Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: FrancescaPenna    31/12/2021    0 recensioni
Possono cinque ragazzi non ordinari sperare di trovare il loro posto in una società dove l'essenza viene spesso sottomessa all'apparenza, dove le persone rincorrono una perfezione che non esiste per sottrarsi ai pregiudizi?
Casey e Satèle Johns sono due gemelli albini.
Markus Lancaster ama la lettura e odia le persone.
Johnnie Bailey è silenzioso.
Angel Hassler è un maschiaccio.
Cinque ragazzini diversi con cinque vissuti diversi, che si affacciano al contesto delle scuole medie diventando i protagonisti del primo atto di una storia che parla di diversità, accettazione, amicizie e primi amori, ma anche di bullismo, famiglie disfunzionali, autolesionismo e disturbi mentali.
Una storia in cui impareranno a conoscersi per come appaiono agli occhi di tutti, ma anche e soprattutto per come loro stessi si sentono dentro: strani.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: De-Aging, Kidfic | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 9 – Trecce e palloni da basket

 

Shane spazzò via una manciata di foglie secche dalla tomba di sua madre e vi posò un vaso di crisantemi bianchi. Osservò l'effigie della defunta posta sulla lapide, poi la fotografia che lo ritraeva insieme a lei contenuta nel medaglione che Kathryn gli aveva regalato qualche mese prima di morire, e non poté fare a meno di pensare a quanto il destino sapesse essere ingiusto con chi, al contrario, non lo era affatto.

Sua madre era morta nel 2001, quando lui aveva undici anni e Angel appena due, lasciando un vuoto incolmabile nelle loro vite e in quella di loro padre, che dopo dieci anni passati in solitudine solo di recente stava provando a rifarsi una vita con un'altra donna, Charlotte.

Ad Angel non piaceva granché, invece a Shane era indifferente, come tutto ciò che lo circondava, ormai, perché un mondo senza sua madre non era più un mondo piacevole in cui stare.

Se solo si fosse scoperto in tempo, oggi non sarei qui per te, pensava sempre in quel preciso giorno dell'anno, ma il cancro ai polmoni aveva già raggiunto il quarto stadio quando il miglior oncologo di Rockford, dopo aver liquidato più volte la questione sostenendo che i sintomi di Kathryn altro non fossero che gli strascichi di una bronchite curata male, si era finalmente deciso a sottoporla a indagini più approfondite.

Shane aveva visto sua madre lottare per due anni e con tutte le sue forze contro la malattia, che se da un lato non le aveva impedito di dare alla luce la sua sorellina, dall'altro l'aveva portata via a entrambi. Per sempre.

Questo era il pensiero con cui ogni volta si recava al cimitero per lei, e non sarebbe mai cambiato.

L'annuncio del decesso, la veglia, il funerale, la sepoltura... Quattro momenti che aveva rivissuto tre anni dopo, nel 2004.

Ricordarli gli faceva sempre venir voglia di piangere e di trattenersi allo stesso tempo, perché Shane sapeva perfettamente che le sue lacrime non avrebbero resuscitato nessuno, compresa sua madre.

Eppure, una lacrimuccia dagli occhi gli cadde. Ma lui se l’asciugò in fretta usando il dorso della mano.

"Tutto okay, fratellone?", gli chiese Angel.

"Tutto okay", rispose Shane, tirando un po' su col naso. "Mi aspetti qui, va bene? C'è anche un'altra persona a cui vorrei far visita, già sai. Torno presto." Raccolse da terra l'altro vaso di crisantemi che aveva portato con sé e si diresse verso un'altra lapide.

Angel seguì il suo movimento con la coda dell'occhio e, dopo essersi accertata che si fosse allontanato abbastanza, si sedette a gambe incrociate di fronte alla fotografia di Kathryn.

"Ciao mamma, sono Angel”, mormorò. “È triste parlare con te sapendo che non puoi rispondermi, ma lo faccio lo stesso perché so che in un modo o nell’altro mi ascolti. Mi piace credere che sia così, mamma. Ho tante cose da raccontarti.

Quest’estate papà ha conosciuto una donna, Charlotte, e si sono fidanzati. Non penso sia cattiva, ma a me non piace tanto, mi sembra un po' falsa. Shane dice che questa mia impressione è dovuta al fatto che non la conosco ancora bene. Ma io credo – anzi sono convinta – che pure se un giorno cominciasse a piacermi di più, non le vorrei mai bene sul serio. E sono convinta che anche papà, se tu fossi stata ancora qui, non si sarebbe messo con lei. Sarebbe rimasto con te. Ti vuole sempre bene, mamma. Ma lascerò che sarà lui a dirtelo, quando verrà a trovarti oggi pomeriggio, perché adesso sta lavorando.

