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Autore: Clementine84    15/12/2021    0 recensioni
Beth e Nate, migliori amici da una vita. Lei normale ragazza americana proprietaria di un pub e dotata di un gran senso dell'umorismo. Lui popstar di fama mondiale con un'infanzia difficile e un passato travagliato. L'una il punto di riferimento dell'altro, da sempre e per sempre. Ma sarà sempre solo quello? O una curiosa avventura sul mare potrebbe rimescolare le carte in tavola e cambiare il loro rapporto?
*Dal primo capitolo*
“Ehi, pulce” mi salutò, sedendosi su uno sgabello.
“Ehi, star” risposi, appoggiando le mani sul bancone, davanti a lui.
“Non chiamarmi star” si lamentò.
“E tu non chiamarmi pulce” replicai.
“Ma ti ho sempre chiamata pulce”.
“Appunto,” osservai “mi sembra arrivato il momento di smettere”.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Stavo uscendo di casa per andare al locale quando sentii il cellulare suonare. Lo presi dalla borsa e controllai la notifica del messaggio mentre chiudevo la porta e scendevo le scale.

Nate.

Istintivamente, sorrisi. Non lo sentivo da due settimane, ma era a Los Angeles a registrare il nuovo album e sapevo che era molto impegnato, quindi non ci avevo dato peso, certa che, non appena avesse avuto un attimo libero, si sarebbe fatto vivo. E, comunque, non è che non sapessi cosa stava combinando. Era molto attivo sui social, anche troppo, per i miei gusti, e potevo avere una panoramica piuttosto dettagliata della sua vita solo seguendolo su Instagram. Io e il resto del suo milione e cinquecentomila follower, ovviamente. Aprii il messaggio e lessi quello che aveva da dirmi.

Ehi, pulce. Mi serve il rifugio. Posso?

Sospirai. Ti pareva. Aveva passato le scorse settimane a fare dirette Instagram in cui si faceva vedere mentre era in palestra, faceva shopping o preparava la colazione, ma adesso aveva bisogno di staccare la spina e nascondersi nella mia casa in montagna, che chiamavamo ‘il rifugio’. Salii in macchina, allacciai la cintura e gli risposi, prima di mettere in moto.

Certo. Passa dal locale a prendere le chiavi. Mi trovi lì fino all’una.

La sua riposta arrivò immediatamente: Grazie e un’emoticon che mandava un bacio.

Sorrisi e misi in moto, dirigendomi verso il Wild Blue Yonder Brewing Co., di cui la mia famiglia, e ora io, era proprietaria da circa trent’anni, pensando che le cose non sarebbero mai cambiate, tra Nate e me.

