Salve a tutti^^ ho deciso di pubblicare il 1° cappy subito dopo il prologo in quanto quest'ultimo era solo introduttivo e decisamente corto ^^ così si riesce ad avere anche un'idea più completa dell'inizio della ficcy^^ spero che il cappy piaccia, vi mando un grande bacio!!!!
1_La
scintilla
nel buio
“Su,
giù, su, giù, rosso, verde, giallo”
Ammaliata
dalla mia stessa magia, guardavo le pareti della soffitta cambiare
colore a mio
piacimento, grazie alla luce irradiata dalla palla fosforescente che
galleggiava nella mia mano.
“Argento,
bianco, Sali”
La
palla magica obbedì come sempre ai miei comandi, e
salì fino a raggiungere il
punto più elevato della soffitta. Da quella posizione
illuminava tutta la
stanza, permettendomi di vedere ogni cosa come se fosse giorno invece
che piena
notte.
Soddisfatta,
mi adagiai comodamente su il mio puff rosa, comodo più di
qualsiasi altro
divano, a mio parere, pronta per finire il compito di aritmetica
assegnatomi
quella mattina.
Era
raro che mi riducessi alle due di notte a fare i compiti di scuola,
solitamente
cercavo di finirli entro il pomeriggio, ma gli eventi di quel giorno me
lo
avevano impedito, così ora ecco Catharine Icepower,
studentessa modello della
Queen’s High School di Londra, che cerca disperatamente di
studiare matematica
per non rovinarsi la media. La mattina dopo le mie occhiaie avrebbero
sicuramente battuto un record, ero stanchissima.
Mi
chiesi perché, tra tutti gli incantesimi che sapevo fare,
non ce ne fosse uno
che mi permettesse di imparare il libro di aritmetica a memoria in
cinque
minuti. Se proprio dovevo essere anormale che servisse almeno a
qualcosa di più
utile che parlare con gli animali o creare sfere di luce.
Sorrisi
alla parola “anormale”. Era una definizione che mi
calzava a pennello, anche se
le persone che ne erano a conoscenza erano poche. Una per la
precisione,
esclusa me. Quell’angelo di mia madre che fingeva di non
conoscermi da quando
aveva sorpreso la figlia a giocare con barbie che si muovevano da sole.
Avevo
cinque anni all’epoca, e non aveva ancora ben chiara la
distinzione tra fatti
normali e non. Solo dopo aver visto l’espressione sconvolta
di mia madre,
Eleanor Campbell, la linea di confine tra normale e anormale mi fu
chiara per
sempre.
Sprofondai
di più nel puff, in mano le disequazioni di secondo grado
ancora irrisolte, che
malignamente mi facevano comprendere che per questa volta potevo
scordarmi un otto.
Tirai un sospiro e guardai il Calvin Klein che avevo al polso. Le
lancette
argentate segnavano le due e mezza.
Amen,
domani prenderò il mio cinque e
recupererò con il prossimo compito.
Con
questo pensiero scaraventai malamente quaderno e penne per terra, il
più
lontano possibile da me. Facendo spallucce pensai che se anche fosse
stato
pomeriggio, con tutti i pensieri
che mi vorticavano in testa,
non avrei combinato lo stesso un granché.
Eleanor
era tornata questa mattina dalla Francia, dove aveva mostrato al
critico
pubblico parigino la sua ultima collezione di vestiti primavera-estate.
Per
preparare l’evento era stata via per due settimane. Due
stupende settimane.
Dato
che mio padre era a New York da almeno un mese, in casa
c’eravamo solo io e
Gabrielle, l’anziana governante che si aggirava per casa come
un fantasma
silenzioso con l’unica preoccupazione di assicurarsi che la
polvere non si
depositasse sull’argenteria. Per me era stata una magnifica
vacanza mentale.
Per quattordici giorni non avevo dovuto subirmi il sostenuto mutismo
che mi
riservava mia madre ogni qual volta papà era via per lavoro,
né il suo evidente
disagio a trovarsi in mia compagnia.
Quando
c’era George Icepower, mio padre, manager di
un’azienda d’automobili, almeno si
sforzava di essere gentile nei miei confronti, di comportarsi come
farebbe una
madre qualsiasi. Quando eravamo io e lei sole invece, diventavamo
improvvisamente due estranee. Per me era meglio così,
preferivo restare da sola
che sopportare accanto a me qualcuno che mi paragonava ad uno scherzo
della
natura.
Mi
sollevai i capelli con una mano e mi feci aria sul collo con l'altra.
La
soffitta era il luogo ideale per riflettere senza essere disturbati,
l'unica
pecca era che mancava l'aria condizionata.
