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Autore: marani    14/12/2021    0 recensioni
Questa è una storia 'tosta'. Quelle che ho pubblicato precedentemente sono schizzi, appunti, embrioni di trama in confronto. Ed è una storia tipicamente mia. Gli elementi ci sono tutti: dei legami, una perdita, la ricerca della serenità, le 'catene' del dolore, il passato. E naturalmente, immancabile, il 'tocco di magia'. Sarà un lungo viaggio, per chi deciderà di incamminarcisi, ma credo che alla fine vorrete bene anche voi ai personaggi della storia. Solo due precisazioni tecniche: la numerazione dei capitoli del sito non coincide con quelli della storia. Ma non è un problema. E 'Faliva', nel mio dialetto, curiosamente connota sia i fiocchi di neve che le scintille che si liberano dalla legna del camino. Curiosamente? Uhm, forse no. Forse sono solo due lati dello stesso aspetto. Della vita. Buon viaggio.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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30_ Vanessa si accomodò sul bordo del letto matrimoniale, nella stanza che divideva con Amedeo ed Emma, tirandosi accanto il fedele zaino. Il ragazzino era stato molto carino a concederle quegli attimi di privacy, anche se lei si stava chiedendo un po’ imbarazzata cosa poteva aver pensato al suo ambiguo "Scusami, ma devo assentarmi un po’…" Estrasse dalla tasca interna del giaccone il cellulare di Renato, maneggiandolo con estrema delicatezza, come fosse un reperto raro e fragilissimo. Effettivamente l’uomo era stato proprio gentile nell’offrirsi di prestarglielo, una volta venuto a conoscenza che quello del padre di lei era guasto, messo fuori uso da un non ben specificato incidente nel bagno. Gianni Ostiglia aveva fatto un po’ di storie sostenendo che, anche se non mandava un sms di auguri alle sue amiche Francesca e Sil via (come da promessa solennemente fatta durante la ricreazione poco prima delle vacanze natalizie), non moriva mica nessuno. Il broncio ostentato come un capo d’accusa non aveva particolarmente impressionato il suo intransigente genitore, e fortuna che alla fine era arrivato in soccorso zio Renato. Mentre si dirigeva verso la camera, inseguita dalle sgraziate raccomandazioni di suo padre, che sbraitava come se il telefonino fosse il suo… Due messaggi, ragazzina, due e non di più… e brevi, se possibile… e nessuna telefonata, chiaro ? Se mi accorgo che ci hai parlato dentro, a quel coso, scattano le sanzioni… considerò tra sè che il buon Amedeo, oltre ad essere molto simpatico (e anche un bel po’ carino), aveva anche l’invidiabile fortuna di possedere un genitore che non dava in escandescenze ad ogni piè sospinto, facendo fare a lei e sua madre delle figure da nascondere la testa dentro un vaso. Accese il telefonino, secondo le istruzioni ricevute, fissandolo per alcuni istanti. In effetti la tentazione di telefonare alle due amiche era molto forte, quasi irresistibile. Soprattutto l’ipotesi di poter raccontare, per filo e per segno, tutti i particolari sulla propria recente, nuova conoscenza. Con un messaggino era un po’ dura descrivere certe sensazioni in maniera esauriente, e poi le pareva di aver capito da vari discorsi di suo padre che gli sms bisognasse cancellarli, dalla memoria dei cellulari, una volta inviati o ricevuti. E l’ultima cosa che desiderava era lasciare una dichiarazione scritta che le piaceva un certo ragazzo, proprio sul telefonino del genitore del soggetto in questione. D’altro canto, era al corrente inoltre che gli adulti erano in grado di “verificare” le telefonate in partenza, come aveva minacciato suo padre, e quindi a malincuore optò per il progetto originario, uno stringato messaggio di auguri alle due destinatarie. Magari corredato da un “ci sentiamo presto, ci sono novità” che non presupponeva nulla di compromettente, ma almeno un minimo le avrebbe incuriosite. Si sfilò i pesanti scarponcini, così da poter tirar su i piedi sul letto, appoggiandosi con la schiena contro la massiccia spalliera del letto. Digitò il tasto MENU