nascondiglio e l'avevo osservata da ogni angolazione. Avevo anche sentito quando poteva essere freddo il metallo sulla tempia.

Ma poi avevo sentito la voce di Oliver, da qualche parte. Mi pregava di andare avanti, anche per lui, e io stavo cercando di esaudire il suo desiderio.

In quel momento però non riuscivo a sentire niente. La musica era così forte da sovrastare ogni pensiero e il suo battito cercava di sovrastare il mio, di guidarlo.

Mi accorsi che il mio drink era pronto; porsi la tesserina e, senza sapere nemmeno cosa ci avesse fatto il barista, la ripresi quando lui me la porse.

Bevvi per inerzia, non sentivo alcun sapore. Semplicemente, non mi importava. Non mi importava niente nemmeno delle indagini. Che giustizia potevo cercare per gli altri, se ero io il primo a non averla avuta? 

Strinsi forte il bicchiere e cercai di resistere a quelle mani invisibili che mi si stavano stringendo intorno al collo, che mi toglievano l'aria e che mi dicevano quanto era impossibile uscire di lì. Una gabbia, una prigione che mi avrebbe soffocato, perché non c'era scampo, nessuna speranza per il futuro, di cui non mi importava. E quelle dita invisibili facevano sempre più forza, e il mio respiro si faceva sempre più corto e affannato, e la stretta sul bicchiere sempre più dolorosa. Faceva caldo, il cuore sembrava scoppiare da un momento all'altro, la musica mi frastornava, le luci mi impedivano di afferrare la realtà, il chiacchiericcio di sottofondo cercava di confondermi: stavo per morire.

Una mano sulla schiena mi diede, per un attimo, l'impressione che qualche sguardo avesse tolto il filtro dell'invisibilità e mi stesse osservando, e quella voce sgolata sembrava che mi stesse chiamando. Avevo mangiato la polvere, ma il mio viso si stava lentamente allontanando da quella sabbia dura.

Ero seduto sul panchetto del bar, su cui non ricordavo di essere andato, quando gli occhi di Nathan davanti ai miei fecero tornare tutto alla normalità.

Senza che me ne rendessi conto, stavo imitando il suo respiro, che lui mimava in modo più pronunciato.

Inspirare, due secondi, espirare.

Funzionò.

La musica tornò a penetrarmi dolorosa nelle orecchie, ma era il prezzo da pagare perché il ricordo della pistola sparisse e mi sentissi un po' meno solo.

Nathan mi porse la sua mano. La afferrai senza capire: mi fidai.

Gironzolammo un po' al bordo del locale, mentre lui si guardava intorno continuamente; poi, quando giungemmo davanti a una grande porta che dava su un piccolo piazzale, capii cosa stava cercando.

Uscimmo e, quando la porta si chiuse dietro di noi, mi sentii bene all'improvviso. Quella musica assordante era solo un lontano ricordo, mentre il sorriso di Nathan era più che reale. Si mise a cercare un posto più appartato e io lo seguii, finché non trovammo un luogo non troppo affollato. 

Trovare uno spiazzo senza nessuno era praticamente impossibile: quel cortile era pieno di giovani, perlopiù fumatori.

Ci addossammo al muro e nessuno dei due disse niente. Al solito, non c'era imbarazzo in quel silenzio: scuotevo il liquido nel mio bicchiere con naturalezza.

«Da quant'è che ti succede?»

Distolsi lo sguardo dal limone affogato in quel drink verdognolo.

«Intendi quello che è successo prima?», e soffiai una risata amara. «Credo che tu possa arrivarci anche da solo, anche se ultimamente stavo meglio.»

«Cos'è successo?»

«Non lo so. Forse è solo perché mi sono distratto dalla mia routine casa-lavoro. È difficile trovare un equilibrio.»

«Posso immaginarlo.»

Per qualche tempo, tornai a guardare il drink e notai come il volume del ghiaccio si fosse ridotto.

