Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Enchalott    22/12/2021    3 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a tutti! :)
**************************************************
Dopo una guerra ventennale, i Salki vengono sottomessi dalla stirpe demoniaca dei Khai. Negli accordi di pace figura una clausola non trattabile: la primogenita del re sconfitto dovrà sposare uno dei principi vincitori. La prescelta è tanto terrorizzata da implorare la morte, ma la sorella minore non ne accetta l'ingiusto destino. Pertanto propone un patto insolito a Rhenn, erede al trono del regno nemico, lanciandosi in un azzardo del quale si pentirà troppo tardi.
"Nessuno stava pensando alle persone. Yozora non sapeva nulla di diplomazia o di trattative militari, le immaginava alla stregua di righe colorate e numeri su una pergamena. Era invece sicura che nessuna firma avrebbe arginato i sentimenti e le speranze di chi veniva coinvolto. Ignorarli o frustrarli non avrebbe garantito alcun equilibrio. Yozora voleva bene a sua sorella e non avrebbe consentito a nessuno di farla soffrire."
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Prigioniero
 
Eskandar provò a sollevare il capo e una fitta atroce sdrucciolò lungo la spina dorsale, ripercuotendosi nelle ossa. I muscoli delle braccia e delle spalle erano in fiamme, tesi allo spasmo come se dovessero lacerarsi da un momento all’altro, i polsi gli dolevano, serrati dalla morsa tenace del ferro e segnati dalle piaghe.
Respirare era una sofferenza. Il torace tappezzato di lividi si sollevava a malapena e ogni boccata d’aria scaturiva in una coltellata rovente: aveva qualche costola rotta e la posizione, appeso al soffitto con le ginocchia che sfioravano il pavimento, era un supplizio aggiuntivo.
Con uno sforzo che risucchiò le energie residue accostò le labbra al bicipite e leccò la pelle fregiata dai tatuaggi. Avvertì sulla lingua il sapore metallico del sangue e il sentore dell’inchiostro vegetale. Dovette rinunciare e ciondolò esausto dalle catene arrugginite. Le ciocche piovvero sul volto tumefatto, limitandogli la già ridotta visuale.
Niente male per i Minkari, pensavo avessero le mani meno pesanti.
La corrente d’aria che penetrava nei sotterranei lo sferzò con la crudeltà di mille aghi, increspandogli l’epidermide martoriata dalle scudisciate. Mosse le dita insensibili e un’impietosa contrazione gli transitò per il corpo.
Se solo non fosse così dannatamente freddo…
Non indossava nulla, neppure i brandelli dell’uniforme che aveva rubato e il clima impietoso dell’Irravin lo stava piegando più delle torture che gli venivano inflitte con bieca regolarità.
 
Quando aveva terminato di sbattersi la provvidenziale cameriera, questa lo aveva accompagnato all’infermeria.
«Ti affido il mio amico, dispensiere. Un arciere ineguagliabile, d’importanza basilare per il nostro esercito. Ricorda che sei in debito con me.»
Dallo sguardo lascivo dell’uomo era risultato lampante a quale genere d’obbligo si fosse riferita. Però lo aveva fatto passare senza fare domande, ammiccando in un impeto di solidarietà maschile.
«Quella non ne ha mai abbastanza. Attento a non farti incastrare.»
«Il rischio è suo» aveva ribattuto con un gesto osceno, provocando la risata sguaiata dell’altro.
Una volta entrato, aveva indossato un’anonima cappa da farmacista. Aveva notato un accesso sorvegliato da guardie armate fino ai denti, ardue da sopraffare senza attirare l’attenzione. Addentrarsi in quello che, a rigor di logica, era il laboratorio era una sfida irresistibile, non solo il fine primario. Si era spremuto le meningi e aveva esaminato ogni dettaglio, simulando una scialba efficienza per non essere smascherato. La sorte non gli aveva arriso: le persone autorizzate si conoscevano tutte e anche di notte, quando il viavai si riduceva, l’obiettivo restava fuori portata.
Poi l’inaspettato colpo di fortuna.
Aveva subito identificato Danyal nell’uomo che precedeva il gruppetto di visitatori. Non si era mai trovato faccia a faccia con lui, ma lo aveva scorto mentre sorvolava le merlature con Ankŭrsai. Impossibile il contrario.