più volte, fino a far comparire l’opzione PREPARa MESSAGGi. La sottile astina sul minuscolo schermo lampeggiava, in attesa delle prime lettere del testo. Depose il telefono con cura sul copriletto, accanto a sé, prendendo in grembo lo zaino per tirar fuori la preziosa agenda con i numeri di cellulare dei genitori del le amiche. Dopo l’invio avrebbe scritto qualche riga riguardo gli ultimi accadimenti di quella giornata, in particolare sulla chiacchierata avuta con Amedeo seduti sulla staccionata dei cavalli, che lei aveva trovato romanticissima. afferrò l’agenda-diario con una mano, mentre si sporgeva per depositare lo zaino sul pavimento accanto al letto. Dopodichè aprì le pagine in corrispondenza del giorno in corso: dal centro dell’agenda spalancata qualcosa le svolazzò in grembo. 31_ Mentre la ragazzina osservava incuriosita la cosa che era scivolata fuori dalle pagine del suo diario segreto, il prode Amedeo si stava aggirando in casa di Teresa alla ricerca di qualcosa che stimolasse la sua creatività, nell’attesa di potersi ricongiungere (lui auspicava il più presto possibile) con Vanessa. In effetti in quel preciso momento, bizzarramente (ma neanche tanto), i pensieri dei due ragazzi erano sintonizzati l’uno nei confronti dell’altra, e poco ci mancava che le orecchie di entrambi fischiassero come pentole a pressione a cottura ultimata. Amedeo aveva accolto di buongrado la cortese richiesta della fanciulla di poter usufruire di un po’ d’intimità, guardandosi bene, innanzitutto, dal far trasparire il proprio disappunto e, in secondo luogo, dall’indagare sui motivi di quell’improvvisa separazione. La frase Scusami, ma devo assentarmi un po’… si poteva prestare a una qualche ambigua interpretazione, ma lui preferiva pensare che Vanessa si fosse ritirata per espletare qualche tipica operazione da femmine. Probabilmente a scrivere qualcosa su quel suo misterioso diario, e magari poteva anche essere chi lo sa forse perché no (a quell’ipotesi il suo cuore fu vittima di una specie di leggero singhiozzo). Naturalmente avrebbe dato via senza batter ciglio metà della sua preziosa collezione di Dylan Dog, in cambio di una sbirciata nelle pagine dell’agenda di Vanessa. Ma avrebbe dovuto essere una cosa non cercata, quasi magica, tipo quando nei film scrutano il futuro in palle di vetro o catini pieni d’acqua, perché mai e poi mai il suo irreprensibile animo cavalleresco si sarebbe abbassato ad una “spiocciata” approfittando dell’assenza della ragazzina dalla stanza. Quando subito dopo la colazione era salito in camera per cambiarsi le scarpe in previsione della gita nella fattoria degli animali (a proposito, che delizia il dialogo con lei sulla staccionata dei cavalli, anche se lui sospettava di a ver avuto due o tre momenti da gonzo a spasso, e il muso di un cavallo che frugava nella venessia della sua compagnia non era il massimo dell’accompagnamento romantico) l’occhio gli era caduto sullo zainetto rosa e pieno di minuscoli peluche di Vanessa, abbandonato su una sedia, e una specie di corrispettivo mentale dell’acquolina in bocca lo aveva per un attimo tentato Irresistibilmente. “Vieni qui, ragazzo”, aveva detto lo zaino, come una moderna sirena di Ulisse, “frugami dentro e sono certo che potrai trovare conferma a quello che al momento è solo una tua pia speranza…”. Lui si era allacciato le lunghe stringhe di uno scarponcino, imponendosi di pensare ad altro. “Su, amico, solo un’occhiatina, non se ne accorgerà nessuno”, aveva insistito quel diavolo tentatore griffato Invicta. Amedeo aveva legato alla bell’e meglio i lacci della seconda scarpa, tirandosi su dal letto con l’assurdo impulso di premersi le palme delle mani contro le orecchie. Ben sapendo che sarebbe stata una mossa inutile, perché il vocione ipnotico che lo irretiva cianciava direttamente dentro la sua scatola cranica. Tenne duro, sfoderando una forza di volontà insospettabile (che lo cullò per il resto della giornata con una frizzante sensazione di autostima, portandolo ad intraprendere, di lì a breve, azioni stolte