Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    25/12/2021    2 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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TIA
 
 
 
 
 
Nadia si passò una mano sulla schiena dolorante, come se il gesto avesse potuto alleviarle il fastidio, e sospirò. Era all’ultimo mese di gravidanza e iniziava a sentirlo tutto. La pancia era un tondo perfetto, le sembrava di scoppiare, e negli ultimi giorni l’acidità allo stomaco si era fatta insopportabile. Sperò significasse che mancava davvero poco.

«Mamma!»
Philippe entrò di corsa, sporco tanto per cambiare di olio da motore.
«Dove sono le mappe?»
Nadia prese un fazzoletto e cercò di pulirgli almeno il viso.
«Quali mappe?»
«Le mappe del Nautilus!»
Ah, già. Le planimetrie che Raoul ed Electra avevano regalato a Philippe per il suo quinto compleanno. Il bambino aveva espressamente chiesto a suo padre un Nautilus in regalo e, dato che quello vero non era più disponibile, una riproduzione dettagliata in scala era sembrata la soluzione ideale.
Così Jean e Philippe, acquisiti i progetti, si erano messi all’opera.
Jean aveva già avuto modo di studiare il Nautilus quand’era stato imbarcato, con l’aiuto di Raoul e degli altri tecnici di bordo, ma non gli sembrava vero di avere sottomano i progetti originali.
Aveva passato ore a decifrarli, specie le glosse che Raoul aveva aggiunto a margine.
C’era perfino qualche appunto di Nemo, per quanto riguardava soprattutto il funzionamento dei motori.
Quel sottomarino era stato un capolavoro di tecnologia che sarebbe rimasto ineguagliato per secoli, forse per sempre.
Nadia aveva dato un’occhiata a quei fogli solo di sfuggita. Non ne capiva nulla e, d’altra parte, non si era mai interessata di meccanica. Le bastavano i commenti entusiasti di Jean.
«Le “mappe” sono in salotto, Philippe. Le aveva prese Jean ieri sera e credo di averle viste sopra al tavolo.»
Fece qualche passo verso la porta, per accompagnare il figlio in salotto.
Sentì la prima contrazione, forte, e quasi si piegò in due dal dolore.
Eccoci, pensò.
«Philippe», riuscì a sussurrare tra i denti, «vai a chiamare tuo padre, sbrigati.»
 
Jean mandò subito a chiamare la levatrice e, aiutato dalla zia, accompagnò Nadia in camera da letto e la aiutò a stendersi.
«Ora vai», disse l’anziana, «resto io qui con lei.»
Jean sudava freddo ma annuì, non prima di aver stretto la mano di Nadia e di averle sorriso.
«Andrà tutto bene», disse alla moglie, accarezzandole i capelli.
Nadia si sforzò di sorridergli, ma fece una smorfia di dolore.
C’era qualcosa che non andava, non sapeva perché ma lo sentiva.
Sperò che la levatrice facesse in tempo.
«Come ti senti?» le chiese la zia di Jean.
«Potrei stare meglio», fu la sua risposta.
Si tirò su, appoggiandosi ai cuscini.
«Ho bisogno di camminare un po’», disse.
La zia la aiutò ad alzarsi, sostenendola mentre faceva qualche passo.
«Fa molto male?»
«Abbastanza, ma credo che ci vorrà ancora un po’. Spero che la levatrice si sbrighi.»
Se conosceva Jean, doveva essere volato con la moto-sidecar fino a casa della donna e sarebbe stato di ritorno a brevissimo. E Philippe? Chissà se l’aveva portato con lui?
«Ouch!»
Una contrazione la spinse a stendersi di nuovo.
C’era qualcosa di strano, una sensazione.
«Zia…» sussurrò «Quanto ci mette la levatrice?»
Non sentiva ancora il bisogno di spingere, ma aveva la nausea e si sentiva debole.
Un malessere che non aveva origine dal parto, o almeno non solo da quello.
Sentì il rombo della moto di Jean fuori dalla finestra e tirò un sospiro di sollievo.
«Mamma!»
Philippe, fuori dalla porta.
«Mamma, cosa c’è?»
La porta si spalancò ed entrarono Jean, con Philippe in braccio, e la levatrice.
«Siamo in tempo?»
La zia annuì.
«Manca ancora un po’.»
A Nadia non sfuggì l’espressione della levatrice mentre le esaminava la pancia.
La tastò più volte, spingendo a fondo.
«Allora?» domandò la zia.
La levatrice sospirò. Era un guaio, sarebbe stato un parto complicato.
«Il bambino è podalico», disse.
Sia Nadia che la zia sbiancarono.
«Cercherò di provare a farlo girare, ma non garantisco di farcela. Potrebbe essere tardi.»
 