Shane, invece, si sta trasformando in un pezzo di ghiaccio. È da tempo che non lo vedo ridere, o quantomeno accennare un sorriso. Lui dice che, quando si diventa adulti, le preoccupazioni e i doveri aumentano, ed è per questo che lo vedo così: perché è impegnato con il lavoro e a mettere da parte i soldi necessari per andare a vivere da solo. Secondo me sono tutte balle, mamma: è triste, ma non vuole ammetterlo. Così come non vuole ammettere di aver ricominciato a prendere quelle medicine di cui ti parlai un po' di tempo fa.

Ogni tanto io e Kyle – il suo migliore amico, di cui sicuramente ricorderai – lo paragoniamo a un robot per scherzarci su, ma a me non fa ridere, in realtà. Io voglio vedere Shane felice, perché l’ho già visto triste fin troppe volte, in passato.

E poi ci sono io, che quest’anno ho cominciato le scuole medie. Me la sto cavando bene, fortunatamente, e il merito è anche di Shane che mi dà sempre consigli. Mi ha anche mostrato i trucchi che usava lui per copiare durante le verifiche, ma non mi sono quasi mai serviti, per il momento.

Ho trovato due buoni amici: Markus e Satèle. Abbiamo tutti i corsi in comune, ci sediamo sempre vicini a mensa e occupiamo ogni giorno lo stesso tavolo, il Tavolo Degli Sfigati. Non siamo stati noi a battezzarlo così, ma alcuni nostri compagni che ci considerano appunto degli sfigati. A noi, però, non dispiace, perché preferiamo essere sfigati ma autentici piuttosto che popolari ma falsi.

Markus è il cugino di Ray, quell’amico di Shane che adesso vive a Londra.

Satèle è l’unica ragazza con cui vado d’accordo. Lei non cerca di cambiarmi e rendermi più femminile, mi accetta per come sono. Infatti, quando le ho detto di voler entrare nella squadra di basket della scuola, lei, a differenza delle altre, non mi ha consigliato di lasciar perdere; anzi: mi ha augurato buona fortuna per il provino.

Hai capito bene, mamma: farò quel provino. Giocare a basket è il mio sogno da sempre, ma è difficile da realizzare, e sai perché? Perché sono una ragazza, quindi non mi verranno date mai le stesse opportunità di un ragazzo. Funziona ancora così. È un bello schifo, eh? Ma io non mi lascerò scoraggiare così facilmente, mamma. Sono disposta a fare qualsiasi cosa per ottenere ciò voglio. Penso che tu l’abbia capito, da quello che ti raccontato di me, da quello che ti avranno raccontato papà e Shane. Sarà così anche stavolta, te l’assicuro. Non perderò quest’opportunità. Non posso perdere altro e ancora, perché ho già perso perdendo te.”

Lacrime copiose irrorarono le guance di Angel mentre accarezzava la pietra fredda, l’unico mezzo attraverso cui riusciva a comunicare con sua madre, uno dei pochi oggetti che ancora la legava a lei.

Mi manchi, mamma. Vorrei i tuoi baci, i tuoi abbracci, le tue rassicurazioni, ma mi accontenterei anche della tua sola presenza, perché non ricordo quasi niente di te ed è questo che mi fa più male, avrebbe voluto aggiungere, ma non riuscì a parlare.

L’unica cosa che si sentì di fare fu rimanere abbracciata alla lapide finché non vide suo fratello ritornare.

“Ho fatto. Se per te va bene, possiamo andarcene”, le disse.

“Va bene”, rispose Angel. Si alzò da terra e gli prese la mano. Alzò lo sguardo e vide che gli occhi azzurri di Shane erano arrossati, gonfi e sicuramente umidi, come se, al contrario di ciò che le avrebbe fatto credere, avesse pianto persino più di lei.

“Tutto okay, fratellone?”, gli chiese per la seconda volta.

“Tutto okay”, rispose nuovamente lui, giusto un po' seccato. “Quante altre volte me lo chiederai ancora, oggi?”

“Tante fino a quando non mi dimostrerai che sia vero.”

 

Le lezioni erano appena terminate. Markus e Satèle si stavano preparando per tornare a casa, invece Angel doveva andare a prepararsi per il provino. Il grande giorno era arrivato e non stava più nella pelle.

“In bocca al lupo, e facci sapere com’è andata”, le raccomandarono i due.

“Sicuro”, gli garantì Angel prima di imboccare il corridoio che l’avrebbe condotta agli spogliatoi. Quello femminile era vuoto, ciò significava che era stata davvero l’unica ragazza a presentarsi. Non che le importasse granché. Andava d’accordo con i maschi e allo stesso tempo sapeva tenergli testa.

Posso farcela, si disse. Devo farcela.