Io, Elizabeth Taylor, e Nathaniel Brown, detto Nate, eravamo amici da sempre. Avevamo la stessa età e abitavamo relativamente vicini, a Castle Rock, in Colorado. Io, figlia unica di una coppia di genitori non giovanissimi, avevo conosciuto Nate, figlio di mezzo di una coppia disastrata, con la madre che faceva dentro e fuori di prigione e il padre che tentava di mandare avanti la baracca, nonostante qualche problemino con l’alcool, alle scuole elementari e in maniera piuttosto insolita. Nate avrebbe dovuto essere il mio compagno di banco ma, dopo il primo mese di scuola, si era assentato per un lungo periodo. La maestra ci aveva spiegato che aveva dovuto sottoporsi a un’operazione delicata perché il suo cuore aveva qualcosa che non andava e che ora era a casa in convalescenza. Poiché ero quella che abitava più vicina a lui, mi aveva pregato di portargli i compiti così io, da brava scolara obbediente, mi ero presentata a casa sua, quel pomeriggio, accompagnata da mia mamma. Scortata in camera di Nate da suo padre, il mio compagno si era rivelato sinceramente stupito di vedermi, ma anche piuttosto felice. Mi aveva fatto sedere sul suo letto e avevamo iniziato a chiacchierare. Mi aveva chiesto della scuola, dei compagni e di cosa facevamo e io gli avevo domandato come stava e quando sarebbe tornato. Mi aveva detto che non lo sapeva, perché l’operazione era stata davvero brutta e doveva attenersi alle istruzioni dei dottori se voleva veramente guarire del tutto, così mi ero offerta di andare a trovarlo più spesso per portargli i compiti e tenergli compagnia. Prima di salutarci, mi aveva chiesto se volevo vedere la cicatrice. Credo che si aspettasse che dicessi di no, spaventata o schifata, invece avevo annuito, curiosa. Così si era sollevato la maglietta e mi aveva mostrato i segni dell’operazione, chiaramente visibili sul suo piccolo torace di bimbo. Invece di indietreggiare, inorridita, avevo chiesto se potevo toccarla o se gli faceva ancora male. Lui aveva scosso la testa, mi aveva preso la mano e l’aveva appoggiata sulla cicatrice, su cui avevo fatto scorrere le mie piccole dita. Poi gli avevo sorriso, lui aveva ricambiato e da lì eravamo diventati inseparabili. Ogni pomeriggio andavo da Nate con la scusa dei compiti e passavamo ore insieme. La cosa era andata avanti anche quando lui era finalmente ritornato a scuola, con l’unica differenza che, a volte, era lui a venire da me. Crescendo, invece di perderci di vista, eravamo diventati ancora più uniti, tanto che tutti ci prendevano in giro perché dove c’ero io, c’era Nate e viceversa. Il mio amico amava stare a casa mia perché la mia famiglia era normale, mentre la sua era un disastro, e i miei genitori l’avevano praticamente adottato come secondo figlio. I fratelli di Nate, Jason e Zoey, non sembravano patire la situazione tanto quanto lui. Jason, di tre anni più grande, si era buttato nello sport, diventando capitano della squadra di football del liceo, e puntava a una carriera nella NFL. Zoey, quattro anni più piccola, sognava di diventare una grande attrice e passava ore chiusa in camera a provare battute davanti allo specchio. A Nate, invece, piaceva cantare e scrivere canzoni. Suonava la chitarra e aveva una bella voce, tanto che spesso i miei genitori gli permettevano di suonare al locale.

Quando avevamo diciassette anni, aveva letto un’inserzione che diceva che a Los Angeles si sarebbero svolti i provini per formare una nuova boyband, stile Backstreet Boys, ed era tipo impazzito. Mi aveva convinta ad accompagnarlo, anche se i miei genitori non erano d’accordo e i suoi nemmeno sapevano cos’avesse in mente, tanto che, alla fine, non riuscendo a convincerlo a cambiare idea e preoccupati che io potessi scappare di casa per accompagnare il mio amico, mio padre aveva ceduto e ce l’aveva portato lui, in un viaggio in macchina della speranza che ricordavamo ancora con nostalgia. Contro ogni aspettativa, Nate era stato preso e una nuova fase della sua vita era iniziata. Aveva conosciuto gli altri tre ragazzi che avrebbero fatto parte del gruppo e che sarebbero diventati non solo i suoi migliori amici, ma anche la cosa più simile a una famiglia che avesse mai avuto: Benjamin Miller, detto Ben, un tipo bassino, con capelli castani ricciolini e occhi verdi, di quattro anni più grande di Nate; Alexander Davis, detto Alex, tre anni più grande, capelli scuri, un accenno di pizzetto e fantastici occhi azzurri e David Wilson, detto Dave, moro, capelli a spazzola, e occhiali da intellettuale che incorniciavano dei profondi occhi marroni, che, con i suoi sei anni più di Nate, era l’adulto del gruppo. Il mio amico, invece, era il piccolo della band, il pasticcione combinaguai da gestire ma che, con i suoi capelli biondi, gli occhi azzurri e quella corporatura massiccia, che lo faceva somigliare a un orsacchiotto gigante, aveva fin da subito fatto breccia nei cuori delle ragazzine che avevano iniziato a seguire la band. Sì perché i New Horizons, così si chiamava il gruppo, avevano avuto immediatamente successo, con il loro pop orecchiabile e le coreografie da boyband. Pur non essendo il mio genere musicale preferito, ero molto più interessata al country e al rock, ero ovviamente entusiasta del successo del mio amico e seguivo ogni suo passo con ammirazione. Lui, di contro, non si era dimenticato di me, nonostante avesse trovato dei nuovi amici. Anzi, non mi mollava un attimo, portandomi con lui tutte le volte che poteva e chiamandomi ogni giorno, per raccontarmi le novità. I ragazzi lo prendevano in giro e mi chiamavano ‘la ragazza di Nate’, ma mi volevano bene e avevano imparato a considerarmi il membro femminile dei New Horizons.