Tardi per chi?
Nadia se lo chiede ancora, talvolta.
Di quei momenti ricorda il dolore, che ancora andava e veniva, le contrazioni sempre più ravvicinate, le mani della donna sulla pancia che spingevano e manovravano con fare sapiente.
Sembrava sapere perfettamente cosa fare.
 
«Niente da fare, non si gira.»
 
Nadia ricorda distintamente la paura.
Quella paura atavica di morire che si faceva strada.
Lei e il bambino.
Per chi sarebbe stato troppo tardi?
 
«Spinga», disse la donna. «A questo punto l’unica fortuna è che non è un bambino grosso, possiamo provare a farlo uscire così. Cercherò di tirarlo giù.»
In fretta, perché con la testa ancora dentro avrebbe rischiato di soffocare o di non riuscire a uscire.
In fretta, perché la madre non sarebbe forse riuscita a sostenere uno sforzo prolungato e inutile.
Nadia ci provò, spinse, urlò. Spinse ancora.
«Coraggio», disse la levatrice.
La zia le teneva la mano, Jean era da qualche parte fuori dalla stanza, con Philippe.
 
La sensazione di essere aperta in due, anche quella ricorda.
La sensazione di qualcosa che si incastra, che non è come dovrebbe.
Può passarci, la levatrice che parla. È abbastanza piccolo, ci passa.
La paura di morire.
La consapevolezza di doversi sbrigare anche per lei, per la bambina, che rischiava di morire appena nata.
La sensazione di qualcosa che non va.
Anne Marie Lartigue.
Una bambina piccola, abbastanza da poter nascere podalica.
Minuta, Anne lo è rimasta.
Un fuscello, aggraziata come una gazzella, il viso di una bellezza antica e gli occhi verdi e profondi del nonno.
È venuta al mondo dopo un travaglio lungo, complicato.
Un miracolo che siano sopravvissute tutte e due.
 
Alla fine, Nadia s’era accasciata senza forze, senza neppure un pensiero.
Anne era nata cianotica per la mancanza di ossigeno, la levatrice l’aveva stimolata a respirare, allora aveva spalancato la bocca e aveva pianto.
Un pianto lungo, acuto.
Gliel’avevano porta dopo averla lavata, perché la abbracciasse e provasse ad attaccarla al seno.
Lei non si attaccò. Non all’inizio, almeno. Ci provò più volte, morse, gemette arrabbiata e affamata. Alla fine, con pazienza, Nadia la guidò fino al capezzolo. Anne Marie morse ancora, più volte.
 
Anche arrabbiata sarebbe stata sempre.
 
 
La notizia della nascita di Anne raggiunse Electra ed Etienne appena rientrarono in albergo, a Rouen. Erano nel mezzo delle trattative per l’acquisto di un bell’appartamento vicino a Rue de la République e avevano avuto una giornata indaffarata fra banche e notai.
Era stato Jean a chiamare l’albergo, per poi lasciare un messaggio che li attendeva sul tavolino della loro stanza.
«Meno male che è andato tutto bene», disse Electra. «È una bambina, hai letto?»
Etienne annuì, con gli occhi fissi sul biglietto.
«Andiamo da loro domani?»
«Certamente.»
Etienne annuì di nuovo, lentamente, poi guardò il cielo fuori dalla finestra.
«Sembra che stanotte verrà a piovere.»
 
