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Autore: Krgul00    27/12/2021    1 recensioni
Charlie è una donna con dei segreti stufa che questi la tengano lontana da suo padre, l'unica persona che può chiamare famiglia. Tornata al suo paese natale per ricucire il loro rapporto, Charlie si troverà coinvolta con l'affascinate nuovo sceriffo.
Ma ancora una volta, il non detto rischia di mettere a repentaglio ciò che ha di più caro.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO TRE
Il primo sabato da che Charlie aveva rimesso piede a Sunlake, si ritrovò ad uscire insieme a Diddi da casa di Annabelle King. La riunione del comitato cittadino – di cui facevano parte solo donne e al cui capo c’era la stessa Annabelle – si era svolto subito dopo pranzo ed era durato più di tre ore. Alla fine di quella tortura, Charlie era assolutamente certa di una cosa: Annabelle la odiava.
Durante quelle ore strazianti, ogni sorriso che la donna le aveva rivolto era stato assolutamente artificioso, ogni volta – davvero poche - che Charlie aveva provato a suggerire qualche idea per la sagra del vino della settimana successiva, Annabelle l’aveva interrotta oppure aveva liquidato le sue idee come non conformi a Sulake, qualsiasi cosa volesse dire.
Nonostante fossero entrambe nate e cresciute lì e avessero frequentato la stessa scuola, sembrava che Annabelle King non ritenesse più Charlie come una di loro.
Inizialmente Charlie non vi aveva dato troppo peso, ma l’apparente incapacità di Annabelle di smetterla di chiamarla Charlotte – quando sapeva perfettamente che Charlie non era un diminutivo e nonostante il chiarimento che la stessa Charlie le aveva fornito – era stato un indizio impossibile da ignorare.
Tuttavia, quel comportamento non l’aveva affatto infastidita; l’altra donna non poteva immaginare quali trattamenti aveva ricevuto in passato, da uomini più spaventosi della temibile presidentessa del comitato cittadino di Sunlake.
Charlie aveva un’alta sopportazione, era come un muro di gomma: ogni colpo scalfiva la superficie solo per pochi secondi, prima che tutto tornasse alla normalità.
Già annoiata – i comitati cittadini non facevano per lei, checché ne dicesse Matt – Charlie aveva smesso di intervenire al suo terzo tentativo di partecipazione ed era rimasta in silenzio ad ascoltare.
Era convinta che nessun’altra si fosse accorta dell’atteggiamento passivo aggressivo di Annabelle King, ma quando lei e Maddie furono sufficientemente lontane da orecchie indiscrete, Diddi la smentì.
“Cosa diavolo hai fatto ad Annabelle, Charlie?” Le chiese a bassa voce.
Charlie si girò verso di lei, nascondendo la sua sorpresa con un sorriso. “Cosa ti fa pensare che ce l’abbia con me?”, chiese a sua volta.
Maddie fece una smorfia. “A volte dimentico che non torni in città da quasi quindici anni, Charlotte.” Quelle parole, anche se involontariamente, rigirarono il proverbiale coltello nella piaga; ma invece di darlo a vedere, Charlie sorrise per l’utilizzo di quel nome.
“Cosa intendi?”, mormorò, guardando verso il sole che stava tramontando tra le montagne.
“Charlie, Annabelle ti ha assegnato il compito di convincere lo sceriffo a partecipare alla sagra!” Da come lo disse, sembrò che Maddie non si fosse accorta che anche Charlie era presente quando erano stati suddivisi gli incarichi.
Charlie batté le palpebre, cercando di capire come quello potesse essere un problema, rispetto a tutto il resto. “Immagino che in quanto sceriffo, debba per forza partecipare. Come una sorta di codice etico da sceriffi. Quanto potrà essere difficile?”
“In cinque anni, Logan Moore non è mai venuto ad una sagra del vino. Mai. Nemmeno quando sua madre gli ha chiesto di venire. Non quando a chiederglielo è stato il sindaco Young. E nemmeno Annabelle è riuscita a convincerlo.” Quest’ultima informazione non la sorprese affatto; da quel poco che aveva potuto vedere, Annabelle era diventata una donna che voleva avere tutto sotto controllo, che non sarebbe scesa a compromessi e che, pur di convincere qualcun altro a fare come diceva, sarebbe stata fastidiosamente insistente. Certamente non il modo migliore di persuadere qualcuno.
Charlie si fermò in mezzo alla strada deserta, guardando Diddi che si fermò a un passo da lei.
“Perché diavolo mi ha chiesto di invitarlo, se sa già che non verrà?”, chiese confusa.
Maddie sbuffò. “Vuole farti fare una figuraccia. Sarai l’unica a non riuscire a portare a termine il suo compito e-”, si bloccò quando vide un sorriso allargarsi sul viso di Charlie. “Cosa c’è da ridere?”, chiese Maddie incredula alla reazione dell’amica.
Charlie non riuscì a trattenere una sciocca risatina. “Scusa, è che mi ha fatto ridere come lo hai detto.”
Fare una figuraccia davanti al comitato cittadino, ecco la cosa peggiore che può capitarmi. Pensò, scuotendo la testa incredula.
Si era dimenticata di come fosse la vita per la gente di Sunlake. Quella era esattamente l’unico tipo di preoccupazione che voleva anche lei.
Davanti alla faccia confusa di Maddie, fece chiarezza. “Non me ne importa niente dei giochi infantili di Annabelle King, Diddi”, disse avvolgendole un braccio intorno alle spalle.
“Ma eri così entusiasta l’altro giorno che credevo ci tenessi davvero.”
Charlie rise di nuovo, sentendosi improvvisamente leggera. “Certo che mi importa. Infatti, parlerò con lo sceriffo; però non credo sarà la fine del mondo se dirà di no anche a me, d’altronde ha detto no alla stessa Annabelle, quindi…”
Camminarono in silenzio per pochi minuti prima che Maddie parlasse nuovamente.