Crescendo, le cose si erano ovviamente complicate. Io ero andata al college e non potevo più seguirlo tanto spesso come facevo prima. I New Horizons erano diventati sempre più famosi e spesso erano in tour in giro per il mondo, quindi non avevamo occasione di vederci assiduamente com’eravamo soliti fare. Non ci eravamo mai persi di vista, però. Nate mi chiamava spesso e lo stesso facevo io. La tecnologia ci aiutava a tenerci in contatto e ogni volta che aveva del tempo libero tornava a casa e riprendevamo la nostra amicizia dove l’avevamo lasciata. Ora, quindici anni dopo la sua audizione, Nate era più famoso che mai, ma continuava a considerarmi una parte importante della sua vita e io ne ero felicissima perché, anche se spesso mi faceva impazzire e avrei voluto picchiarlo, la verità era che non potevo fare a meno di lui. Era testardo, sbadato e per nulla costante, ma sapeva essere dolce e sensibile e non l’avrei cambiato con nessuno al mondo. Lui, d’altro canto, diceva sempre che ero il suo faro nella tempesta e che, qualsiasi cosa gli fosse successa nella vita, l’unica certezza che aveva era che io non l’avrei mai abbandonato. Aveva ragione, non l’avrei mai fatto e, negli anni, glielo avevo dimostrato più volte.

Intorno ai ventidue anni, Nate aveva avuto un brutto periodo. Sballottato qua e là dal suo lavoro, senza altri punti di riferimento che non fossimo io e gli altri ragazzi del gruppo, e con troppi soldi a disposizione, per un ragazzo della sua età, aveva sperato di ricostruire il rapporto con i suoi genitori usando il denaro che aveva guadagnato per comprargli una casa e aprire una società con suo padre. Quando aveva scoperto che, in realtà, lo stavano manipolando e il padre falsificava i conti della società in modo da poter passare soldi alla moglie per alimentare la sua tossicodipendenza, Nate era andato fuori di testa. Gli aveva fatto causa, vincendo, e aveva troncato ogni rapporto con i genitori, continuando a tenersi in contatto solo con i fratelli che, nel frattempo, si erano fatti una vita lontano da Castle Rock. Jason era diventato un giocatore di football professionista nei Denver Broncos e Zoey recitava della soap Days of Our Lives, quindi si vedevano di rado ma, almeno, Nate aveva ancora una parvenza di radici. Quell’episodio l’aveva sconvolto più di quanto voleva dare a vedere, però, e aveva iniziato a bere un po’ troppo. La situazione era degenerata e, quando gli altri ragazzi l’avevano minacciato di buttarlo fuori dal gruppo, se non avesse risolto i suoi problemi, era arrivato a casa mia, in lacrime, chiedendomi aiuto. Senza dover nemmeno spiegare nulla ai miei genitori, l’avevo caricato in macchina ed eravamo andati Leadville, dove i miei avevano uno chalet di montagna. Ci eravamo chiusi lì dentro, dove non prendeva nemmeno il telefono, senza una goccia di alcool, per tre settimane, e non avevo ceduto a pianti, urla e minacce. Era stata una terapia d’urto, ma aveva dato i suoi frutti e, il mese successivo, Nate si era presentato alle prove per il nuovo tour del gruppo completamente sobrio e senza potersi nemmeno avvicinare a una birra perché gli veniva la nausea solo a sentirne l’odore. Erano passati dieci anni e la situazione era decisamente migliorata. Adesso Nate poteva uscire a bersi una birra con gli amici senza rischiare di ricadere in quel circolo vizioso, ma ancora raccontava in giro di come l’avessi salvato dall’autodistruzione.