Indossò una tuta Adidas rossa che un tempo era appartenuta a suo fratello e un paio di sneakers bianche abbinate alla t-shirt che aveva messo sotto la giacca della tuta. Sembrava essere pronta, ma in realtà c’era ancora un’altra cosa che voleva fare prima di dirigersi in palestra.

Pochi giorni prima di venire a mancare, sua madre le aveva messo al collo una catenina d’argento con il pendente a forma di ala d’angelo che richiamava il suo nome. Quello era stato l’ultimo regalo che le aveva fatto. Da quel giorno, Angel non l’aveva più tolta e ormai la considerava il suo portafortuna.

“Ti renderò fiera di me, mamma”, sussurrò, poi si strinse la catenina al petto e baciò il pendente prima di nasconderlo sotto la maglietta.

Sapeva bene che il regolamento vietava agli sportivi di indossare bigiotteria durante le partite, ma non aveva comunque il coraggio di toglierla. Se un giorno le fosse capitato di smarrirla da qualche parte, Angel non se lo sarebbe mai perdonato.

Quando entrò in palestra, vide con sua sorpresa che dentro non c’erano più di dieci ragazzi, tutti girati di spalle e che già indossavano la storica divisa grigia e blu della McClaine.

Fu in quel momento che Angel capì di essere non solo l’unica ragazza ad essersi presentata al provino, ma addirittura l’unica persona.

I ragazzi erano troppo impegnati a parlare tra di loro per accorgersi della sua presenza, perciò diede un colpetto alla porta per richiamare la loro attenzione. Niente.

“Salve, ragazzi”, provò a salutarli, ma nessuno le rispose. Si schiarì la voce e ripeté lo stesso saluto con un tono più alto, ma ancora niente da fare. Sospirò, infilò pollice e indice in bocca e fischiò. Finalmente, i ragazzi si voltarono e cominciarono a fissarla con un cipiglio.

“Ehi, mi hai distrutto i timpani!”, gridò un certo spilungone, coprendosi le orecchie con le mani e nascondendosi goffamente dietro un compagno.

“Be’, mi dispiace, ma tu e gli altri non mi sentivate”, si giustificò Angel.

Calò un silenzio tombale. Poi, un ragazzo alto e abbastanza muscoloso per essere uno studente di scuola media, dai capelli meno biondi di quelli di Shane ma comunque troppo chiari rispetto alla sua carnagione bronzea, si fece largo tra i compagni e si rivolse a lei con una certa superbia.

“E tu chi saresti? Perché sei qui?” domandò.

“Mi chiamo Angel, sono qui per il provino.”

La squadrò dalla testa ai piedi quasi come se lei gli stesse suscitando disgusto e indignazione, facendola sentire ancora più piccola del suo metro e quarantacinque.

Tu vorresti entrare nella squadra di basket?”, rise, schioccando le dita per ordinare ai compagni di avvicinarsi. “Sentito, ragazzi? Questa qui vorrebbe entrare in squadra!”

Gli altri si scambiarono delle occhiate d’intesa e risero nuovamente insieme a lui.

“Ma sei una ragazza!”, rinfacciò un ragazzo moro ad Angel.

“Sì, e quello sotto i miei piedi è un pavimento. Abbiamo finito di giocare a Capitan Ovvio, adesso?”

“Come puoi tu, una ragazza, pensare di poter giocare a basket?”, insistette il ragazzo moro.

Angel corrugò leggermente la fronte. “Ditemi voi perché non potrei”.

A turno, ognuno espose le proprie motivazioni.

“Perché voi ragazze siete deboli.”

“Siete lente.”

“Semplice: non avete le palle.”

“Vi disperate se vi si spezza un’unghia durante una partita.”

“Siete troppo sensibili, non sapete tenere testa agli avversari.”

“Non avete la nostra stessa resistenza fisica.”

“Tu, in particolare, sei troppo bassa.”

“Hai le gambe corte, non riusciresti mai a saltare per fare canestro.”

“Perfino la palla è più grande di te.”

Si espressero tutti tranne il ragazzo biondo. Stavolta fu Angel a guardarlo con indignazione, lui e anche i suoi compagni. Con aria minacciosa, avanzò lentamente verso di loro e disse: “Uno: facendo questi stereotipi sulle ragazze dimostrate di possedere un quoziente intellettivo pari a quello di una gallina. Lobotomizzata, però. Per giudicare le abilità di una ragazza in campo, o anche semplicemente le mie, dovreste innanzitutto vederla giocare. Dovreste vedermi giocare. Due: scommetto di avere più palle io di tutti voi messi assieme.”

Dopo che ebbe pronunciato l’ultima frase, i ragazzi arretrarono tutti quanti contemporaneamente mettendosi una mano sul petto e inspirando profondamente all’unisono in modo quasi teatrale.