“Non posso credere che tu abbia sopportato le sue cazzate in quel modo.”
Charlie guardò l’amica con sorpresa, Diddi non era mai stata il tipo da dire parolacce. “In che modo?” Chiese con curiosità.
Fu Maddie adesso a guardarla con stupore, ma subito l’indignazione bruciò ogni altra emozione nei suoi occhi castani. “Non ho mai visto una persona incassare quelle continue frecciatine come hai fatto tu. Sembrava come se…”
“Te l’ho detto che non mi importa. Posso sopportare le sue cazzate.” Ripeté quella parola con un sorrisetto.
Diddi scosse la testa. “Non era quello che volevo dire, e comunque non dovresti sopportare le cazzate di nessuno. Sei appena tornata in città e voglio che tu ti senta a casa qui.” Charlie iniziò a ribattere che non se ne sarebbe andata, ma Maddie alzò una mano per fermarla. “Se qualcuno mi avesse trattato in quel modo, puoi star certa che avrei reagito. Forse non avrei detto niente, ma sicuramente mi sarei sentita a disagio. Cavolo, mi sono sentita a disagio per te, là dentro! E invece tu sembravi come” - deglutì prima di continuare – “abituata.” La preoccupazione negli occhi di Diddi era evidente e con esitazione, continuò, sussurrando la domanda alla base del suo turbamento: “Ti trattavano bene alla scuola militare, C.?”
Questo la spiazzò. “Si, Diddi”, le sussurrò di rimando. E quella era la verità.
Stringendola nel suo abbraccio, continuarono a camminare in silenzio, ma Charlie pensò ancora e ancora alle parole dell’amica, anche dopo averla lasciata davanti casa sua.
Le implicazioni di quello che aveva detto erano evidenti: non era normale. Nel suo ambiente, sopportare con distacco provocazioni o soprusi era una dote apprezzata; guardare ad un obbiettivo con freddezza e imperturbabilità era uno dei requisiti più importanti da possedere.
Ma nella vita reale non sarebbe dovuto succedere.
Si fermò davanti lo steccato di casa di suo padre. Voleva essere normale, voleva vivere delle stesse preoccupazioni che avevano a Sunlake, voleva poter dire a fine giornata che quella era stata una buona giornata perché non aveva trovato fila alla posta, e non perché nessuno le aveva sparato.
E Maddie aveva ragione: per il suo lavoro si era abbassata a sopportare cazzate da perfetti sconosciuti.
Era questo che l’aveva spinta a tornare a casa? Ancora non sapeva spiegarsi perché avesse sentito il bisogno di cambiare vita, si era svegliata una mattina e aveva sentito una mancanza di significato in ciò che faceva. Non che il suo lavoro non avesse senso, ma, piuttosto, non le regalava più la soddisfazione degli inizi.
Aveva pensato che fosse stata quella monotonia a spingerla a tornare a casa, oppure il bisogno inconscio di riappianare le cose con suo padre, dopo tanti anni.
Adesso, però, si chiedeva se non fosse semplicemente stufa del suo lavoro, di essere giudicata solamente dal suo aspetto e dal dover fare costantemente buon viso a cattivo gioco.
Si accorse di essere ancora ferma davanti al vialetto. Scosse la testa per cacciare via quei pensieri che l’avevano perseguitata abbastanza, ed entrò in casa.
 
 
Così, Charlie Royce si ritrovò il lunedì mattina ad entrare nella centrale di polizia. Poiché non le piaceva essere impreparata, oltre alle informazioni che aveva chiesto a Diddi, Charlie aveva reperito altre notizie per suo conto, e il profilo dell’uomo che tra poco avrebbe incontrato coincideva con l’idea che già si era fatta. Un uomo dedito alla famiglia e al lavoro.
Riconobbe Hannah Lewis, alla reception, era tre classi avanti a lei quando ancora andava a scuola. Quando la vide, gli occhi della donna si spalancarono di sorpresa; effettivamente quello era uno degli ultimi posti in cui Charlie si sarebbe presentata di sua iniziativa.
“Buongiorno, Hannah”, salutò mentre appoggiava il piatto di biscotti che aveva preparato per l’occasione sul banco in vetro.
“Buongiorno, Charlie”, salutò l’altra, riprendendosi dalla sorpresa.
Charlie si tolse il cappotto, rivelando l’abito bordeaux che aveva scelto con cura quella mattina. Il vestito di lana aderiva al suo corpo, accentuando e valorizzando ogni sua curva, la scollatura non era profonda e lasciava appena intravedere la pelle morbida del seno; la gonna arrivava a metà coscia, lasciando scoperte le lunghe gambe fasciate da calze nere velate. Ai piedi portava un paio di stivaletti bassi, neri. Non si era risparmiata nemmeno sul trucco e i suoi occhi blu erano esaltati dal make-up scuro sfumato.
Il risultato finale le donava un’aria sofisticata, affatto volgare.
Se c’era una cosa che aveva imparato in quegli anni, era che gli uomini erano più facili da persuadere se erano distratti. Rispetto alle altre volte, però, a Charlie non era convinta che questo le sarebbe tornato utile; da quel poco che sapeva su Logan Moore non sembrava il tipo da lasciarsi distrarre così facilmente.
“Sono qui per vedere lo sceriffo”, disse.
Hannah prese il telefono e compose il numero interno. “Logan, c’è qui Charlie Royce che chiede di te”, l’uomo dall’altra parte della linea non fu di molte parole, perché subito Hannah attaccò.
Sorridendo a Charlie, indicò verso una porta aperta dall’altra parte dell’enorme stanzone che era la centrale di polizia. “Da quella parte.”
Con un sorriso gentile di ringraziamento, Charlie e il suo piatto di biscotti si incamminarono verso l’ufficio dello sceriffo, dispensando sorrisi e cenni di saluto a tutti coloro che si girarono a guardarla passare senza mai vacillare; solo quando fu a pochi metri dalla soglia dell’ufficio dello sceriffo e fu in grado di vedere all’interno della stanza l’uomo alto quasi un metro e novanta che l’aspettava in piedi dietro la scrivania, labbra piegate in un sorriso di cortesia e occhi scuri che incontrarono quelli chiari di lei, per poco Charlie non inciampò nei suoi stessi piedi.