Il portellone si apre con un ronzio metallico.
Etienne, istintivamente, si mette sull’attenti.
Lei sta in silenzio, gli occhiali sul viso e i capelli biondi sciolti sulle spalle.
Sembra assorta, rilassata però.
Capendo che non si tratta di una convocazione ufficiale, Etienne si rilassa a sua volta.
«A cosa devo l’onore, Grande Capo? È raro che mi chiami dopo cena.»
Electra si lascia sfuggire un ghigno nel sentire quell’epiteto scherzoso che mal sopporta, e gli indica una sedia.
«Ho forse bisogno di scuse per vedere mio figlio?»
Etienne vede la scacchiera sul tavolo, capisce immediatamente.
«Partitella?»
Electra annuisce.
«Non giochiamo più da tanto.»
Non riuscirà a batterlo, lo sa bene, non ci riesce più da anni.
Lo sfida lo stesso, però, perché quei momenti di intimità le sono preziosi come l’aria.
Lui si siede, dispone i suoi pezzi, sembra sereno.
Meno male.
«Dunque», le chiede dopo un po’. «Di cosa mi devi parlare?»
Non gli si può nascondere nulla.
«Di Anne.»
Etienne sorride piano, annuisce, si passa fra le mani la regina nera degli scacchi.
Electra sa che non c’è niente da aggiungere.
Lui sembra pensare, sta ancora per un po’ in silenzio, poi alza lo sguardo su di lei e gli occhi blu riflettono occhi blu identici.
«Ricordo quel sogno come se l’avessi fatto adesso.»
Electra apre spostando uno dei pedoni.
«Eri inquieto anche prima. Prima di andare a dormire, intendo. Guardavi fuori dalla finestra.»
Pedone in d4.
«Lo so. Era l’aria. Col senno di poi l’ho capito. Era il modo in cui si è alzato il vento, in cui tutto si è mosso. Niente era più come doveva essere. Ero intimorito, soggiogato. Ero…»
Pedone in c4.
Sarà una lunga partita.
 
Il ragazzo è in un sogno.
Lo sa, lo sente.
È un sogno diverso, però.
La visione di qualcosa che lo insegue.
Contorni indistinti, tutto intorno a lui è buio.
Ha imparato a conoscere tutti i luoghi dei sogni e quello non assomiglia a niente.
 
L’alfiere segue il pedone.
Lo mette alle strette.
«Ero spaventato. Ma curioso, anche. Avevo paura ma volevo capire.»
 
Dal fondo del buio si fa strada una forma.
Un rumore, dapprima.
Un clangore come di metallo arrugginito.
Poi la forma, laggiù.
Un ragno di metallo.
Etienne ha paura.
I battiti accelerano, la forma scompare.
Etienne è sveglio.
 
«E hai capito?»
«Sì. Tutto quanto. Anche in che modo fare scacco al re fra cinque mosse.»
Electra sorride.
«Non mi sottovalutare.»
 
«Sai, mamma, stanotte ho fatto un sogno strano.»
Electra alzò gli occhi dal vassoio della colazione.
«Uno dei tuoi?» domandò.
Etienne inghiottì un pezzetto di croissant alla marmellata e bevve un sorso di caffellatte.
«Sì. Cioè no. Non saprei. Era strano.»
«Racconta.»
«Non c’è tanto da dire. Era tutto buio e in lontananza si sentiva rumore di metallo, come di qualcosa che si muoveva. E poi è comparso una specie di enorme ragno.»
«Un ragno?»
«Sì, un ragno finto. Nel senso, la forma era come di un ragno ma era una macchina. Non so che macchina. Era enorme, abbastanza da contenere più di una persona. Bianco, mi pare. O grigio chiaro.»
Nel vedere che Electra non rispondeva, Etienne continuò.
«Mi ha lasciato una brutta sensazione. Come se mi stesse inseguendo. Poi però mi sono svegliato, quindi non saprei. Era qualcosa che non avevo mai visto, questo è sicuro.»
Buttò giù un altro sorso di latte. Electra non rispondeva. Sembrava, d’improvviso, assorta nei suoi pensieri. Etienne la osservò per un po’, la vide sollevare con fare meccanico la brocca con la spremuta d’arancia che aveva chiesto per sé.
«Perché ti trema la mano?» le chiese.
Electra, allora, si riscosse.
«Non è niente», e si versò da bere. «Appena fatta colazione preparati, andiamo a trovare tua sorella.»
«Sì!»
 