Da parte sua, non era stato da meno. Quando i miei genitori erano morti, a distanza di qualche anno uno dall’altro, e io mi ero ritrovata sola, con il cuore lacerato e un locale da gestire, Nate aveva mollato tutto ed era tornato a casa per aiutarmi a mettere a posto le cose. La sua esperienza in campo economico e burocratico, tra il gruppo e la società – fallita – con il padre, mi era stata indispensabile per capire da che parte girarmi e non avrei veramente saputo che pesci pigliare senza di lui. Anche gli altri ragazzi mi erano stati molto vicini, in particolare Ben, con cui avevo un rapporto speciale, e Alex, per cui avevo una cotta fin dal primo momento in cui l’avevo conosciuto. Lui mi aveva sempre considerata come la sorellina di Nate, era gentile e spesso faceva battute idiote per farmi ridere, ma nulla di più. Durante il periodo successivo alla morte di mio padre, però, era venuto a Castle Rock con Nate, con la scusa di dover scrivere i brani per il nuovo album ma, in realtà, per dare una mano al suo amico nel rimettere in piedi me e il locale dei miei genitori, che necessitava una messa a nuovo per poter continuare l’attività. Ci eravamo avvicinati molto e, alla fine, avevamo iniziato una relazione. Mi sembrava troppo bello per essere vero, perché Alex era sempre stato il bad boy della band, quello con mille ragazze ma nessun legame, invece, con me, sembrava voler fare sul serio. Nate non era entusiasta della nostra storia e avevamo quasi litigato perché non capivo perché non potesse essere felice per noi. Poi, dopo sei mesi di idillio puro, Alex aveva iniziato a essere insofferente e irritabile e, alla fine, aveva chiuso la relazione, lasciandomi in lacrime, tra le braccia di Nate che, invece di rinfacciarmi che era proprio quello il motivo delle sue perplessità, si era preso cura di me, aiutandomi a rattoppare il mio cuore infranto.

Saputo quello che era successo, Ben era accorso in nostro aiuto e il suo intervento era stato provvidenziale perché era la persona più empatica e sensibile che avessi mai conosciuto. Già lo adoravo prima ma, successivamente al periodo trascorso con Nate a Castle Rock, era diventato il mio secondo migliore amico e io la sua confidente, il che aveva complicato un po’ le cose con Nate. Lui e Ben erano sempre stati molto legati, fin dal loro primo incontro. Ben si era preso cura di Nate, considerandolo un po’ il suo fratellino minore, da educare e viziare, e Nate vedeva in lui un punto di riferimento, quella figura maschile che non aveva mai trovato nel padre. Il loro rapporto era diventato sempre più simbiotico, tanto che gli altri ragazzi, e anch’io, li prendevamo in giro dicendo che sembravano quasi una coppia. Il problema si era posto quando avevo scoperto che la cosa non era più solo uno scherzo e Ben mi aveva confessato di essere innamorato di Nate. Purtroppo, era un amore destinato a essere a senso unico, perché ero abbastanza sicura che al mio amico piacessero le ragazze, quindi mi ero ritrovata in una posizione abbastanza scomoda. Ben mi aveva pregato di non dire nulla a Nate, ma era difficile fare finta di niente, sapendo una cosa del genere. Conoscendomi come le sue tasche, Nate si era reso conto che qualcosa non andava e, quando mi ero rifiutata di dirgli cosa, avevamo avuto la peggiore lite della nostra vita, finendo per non rivolgerci la parola per tre settimane, cosa inimmaginabile per noi. Alla fine, Ben si era sentito tremendamente in colpa e aveva confessato a Nate i suoi sentimenti, consentendoci di fare pace, ma sentendosi rispondere che non potevano essere ricambiati. I due avevano continuato a essere amici, anche perché dovevano lavorare insieme, ma spesso Nate mi confidava che si accorgeva di come Ben lo guardava e si sentiva uno schifo a sapere che l’amico stava male per lui. Ultimamente, la situazione stava diventando sempre più pesante per il mio amico e, dopo aver passato lunghi periodi gomito a gomito con Ben, per lavoro, era sempre più frequente che tornasse a Castle Rock e mi chiedesse di potersi ritirare per un po’ nella mia casa in montagna, nascosto dal mondo. Come quella volta.