Gli occhi dello sceriffo non si distolsero dai suoi finché non varcò la soglia e per la prima volta da anni, Charlie si sentì esposta; come se con un solo sguardo tutti i suoi segreti fossero stati svelati, fatto che, se da un lato la metteva a disagio, dall’altro la fece sentire come alleggerita d’un peso che non avrebbe più dovuto portare da sola.
Charlie inspirò con il naso, contò fino a sette ed espirò con la bocca; la mente si sgombrò e riuscì a riprendere il pieno controllo di sé. L’attimo di leggero turbamento non era minimamente trapelato all’esterno.
Quegli occhi scuri dissero con certezza a Charlie quale sarebbe stato l’esito di quell’incontro; c’erano persone che con la giusta dose di attenzioni e persuasione potevano essere spinte a fare qualsiasi cosa, poi c’erano persone che per la giusta somma avrebbero venduto la loro madre a Lucifero in persona e, infine, c’erano persone che non importava cosa, ma non avrebbero cambiato idea – almeno non per uno sconosciuto qualsiasi – e l’insistenza le avrebbe solo rese più rigide e diffidenti. Negli ambienti che frequentava di solito, non esistevano persone appartenenti alla terza categoria.
Pertanto, Charlie si sentì impreparata ad affrontare l’uomo davanti a lei e la descrizione di Maddie non l’aveva di certo aiutata; ‘penetranti’ non sarebbe stato di certo l’unico aggettivo che Charlie avrebbe utilizzato per descrivere quegli occhi. C’era un che di irremovibile in quello sguardo, come di un uomo che si aspettava che le cose fossero fatte a modo suo. Tuttavia, se si osservava bene e si sapeva dove guardare, da quelle pozze scure e profonde, traspariva una certa sensibilità.
Lo sceriffo continuò a studiarla in viso e gli occhi dell’uomo non tradirono alcuna reazione. Charlie non era abituata a reazioni del genere da parte degli uomini, anche i più impassibili non riuscivano a nascondere una nota di apprezzamento quando la guardavano ed era dall’età di diciassette anni che riceveva solo quel genere di reazione. Ciò era sicuramente un’ottima novità, ma una piccola parte di lei, l’orgoglio femminile di Charlie, forse, si indignò a una così poca considerazione.
Quando si fermò davanti la scrivania, pur di suscitare una reazione, sfoderò il suo sorriso più disarmante; tutto ciò che ottenne, però, fu uno scuro sopracciglio inarcato verso l’alto, come a chiederle “è tutto ciò che hai?”.
“Sceriffo Moore”, disse Charlie con un cenno cortese della testa.
“Logan, per favore”, si presentò con voce calma e profonda. L’uomo tese una mano sopra la scrivania e subito Charlie l’afferrò.
“Charlie”, disse lei sorridendo di rimando.
“Prego”, le indicò una delle due poltroncine davanti la scrivania ed entrambi si accomodarono, studiandosi in silenzio per un attimo.
Fu Charlie a parlare per prima. “Le ho portato un regalo di benvenuto”, disse porgendogli il piatto con i biscotti.
Quelle parole riuscirono a suscitare una reazione più soddisfacente delle altre, lo sceriffo parve spiazzato.
“Un regalo di benvenuto? Non dovrei essere io a farlo a te?”, chiese visibilmente interdetto.
Charlie sorrise. “Io sono nata e cresciuta qui, sceriffo. Sei tu ad esserti trasferito.”
“Cinque anni fa”, le ricordò, ora una nota di divertimento nella voce.
“Meglio tardi che mai, non è vero?”, disse lei. Logan annuì, un sorriso che andava aprendosi sul suo viso e questa volta arrivò anche agli occhi, che la guardarono con sincera simpatia. “Suppongo di si, grazie.” Prese il piatto e lo appoggiò su un lato della scrivania.
Rimasero a guardarsi, di nuovo in silenzio e stavolta fu Logan a parlare per primo. “Sei passata solo per questo?”
Stranamente, Charlie si sentì delusa da quel non troppo velato tentativo di liquidarla, nonostante sapesse che lo sceriffo era un uomo impegnato e sicuramente non aveva tempo da perdere con lei. Si guardò intorno nel piccolo ufficio, fino a soffermarsi su una cornice appoggiata sulla libreria che copriva la parete vicino la porta. Ritraeva un bambino, al massimo di cinque anni, che si stringeva al petto, con entrambe le mani, un palloncino giallo. La foto era stata scattata nella piazza del paese, durante quella che Charlie riconobbe essere la fiera del cioccolato – anche se non fosse stata sufficiente la bocca imbrattata del bambino, avrebbe riconosciuto le tipiche decorazioni della fiera del cioccolato ovunque. Le ricordò dei giorni più felici, di quando anche lei era stata una bambina con la bocca sporca di cioccolato e suo padre l’amava senza riserve.
Diddi le aveva detto che Logan Moore viveva per suo figlio Jake, che non c’era persona al mondo che amasse di più e che proprio per passare la giornata con lui, Logan non era interessato alla sagra del vino. Sinceramente, Charlie non riusciva a pensare a un motivo migliore per non partecipare.
Studiando l’immagine, la futilità della sua richiesta la pervase e, per un attimo, si sentì fuori posto in quell’ufficio.
Voleva solo tornare a casa il più in fretta possibile.
“Il comitato cittadino mi ha incaricato di ricordarti della sagra del vino, questo sabato”, disse con tono distratto.