«Anche a te è successo?»

Nathan fece un respiro profondo. Posai gli occhi su di lui e notai che anche lui mi stava guardando.

«Sì. Anche in modo peggiore, a esser sincero. Ora non mi succede praticamente più, ma tre anni fa stavo da cani.»

«Ho come l'impressione che non torneresti ai tuoi diciott'anni neanche per un milione di dollari.»

Lui ridacchiò, poi spostò gli occhi verso il cielo, pensoso.

«Non lo so, sai? Forse cambierei qualcosa. Farei delle scelte diverse.»

«E saresti la persona che sei adesso?»

«Sicuramente no. Probabilmente non avrei alcune cose che ho adesso, ma ne avrei altre molto più importanti. Non so se sono felice di essere come sono.»

«Se le cose fossero andate diversamente, chi ci sarebbe stato a salvarmi, stasera? Ash?»

Ridemmo entrambi e ripensai a quello che aveva detto Nathan. Io non rimpiangevo niente di quello che avevo fatto nella mia vita e ciò che ero stato, e avevo dato per scontato che dovesse essere per tutti così. Immaginai che non dovesse essere facile vivere con la consapevolezza di aver fatto delle scelte sbagliate, scelte per cui si preferirebbe tornare indietro per poterle cambiare.

«Ash non lo sa, vero? Di Oliver, intendo.»

«No, non sa niente.»

«Perché non glielo dici?»

Mi uscì un sospiro.

«Perché non riesco a parlarne.»

«Con me l’hai fatto, però.»

«Con te è stato diverso. Lo hai semplicemente scoperto, quindi non ho dovuto prenderti da una parte e dirti: ‘Ti vorrei raccontare una cosa’. Lo sapevi e basta. È molto diverso.»

Lui ci pensò un attimo, poi annuì.

«Sì, è vero. Però secondo me potrebbe migliorare il vostro rapporto. Lui ti crede scontroso senza un motivo ed è per questo che ti tratta così.»

«Lo so. Ma vuoi sapere la verità? A volte semplicemente non mi importa. Va bene così.»

Ci guardammo un attimo e lui annuì, come per dire che non avrebbe messo bocca nelle mie scelte. Poi lo vidi fissare un punto dietro di me, così mi voltai.

Due ragazze more ci stavano osservando, rivolgendoci sorrisi di tanto in tanto. Mi girai nuovamente verso Nathan.

«Avrei dovuto immaginare che sarebbe successo.»

Lui prima sorrise, poi si lasciò andare a una piccola risata.

«Che ne dici se fughiamo ogni dubbio?»

«Cioè?»

Mi mise una mano dietro al collo, mi tirò a sé e mi baciò.

 

Fu innocente. A stampo. Un po’ secco.

 

Mi aveva preso alla sprovvista. Ci staccammo dopo molto più tempo del previsto. Mi voltai un attimo, ma delle ragazze neanche l’ombra. Chissà da quanto era che se ne erano andate.

 

Secco, ma caldo. Lui aveva le labbra bagnate, però. Era premeditato.

 

Avevo baciato un ragazzo. O meglio, lui mi aveva baciato, ma non faceva differenza. Stavo tornando alla realtà. Anche il drink che mi stava sconquassando lo stomaco.

 

Quelle labbra erano state sulle mie. Poco più che un bacio a stampo, ma quella bocca che ora era a debita distanza, pochi secondi prima era incollata alla mia.

 

«Ho esagerato?»

 

Non era stato come nel sogno. Non era stato sensuale. Timido. Confortevole.

 

«Ok, ho esagerato. Scusa.»

 

Che avrei dovuto dire? Andava bene. Potevo accettarlo.

         

Ero impegnato. Con Oliver. Le mie labbra sapevano un po’ di tabacco.

 

«Va tutto bene.»

«Sicuro?»