Nel frattempo, ero arrivata in centro, avevo parcheggiato sul retro del locale ed ero entrata, pronta a mettermi al lavoro.

“Ciao, Mike. Ciao Susan” salutai, rivolta ai miei due collaboratori, che ricambiarono il saluto, sorridenti.

Misi il grembiule, pronta a mettermi al lavoro, e scossi la testa, quasi a volermi schiarire la mente da tutti quei ricordi. Poi mi ricordai delle chiavi della casa in montagna, che avevo in tasca, e le posai vicino al registratore di cassa, in attesa che Nate venisse a prenderle, più tardi.

 

Erano circa le dieci quando lo vidi entrare nel locale. Capelli biondi spettinati, occhi talmente azzurri che sembrava luccicassero, e quel perenne broncio, che continuava a far innamorare le donne di mezzo mondo, ma che poteva trasformarsi in uno splendido sorriso, soltanto curvando gli angoli delle labbra in modo leggermente diverso. Era impossibile non notarlo, anche perché Nate non era mai stato mingherlino e la sua figura riempiva lo spazio dove si trovava, come quella sera, entrando nel locale. Mi notò subito, al bancone, e sorrise, quel sorriso furbo che adoravo. Ricambiai il sorriso e lo osservai avvicinarsi al bancone, con la sua camminata lenta e quasi molleggiata. Mi venne da ridere, pensando a quanto si arrabbiava quando gli dicevo che somigliava a Nick Carter dei Backstreet Boys, ma la verità era che gli somigliava davvero, anche se non voleva ammetterlo.

“Ehi, pulce” mi salutò, sedendosi su uno sgabello.

“Ehi, star” risposi, appoggiando le mani sul bancone, davanti a lui.

“Non chiamarmi star” si lamentò.

“E tu non chiamarmi pulce” replicai.

“Ma ti ho sempre chiamata pulce”.

“Appunto,” osservai “mi sembra arrivato il momento di smettere”.

Lui sbuffò, ma non disse nulla.

“Bevi qualcosa?” gli chiesi.

Scosse la testa. “No. Se non ti dispiace, prendo le chiavi e scappo. Mi aspettano ancora due ore di macchina”.

Annuii. “Come vuoi” dissi e, prese le chiavi da dove le avevo lasciate, feci il giro del bancone per andare a portargliele. Quando gli arrivai davanti e gliele misi in mano, mi abbracciò stretta, sussurrandomi “Grazie”.

“Di nulla” risposi, nascondendo il viso nella sua maglietta e respirando quel profumo che mi era tanto famigliare.

“Tu non vieni?” domandò, prima di alzarsi.

Feci segno di no con la testa. “Devo lavorare”. Poi, vedendo la sua espressione delusa, che avevo previsto, aggiunsi “Ma mi sono organizzata con i ragazzi e posso prendermi il weekend libero. Ti raggiungo domani mattina”.

“Perfetto” commentò, regalandomi un enorme sorriso. “Ti aspetto allora”.

“Sì. Non distruggere la casa, nel frattempo” lo ammonii.

“Certo, pulce. Non preoccuparti” mi rassicurò, facendomi il saluto militare.

Alzai gli occhi al cielo e nemmeno lo sgridai per avermi chiamata di nuovo pulce. Agitai una mano e gli sorrisi, guardandolo uscire dal locale. Non riuscivo ad essere arrabbiata con lui, era più forte di me. Lo adoravo e non vedevo l’ora di passare il weekend in sua compagnia.

  
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