Più che vederlo, Charlie poté avvertire il corpo di Logan che si irrigidiva e dal tono con cui rispose fu chiaro che si aspettava una lunga ed estenuante discussione volta a convincerlo. “Non parteciperò”, disse semplicemente, con tono sicuro e fermo e per Charlie fu una risposta più che sufficiente, non aveva voglia di combattere una battaglia persa in partenza, tantomeno per dimostrare ad Annabelle King chissà cosa, perciò si alzò dalla sua sedia.
“Riferirò”, disse tranquillamente. “Buon lavoro, sceriffo.” E con quelle parole uscì.
 
Logan fissò, ancora sbalordito, la porta del suo ufficio. Non era mai stato così semplice far desistere una donna di Sunlake dai suoi propositi; a quella donna, invece, era bastato un semplice ‘no’ e lo aveva lasciato in pace. Scosse la testa incredulo.
Per quel sabato sera Jake aveva organizzato la ‘rievocazione’ della battaglia del Fosso di Helm; perciò, Logan si sarebbe ritrovato a fare un qualche orco o cattivo di sorta che moriva per mano di suo figlio. Adorava quel piano, suo figlio che cercava di impersonare tutti i personaggi del Signore degli Anelli e di ricreare nel soggiorno di casa loro le scene della battaglia.
Nessuno avrebbe potuto convincerlo a partecipare a una sagra di paese che neanche gli piaceva.
Quando Hannah lo aveva chiamato per comunicargli che Charlie Royce voleva vederlo, era rimasto sorpreso; non si era aspettato che venisse alla centrale per parlare con lui e non riusciva a immaginare cosa potesse volere.
Poi l’aveva vista, prima che lei notasse lui, mentre attraversava lo stanzone della centrale sorridendo e salutando tutti, e tutta l’isteria dei giorni precedenti improvvisamente aveva avuto un senso.
Charlie Royce era indubbiamente una donna bellissima, ma ciò che lasciava inevitabilmente stregati era l’aurea di mistero che la circondava; dalle voci che aveva sentito, sembrava nessuno vi aveva fatto caso, eppure, per lui il muro invisibile che sembrava ergesse tra lei e gli altri era assolutamente lampante.
Quella donna usava il suo aspetto per distogliere l’attenzione dal resto e definire un limite invalicabile. 
Il leggero ondeggiare dei fianchi a ogni suo passo, era pura sensualità e un uomo avrebbe potuto rimanerne ipnotizzato, così come la curva perfetta del seno, le gambe lunghe e toniche e la linea definita delle labbra piene.
Nel complesso Charlie Royce poteva essere descritta in un’unica parola: irraggiungibile.
C’era voluto un certo sforzo per ritrovare il controllo di sé e non lasciarsi distrarre; Logan era dovuto ricorrere all’espressione impassibile che a volte, come sceriffo, sfoderava.
Nonostante tutto, gli era sembrato d’esser colpito da un pugno al plesso solare quando gli occhi blu di lei avevano incontrato i suoi. Un bagliore di pura intelligenza brillava in quei laghi blu e quando gli aveva sorriso erano sembrati risplendere e riscaldare la stanza.
Si era rifiutato di cadere preda dello stesso sortilegio che sembrava avesse lanciato su ogni altro abitante di Sunlake, ma quando l’aveva vista guardare la foto di suo figlio, la testa leggermente inclinata sulla spalla, ne aveva colto una certa nota malinconica, e una piccola parte di Logan aveva ceduto al richiamo del suo incantesimo.
Era sicuro che quella donna avrebbe anche potuto convincere Jake a separarsi dai suoi preziosi fumetti, se avesse voluto, e non semplicemente per il suo aspetto.
Eppure, non aveva fatto alcuno sforzo per tentare di persuaderlo, anzi aveva semplicemente accettato la sua decisione.
Con quei pensieri in testa, scoprì dalla pellicola trasparente il piatto di biscotti che gli aveva portato e con fare distratto ne prese uno. Appena lo morse e tentò di masticarlo, però, si trovò ad annaspare alla ricerca del cestino sotto la scrivania, dove vi sputò quella roba disgustosa.
“Cristo santo”, borbottò guardando il biscotto rimanente con fare accusatorio. Alzò lo sguardo verso la porta da cui era uscita la donna che aveva tentato di avvelenarlo, come se si aspettasse di trovarla ancora lì.
Senza pensarci troppo, prese il piatto e si alzò, portandolo nella sala ristoro. Era un peccato buttare da mangiare, anche quella roba terribile; perciò, li avrebbe lasciati nel Triangolo delle Bermude della stazione di polizia: la credenza della piccola cucina della sala ristoro. Una volta vi aveva lasciato il suo pranzo, tempo di andare a lavarsi le mani ed era sparito.
Tuttavia, non poté dirsi stupito quando, prima di andar via quella sera, lo vide ancora lì, intatto.
Avrebbe dovuto occuparsene da solo, dopotutto.
 
Dopo il suo incontro con lo sceriffo Logan Moore, Charlie abbandonò definitivamente il compito assegnatole dal comitato cittadino. Quando martedì mattina incontrò Annabelle King al supermarket, alla sua domanda se avesse convinto Logan a partecipare alla sagra, Charlie non aveva potuto resistere dal torturarla un po', quindi le aveva detto che lo sceriffo ci avrebbe pensato.
Per poco non era scoppiata a ridere alla vista della faccia incredula dell’altra donna. Un “ci penserò” era ben diverso da un categorico “no”, Annabelle lo sapeva e non riusciva a farsene una ragione. Quando la rivide al Red, più tardi quello stesso giorno, le chiese di nuovo se avesse novità.
Anche due ore dopo, quando si incontrarono in biblioteca le chiese ancora se Logan le aveva dato una risposta. L’attesa non faceva altro che aumentare la sua apprensione e il desiderio di conoscere la risposta definitiva dello sceriffo.
Tuttavia, la svolta imprevista e assolutamente non perseguita avvenne il giorno dopo, mercoledì, nella biblioteca di Sunlake.