Cambiando
il colore bianco della mia sfera con un rosa tenue, dipingendo
così tutta la
stanza e i vari oggetti che la riempivano di quella tonalità
pastello, ripensai
a come quell’assurda giornata era cominciata…
“Sveglia
signorina Catharine, sua madre
sarà qui a momenti”
La voce
della mia governante giunge
lieve al mio orecchio. In quella casa di matti, probabilmente la povera
vecchia
Gabrielle era la più sana di mente, con un innato istinto
materno che
compensava quello latente di mia madre.
Mia
madre… il solo pensiero mi fa
mettere la testa sotto il cuscino, come a volermi nascondere dalla
triste
realtà. Oggi, esattamente alle 7.30 del mattino, sarebbe
tornata, insieme alle
sue unghie smaltate e i piastratissimi capelli biondo tinto. Mio Dio,
ma non
poteva restarsene in Francia?
“Signorina,
per favore, sua madre non
gradirà il fatto di trovarla ancora a letto”
insiste la governante.
Mia
madre non gradirà il fatto di trovarmi ancora a casa, penso amaramente, ma mi limito a rispondere un
“si, ora scendo”
biascicato. Sarebbe inutile parlare delle mie controversie con
Gabrielle, con
la sua visione semplice del mondo non sarebbe neanche riuscita a
capacitarsi
che madre e figlia potessero odiarsi, senza contare che non avrebbe
potuto
farci niente comunque.
Di
malavoglia esco dal caldo rifugio
delle coperte azzurro cielo e raggiungo il morbido tappeto che tappezza
il
pavimento della stanza. è interamente bianca e azzurra,
tanto che Gabriella la
paragona sempre ad un pezzo di cielo riservato unicamente a me. Io
trovo che
assomigli di più all’interno di un grosso iceberg,
dotato però di riscaldamento
per mia fortuna.
Mi
avvicino all’armadio a tre ante che
occupa tre quarti della parete ad ovest. È
grande e ben fornito, la fortuna di essere figlia di una
stilista è
avere abiti a non finire.
Del
rientro di mia madre mi importa poco
o nulla, ma per andare alla Queen's High School
l’abbigliamento deve essere
scelto con cura ogni giorno. Opto per una gonna corta bianca e una
camicetta
rossa con le maniche a sbuffo, arricciata sul seno. Metto i sandali
alla
schiava rossi anch’essi e raggruppo i miei capelli in una
coda di cavallo, lasciando
però qualche ciocca ribelle e riccia libera di cadere sul
collo.
Mi
guardo allo specchio mentre inforco
gli occhiali D&G che arrivano dritti dritti da New York, un
regalo di mio
padre che ci tiene a farmi sapere che mi pensa costantemente nonostante
la
lontananza. Almeno una delle due figure genitoriali non mi odia, anche
se papà è
all’oscuro
del mio piccolo segreto.
Dettagli, la mia mente si rifiuta di immaginare la sua reazione se
anche lui
avesse saputo dei miei poteri. Meglio non pensarci.
L’immagine
riflessa nella specchio
affisso ad una delle ante dell’armadio è quella di
una ragazza con ricci e
lunghi capelli ramati, in perfetto contrasto con l’incarnato
pallido ma
coordinati con la bocca a forma di rosa e rossa come il fuoco. Anche se
nello specchio
al momento non si vedono perché nascosti dalle lenti scure,
so che un paio
d’occhi di ghiaccio ricambiano il mio sguardo. La ragazza nel
riflesso è alta
un metro e sessanta, e possiede un fisico minuto. È snella
ma con le forme al
posto giusto, anche se un po’ d’abbondanza in
più non sarebbe guastata.
Guardo
l’ora, 7.20. Ancora
dieci minuti di libertà. Mia madre arriverà
con tutta la cavalleria esattamente a e trenta, non un minuto di
più né uno di
meno. La sua assoluta puntualità è una certezza.
Scendo
al piano di sotto per fare
colazione e noto una donna bassa e grassottella con cotonati capelli
grigi e
paffute guance rosee che mi aspetta con un vassoio con sopra un fumante
cappuccino e un invitante croissant al cioccolato. Gabrielle a volte
pare un
angelo sceso dal cielo unicamente per me.
“Grazie
Gabrielle, tu mi vizi troppo, lo
sai vero?” la ringrazio togliendole il vassoio dalle mani e
portandolo nel
piccolo tinello che precede la cucina. La sala da pranzo posta accanto
alla
grande vetrata che da sul cortile è riservata solo ai pranzi
familiari e alle
cene di gala.
Contemplando
le pareti verdi e tutto
l’arredamento coordinato secondo il gusto di Eleanor, consumo
la mia colazione,
cercando di dimenticare cosa mi aspetta da lì a poco.