L’alto ufficiale era accompagnato da alcuni guerrieri e da una donna di bassa statura, piuttosto graziosa, con una folta chioma di capelli bruni e dimessi abiti grigi. Il colore del lutto locale gli aveva consentito di riconoscerla come la regina, nonostante l’assenza di ornamenti distintivi. Sul giovane viso c’erano angoscia e stanchezza, dovute alla morte del marito, alla sorte segnata del figlio o alla penuria di cibo. Se l’avesse catturata, avrebbe avuto tra gli artigli un’arma più potente di quella dei Minkari. Mahati detestava il ricatto, ma forse lo avrebbe persuaso a usare Amshula come scudo o come merce di scambio per ottenere la resa incondizionata. Scoprire altri segreti sarebbe venuto di conseguenza.
Aveva rinunciato dopo aver sondato l’ammontare della scorta armata, posticipando a occorrenze favorevoli. Però aveva sfruttato lo svantaggio numerico. Distratti dal sopraggiungere della sovrana e dalle formalità, i nemici non si erano accorti che era sgusciato dall’ombra, aveva agguantato l’ultimo della fila e gli aveva spezzato il collo. Poi lo aveva scaricato in un anfratto, indossandone il mantello e l’elmo. Infine si era riunito alla comitiva con estrema disinvoltura.
Quando Danyal si era girato come avesse colto qualcosa di insolito, si era dato per perso. Aveva avuto la prontezza di celarsi dietro al tizio che lo precedeva e lo sguardo del generale era scivolato su di lui senza sospetti.
L’ambiente in cui era entrato era il luogo in cui venivano prodotti i medicamenti e i veleni. L’odore intenso lo aveva quasi stordito: dentro al miscuglio non era stato in grado di identificare un’essenza estranea o inconsueta, nonostante l’addestramento mirato. Aveva imprecato tra sé, pur avendo messo in conto la difficoltà oggettiva.
Danyal si era rivolto a un anziano dall’aria compita con evidente malumore.
«Si rende necessaria un’altra prova, mastro Zobel. Abbiamo atteso oltre il limite ragionevole, non ci sono notizie di vittime o di feriti gravi tra Khai. Impossibile stabilire se gli arcieri hanno fallito il bersaglio o se l’aculeo non è stato letale.»
Eskandar aveva raddrizzato le orecchie e aveva realizzato che la morte di Kerulen non era stata che l’ultimo esame messo in atto dai Minkari. Quanto al venirne a capo, nulla di fatto: si sarebbero dovuti preparare a un nuovo attacco invisibile.
Non c’è traccia di aghi nel corpo di Kerulen, che diavoleria hanno inventato!?
I soldati gli avevano coperto la visuale, così non era stato in grado di sbirciare oltre.
«L’unica è abbattere uno di quei dannati rapaci mentre sorvola le mura, sperando che il cavaliere sopravviva» aveva suggerito Danyal «L’esca della cattura del principe è logora, rischieremmo altre vite e non abboccherebbero affatto.»
Mastro Zobel aveva espresso contrarietà e la conversazione si era fatta frenetica, impossibile da seguire.
«Basta. Sarò io l’incentivo.»
La voce tenue della regina si era levata tra quelle maschili ed Eskandar si era stupito: le shitai minkari non erano temerarie, non c’erano donne tra le fila nemiche. Probabile che fosse un’azione disperata o il classico tentativo di immolarsi per il bene comune: l’idea di catturarla era tornata alla ribalta. Nessuno avrebbe pensato a un attacco dall’interno e sarebbe stato uno scacco.
«Mia signora, non posso acconsentire!»
«Non necessito della vostra approvazione, Danyal. Manderò una missiva al principe Mahati, offrendomi in ostaggio al posto di mio figlio. Chiederò di essere prelevata dagli spalti per evitare l’apertura dei portali e con tale scusa attirerò lassù i demoni. Voi pensate a catturarne uno.»
«È un suicidio! Le frecce non hanno occhi! Sarete alla mercé dello stormo!»
«Indosserò le protezioni sotto gli abiti e mi affiderò agli dei. Se mi catturassero, non cederete le armi neanche davanti al mio cadavere dilaniato.»
Per un istante il volto di Danyal era stato attraversato da un fremito d’angoscia.
«Che ne sarà dell’erede al trono se accadesse il peggio?»
«Diverrà re. Lo manderete a prendere e sarete il suo tutore.»
Mentre l’acceso dibattito era proseguito, Eskandar aveva bilanciato le scarse opzioni. Avvisare Sheratan era basilare: in assenza di controindicazioni avrebbe accettato lo scambio, avrebbe inviato i reikan e con probabilità uno sarebbe stato preso. I Minkari avrebbero agito sulla cavia e scoperto che l’arma segreta funzionava alla perfezione. Era l’unico a poter scongiurare la fine.