Poiché i rapporti con suo padre erano ancora ai ferri corti e Charlie non aveva studiato un piano su come poter affrontare la situazione, preferiva trascorrere più tempo possibile fuori casa, concedendo un po’ di respiro a suo padre, nella speranza che il tempo guarisse anche il loro rapporto.
Ovviamente si era rifugiata nella biblioteca con Diddi e, mentre lei lavorava, Charlie aveva spulciato in giro in cerca di qualcosa di interessante da fare. A metà mattina aveva riscoperto il sacro Graal della sua infanzia: Space Fights.
Space Fights era un fumetto degli anni Ottanta sulla falsa riga del famoso Star Wars. Effettivamente era al limite del plagio, tuttavia, le aveva fatto compagnia durante la sua adolescenza ed era diventato quasi una vera e propria ossessione per Charlie; le si era spezzato il cuore quando aveva scoperto che la collezione della biblioteca si fermava al numero centotre e che non avrebbe mai potuto scoprire come finiva.
La storia era la solita, il malvagio e avido Oscuro – primo tra i nomi poco originali di un fumetto poco originale – voleva conquistare il mondo, ma un giovane alieno antropomorfo, il fantastico capitano Rhon, era pronto a combattere per salvarlo.
Perciò, a ventott’anni, Charlie si era ritrovata come quando ne aveva tredici: stravaccata sulla poltrona della sezione per ragazzi a leggere un fumetto dopo l’altro mentre sgranocchiava schifezze. Non si era accorta nemmeno di aver fame finché Maddie non le aveva portato un sandwich per pranzo.
“Sembra che le cose non siano cambiate”, le aveva detto Diddi.
Era stata risucchiata, proprio come quando era più giovane, da quel mondo fantastico, pieno di colpi di scena, di battaglie intergalattiche e di storie d’amore.
Erano quasi le quattro e mezza del pomeriggio e aveva da poco iniziato il quattordicesimo numero, quando una vocetta la interruppe. “Sei già arrivata alla battaglia del pianeta Nana?”
Riportata bruscamente sul pianeta terra, Charlie abbassò il fumetto per guardare il ragazzino in piedi davanti a lei. Così seduta sulla poltrona erano alla stessa altezza. Aveva capelli neri, corti e arruffati e gli occhi scuri, come quelli del padre, erano incorniciati da degli occhiali tondi, che gli donavano un’aria da piccolo nerd. Una versione in miniatura dello sceriffo.
Jake Moore la studiava incuriosito, come se non avesse mai visto un adulto stravaccato sulla poltrona della biblioteca che ridacchiava all’indirizzo del fumetto fantascientifico che aveva in mano.
“Quella battaglia è al numero venti, io sto ancora al quattordici”, gli fece notare Charlie sventolando la prova nella sua direzione.
Gli occhi di Jake si spalancarono. “Lo hai già letto?”, chiese con voce piena di stupore.
Annuì.
“Qual è il tuo personaggio preferito?”, chiese, facendo sembrare quella domanda della massima importanza.
Charlie trattenne un sorriso. “Catton, senza dubbio.” Era la spassosa spalla dell’eroe principale.
“Forte. Anche a me piace Catton, ma preferisco Rhon.” Il bambino si sistemò gli occhiali sul naso prima di continuare: “Mi chiamo Jake”, si presentò tendendo la mano verso Charlie, che si mise seduta più composta sulla poltrona prima di stringerla. “Io sono Charlie.”
“Charlie?” Jake fece una smorfia. “È un nome da maschio.”
Charlie rise, non era la prima volta che qualcuno glielo diceva, ma il modo in cui lo disse Jake Moore era assolutamente adorabile; come se stesse tentando di comprendere il risultato di un esperimento non andato come previsto.
“Mia madre andava pazza per Charlie Chaplin.” Gli confidò. “Quando era bambina lo guardava sempre con suo padre…” Gli occhi di Jake si illuminarono di comprensione e di genuina ammirazione.
“È davvero un nome fighissimo”, rifletté mormorando tra sé, cambiando idea all’istante; come se quella spiegazione logica rendesse il tutto assolutamente accettabile.
Rimasero così, Charlie seduta sulla poltrona e il piccolo Jake in piedi davanti a lei, a fissarsi.
“Sei veramente una strega?” La domanda uscì dalle labbra del bambino di getto, come se sentisse il bisogno incontrollato di esprimerla. Tuttavia, le sue guance si imporporarono per la sfacciataggine e sembrò subito pentirsene perché si guardò i piedi in imbarazzo.
Charlie, però, non ne fu affatto offesa. “No”, disse. “Però, se lo fossi non potrei dirtelo.” All’istante gli occhi del ragazzo si alzarono a guardarla, la sorpresa per quella poco velata allusione fu accresciuta dal movimento evocativo con cui Charlie alzò le sopracciglia.
Preda del suo stupore, si avvicinò a Charlie, per esser sicuro che sentisse il suo sussurro. “Puoi lanciare incantesimi?”
Solennemente, Charlie annuì e gli occhi di Jake si spalancarono ancor di più.
“Perché pensi che io sia una strega?” Se le sue parole sembravano negare ciò che aveva ammesso poco prima, il sorriso di intesa che rivolse al ragazzo, però, diceva: “Io e te sappiamo la verità.”
Questa complicità illuminò il viso di Jake di un gioioso sorriso infantile.
“Parlano tutti di te”, le disse in un sussurrò cospiratorio. “La signora Howard ha detto che sei sparita nel nulla giovedì scorso e ho sentito la signorina Andrews dire che sei una strega.” Questo non la sorprese, Dorothy Andrews era la migliore amica di Annabelle, non c’era da stupirsi se anche lei la odiava.
“Nonna ha detto che hai lanciato un incantesimo sulle persone di Sunlake, anche se non ho capito di quale incantesimo si tratta… ” Jake si interruppe nella speranza che Charlie chiarisse quel punto; non parve deluso, però, quando lei non disse nulla. “E poi tutti sanno che le streghe sono belle, e tu sei molto più bella della signorina Morgan.”
Se possibile, il sorriso di Charlie si allargò.
