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Autore: flyerthanwind    27/12/2021    1 recensioni
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La vita di Sam è quanto di più normale esista: ha una gemella che la conosce meglio delle sue tasche, un fratello con cui condivide la passione per il calcio e una squadra a cui tiene più della sua media scolastica –ma questo non ditelo alla madre!
Eppure, dal giorno in cui un vecchio amico di suo padre si trasferisce in città, la situazione prende una strana piega. Innanzitutto, le motivazioni del trasferimento appaiono strane, suo padre è strano e i sentimenti sono strani. Questo perché il figlio del tipo di cui sopra ha uno strano potere attrattivo nei suoi confronti.
Ottimi presupposti per una bella dose di disagio, non vi pare?
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Arbitro cornuto

Checché ne dicesse la gente, io non mi ritenevo una persona aggressiva. Certo, la maggior parte delle mie discussioni terminavano in minacce di violenza, eppure non avevo mai aggredito nessuno. Non fisicamente almeno.

Le aggressioni verbali, invece, erano decisamente all'ordine del giorno, ma, nonostante ciò, il resto del mondo mi riteneva piuttosto tranquilla. Non ero irascibile, ma i miei fratelli erano capaci di farmi perdere la pazienza con la stessa velocità con cui si facevano perdonare subito dopo – e parliamo di cifre simili alla velocità della luce!

In campo, tuttavia, mi ero sempre comportata correttamente, consapevole che un mio colpo di testa si poteva ripercuotere sull'intera squadra e sulle sorti della partita. E, soprattutto, avevo sempre nutrito una malcelata stima per gli arbitri, bistrattati da ogni squadra che incontravano sul loro percorso a causa dell’infausto ruolo di giudici imparziali.

Eppure, quel giorno avevo una pessima sensazione.

Era una domenica pomeriggio di fine ottobre alquanto anonima, un tiepido sole risplendeva nel cielo, memore di quella calda estate ormai giunta al termine, mentre un venticello fresco scuoteva i rami più deboli degli alberi. La mia squadra avrebbe giocato in casa per cui io e le mie compagne ci eravamo trovate al campo ben presto.

Lì avevamo subito conosciuto l'arbitro designato, un ragazzo che avrà avuto giusto un paio di anni più di noi: era molto alto e sotto la maglietta della divisa i pettorali sembravano esplodergli; aveva una zazzera di capelli neri e disordinati e due profondi occhi marroni al centro di un viso perennemente corrucciato.

Avevo sentito alcune delle mie compagne fare degli apprezzamenti, ma sinceramente non li condividevo: per quanto la sua bellezza oggettiva fosse innegabile, lo ritenevo fin troppo muscoloso per i miei gusti e quell'aria da snob con la puzza sotto il naso non mi era mai andata a genio in nessuno.

Mi ricordava qualcuno di mia conoscenza, ma non avrei saputo dire chi fosse.

A ogni modo, Amelia doveva avermi contagiata con le sue prime impressioni infallibili perché, dopo appena un paio di minuti in campo, la tolleranza verso quell’individuo era già andata a farsi benedire fin troppo lontana da me. 

L'arbitro stava già dando del filo da torcere a tutte: sembrava avesse da ridire su ogni azione in atto, a prescindere dalla squadra che la stava portando avanti, e continuò così per gran parte della partita. Entrambi gli allenatori erano piuttosto alterati ma nemmeno loro avevano potere, quella era la sua giurisdizione e nessuno poteva intromettersi, pena l’ammonizione o, peggio, la squalifica.

Anche il pubblico dagli spalti faceva sentire le proprie grida e fui certa di udire la voce di Lucas pronunciare un paio di frasi poco consone al luogo; per fortuna il diretto interessato parve non accorgersene e soprattutto non poté ricondurre gli insulti ricevuti da quel ragazzo in tribuna a me, che correvo da una parte all’altra del campo senza rivolgergli mai lo sguardo.

Ero stata buona per l'intera partita, incassando ogni fischio e mordendomi la lingua ogni volta che mi veniva voglia di sputare qualche insulto, ma quando l’arbitro tirò fuori un cartellino giallo nella mia direzione, dove una delle avversarie era a terra dopo essere inciampata nei suoi stessi piedi, non riuscii più a trattenermi.

Lo raggiunsi a passo di marcia con lo sguardo furente mentre le mie compagne mi osservavano tenendosi a debita distanza, stupite per quella reazione che mai mi era appartenuta sul campo da gioco, animata da uno sguardo battagliero che solitamente celavo rivolgendomi agli arbitri.

«Hey, guarda che non l'ho nemmeno sfiorata» dissi, tentando di modulare la voce. Mi sorpresi di me stessa quando udii il mio tono relativamente calmo, sicuramente in contrapposizione al mio sguardo adirato.

«Dopo puoi venire a protestare nel mio spogliatoio, dolcezza» soffiò a denti stretti, così piano che per un momento pensai di essermelo immaginato, con gli occhi ridotti a due fessure.

E invece no, era assolutamente reale, il suo sorrisetto lo dimostrava.

L’espressione corrucciata aveva lasciato spazio a lineamenti più rilassati, un luccichio sinistro baluginò nelle sue iridi scure, donando loro un’ombra tetra che mi provocò un brivido lungo la colonna vertebrale.

«Figlio di...» biascicai appena, con il solo filo di voce che mi era rimasto, ma prima di poter terminare il mio insulto lui aveva già estratto il cartellino rosso e mi aveva espulsa.

Quel gesto mi lasciò talmente basita che per un paio di istanti rimasi immobile a fissarlo, attonita e perplessa, in attesa che mettesse via la scheda rosso vivo che aveva appena decretato la fine della mia partita e si scusasse per essersi comportato in quel modo, soprattutto per l’invito squallido che mi aveva rivolto.