Il
suono della campanello segna lo
stesso la fine della mia libertà. Un voce acuta e piacevole
come le unghie
sulla lavagna precede una figura slanciata e sciupata. I capelli sono
ancora
più lisci del solito e gli occhi sono circondati da pesanti
occhiaie, merito
delle lunghe serate mondane parigine.
“Ben
tornata a casa signora Campbell”
Gabrielle, cortese come sempre, va a salutare la signora di casa.
“Gabrielle
cara, che piacere ritornare
nella vecchia Londra” le risponde con voce stridula mia madre.
Decido
di anticipare lo strazio dei
saluti. Tanto prima o poi sarebbe successo. Prendo lo zaino rosa
appoggiato
sulla sedia alla mia destra e mi dirigo verso l’atrio
interamente blu.
“Ciao
mamma, ben tornata”. Il mio tono
piatto era in pentdan con la mia espressione atona.
Mia
madre si irrigidisce come di
consueto alla mia vista. “Ciao cara” dice con un
sorriso forzato. Per quella
donna l’apparenza è tutto. Non vuole sembrare
scortese nemmeno di fronte ai
domestici, compresi Gabrielle e l’autista che dietro di lei
sta scaricando le
sue valigie dalla mercedes nera. Anche se non può impedire
alla sua schiena di
drizzare come il pelo di un gatto appena mi vede.
“Vado
a scuola, ci vediamo dopo” e senza
aspettare risposta mi fiondo fuori dalla casa divenuta ad un tratto
asfissiante.
Primo round andato, ora non l’avrei vista prima di sera.
Il
resto della giornata scorre
tranquillo. La mia scuola,
Varcato
l’ingresso della scuola, tutto
si svolge da manuale. Lezioni fino alle due del pomeriggio, pranzo nel
locale
più sofisticato di Londra insieme a Claire e Margaret,
ovvero nel McDonald’s di
fronte alla scuola, luogo che mia madre avrebbe bruciato se avesse
potuto, e
lezioni di scherma. Quest’ultimo impegno è
particolarmente piacevole. Adoro
tirare affondi con il mio fiorino, è un ottimo antistress,
libera la mente e
tiene allenato il corpo. In più è
l’unico sport in cui riesco bene dato che sono
negata per l’atletica, particolare che la mia professoressa
di educazione
fisica continua a ripetermi.
Rinvenni
dallo stato di trance in cui ero caduta mentre ricordavo la mia
giornata. Mi
stavo addormentando e con me anche la sfera di luce si affievoliva, ma
non
potevo permettermi di assopirmi. Dovevo assolutamente pensare a
ciò che era
successo questo pomeriggio, il fatto che aveva interrotto una routine
che
andava avanti da cinque anni. Era successo tutto velocemente, dopo la
lezione
di scherma ero andata ad Hide Park giusto per ritardare il ritorno a
casa, mi
ero distesa sul prato per rilassarmi e proprio mentre ero nel piacevole
stato
del dormiveglia era successo…
L’erba
soffice sotto di me mi solletica
il collo, lasciato scoperto dai miei capelli ora distesi sul prato come
a
formare una corona sopra la mia testa. Il sole primaverile mi accarezza
il
volto, ma ormai erano le sei di sera ed era quasi tramontato, infatti
la luce è
tenue e filtra a malapena dalle mie palpebre socchiuse. Ma la quiete
tipica del
parco a quell’ora della giornata viene improvvisamente
spezzata da un rumore
violento, come una forte esplosione.
Mi
metto a sedere di botto, spaventata
dal rumore assordante. Apro gli occhi in cerca della fonte e una luce
bianca e
fredda quasi mi acceca. Porto una mano dinanzi al viso per pararmi gli
occhi e
nel mentre sento una voce provenire al centro di
quell’immensa fonte di luce.
“Vieni
cara, mi stavi aspettando, lo sai
che mi stavi aspettando, ora è giunto il
momento…vieni”
È
una voce di donna, una voce suadente e
calda a discapito di tutto quel freddo improvvisamente calato sul
parco. Mi sta
invitando ad…entrare con lei? Ma dove? Dentro la luce? Ma di
chi è la voce
misteriosa e cosa vuole da me? Cosa stavo aspettando?
“Chi
sei?” domando circospetta,
allontanando il busto istintivamente. Sono confusa e spaventata, e
provo
l’istinto di scappare. Sono certa che si tratti di un
fenomeno magico, ma chi
si azzarderebbe ad utilizzare la magia in un parco londinese, sotto lo
sguardo
di tutti? La voce non risponde alle mie domande, continuando invece a
cercare
di convincermi di seguirla. Non so chi sia, ma non mi fido. Dentro di
me
avverto una sensazione di pericolo. Agisco di istinto, mi alzo e urlo
“Va via!”
lanciando una palla di fuoco verso il centro della bolla di luce. Sono
cosciente del fatto che potrei essere vista, ma in quel momento
l'istinto di
conservazione è più grande.