Platone parla di un metallo chiamato orihalcon che veniva estratto ad Atlantide e di cui si perdette notizia dopo l’affondamento dell’isola.
Il metallo e le sue miracolose proprietà rimasero, nel mondo degli uomini, come leggenda.
Nel nome del mito attraversarono i secoli.
Intanto, in Africa Centrale, protetta dalle alte mura di Tartesso, la civiltà dei discendenti di Atlantide ancora prosperava.
Con essa l’orihalcon, la Pietra Azzurra.
 
Era da poco passata l’ora di pranzo quando il telefono squillò.
Raoul, che stava rassettando, sobbalzò. Poteva essere solo una persona a chiamarlo.
«Electra?» chiese nel portarsi all’orecchio la cornetta.
Lei non lo salutò neppure.
«Vai subito di sotto e controlla le fluttuazioni nei livelli di orihalcon. Fai una rilevazione se necessario e appena hai i dati richiamami.»
E buttò giù.
Raoul si grattò la testa, pensieroso.
La bambina era agitata. E quando era agitata non era mai buon segno.
«Che sarà successo adesso?» si chiese.
Le obbedì, in ogni caso. Non farlo era fuori discussione. Andò fino allo studio che era stato di Elusys e tirò giù dalla libreria il volume che già una volta Etienne aveva manomesso. Sulla copertina c’era un quadrante con simboli dell’alfabeto di Atlantide. Raoul inserì manualmente il codice, lottando con la memoria. Per sicurezza cambiavano la cifratura una volta alla settimana, il che non avrebbe comunque impedito a Etienne di entrare. Gli era bastato toccare il libro, quella volta. Era una precauzione che Electra aveva voluto continuare a prendere, però, chissà perché. Raoul non aveva mai messo in discussione le sue decisioni, ma c’erano volte in cui non riusciva a capirla. La guerra era finita eppure lei si comportava come se fosse necessario continuare a lottare. Lei non aveva mai smesso di lottare, contro che fantasmi Raoul non l’aveva mai saputo.
La porta che conduceva al sotterraneo si aprì e Raoul scese, non senza fatica, le scale.
Raggiunse i macchinari, sempre accesi, e controllò i dati delle ultime ore.
Quasi non credette ai suoi occhi.
Electra aveva ragione. Era stata questione di pochi secondi ma, quella notte, poco prima del sorgere del sole, i parametri di attività dell’orihalcon erano schizzati verso l’alto come non era più accaduto da quando erano sparite le Pietre Azzurre.
Fece una stampa dei dati e corse di nuovo al telefono.
«Allora?» chiese Electra.
«Allora hai ragione, c’è stata una significativa oscillazione dei parametri stamattina molto presto. Non riesco a spiegarmela.»
«Io sì. Etienne ha sognato un modulo Makad.»
Raoul rimase in silenzio e si sforzò di pensare.
«Sei sicura?»
«Da come lo ha descritto, sì.»
«Potrebbe non significare niente, Electra.»
«Lo so.»
«Il ragazzo sogna tante cose.»
«Ma questi non può averli visti a Tartesso. Non c’erano.»
Raoul non rispose.
«E ora è nata la bambina», continuò Electra.
«Oh, mi fa piacere. Fai le mie congratulazioni a Nadia e Jean quando li vedi.»
Ma Raoul, al di là della gioia sincera, capiva bene le implicazioni delle parole di Electra.
«Pensi che le due cose siano collegate?»
Lei sospirò, un sospiro stanco, preoccupato.
«Non lo so, Raoul. Non lo so. Con Philippe non era successo niente.»
«Probabilmente è stato solo un caso, Electra. Stai tranquilla.»
Poté quasi vederla mentre scuoteva la testa in segno di diniego.
«Il caso non esiste. Non con Atlantide. In ogni caso, ti prego… anche se stai pensando che io sia pazza, tieni sempre d’occhio i livelli di orihalcon e se noti qualcosa di strano avvertimi subito.»
«Certamente.»
«Io ed Etienne rimarremo in Francia. Almeno per adesso.»
«Insiste a voler stare con Nadia?»
«Sì. E come ti ho detto, con Atlantide il caso non esiste. Anche se lui ancora non lo sa.»
Raoul aveva chiesto più volte a Electra contro cosa stesse combattendo. La risposta, ogni volta, era stata quella. Non lo so. Non lo so, non lo so. Forse erano solo suoi fantasmi, i ricordi di una donna che aveva visto e vissuto troppe cose. Raoul pregò che fosse così, per Etienne e per tutti i giovani che erano venuti in quel mondo e che in quel mondo avrebbero vissuto.
 