e avventate), e l’unica deroga che si concesse fu di chinarsi sullo zaino, aspirando voluttuosamente con gli occhi chiusi: il buon odore di Vanessa, mischiato a sentori di gomme da cancellare e matite colorate, gli accarezzò le narici e il cuore come un balsamo incantato. Subito dopo aveva lasciato la stanza con la netta sensazione di fluttuare a qualche centimetro dal pavimento. Ed ora, appena un pò annoiato, stava ciondolando tra i due piani della casa che li ospitava, cercandodi immaginare quanto pallosa si sarebbe rivelata quella vacanza se per caso la famiglia Ostiglia avesse declinato l’invito di zia Teresa. Il che avrebbe significato ardui tentativi di sopravvivenza ai barbosi discorsi dei grandi ed al babysitteraggio forzato a quell’impiastro atomico di sua sorella, e sarebbe stata molto ma molto dura. In effetti in quel frangente, alla luce delle delizie che potevano riservare le parole e gli occhi verdi di una sua coetanea (e che lui nella sua gonza vita avanti Vanessa non aveva nemmeno lontanamente sospettato, gonzamente soggiogato dalle scriteriate teorie misogine di Spiller e Dalla Pozza), il bamboccio aveva del tutto ripudiato, come San Pietro pursenza galli canterini, il succoso e stimolante programma che si era premurato di stilare in vista di quei giorni in campagna. Ma, ahilui, il Game-Boy giaceva ora desolatamente spento sul fondo del borsone in camera, e il Sonic advance che vi era caricato su (e che era costato una cinquantina di euro a suo padre e al figlio un fantastiliardo di pietose suppliche) non avrebbe visto per lungo tempo come sarebbe proseguita la cruenta lotta tra Sonic e il malvagissimo Robotnik. Per non parlare del libro con il backstage del Signore degli anelli e le copie “intonse” dei Simpson e di DragonBall Z, pietosamente occultate sotto il cambio di biancheria intima. Il fatto che Vanessa la sera prima a letto avesse sfogliato con evidente soddisfazione una copia di Top Girl (sulla cui copertina campeggiava, oltre alla foto di un belloccio palestrato, l’inquietante titolo dell’inchiesta “Baciare: occhi chiusi o aperti?”) non l’aveva sbloccato a tirare fuori i giornaletti dal loro poco decoroso esilio. Provò una rapida rassegna dei canali televisivi, col volume azzerato per non disturbare gli adulti che si erano rintanati nei loro letti (a parte Gianni Ostiglia che ronfava a bocca spalancata sul divano in sala), ma l’offerta tv in quel primo pomeriggio sembrava prevedere solo stupidi cartoni animati per bambini o seriosi personaggi in giacca a cravatta che blateravano senza sosta di qualche argomento di cui lui era all’oscuro, per via dell’assenza di audio. Lasciò vagare lo sguardo sulle mensole della libreria che ricopriva buona parte delle pareti, ma anche in quel caso i titoli dei libri impilati con ordine non erano in grado di stimolare la cu riosità di un adolescente, e la Settimana Enigmistica di nonno Corrado abbandonata su una poltrona non lo invogliava, pur se qualche barzelletta solitamente lo faceva spanciare di gusto. Spense il televisore, decidendo di approfittare di quella situazione di limbo per un sopralluogo esterno, che aveva snobbato fino a quel momento perché in altre faccende affaccendato. S’infilò il giubbotto, aprendo con delicatezza la porta esterna,sbucando nel cortile. in giro non si vedeva nessuno, a parte Emma appollaiata su quel ceppo sotto l’albero, che prese a fargli ampi segni cordiali per attirare la sua attenzione. Lui non le badò, dedicandole un gesto che nel suo personale gergo amedeiano significava più o meno “non rompere, nanerottola” e si diresse verso l’ampio porticato che portava alle stalle e al fienile. Sua madre si era raccomandata fino alla nausea, durante il viaggio per arrivare lì, di fare molta attenzione (a che cosa?, aveva pensato lui, a qualche attacco di galline inferocite?) perché in campagna le occasioni di farsi male erano molte. Probabilmente, considerò Amedeo osservando un minaccioso forcone appoggiato sotto il portico, a oggetti tipo quello, falci, zappe, cesoie, o forse a qualche