Non c’era rifiuto dentro di me. O disgusto. Mi leccai ancora le labbra. Avevano lo stesso sapore delle sue. E le sue sapevano un po’ delle mie, cioè di lime. Forse me lo stavo sognando.

«È stato solo...», lui mi guardava, ansioso. «Inaspettato.»

Dovevo smetterla. Quello non era un bacio. Ed era stato pure mezzo secco.

«Sì, scusa. Volevo solo che quelle due ragazze non venissero qui. Non è che voglio mettermi tra te e Oliver o chissà che cosa.»

«Lo so.»

Stavo riacquistando colorito, ne ero certo. Anche l’imbarazzo nel guardare Nathan stava piano piano sparendo.

Era stato solo un gioco, nulla più. Fine.

Ritrovai il contatto col mondo esterno. Il ricordo di quel bacio cominciò quasi a sembrarmi irreale.

«Davvero, Nathan, va tutto bene.»

«Ok. Se lo dici tu...»

«Per dimostrartelo, ti farò un regalo.»

Ecco, sì. Ci voleva un diversivo.

«Cioè?»

Gli dissi di chiudere gli occhi e lui obbedì. Infilai una mano nella mia tasca posteriore e sfilai la sorpresa, che misi sul palmo della sua mano. Lui la riconobbe subito, almeno dal sorriso che gli si formò sul volto prima che gli dicessi di aprire gli occhi.

«Mi dai il permesso?»

«Be’», diedi un’occhiata all’orologio, «mi risulta che la mezzanotte sia già passata. Fai pure.»

Sfilò quella sigaretta dal pacchetto come un morto di fame che vede un tozzo di pane dopo settimane. Ogni volta aveva delle reazioni a cui stentavo a credere.

Lui non se lo fece ripetere due volte e, al primo tiro, gli si poteva leggere la beatitudine in faccia.

«Ah, che meraviglia. Grazie.»

Lasciai che si godesse la sua sigaretta, mentre io rimanevo solo coi miei pensieri. Decisamente, quella sera c’era stata una seria collisione tra i nostri due universi, così brusca che, sul mio, la terra aveva tremato. Prima avevano ballato solo lampadari, poi i bicchieri avevano cominciato a uscire dalla credenza aperta e a schiantarsi sul pavimento in mille pezzi. I condomini avevano ondeggiato, le strade si erano squarciate e io ero lì, in mezzo a tutta quella devastazione, a fare la conta dei danni.

Gli lanciai un’occhiata fugace, ma lui se ne accorse e gli scappò una risatina.

Nessuno lo avrebbe mai saputo. Non era stato un gesto grave, ma nemmeno qualcosa che avrei sbandierato ai quattro venti. E che bisogno c’era di farlo? Sarebbe rimasto il mio piccolo segreto, di quelli che mi sarei portato nella tomba.

Io amavo davvero Oliver; e poi era stato Nathan a baciarmi. Io non avevo avuto neanche il tempo di capire cosa stesse succedendo.

Nathan fece l'ultimo tiro e si guardò intorno per trovare dove buttare il mozzicone; si incamminò verso un cestino posto al centro della piazzetta, ma poi quando fu il momento di tornare indietro, si fermò. Infilò una mano in tasca e tirò fuori il cellulare. Da come fissava lo schermo, doveva essergli arrivato un messaggio, ma il suo volto non tradì alcuna emozione, il che era piuttosto strano da parte sua. Continuò a camminare verso di me leggendo il messaggio, poi, quando mi fu abbastanza vicino, mi porse il telefono per farmelo vedere.

A dire il vero, mi metteva a disagio il fatto di leggere delle conversazioni private che non fossero mie, ma feci un'eccezione.

Mi bastò leggere le prime parole per capire subito di chi era il messaggio.

 

Ciao Nathan, scusa

per oggi. Quando ci

rivediamo? Mi farò

perdonare.

Harvey

 

Sorrisi io per Nathan, che continuava a rimanere serio, e gli resi il telefono.