«Così vuoi parlare di Tia.»
Alfiere mangia pedone.
«Di Anne, sì.»
«Di Tia.»
Occhi blu pacati ma assertivi, la postura rilassata, inattaccabile, il principe muove la torre.
«Il suo nome è Tia.»
La torre protegge il re.
 
La bambina piangeva, non c’era verso di calmarla.
Un pianto rabbioso, inconsolabile, che non calmava il cibo, che non calmavano le carezze o la voce della madre.
Era un pianto senza ragione apparente.
Fu da quelle urla che vennero accolti Etienne ed Electra appena scesero dall’autovettura che li aveva portati fino a Le Havre. La voce di Nadia cercava invano di calmare la neonata.
Etienne non salutò neppure Jean, che aveva aperto loro la porta d’ingresso.
Corse al piano superiore, s’affacciò nella camera.
 
Etienne ride.
«Una neonata arrabbiata viola in faccia e col moccio al naso. Era buffissima.»
 
Nadia si voltò, in vestaglia, con Anne Marie in braccio e due occhiaie spaventose.
«Etienne!»
Lui non rispose. Pietrificato, le pupille dilatate dallo stupore, tratteneva il fiato e guardava la bambina. Lei, in quel momento, s’acquietò. Si osservarono, lui, la madre e la bambina, come se non si fossero mai visti. Due lacrime scesero dagli occhi di Nadia, nel guardare Etienne.
«Scusami. Non so che mi succede.»
Lui scosse la testa, le sorrise, gli occhi lucidi di commozione e gioia.
«Non fa niente.»
Tese le braccia.
 
«Ho posato gli occhi su di loro e ho capito perché ero venuto al mondo.»
 
 
La bambina, nata da poche ore, riposava quieta fra le sue braccia.
Nadia ne aveva approfittato per dormire qualche minuto a sua volta. Stavano in tre sul letto matrimoniale, Nadia in camicia da notte stesa lungo il fianco, Etienne poggiato alla testiera del letto che cullava Anne Marie, cantandole una ninna nanna sottovoce.
Lei si svegliò, ma non pianse.
Semplicemente stava lì, come in attesa, gli occhi ancora offuscati persi a cercare qualcosa nell’aria. Era impaurita, era arrabbiata, ma sentiva la presenza di Etienne e ad essa reagiva. Lui la guardò a lungo.
«Sei piccolissima», disse, e le asciugò un rivolo di bava col tovagliolo.
Poi la osservò ancora, e lei gorgogliò.
Etienne allora sorrise, s’avvicinò alle sue guance. Se non vedeva ancora bene con quegli occhi appena nati, poteva udire benissimo.
«Aapaka naam hai Tia», le sussurrò all'orecchio.
 
«Tia, va bene», dice la madre.
Si scrutano, lei e il figlio, da pari a pari.
Poi Electra sospira, si indurisce sulla sedia, gli occhi della madre diventano gli occhi del comandante.
«Che cosa c’entra lei con tutto questo?»
Etienne è imperscrutabile.
 
«Il tuo nome è Tia.»
 
Scacco al re.



 
   
 
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