Prima che potesse commentare, però, furono interrotti. Il rumore dei tacchi di Annabelle King sul pavimento della biblioteca li avvisò che non erano più soli.
Charlie aveva una chiara idea di cosa volesse.
Quando fu di fronte alla poltrona si rivolse prima a Jake: “Ciao tesoro”, cinguettò con voce artificiosa, come quella di una donna che si rivolga a un bambino piccolo. “Come va la scuola? Ho sentito che hai ricevuto un premio per il progetto di fisica.” Mentre parlava tentò di accarezzare i capelli scuri del ragazzino, ma lui si scostò di scatto per impedirglielo. Se la donna notò il suo disagio, non lo diede a vedere, ma anzi sorrise con fare materno e attese una risposta. Che non arrivò.
Jake, che prima era stato tanto loquace, sembrò farsi improvvisamente timido e iniziò a guardarsi le punte delle scarpe, spostando il peso da un piede all’altro.
A quella vista Charlie si alzò in piedi, pronta a distogliere l’attenzione dell’altra donna su di sé. “Eri venuta per chiedermi qualcosa, Annabelle?” L’espediente funzionò, perchè subito Annabelle King si girò a guardarla.
“Ti stavo proprio cercando, Charlotte.” Il tono di voce tornato di nuovo normale. “Mi stavo chiedendo se avessi novità per la sagra di sabato.”
Mentre Annabelle parlava, Charlie si spostò più avanti, fingendosi interessata, in modo da allontanare Jake dall’altra. “Novità?”, chiese facendo la finta tonta.
Miss. King sbuffò. “Riguardo lo sceriffo. Hai avuto una risposta definitiva?” Guardandola negli occhi, Charlie fu certa che il tono speranzoso della sua voce non fosse per una possibile risposta positiva di Logan.
“Immagino che deciderà sul momento, no?” L’espressione di Charlie era il ritratto dell’innocenza.
Annabelle non sembrò affatto compiaciuta, ma anzi, era evidente che l’incertezza la stava pian piano logorando.
“Spero che tu sappia quant’è importante il tuo compito.” Con una mano curata e piena di bracciali, si scostò una ciocca di capelli biondi dal viso.
Annabelle non era affatto una brutta donna, ma lo sguardo di superiorità che rivolgeva a tutti gli altri e la piega aspra delle labbra le donavano un’aria austera.
Dovette scambiare il silenzio di Charlie per un assenzo, perché continuò: “Non mi far pentire di averti permesso di prender parte al comitato.” Detto ciò, se ne andò.
Non c’era bisogno del permesso del presidente del comitato cittadino per prender parte alle riunioni, erano delle assemblee pubbliche; Annabelle pensava che Charlie non lo sapesse, ma si era informata a fondo sul regolamento del comitato cittadino.
Guardò divertita la camminata impettita dell’altra donna mentre si allontanava, prima di girarsi verso Jake.
Il ragazzino aveva ancora lo sguardo fisso sulle sue scarpe, nessuna traccia del sorriso adorabile di poco prima.
“Un giorno o l’altro si ritroverà con una coda da scimmia”, gli disse con fare cospiratorio; voleva vedere di nuovo il sorriso di Jake Moore e quelle parole realizzarono il suo desiderio: il sorriso del bambino rispecchiò quello di lei, gli occhi di nuovo luminosi.
Charlie si rimise seduta sulla poltrona, in modo da essere nuovamente alla stessa altezza.
“Perché pensa che papà andrà alla fiera?”, domandò incuriosito, sorprendendola.
Jake Moore era sicuramente un ragazzino intelligente; il modo in cui stava dritto, gli occhi attenti e furbi e il modo di parlare lo rendevano evidente.
Si sporse in avanti, verso di lui.
“Perché potrei averle detto una piccola bugia.” Quando gli fece l’occhiolino, gli occhi del bambino si riempirono di curiosità. Charlie continuò. “Vuole mettermi in difficoltà, e mi ha chiesto di convincere tuo padre a venire alla fiera di sabato, quando sa perfettamente che non accetterebbe mai.” La bocca di Jake si spalancò e la comprensione fece capolino sul suo viso. Charlie si avvicinò, abbassando la voce ed enfatizzando le successive parole. “È un peccato, mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia.” Fece un’esagerata imitazione della faccia di Annabelle se Logan Moore fosse davvero andato alla fiera, e subito Jake iniziò a ridere. Continuò a fare smorfie e Jake rise sempre più forte, finché non comparve una stupita Maddie, che rivolse a Jake una bonaria occhiata di rimprovero e a Charlie un’occhiata significativa, del tipo: “non dovresti essere tu l’adulto?”
Solo più tardi, quella sera, mentre tornavano a casa a piedi, il vento freddo che sferzava i loro cappotti, Charlie comprese la portata dell’episodio di quel pomeriggio.
Maddie le disse che Jake Moore era un bambino timido; tranne suo padre, sua nonna e Aubrey Morgan, insegnante della scuola di Sunlake, erano davvero poche le persone che lo avessero sentito dire più di due parole di seguito. Non che fosse un ragazzino poco socievole, con gli altri bambini della sua età sembrava integrarsi perfettamente, ma nel momento in cui doveva interagire con gli adulti diventava silenzioso e insicuro.
La stessa Maddie – una delle poche persone con cui Jake sembrasse avere meno difficoltà – non lo aveva mai sentito ridere in quel modo, se non con lo sceriffo o la nonna. Era impensabile, quindi, che lui e Charlie avessero passato tutto il pomeriggio insieme.
Le aveva chiesto perché non avesse lanciato un incantesimo anche su suo padre, per farlo andare alla sagra, e Charlie gli aveva illustrato le politiche restrittive alle quali sottostavano le streghe.
Anche creare un potente filtro d’amore per un bambino di otto anni contravveniva le regole.