«Be'? Non sei contento?»

«Dovrei, vero? È che mi brucia ancora. In tutti i sensi.»

Non ero sicuro di aver capito pienamente quella frase, ma l'occhiatina che mi rivolse Nathan fece svanire ogni dubbio.

«Dai, rispondigli. Se proprio non vuoi fissare niente, per il momento, digli che gli farai sapere.»

«E allora non posso rispondere direttamente quando avrò voglia di fissare il giorno?»

«Come preferisci. Ma almeno così fai capire che c'è interesse da parte tua.»

Nathan trasse un respiro profondo. Fissò per un po' lo schermo del telefono e fece scorrere i polpastrelli sui tasti, ma senza premerli. Poi aprì la bocca per dire qualcosa, ma gli uscì fuori solo un respiro scocciato. Cominciò a scrivere, poi cancellò e riscrisse, fino a che non si fermò.

Mi porse di nuovo il telefono senza dire niente.

 

Ciao, tranquillo.

Non so quando ci

possiamo vedere, ti

farò sapere.

 

Gli resi nuovamente il cellulare.

«Non ti firmi?»

Lui fece spallucce.

«Lo sa che sono io.»

In effetti aveva ragione. Ero io che per deformazione professionale mi firmavo sempre, spesso anche con nome e cognome.

Il fatto che non fosse così felice di sentire Harvey mi fece capire che Nathan era meno stupido di quel che credevo. Forse non avrebbe mai ammesso che l'obiettivo di Harvey era uno solo, ma non ci stava lo stesso a passare come l'idiota di turno. Dovevo anche ammettere che, quando avevo detto a Nathan che avrebbe ricevuto un suo sms di scuse, l'avevo fatto più per tranquillizzarlo che per reale convinzione. Non credevo che sarebbe successo e questo fece vacillare per un momento l'opinione che avevo di Harvey e cominciai a credere che, forse, un pizzico di interesse c'era davvero.

Quello era sicuramente un bene: avrebbe impedito a quegli strani sogni di tornare a farmi visita.

Nathan e Harvey, una coppia che sarebbe scoppiata più tardi di quanto credessi.

«Ah, ma siete qui!»

Alzammo entrambi lo sguardo verso colui che si stava chiaramente rivolgendo a noi. Ashton era lì davanti, con un'espressione abbastanza scocciata sul viso.

«Vi ho cercati dappertutto! Potevate almeno avvertire.»

Io pensai che lui avrebbe potuto chiamare per chiederci dove eravamo, ma stetti zitto.

Nathan provò a calmare le acque.

«Hai ragione, scusa. Rientriamo?»

Mi lanciò poi un'occhiata, a cui io risposi annuendo. Ormai non pensavo neanche più al motivo che mi aveva portato là fuori. Avevo la testa infrascata da immagini di quella specie di bacio visto in terza persona, anche se le sensazioni che avevo provato sembravano sempre più difficili da acciuffare.

Eravamo rimasti così tanto tempo fuori che rientrare in mezzo a quel frastuono fu traumatico. Mi ricordai improvvisamente che avevo ancora la mia bibita da finire, così tirai due sorsi, ma non era granché. Avevo voglia di abbandonare quel bicchiere il prima possibile, ma non volevo risultare sconveniente nel lasciarlo sopra al primo tavolino libero.

Notai con disappunto che la folla in pista sembrava aumentata, invece che diminuita. L'attimo dopo pensai che non dovevo stupirmi di una cosa tanto ovvia: la notte era appena cominciata.

Riuscimmo a infilarci in una parte meno affollata, anche se camminavamo in fila indiana, Nathan e Ashton davanti a me.

A un certo punto, Nathan si fermò di colpo. Lo sentii gridare qualcosa, ma non capii cosa stesse dicendo; lo ripeté, ma ancora non capivo, così indicò qualcuno col dito. Tra tutte quelle teste, ne riconobbi una familiare. Era uno degli amici di Nathan che avevo visto alla famosa festa universitaria; si chiamava Ryan, se la memoria non mi ingannava.