 
L’uscio della prigione stridette sui cardini, annunciando i carcerieri. Chiuse gli occhi e si abbandonò come incosciente, i sensi all’erta. Faticò a contenere l’effetto devastante degli spasmi alle braccia e quello dell’aria che non perveniva ai polmoni.
«Dèi immortali! È davvero un Khai? Sembra uno di noi!»
La voce carica di meraviglia risultò nuova, la sorpresa fu identica a quella di tutti i Minkari che si erano avvicendati nella cella.
«Senza corna, orpelli metallici e colorante non fanno paura, eh?» sghignazzò l’altro «Sono solo resistenti. Questo bastardo per esempio è arduo da ammansire.»
«Ha parlato?»
«Macché. Labbra cucite e neanche un lamento. Il generale ha ordinato di non ammazzarlo, ma mi piacerebbe sentirlo gridare.»
«Capisce la nostra lingua?»
«Non ha risposto. Il presunto interprete non ne sa molta, addirittura si è sentito male alla vista del sangue e abbiamo interrotto.»
«Gentucola di palazzo. Perché Danyal vuole conservarlo? Se non possiamo cavargli informazioni, tanto vale farlo fuori prima che i suoi lo vengano a cercare.»
«Bah, non credo che i demoni siano solidali. E poi è utile prendergli le misure, è la prima volta che ne catturiamo uno.»
«Mi chiedo come abbia commesso un errore del genere. Farsi sorprendere come un principiante.»
«Chiediti piuttosto come ha fatto a penetrare nel palazzo. Il generale è fuori di sé, non vorrei essere nei panni delle sentinelle! La sorveglianza è stata quadruplicata, ogni uomo è stato censito. Per non citare della possibilità che qualcuno si sia lasciato corrompere!»
«Assurdo. L’odio per queste carogne è più forte della fame. È stata la nostra debilitazione a farlo entrare e, se non avessimo avuto fortuna, sarebbe uscito allo stesso modo. Chissà cosa stava cercando.»
«È ora di chiederglielo.»
La secchiata d’acqua gelida scrosciò sul corpo nudo di Eskandar, provocandogli nuovi brividi. Tossì, inalando il gelo polare dei sotterranei. La tintura con cui si era scurito i capelli colò rivelando il blu naturale.
«Che sei venuto a fare in casa nostra!? Rispondi!»
Al suo silenzio seguirono pesanti sferzate, che gli strapparono nuovi lembi di pelle e slabbrarono le lesioni precedenti: il dorso era un reticolo di dolore, i colpi risultavano quasi inutili ad accrescere la pena. Il suo aguzzino abbassò la mira sulle natiche e sulle gambe con rinnovato furore, ripetendo la richiesta.
«Ti credi un duro, eh? O ti vergogni di essere tanto stupido e preferisci crepare?»
«Vediamo con un incentivo si convince a collaborare» abbaiò il compare.
Quando il ferro rovente gli ustionò il fianco, il reikan fece appello a ogni risorsa per non gridare. Grugnì stringendo i denti, dimenandosi con muta sofferenza.
«Questa l’ha sentita.»
L’odore della carne bruciata raggiunse le narici e ostacolò il respiro. Eskandar spinse la mente lontano, alla ricerca di un luogo astratto, come aveva imparato durante l’addestramento per non essere sopraffatto dalla fatica, dalle privazioni o dalle torture. L’eco del dolore lo inseguì ostinato come una muta di cani da caccia.
«È tornato nel mondo dei sogni?»
«Diamogli la sveglia.»
Il sorvegliante sfilò il coltello e lo arrotò. Poi gli si avvicinò, lo afferrò per i capelli, gli rovesciò la testa all’indietro e gli schiacciò il filo acuminato contro la carotide. Un rivo di sangue scese lungo il petto e gocciolò a terra.
«Potrei dire di non averlo fatto apposta. Ammazzarti piano e godermi ogni singolo momento della tua miserabile vita che fugge.»
Lo strattonò in un tintinnio di catene e fece scorrere la lama: la lunga chioma venne recisa di netto. Solo una ciocca intonsa, intrisa di sangue raggrumato gli si appiccicò alla guancia livida.
«Così non ne caveremo nulla! È ora di appesantire il gioco.»
«Nessuno è mai morto per una mano tagliata, vero?»
«Non che io sappia.»
«Tiriamolo giù. Prendi il blocco di legno.»
Gli anelli di ferro scorsero veloci per la carrucola e il guerriero Khai piombò sul pavimento a peso morto. Il lastricato odorava di muffa e di ghiaccio. La tensione alle membra si allentò in nuove fitte. La circolazione si riattivò in un crescendo di stilettate pungenti, ma finalmente riuscì a riempirsi dell’agognato ossigeno.