Gli aveva detto che alla fine del mese avrebbe dovuto lanciare un incantesimo di protezione su tutti gli animali del bosco, e che poteva partecipare se voleva. Non aveva mai visto nessuno saltellare dalla gioia come Jake, a quel suggerimento.
Avevano trascorso il pomeriggio così, a parlare di magia, poi di fumetti e a giocare a un gioco di quiz su un libro che avevano trovato in giro.
Solo quando Sylvie Moore era venuta a prendere il nipote, Charlie si era resa conto che era ormai sera.
Tuttavia, ciò che nessuno si sarebbe aspettato furono le conseguenze di quel pomeriggio.
 
Quando Logan passò a prendere suo figlio a casa di sua madre, lo trovò seduto al tavolo della cucina ancora intento a fare i compiti. Era strano che alle sei di sera Jake non li avesse ancora finiti, di solito dopo la scuola sua madre lo lasciava alla biblioteca, sotto la supervisione di Maddie Foster, dove adorava passare il tempo e studiare.
Logan non ci diede troppo peso, a volte poteva capitare, si disse, niente di cui preoccuparsi; per fortuna Jake non gli aveva mai dato problemi sulla scuola – o qualsiasi altra cosa, comunque.
Una volta a casa, davanti la sua cena, Jake parve inquieto: muovendosi sulla sedia, giocherellando con il cibo e lanciando qualche sguardo a suo padre; come se volesse dire qualcosa ma non sapesse come.
Fu Logan stesso a toglierlo di impiccio. “Cosa c’è?” chiese, non potendone più di veder suo figlio – di solito desideroso di raccontare della sua giornata – che si dimenava in silenzio.
Le ultime parole che si sarebbe mai aspettato furono pronunciate: “Possiamo andare alla sagra sabato?”
La forchetta di Logan si fermò a mezz’aria e pian piano ricadde nel piatto. Guardò suo figlio: gli occhi pieni di speranza. “Vuoi andare alla sagra del vino?” L’incredulità era evidente nella sua voce.
Jake si mosse di nuovo irrequieto sulla sedia, prima di annuire.
“Perché mai? Pensavo avessimo dei piani…”, non riusciva a comprendere quali fossero le ragioni che potevano spingere un bambino di otto anni a voler partecipare a un evento del genere.
Jake guardò nel piatto, come cercando ispirazione, sembrò trovarla perché rialzò gli occhi per incontrare quelli di suo padre, molto più risoluto di poco prima.
“Voglio vedere un vero incantesimo dal vivo.” Affermò seriamente.
La fronte di Logan si aggrottò, e l’uomo si grattò distrattamente una guancia. “Non capisco ancora cosa c’entri la sagra di sabato.”
Jake scosse la testa. “Papà, non posso dirtelo, è un segreto. Dobbiamo andare!”
Logan – che non credeva fosse una buona idea portare un bambino di otto anni a una sagra sul vino – fu costretto a fare il guastafeste: “No”, disse riprendendo a mangiare.
Non si aspettava certo che suo figlio fosse felice di quel diniego, ma certamente non pensava fosse importante al punto da iniziare a implorare. “Laverò i piatti tutti i giorni, farò tutte le pulizie e i compiti e mi comporterò bene. Ti prego, papà. Ti prego!” Si era allungato sul tavolo per cercare di toccarlo. Logan lo guardò accigliato; nemmeno quando gli aveva detto di no per la fiera del fumetto – in un altro stato, nientemeno – aveva fatto tutte quelle storie, e ora per la sagra del vino, che non era assolutamente un evento per bambini, insisteva per andare. Scoprì, però, che Jake non era affatto bravo in questo, gli aveva appena promesso tutte cose che già faceva, avrebbero dovuto lavorare sulla contrattazione in futuro.
Le guance di suo figlio si gonfiarono in uno sbuffo trattenuto. Logan riprese a mangiare, considerando chiusa la discussione, ma ovviamente Jake non era della stessa idea.
Iniziò a saltellare sul suo sgabello, aiutandosi con le mani sul tavolo, cantilenando a ripetizione: “Ti prego.”
Non era mai successa una cosa del genere prima d’ora.
Logan si alzò dalla sedia, prendendo il piatto ancora mezzo pieno e portandolo al lavello, in modo da non dover guardare la supplica sul viso di suo figlio. Se prima avesse potuto avere qualche ripensamento sul suo diniego, ora era definitivamente convinto: non poteva lasciare che Jake pensasse bastassero un po’ di capricci per ottenere ciò che voleva.
“Puoi giocare a fare le magie a casa, non serve andare alla sagra di sabato.” Quando il figlio iniziò a protestare ancora, Logan ricorse alla sua voce dura e definitiva. “Ho detto di no e non voglio più sentirne parlare.”
Ed effettivamente Logan non ne sentì parlare per le successive ventiquattro ore, anzi aveva archiviato il caso della sera precedente come un piccolo capriccio insolito, perché il figlio non ne aveva più accennato e non gli aveva nemmeno tenuto il muso. Ma la sera di giovedì si ripeté la stessa scena, con aggiunta di pianto. Vedere suo figlio in lacrime lo aveva quasi fatto cedere ma ancora una volta si era detto di star facendo la cosa giusta.
Iniziò a preoccuparsi, però; ora non era più un caso isolato e Jake era sempre stato un angelo, Logan tendeva ad accontentarlo le poche volte che chiedeva qualcosa. Anche per la fiera del fumetto, dopo che Logan lo aveva fatto ragionare facendogli notare che era troppo lontano, se n’era fatto una ragione.
Perciò, aveva tentato quella strada: gli aveva detto che quello di sabato non era un evento per bambini; ma a Jake non era sembrato importare. Voleva a tutti i costi andare e Logan non ne vedeva il motivo.
La sera di venerdì ci furono ancora capricci e altre lacrime durante la cena a casa di sua madre e la preoccupazione di Logan crebbe ancora di più.
Cosa poteva mai esserci di così importante alla fiera del vino? Perché non poteva giocare a casa?
