Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    26/12/2021    0 recensioni
La morte non era un privilegio a cui poter accedere senza mancare di rispetto a chi l’aveva voluto vivo.
Aveva un dovere…
E quel dovere lo aveva reso un mostro.
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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Fanfic scritta per l’Advent Calendar e per la 6shipchallenge del gruppo Hurt/Comfort Italia – Fanart and Fanfiction
 
Su prompt di Silvia Gazzo. In realtà il tuo prompt è solo sfiorato, scusa, ma avrò tante altre occasioni di scrivere sull’argomento :P
 
Autrice: Perseo e Andromeda, Heather-chan
Fandom: Attack on Titan
Titolo: Mostro
Prompt: 24. Nulla
Personaggi: Jean e Armin, implicite Jearmin ed Eremin
Rating: Giallo per presenza di tematiche delicate, riferimenti a violenza di guerra, PTSD e varie magagne psicologiche ^^
 
 
 
MOSTRO
 
Non sapeva perché i suoi passi lo stessero conducendo proprio lì, dall’unica persona che, in quel momento, considerava un appiglio, una speranza, un rifugio in cui soffocare tutta la propria disperazione.
Eren era rinchiuso in una cella ed era così distante da sembrare un’altra persona.
Anche se gli avessero concesso di andare da lui, cosa avrebbe ottenuto?
Annie non gli avrebbe dato il calore umano di cui aveva bisogno, non gli avrebbe dato due braccia nelle quali gettarsi.
E Mikasa…
Non aveva alcun diritto di andare a piangere da Mikasa: Mikasa andava protetta, soffriva già abbastanza, non avrebbe gettato sulle sue spalle anche il proprio dolore.
In realtà non avrebbe voluto farlo gravare sulle spalle di nessuno, ma in quel momento credeva di impazzire, non sapeva cosa fare e si era messo a camminare senza quasi rendersene conto, lasciandosi guidare solo dai suoi passi, dal suo bisogno, dalla disperazione che lo mandava interiormente in pezzi.
“Armin…”.
Si fermò nell’udire il suo nome pronunciato da una voce calda e solo allora si rese conto che, pur nella passività mentale che lo aveva invaso, pur nella quasi incoscienza con cui li aveva compiuti, i suoi passi proprio quella persona stavano cercando.
Sollevò lo sguardo e venne colto di sorpresa da un violento capogiro.
Due braccia forti che lo sorressero gli impedirono di crollare a terra.
“Armin!”.
Il richiamo ora pressante e intriso d’ansia fu l’ultimo suono che udì.
 