«Sei sicuro che i legacci reggano? Quando l’hanno beccato erano in quattro a tenerlo a bada.»
«Non era moribondo. Sfido chiunque a reggersi in piedi in quello stato e poi ha i ceppi alle caviglie. Non riuscirebbe a muovere un passo.»
Il secondo aguzzino lo agguantò: gli strinse la corda alla gola e gli posizionò il braccio sul supporto, fermandolo con un altro giro.
«Se dovesse muoversi, tira.»
Eskandar percepì la pressione della fune sotto il mento: sarebbe bastato un gesto per mandarlo in anossia, uno più deciso per impiccarlo.
I passi si avvicinarono. Udì il raschiare della lama contro la parete, un atto volto a snervarlo e a prolungare la tensione. Socchiuse le palpebre: il gonfiore del viso e il sangue che gli colava negli occhi lo accecavano, tuttavia l’odore ributtante del suo torturatore era perfettamente individuabile.
Questi si accosciò senza fretta e gli scalfì la pelle poco sopra il polso.
«Avete usato una spada per mutilare Namta, non ti andrà altrettanto bene. Ti affetterò come un maiale e quando arriverò all’osso non cambierò strumento. Oh sì, temo sarà insopportabile.»
«Ti conviene confessare» suggerì l’altro «Dicci cosa sei venuto a fare e finirà!»
Non giunse risposta. I due si guardarono a metà tra l’irritazione e la soddisfazione: fallivano nell’estorcergli le informazioni, ma arrecargli ulteriore male era appagante.
La lama gli penetrò la carne con lentezza: lasciò che il secondino si dedicasse al suo compito e raccolse le energie, conscio di non avere che una possibilità.
Devo avvertire Mahati, il regolamento di conti con questi rifiuti è solo rimandato.
Sollevò adagio la destra, poi assestò uno strattone alla corda, trascinando in avanti l’uomo che tratteneva il capo opposto.
«Ma che diavolo!?»
Non fece in tempo a raccapezzarsi che Eskandar gli affondò l’artiglio in un occhio.
L’urlo agghiacciante risuonò nell’ambiente spoglio con il torrente di imprecazioni del collega, che si trovò da solo a trattenere il prigioniero risuscitato all’improvviso.
In pochi secondi il veleno fece effetto e i movimenti del nemico ferito rallentarono: la mano con cui copriva l’orbita svuotata si irrigidì, le grida si affievolirono in una sommessa richiesta d’aiuto. Lasciò il coltello, vomitando parole incoerenti e schiuma.
Il reikan si gettò sull’arma, seguendo il piano che aveva elaborato, ma il secondo carceriere non si lasciò sorprendere: lo trascinò indietro con un violento strappo e gli fece mancare la presa.
«Dannato demonio, credi che sia stupido!?»
Eskandar scivolò a terra ostacolato dai ceppi e si rivoltò preparandosi al corpo a corpo. Un dardo sottile gli si conficcò nel petto, trasmettendogli un fiotto amaro. La vista si velò, la testa prese a girargli.
Narcotico! Sommo Belker…
Perse la cognizione di sé con la percezione lacerante dell’unghia che gli veniva strappata e le rabbiose ingiurie del torturatore che stringeva le pinze insanguinate. Qualcosa lo colpì alla tempia e tutto si fece buio.
 
I fiocchi di neve scendevano in spirali sullo spiazzo fangoso. La luce lattea del mattino illuminava l’accampamento: strano vederlo dall’interno e non dall’alto.
Shaeta intirizzì. Indossava ancora le vesti femminili e i brandelli gli pendevano dalle spalle.
Almeno le lezioni di cucito mi fossero servite a qualcosa!
Gettò un’occhiata agli altri prigionieri: tutti maschi, le ragazze erano state portate via. L’idea che fossero costrette a compiacere gli istinti dei nemici lo riempì di sconforto. Il sospiro s’innalzò in una voluta bianca: quando si era assopito, il sonno si era popolato di incubi, nessuno più terrificante della realtà.
Taygeta lo aveva obbligato a scrivere che era in buona salute e che avrebbe lavorato come shitai. Si era stupito che non gli avesse imposto di implorare la resa o la liberazione e non aveva parlato di riscatto. Era precipitato nel panico: forse avrebbero imitato la sua calligrafia per convincere sua madre che era in vita mentre i vermi lo stavano spolpando. Quei pensieri lo annientavano.
Non sono portato per il coraggio, neanche se mi sforzo.