Gli aveva proposto di invitare i suoi amici da loro a giocare, ma tutto ciò che ottenne furono dei singhiozzi incomprensibili su magie, scimmie e facce strane. In qualche modo, però, da tutto quel discorso sconclusionato riuscì a capire due cose: uno, che i suoi amici non c’entravano niente con questa trovata e due, che di qualsiasi gioco si trattasse, poteva esser fatto solo alla fiera di sabato.
Nonostante ci avesse pensato tutto il giorno, proprio non riusciva a immaginare cosa ci fosse alla sagra del vino di tanto speciale.
Non fu sorpreso di scoprire che anche sua madre era stata messa al corrente della situazione dal nipote. Tuttavia, lei aveva raccolto più informazioni di lui.
Dopo cena, quando finalmente Jake si era calmato e stava guardando i suoi documentari, mentre Logan stava lavando i piatti, sua madre si era unita a lui per aiutarlo.
In silenzio Logan lavava i piatti e sua madre li asciugava e li riponeva nel mobiletto, avevano quasi finito quando Sylvie parlò.
“Da quello che ho capito, domani verrà anche la ragazzina per cui Jake ha una cotta.” Gli disse dolcemente. Logan si girò di scatto verso di lei, sorpreso alle sue parole.
Una cotta.
Il comportamento incomprensibile di suo figlio era dovuto a una semplicissima cotta. Tutto sembrò avere improvvisamente senso e sentì il sollievo, dovuto alla tanta desiderata comprensione, farsi strada nel suo corpo. Per poco non scoppio a ridere dalla felicità. Una normalissima cotta!
Per tutto quel tempo si era chiesto cosa ci fosse di importante alla sagra, mentre la vera domanda era stata chi ci sarebbe stato alla sagra.
Il sollievo di Logan dovette essere ben visibile sul suo viso, perché sua madre gli sorrise e si avvicinò per accarezzargli una guancia. “Ha detto anche qualcosa sul fatto che la deve aiutare con qualcosa di magico, non ne ho capito molto.”
Logan sbuffò una risata. “Credi sia Claire?”
Claire Jackson era il nome femminile più pronunciato in quella casa; era una compagna di classe per cui Jake sembrava stravedere.
Sylvie scosse la testa. “Non lo so, ma non penso. Non mi risulta che Claire frequenti la biblioteca.”
Sulla fronte di Logan si increspò. “La biblioteca? Perché?”
Il sorriso della donna era quello di qualcuno che la sapeva lunga.
“È da mercoledì che insiste per andare subito in biblioteca, dopo la scuola. Di solito è sempre contento di andare, ma non l’ho mai visto così entusiasta; e quando lo vado a riprendere? Mai visto un bambino così felice dopo una giornata di studio.” Alzò un sopracciglio come a evidenziare che quelle erano prove lampanti che avesse ragione.
Logan scosse il capo, come per schiarirsi le idee.
Chiuse gli occhi e sentì le braccia della madre circondarlo, quel conforto lo fece sentire meglio.
La madre di Jake era andata via subito dopo il parto, non aveva mai voluto un figlio e Logan non sapeva cosa l’avesse spinta a tenere il loro; tuttavia, gli aveva regalato la gioia più grande della sua vita. Essendo un tipo pragmatico, non si era mai chiesto se al figlio sarebbe mancata una figura materna; aveva sua madre che lo aiutava e tanto bastava. Inoltre, Logan era ben desideroso e determinato a bastare per entrambi.
Ma ora, inaspettatamente, per la prima volta si chiese se una figura femminile – diversa da quella della nonna – avrebbe potuto aiutarlo con questa storia.
“Non credo che la sagra del vino sia il posto migliore dove giocare, mamma.” Mormorò.
“Adesso che sai perché ci tiene così tanto, però? In fondo non deve mica bere vino anche lui.”
Sospirò. “Ci penserò”, le sussurrò Logan, stringendola.
Per tutta la sera Logan pensò al da farsi. Ogni tanto guardava suo figlio, la cosa più importante della sua vita, che sembrava crescere di giorno in giorno. Non riusciva a credere che avesse una cotta; di tutte le cose che si sarebbe potuto immaginare, quella era l’ultima. Ricordava bene com’era stato per lui a quell’età e ripensando alla sua infanzia, ricordava sempre con piacere la sua storia d’amore infantile con Lucie.
Avrebbe impedito a suo figlio di vivere un’esperienza così dolce? Ovviamente no.
Inoltre, era assurdamente curioso di scoprire chi fosse questa ragazzina.
Si era intestardito con il fatto che la sagra non fosse un evento adatto a Jake, ma sapeva che alcuni dei suoi concittadini vi portavano i figli. Forse sua madre aveva ragione e stava esagerando.
Tornati a casa, quando stava rimboccando le coperte a suo figlio, ormai aveva preso una decisione.
Logan si sedette sul letto e accarezzò i capelli scuri di Jake e guardandolo non poté trattenersi dal sorridere – quel suo sorriso obliquo tanto famoso.
Suo figlio era già mezzo addormentato quando Logan parlò: “Va bene, domani andiamo alla sagra.” Quelle parole sembrarono svegliarlo un po', aprì gli occhi sonnolenti e fece un sorriso stiracchiato di pura gioia. “Grazie, papà”, mormorò nel silenzio della sua stanza.
Logan si fece serio. “Non voglio più tutti quei capricci, però. La prossima volta me ne parlerai come una persona matura e intelligente, intesi?”
Poté vedere nei suoi occhi la comprensione. “Lo prometto.”
Logan gli baciò la fronte, la stanchezza del giorno si fece sentire e Jake iniziò a riprender sonno velocemente sotto le leggere carezze del padre.
“Domani sarà una giornata quasi perfetta.” Mormorò con un sorriso beato.
Le labbra di Logan si curvarono d’un lato. “Perché quasi?” chiese sussurrando.
Prima di rispondere, Jake sbadigliò. “Perché sabato la biblioteca è chiusa.”
   
 
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