***
 
Al ragazzo sembrarono essere trascorsi solo pochi istanti quando la coscienza tornò, ma l’ambiente era diverso, era morbido, il calore avvolgente e una mano gli accarezzava il viso.
“Ti stai svegliando, finalmente. Mi hai fatto prendere un colpo!”.
“Jea… Jean… cosa…”.
Si sentiva così debole che neanche provò a tirarsi su.
Si stava così bene, con la testa su un cuscino, con quelle mani affettuose che si prendevano cura di lui.
“Non ti ricordi? Mi sei svenuto tra le braccia, avevi un’aria sconvolta”.
Chiuse un attimo gli occhi, deglutì, cercò di trovare dentro di sé almeno il briciolo di energia che potesse aiutarlo a riordinare le idee e a capire cosa fosse successo.
Così, poco a poco, i ricordi tornarono.
Ricordò di essersi sentito malissimo e tremendamente solo, immerso in un panico che non era in grado di controllare.
Ricordò che Eren era lontano da lui, che troppe cose erano cambiate e che…
Il cuore sembrò esplodergli in petto.
Ricordò che il colossale aveva commesso un massacro.
“Io ho commesso un massacro… io ho…”.
Si portò le mani agli occhi, non era possibile sopportare tanto, accettarlo, farci i conti.
“Oddio… oddio…”.
“Armin… ehy… Armin… cosa c’è?”.
Perché Jean era così gentile? Perché era così dolce?
Lui non lo meritava, era un mostro, era un assassino.
Lui era diventato uno di quegli esseri orribili che guardavano dall’alto persone innocenti e le massacravano senza pietà.
C’era stato un tempo in cui lui si era trovato ai piedi del colossale, che lo guardava dalla sua spaventosa altezza. E lui era solo un bambino…
Indifeso, innocente…
Ma poi lui era diventato il colossale, era lui quella cosa orribile che guardava il mondo dall’alto, ed era un altro il bambino innocente…
Quello che, a differenza sua, non era sopravvissuto.
Si sollevò di colpo, gli sembrò di andare in pezzi, le sue labbra si spalancarono in un grido.
“No! Non è vero, no!”.
Le braccia di Jean lo circondarono, lo trattennero, perché il suo corpo non gli rispondeva, era come impazzito, si muoveva al di fuori del suo controllo, avrebbe fatto qualunque cosa per cancellare se stesso dal mondo, per smettere di pensare e di ricordare.
L’abbraccio di Jean era forte, era saldo, in qualche modo riuscì a frenare la sua agitazione, ma non calmò i suoi tremiti, né i palpiti dolorosi del cuore che sembrava voler squarciare il petto per uscire.
Si portò una mano alla bocca, in preda alla nausea.
Jean lo aiutò a chinarsi in avanti, in modo che potesse liberarsi sul pavimento senza sporcare il letto.
Mentre vomitava il nulla che aveva nello stomaco, Armin cercava di parlare, di formulare frasi coerenti.
“Mi dispiace… mi…”.
“Zitto. Ora passa, tranquillo”.
La voce di Jean si manteneva calma il più possibile, ma si capiva che era nervoso, preoccupato, forse arrabbiato, temeva Armin, disgustato da tanta debolezza.
E lui si sentiva in colpa perché, nonostante tutto, era gentile, forte, era lì al suo fianco e lo sosteneva mentre vomitava come un bambino.
Poi lo aiutò a tirarsi su.
Mentre Armin cercava di riprendere fiato, percepì un tessuto fresco che gli veniva passato sulle labbra, intorno alla bocca, per ripulirlo.
“Vedi? È passato… è passato tutto”.
Non è passato niente, avrebbe voluto urlare, è tutto uno schifo, io sono uno schifo, non capisco neanche cosa ci faccio qui.
“Cosa ci faccio qui?” furono le uniche, flebili parole che presero forma tra tutti quei pensieri confusi.
“Che domanda è?” borbottò Jean.
Armin lo guardò con espressione smarrita e gli sembrò di scorgere un’ombra di delusione negli occhi dell’amico.
“Come fosse la prima volta che vieni da me” continuò Jean che, ora, aveva distolto lo sguardo.
Armin abbassò il proprio.
Quello era un rimprovero, lo sapeva. Vi era una sottile accusa: vieni da me quando Eren non può accoglierti.
Strinse le labbra.
Affondò il volto tra le mani e si mise a singhiozzare piano, parole confuse e senza ordine logico sfuggirono alle sue labbra:
“Sono il nulla… il nulla più assoluto… vorrei solo scomparire”.
“Ma smettila…” una mano ruvida gli arruffò i capelli, in quel gesto che Jean gli riservava spesso, fin da quando erano solo ragazzini. “Che razza di discorsi… piccolo scemo”.
Le spalle di Armin si strinsero, rifugio per il suo viso bagnato di lacrime e stravolto dal dolore.
“Dovresti smetterla di rivolgerti a me come se fossi… qualcosa di tenero”.
Jean ridacchiò:
“Qualcosa di tenero? Ma se sei un enigma vivente e pure un po’ inquietante”.
Le spalle si strinsero di più, il mondo intorno a lui fu preso in un vortice.
“Già… hai ragione” sussurrò, mentre i tremiti del suo corpo si fecero più violenti.
“Guarda che stavo scherzando. Che ti prende?”.
Non vi era più alcuna ironia nelle parole di Jean.
Armin si guardò i palmi delle mani:
“Come ho fatto a… diventare una cosa simile? Una volta, il solo pensiero di uccidere… un bambino… lo avrei respinto senza mezzi termini. E invece… quanti ne ho uccisi? Ne ho visto uno… ma quanti saranno stati? Quanti ce ne saranno ancora?”.
Le mani di Jean si chiusero sulle sue, bloccando i tremori convulsi.
“Armin…”.
“Rinunciare alla propria umanità… l’ho fatto davvero… nella maniera più mostruosa che potessi immaginare… non avrei mai creduto che sarei riuscito…”.
“Armin!”
Il tono di Jean si alzò e, nel medesimo istante, afferrò il compagno con foga e lo strinse a sé, lo fece scomparire nel proprio abbraccio, soffocò il suo pianto nel proprio petto.
Quel gesto infranse ogni barriera e i singhiozzi esplosero ormai senza freno. Armin aveva la sensazione che, se Jean non lo avesse stretto così forte, le sue membra si sarebbero frantumate in tanti pezzi.
Oh, magari fosse accaduto!
Senza più possibilità di rigenerazione…
Senza più possibilità di esistere e di fare del male.
Ma sapeva di non poterselo permettere, non gli era concesso.
Lui era vivo perché un’altra persona era morta e a quella persona aveva fatto una promessa.
La morte non era un privilegio a cui poter accedere senza mancare di rispetto a chi l’aveva voluto vivo.
Aveva un dovere…
E quel dovere lo aveva reso un mostro.
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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