inquietante macchinario per tirar su il fieno irto di spuntoni come un’antica macchina da guerra medievale, ma lui non era così gonzo da ficcarsi in guai del genere. Entrò nel vasto e silenzioso edificio che una volta serviva da fienile, respirando l’aria polverosa che gli solleticava un po’ il naso, prendendo atto che il luogo era bello grande, ma vuoto e privo di attrattive. Stava già per tornare sui propri passi, rassegnato ad ascoltare qualche stupidaggine cinguettante di Emma, quando sollevò lo sguardo. E trasecolò. La parte superiore della struttura aveva un’aria decisamente molto più interessante, formata com’era da due ampi soppalchi ancorati ciascuno ad un pilone verticale di legno massiccio. E, a congiungere le due parti, distanti tra loro una quindicina di metri, una trave portante dall’aria altrettanto robusta. Solo che quella trave, nella vulcanica materia cerebrale del ragazzino che aveva già cominciato a macinare fantasie, non era affatto un mero pezzo di legno squadrato, bensì il corrispettivo reale e tangibile del leggendario Passo di Caradhas, l’unica via per superare un orrido abisso nel cuore delle miniere di Moria, come aveva avuto modo di apprendere seguendo col fiato sospeso le vicende del suo film preferito. E, come se fossero state messe lì apposta da un luminoso destino, alle due estremità della trave (del Passo di Caradhas! Del Passo di Caradhas!) si ergevano due scale a pioli (due altissime scale a pioli, tentò di fargli notare una microscopica porzione del suo cervello in cui era conservata una rarissima e infinitesimale scorta di buon senso) che sembravanosolo in attesa di qualche valoroso temerario. Ora, se detto buon senso fosse stato un po’ più diffuso, o se il ragazzino avesse esteso la materna raccomandazione di non ficcarsi nei guai anche a quella situazione (e che c’è di pericoloso? Non è mica una trave sospesa su un mare di forconi appuntiti…, rimuginò lo stolto, non valutando affatto l’altezza di quel legnoso oggetto del desiderio), o se ancora la dolce Vanessa non avesse ceduto ad un pizzico di giustificata civetteria, indugiando davanti allo specchio a spazzolarsi i fluenti capelli, e fosse scesa nel cortile declamando il nome del ragazzino, ora non saremmo qui col fiato sospeso ad osservarlo impotenti mentre si avvicina con piglio deciso ad una delle due scale appoggiate ai piloni. Con un luce di convinzione nello sguardo, Amedeo afferrò il piolo all’altezza del suo naso, issandosi nel contempo su un altro sotto i piedi, e saggiandone la resistenza con alcuni decisi strattoni. Il tutto sembrava reggere, così prese ad arrampicarsi con un po’ più di lena, come uno scoiattolo guardingo che non sappia bene cosa può nascondersi sulla sommità di un albero. La scala sotto il suo peso si torceva e gemeva, ma secondo la valutazione dello scalatore sta va torcendosi e gemendo in maniera lieve, per cui accettabile. D’altra parte, si disse per in fondersi un po’ di sicurezza, lui non era affatto un tipo avventato (dopo una furibonda partita a calcio, ad esempio, non restava mai a petto nudo tutto sudato, come invece facevano i suoi compagni rischiando la morte) e se appena si fosse reso conto che la situazione stava diventando più rischiosa che divertente, avrebbe lasciato perdere. A metà salita arrischiò un’occhiata sotto di sé, pentendosi all’istante e decidendo di far subito suo il saggio suggerimento che aveva sentito in tv, in un servizio sugli operai pellerossa che in America venivano utilizzati per costruire i grattacieli, e cioè “Mai guardare in basso”. Gli otto o nove gangli ce rebrali ancora imbevuti di buon senso provarono ad inviargli un pensiero che prevedeva l’eventualità di essere soddisfatto di quanto raggiunto, e di abortire la missione, ma ormai lui si trovava giusto sul confine in cui la rinuncia sarebbe potuta passare, agli occhi di sé stesso, come codardia, e proseguì nella cigolante salita, con i palmi delle mani che iniziavano a scivolare sul legno liscio dei pioli.
  
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