Nathan non aspettò nemmeno una nostra risposta: si fece largo tra tutte quelle persone e cercò di raggiungere il suo amico, che intanto era entrato in quello che immaginai essere il bagno. Io e Ash ci lanciammo un'occhiata rapida e decidemmo di seguirlo.

La prima cosa che mi trovai davanti fu Nathan scaraventato al muro con uno spintone. Fece un bello schianto e mi accorsi che aveva mancato il lavandino per un pelo.

«Fatti i cazzi tuoi, capito?»

Nathan si riprese e gli rispose.

«Ti ho visto! Vi siete scambiati qualcosa, non sono cretino!»

Ryan si avvicinò a lui, lo afferrò per la collottola e lo spinse di nuovo verso il muro, facendogli sbattere la testa con una smorfia di dolore.

«Ti ho detto di starne fuori, Nathan. E se non lo capisci con le buone, vedrò di usare altre maniere.»

Era il momento di intervenire.

Mi fiondai su di loro e liberai Nathan dalla stretta del suo amico.

«Smettetela, chiaro?»

«E tu chi saresti?»

Afferrai Nathan poco sopra il polso e lo trascinai dietro di me, in modo da toglierlo dalla traiettoria di Ryan. Senza staccare gli occhi dal ragazzo, spinsi Nathan verso l'uscita, indietreggiando a poco a poco.

«Andiamo via, vieni.»

«Vedi? Il tuo amico è più furbo di te. Sparisci, Nathan.»

Lo sentii opporre una leggera resistenza alla mia stretta, come se non volesse andarsene, ma era la cosa più sicura. Era pericoloso affrontare Ryan in un luogo come quello, dove anche difendersi sarebbe stato difficile. Usciti dal bagno, Nathan cominciò a massaggiarsi la testa.

«Ti fa male?»

«No, non è niente. Tranquillo.»

Alzai gli occhi verso la porta e mi guardai intorno: non erano usciti e non ci avevano seguito.

«Cos'è successo?», domandò Ash, con sguardo interrogativo.

«L'ho visto, cavolo. Ryan gli ha venduto roba. Sono sicuro.»

Io e Ash ci guardammo e capimmo subito. Poteva essere una pista, ma dovevamo incalzare Nathan senza destare troppo sospetto.

«Che 'roba' era?»

«E io che ne so? Era roba bianca, in un sacchettino piccolo.»

Poteva essere cocaina, ma era difficile dirlo senza averla vista. Di certo non era borotalco. Era però probabile che quel locale fosse un covo per spacciatori di droga.

Intravedemmo Ryan uscire dal bagno e trattenni Nathan dal raggiungerlo ancora una volta. Piuttosto, gli suggerii di seguirlo da una distanza di sicurezza, per vedere dove sarebbe andato. Riuscimmo a non perderlo di vista e percorremmo un piccolo corridoio, che terminava con una porta alla cui guardia stava un omone grande e grosso, ben vestito. Ryan arrivò davanti alla porta, si guardò intorno ed entrò dentro, senza che il buttafuori battesse ciglio.

Feci un passo verso la porta, ma Ash mi bloccò subito.

«Non credo che ci faranno entrare. È un privé, bisogna prenotare.»

«Faccio un tentativo lo stesso.»

Sentii Ash sospirare, ma non gli diedi retta; mi avvicinai alla porta e feci per entrare con indifferenza come aveva fatto Ryan, ma non ebbi nemmeno il tempo di avvicinare la mano al pomello che fui subito fermato dal buttafuori.

«Nome e cognome, grazie. Questa è un'area riservata.»

Feci il finto tonto e ritrassi la mano, scusandomi subito dopo.

«Capisco», risposi. Poi mi ricordai delle parole di Ash. «Chi posso sentire per le prenotazioni?»