Non ho
mai usato i miei poteri contro
qualcosa o qualcuno, ma spero di riuscire a far dissolvere la luce lo
stesso.
Invece la mia palla viene inglobata dalla fonte lucente.
“Non
puoi combattermi, sono come te…” la
voce continua imperterrita nella sua arringa.
Arretro
di un altro passo e mi tappo le
orecchie. Urlo ancora di andarsene, finché un ruggito
potente sovrasta tutto il
resto. La luce si dissolve e con essa va via anche il freddo. Sfinita
finisco
in ginocchio sull’erba. Mi guardo attorno, sperando che
qualcuno possa soccorrermi
e spiegarmi cos’è successo. Ciò che
vedo mi lascia basita. Ogni persona nel
parco è perfettamente tranquilla, chi intento a leggere, chi
a giocare a palla,
chi a seguire il proprio cane.
La
risposta a questa stranezza mi giunge
cristallina. Nessuno oltre me si è accorto di nulla.
Presi
un grande respiro e mi tirai su dal puff. Iniziai a misurare la stanza
grandi
passi. Le possibilità erano due: o stavo completamente
perdendo la ragione, o
aveva assistito a un’esibizione di magia in grande stile.
Considerando che se
avessi decretato di essere pazza vedendo qualsiasi magia sarei
internata già da
un pezzo, ero più propensa alla seconda
possibilità.
Ciò
mi elettrizzava e terrorizzava allo stesso tempo. Se era magia, voleva
dire che
non ero l’unica persona con questi poteri. Non ero da sola.
Avevo pregato di
conoscere qualcun altro con le mie stesse abilità da quando
le avevo scoperte,
e ora, dopo sedici anni di vita, finalmente avevo il primo segno di
qualche
altro mago o strega su questa terra. Ma la cosa mi terrorizzava anche.
Chiunque
fosse stato a creare quella grande luce, perché non si era
mostrato
apertamente? Perché farmi solo la richiesta vaga di seguirlo
facendomi sentire
la sua voce?
O
di seguirla, dato che ero quasi sicura che la voce fosse femminile. Ma
soprattutto, perché avevo provato tanta inquietudine
sentendola? Solitamente
avevo un sesto senso infallibile per distinguere il pericolo nelle
varie
situazioni, probabilmente una delle tante conseguenze dei miei poteri,
ma
potevo anche essermi sbagliata. Magari, presa alla sprovvista, avevo
captato il
pericolo dove non c’era.
Senza
contare che rimaneva l’interrogativo del ruggito che aveva
messo fine a tutto.
A chi apparteneva? C’era un leone accanto alla donna? Era con
o contro di lei?
O forse era solo il suono consueto che metteva fine alle magie della
donna? Per
quel che ne sapevo io, poteva anche essere un semplice effetto sonoro.
Infastidita
dagli innumerevoli punti interrogativi, mi risedetti a gambe incrociate
sul
puff. Misi la testa
tra le mani
sconsolata.
In
sedici anni non avevo mai assistito a nessuna magia al di fuori della
mia. Per
sedici anni avevo pregato e scongiurato il cielo più volte
di mandarmi un
segno, di dirmi che non ero sola a quel mondo. E avevo aspettato,
atteso con
ansia. E ora che finalmente era giunto il momento, il mio segno,
l’avevo
cacciato via terrorizzata. E se non fosse più apparso
nessuno? Se dopo la mia
reazione avessero deciso di abbandonarmi per sempre, sola con i miei
pensieri e
le mie paure?
Lo
sconforto si impossessò di me, temendo anche solo
l’idea di aver
rinunciato all’opportunità
di conoscere
qualcuno come me.
Riguardai
l’orologio. Erano le 3.30.
Decisi
che per quella notte mi ero tormentata abbastanza. Stare sveglia con le
mie
domande sarebbe servito solo a farmi assomigliare ad uno zombie la
mattina
successiva. A malincuore spensi la sfera di luce e mi diressi a tentoni
verso
la botola che mi avrebbe riportata al secondo piano della villetta,
diretta
alla mia camera.
Una
volta giunta a destinazione, mi avvicinai alla finestra e guardai le
stelle. Il
loro brillare immutabile nel tempo mi diede la forza di andare avanti a
sperare. La misteriosa luce sarebbe tornata e con essa le risposte alle
mie
domande. Dovevo solo continuare a sperare.