Guardò in aria, circondandosi le ginocchia con le braccia. La neve, che adorava, non riusciva a risollevarlo.
Uno guerriero entrò nel recinto e squadrò truce le persone rannicchiate a terra, che si rattrappirono in un’ondata di panico. A Shaeta si drizzarono i capelli quando indugiò su di lui. Quello ringhiò, lo agguantò per un braccio e lo spintonò fuori.
Fu portato dalla parte opposta dell’accampamento, ove erano allineate tende di piccole dimensioni. Non sembrava il luogo destinato a un’esecuzione.
La mia morte verrebbe spettacolarizzata, da qui la reggia non si vede.
Ciò non contribuì a restituirgli fiducia: in tutte le fiabe, la strega ingrassava la preda prima di divorarla. Deglutì, cercando di apparire meno patetico di come si sentiva.
L’unico in grado di privarmi della dignità sono io. Danyal me lo ripete sempre.
La fitta di nostalgia lo convinse che non era il momento di piagnucolare. Con la manica sbrindellata si asciugò di nascosto le lacrime e attese che l’accompagnatore gli assegnasse un incarico.
Invece il demone si fermò all’ingresso di un padiglione e richiamò l’attenzione degli occupanti. Uscì una ragazza, che si affrettò ad abbottonare l’uniforme.
«Ti ho interrotta, Dasmi?»
«Che vuoi, Erydan? Ho chiesto di non essere seccata!»
«Cambia tono, essere figlia di Taygeta non ti dà i gradi! Guadagnateli in battaglia, se vuoi ostentarli con gli altri.»
Lo sguardo irato di lei sostò sul prigioniero malconcio che l’altro si trascinava dietro.
«E quello? È uno scherzo?»
«No, è il principe ereditario dell’Irravin ed è tutto tuo. Sorveglialo, sfiancalo di lavoro, non m’interessa.»
«Cosa!? Sono impegnata nel tirocinio, non ho tempo per uno shitai
«Discutine con Sheratan. O fatti assistere da Valka, sarebbe libero se non spendesse la giornata a correrti dietro.»
Dasmi sibilò un epiteto, ma Erydan le girò le spalle e tornò ai suoi doveri.
Shaeta assistette senza capire una parola, tuttavia l’espressione inferocita della guerriera suggerì lo scarso entusiasmo per la conversazione intercorsa, della quale era oggetto. Restò impalato, tremando di paura.
Un Khai alto e vigoroso sbucò dalla tenda: indossava solo i pantaloni, il petto nudo era fregiato con simboli di guerra. Agganciò un fermaglio tra i capelli rosso scuro e sussurrò qualcosa all’orecchio della compagna, che lo allontanò con una gomitata.
«Sei un maschio?»
Shaeta sussultò. La ragazza aveva parlato in minkari e lo scrutava dall’alto in basso, non solo perché lo superava di due spanne buone.
«S-sì.»
«Allora cambiati, prima che ti scambino per una schiava e ti scelgano per la nottata. Muoviti! Andrai a spaccare la legna, almeno non creperai di freddo.»
«S-sono abituato all’inverno.»
«Parla se sei interrogato!»
Il ragazzo inghiottì un groppo di saliva e annuì terrorizzato.
«Suvvia Dasmi, così se la farà addosso e dovremo anche fargli un bagno» obiettò Valka «È talmente gracile che non riuscirà a sollevare la scure! Quanti anni avrà?»
«Non m’interessa. Se vuole mangiare obbedirà.»
«Io non ho voglia di finire in punizione perché tu sei di malumore. Non brillo di gioia ad averlo tra i piedi, però se si ferisce o schiatta diremo addio alla carriera. Sheratan non è indulgente.»
La ragazza sbuffò, girando la richiesta al prigioniero.
«La tua età?»
«Vado per i quindici, reikan» esalò Shaeta.
«Sono capitano!» ringhiò lei, facendolo rimpicciolire.
«Quindici?» bofonchiò Valka «E quanti sarebbero tradotti nei nostri?»
«Sei un imbecille, è un calcolo elementare!»
«Diamine, è tuo coetaneo!» esclamò il guerriero dopo una breve elaborazione «Uno di noi sarebbe già schierato in campo!»
«Questo la dice lunga sui fiacchi costumi minkari. Può lavorare, fallo vestire in fretta.»
«Devo cambiarmi qui?» avvampò Shaeta quando il giovane gli procurò gli abiti.
«E dove se no? Sotto la neve?»
«E-ecco… c’è una signora.»
Dasmi spalancò gli occhi, mentre l’altro scoppiò in una fragorosa risata.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Enchalott