Il buttafuori tirò fuori un bigliettino e mi indicò il numero sopra riportato. Non disse nient'altro, per cui mi limitai ad afferrare il bigliettino e a ringraziarlo. Non mi rispose nemmeno quella volta: forse la musica così alta l'aveva assordato davvero.

Tornai trionfante da Nathan e Ashton e mostrai loro il bigliettino. Ash, per una volta in tutta quella serata, mi parve soddisfatto di come stavano andando le cose. È vero, non eravamo entrati, ma adesso avevamo il numero per la prenotazione. Approfittando di un momento di distrazione di Nathan, Ash mi fece il gesto per indicare 'domani' e io gli diedi l'ok. Era necessario riallinearsi un attimo per capire come muoversi e cosa ci conveniva fare, ma ero quasi certo che la giusta fosse andare fino in fondo a quella storia. Forse non ci avrebbe condotto da Michael, ma il locale non sembrava comunque del tutto pulito.

«Si torna in pista?»

Ashton sembrava l'unico entusiasta all'idea di mischiarsi in mezzo a tutta quella gente, ma forse sperava solo di strusciarsi addosso a qualche bionda alta e aggressiva. Nathan lo assecondò e, insieme a lui, passò il resto della serata a ballare.

Io continuai a provarci, senza successo.

 

Quando Ashton mi riportò a casa, erano già passate le due. Ero quasi sicuro di non aver mai fatto così tardi in tutta la mia vita e, come entrai nell’ingresso, mi sentii crollare all'improvviso. Riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti, mi sentivo stanco e spossato. L'idea era quella di buttarmi sul letto e dormire fino a tardi, ma dovetti fare i conti col sorriso che non riuscivo a togliermi dal viso.

Quando entrai in camera e mi cadde lo sguardo sulla foto di Oliver, mi sembrò che mi avessero appena pugnalato. Sentii una fitta fortissima all'altezza del petto, cominciai a sentire odore di tabacco ovunque nella stanza e il drink sembrò risalirmi tutto insieme.

Bacio: "contatto tra le labbra di una persona e quelle di un'altra". E quello lo era stato, nonostante tutte le favole che continuavo a raccontarmi.

Non era necessario usare la lingua per poter dire di aver baciato qualcuno; io lo avevo fatto nel momento in cui le nostre labbra si erano incontrate, nel momento in cui non mi ero ribellato, nel momento in cui non avevo provato disgusto un attimo dopo che era successo.

Oliver mi guardava dalla sua foto e mi domandava come avessi passato quella sera.

Mi strofinai le labbra, ma era inutile. Non era il gesto che non accettavo, era la mia reazione. Avrebbe potuto anche baciarmi mia madre in modo affettuoso e di certo non l'avrei considerato un tradimento. Quella sera, invece, lo era stato nel momento in cui non mi era dispiaciuto poi così tanto. Mi facevo schifo.

Oliver continuava a guardarmi e aspettava una mia risposta. Io abbassai lo sguardo. Avevo bisogno di pensare. Mi infilai nel letto e, a dispetto delle aspettative, quella notte sognai.

Forse pure troppo. 

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

Lo so, è un capitolo chilometrico, chiedo perdono XD E in realtà non è nemmeno il più lungo ahahaha +risata isterica+. Volevo chiedervi: in caso di capitoli lunghi come questo, preferireste vederli divisi in due parti? Potete anche rispondermi con un messaggino privato se non sapete come fare o non avete voglia/tempo di lasciare una recensione, va bene lo stesso!

E insomma le cose cominciano a smuoversi ù.ù Anche se Alan ovviamente è rimasto semi-traumatizzato dall’avvenimento ^^' Ci saranno delle conseguenze? Chissà, chissà.

 

Intanto ringrazio come sempre tutte le persone che leggono e recensiscono, grazie grazie grazie <3

 

A giovedì prossimo,

holls

   
 
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