Quando finalmente realizzai che mi aveva appena espulso perché era un coglione faticai a ritrovare la mia razionalità, mi limitai a guardarlo dritto negli occhi e proclamai, con tutto il veleno che avevo accumulato in quegli ottanta minuti di partita, il vaffanculo più sincero che le mie labbra avessero mai pronunciato.

Dopodiché praticamente marciai per tutto il campo col capo dignitosamente alto, così rigido da avvertire il magone alla gola posizionarsi proprio sotto la mandibola, ma ero troppo orgogliosa per concedergli la consapevolezza di avermi fatto vacillare.

La folla aveva accompagnato la mia uscita con urla di disapprovazione, avevo perfettamente riconosciuto la voce di Lucas gridare "Arbitro cornuto" e, nonostante in una situazione normale mi sarei indignata per quell'insulto così becero rivolto a qualcuno che stava semplicemente svolgendo il proprio lavoro e che, in quanto essere umano, poteva sbagliare, in quel momento non potevo che dargli ragione.

Persino Amelia, al suo fianco, non manteneva più la postura composta e intoccabile ma si sbracciava per attirare la mia attenzione, urlando improperi che avrebbero fatto impallidire chiunque l’avesse conosciuta solamente nella veste della bella ed elegante signorina Miller.

Li ignorai, se fosse stato lì avrei ignorato persino mio padre, che mi avrebbe sicuramente consigliato di ostentare un comportamento superiore a quello del cornuto e di non dargliela vinta fuggendo via.

La verità era che le sue parole mi avevano segnata, il ghigno malizioso che si era dipinto sul suo volto quando mi aveva suggerito di raggiungerlo nello spogliatoio mi aveva trafitto la bocca dello stomaco, una stilettata repentina e non profonda, che però aveva colto nel segno.

Mi sentivo così sporca che non volevo far altro che ficcarmi sotto la doccia e lavare via il suo sguardo languido dal mio corpo, volevo grattare via i lembi di pelle su cui i suoi occhi si erano posati.

Non mi era mai capitato di sentirmi così frustrata, arrabbiata, indignata e inerme insieme. Io non subivo, mai. Io attaccavo, tiravo fuori gli artigli e mi aggrappavo a ogni brandello di orgoglio che possedevo – e la mamma sosteneva che fosse fin troppo – per non soccombere.

Invece, quel pomeriggio non avevo saputo battermi, ero stata colta alla sprovvista, senza l'armatura e la lingua affilata, e l'unica cosa che ero riuscita a fare era stata scappare prima che tutta la scuola vedesse quanto i miei occhi fossero rossi.

Iniziai a piangere non appena notai la vicinanza con gli spogliatoi, porto sicuro in cui rifugiarsi e dove nessuno avrebbe osato mettere piede. O almeno così pensavo.

Ebbi appena il tempo di chiudermi la porta alle spalle e accasciarmi a terra, esalando un paio di singhiozzi, che la vidi aprirsi nuovamente. Sciolsi subito i capelli nel tentativo di coprirmi gli occhi e tirai su col naso sperando di farlo passare per un gesto casuale, ma quando l'intruso si abbassò alla mia altezza non potei far altro che ricominciare a piangere più forte.

Amelia mi stava fissando, occhi verdi spalancati in occhi verdi socchiusi e lucidi. Checché ne dicesse la gente, non erano uguali affatto: nei miei c'era una scintilla, un frammento di iride più luminoso degli altri, mentre dai suoi si poteva scorgere il fascino misterioso dell’oscurità.

La mia gemella aveva intuito il mio stato d'animo alterato, per lei non doveva essere stato difficile dato che mi conosceva meglio delle proprie tasche; non mi sarei sorpresa se fosse stata addirittura nella mia testa – filo diretto tra i miei pensieri e i suoi – e avesse capito anche perché avevo reagito in quel modo.

«Che cazzo ti ha detto quel coglione?!»

Ecco, appunto.

Mi venne da sorridere alla sua domanda, due parolacce in una sola frase me le sarei aspettate da Lucas – probabilmente anche più di due –, mai da Amelia. Eppure, lei da lontano, senza sentire né vedere nulla, aveva centrato perfettamente il problema.

Fui costretta a raccontarle tutto, i suoi occhi mi incatenavano al pavimento e la loro ombra ostinata mi costringeva a parlare. Non servì spiegarle come mi sentivo, ero sicura che stesse provando esattamente le stesse cose nonostante avesse solamente assistito alla scena, e questa volta non c’entrava nulla il fatto che fossimo gemelle.

Le potevo leggere la collera e lo sdegno nei lineamenti tesi, nelle spalle contratte e nel tono rude con cui mi ordinò di andare a fare una doccia.

Le mie compagne sarebbero rientrate a momenti e non avevo intenzione di farmi trovare in quelle condizioni, per cui obbedii senza troppe proteste. Quasi benedissi la caldaia mal funzionante e il getto freddo che mi ristorò, catartico e purificatore, lavando via il suo sguardo indesiderato dalla mia pelle, trascinando nello scarico la vergogna e l’umiliazione che mi aveva cucito addosso come una seconda pelle rivolgendomi solo poche parole.

Mi trattenni più del dovuto e uscii solo quando percepii i passi delle mie compagne avvicinarsi assieme al chiacchiericcio concitato che si portavano dietro; di Amelia non c'era più alcuna traccia.

Non mi chiesero spiegazioni, probabilmente non volevano farmi arrabbiare ancora di più, e quando il loro vociare caotico e confuso si fu spostato tutto nel lato delle docce sentii chiaramente una voce levarsi nel denso silenzio del post-partita.

«Che razza di uomo di merda sei?!»

 
   
 
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