“Come ti permetti di dirci certe cose?!”, si arrabbiò il moro.

“E di paragonarci a delle galline lobotomizzate!”, puntualizzò l’imbranato spilungone.

I compagni allargarono le braccia come per dirgli che poteva anche risparmiarselo.

Di nuovo, il ragazzo biondo si fece largo tra loro e li zittì facendo il gesto del silenzio. Angel non si trovava lì nemmeno da dieci minuti e già aveva capito un paio di cose su di lui: la prima, che era il leader della squadra e quindi il playmaker; la seconda, che già non lo sopportava. Ancora una volta, il ragazzo la squadrò dal basso verso l’alto, soffermandosi sulle sue trecce, e disse: “Ascolta, Pippi Calzelunghe, ti consiglio di non perdere tempo e andartene prima che arrivi la signorina Hudson, la nostra allenatrice. Sarai sicuramente una primina, mentre alcuni di noi sono di seconda e altri addirittura di terza, il che significa che giochiamo da molto più di te in questa squadra. E poi sei una ragazza. Secondo te perché nessun’altra si è presentata? Perché il basket non fa per voi, fidati. Soprattutto per te. Guardati: sei praticamente uno scricciolo. Guarda come riesco a stringerti il polso con le dita!” Si fece avanti per dimostrarglielo, ma Angel gli tirò uno schiaffo sulla mano affinché lui gliela levasse di dosso.

“Dici solo cazzate!” protestò. “Se è vero che il basket non è uno sport per femmine, allora perché la vostra allenatrice, come tu stesso hai appena detto, è una donna?”

“Per lei è diverso”, borbottò il biondo poco convinto.

“È la stessa cosa, idiota!”, lo contraddisse Angel.

“Certo che sei proprio testarda!”, sbuffò esasperato il ragazzo. “Allora facciamo così, Pippi, propongo una sfida tra me e te: sei fai canestro tu, noi ti lasciamo fare il provino davanti alla signorina Hudson, che poi deciderà se sei degna di entrare in squadra; ma, se faccio canestro io, tu te ne vai e non ti fai più vedere. Ci stai?”

Angel incrociò le braccia. “Spiacente, io non credo in queste ridicole sfide di potere. L’unica persona a cui devo dimostrare qualcosa è l’allenatrice, non sei tu.”

Il biondo sorrise con malizia. “Come credevo: dici così perché hai paura.” Si voltò e fece cenno agli altri di seguirlo. “Andiamo, ragazzi, questa qui è un caso perso.”

Angel rimase a osservarli mentre attraversavano la palestra a testa alta, con la schiena dritta e il petto in fuori, atteggiandosi da vincitori quando, per il momento, non avevano vinto assolutamente niente.

Da un lato, Angel pensava che sarebbe stato un bene non avere a che fare con tipi del genere, con i quali non avrebbe fatto altro che litigare, ma dall’altro sapeva bene perché era lì, perché stava facendo il sacrificio di sopportarli: per dimostrare il suo valore, per raggiungere l’obiettivo che si era posta, ossia diventare la prima ragazza che giocava a basket che la McClaine avesse mai avuto.

“Fermi!”, ordinò agli altri giocatori. “Ci ho ripensato. Accetto.”

Il biondo tornò verso di lei con un sorriso sbilenco stampato in volto. “Ottimo”, sogghignò. Si fece portare la palla dallo spilungone e si rivolse ad Angel. “Ti avverto: trecce e palloni da basket non sono un’accoppiata vincente.”

“Staremo a vedere”, rispose lei.

Dopo che il ragazzo moro ebbe dato il via, il biondo cominciò a palleggiare in direzione del canestro avversario. Angel gli sottrasse presto la palla, ma lui cercò di impedirglielo. Non ci riuscì, perché la ragazza possedeva agilità e tecnica da vendere ed era impossibile riuscire a fermarla. Dopo una serie di tentativi e movimenti inutili per cercare di riprendere la palla, il ragazzo cadde a terra restando di sasso, come anche i compagni. Angel, allora, pensò che fosse giunto il momento di utilizzare il suo cavallo di battaglia. Prese la rincorsa, saltò e si cimentò in una capovolta a mezz’aria che apparve a dir poco spettacolare agli occhi dei suoi futuri compagni di squadra, perché dopo quell’acrobazia, alla quale seguì tiro in elevazione che spedì la palla dritta nel canestro, era a un passo dall’essere certa che lo sarebbero diventati.

Quando Angel atterrò, restituendo la palla allo spilungone, egli non andò a posarla, ma rimase impalato insieme ai compagni che ancora tenevano la bocca aperta, sia per lo stupore che per la vergogna di essersi sbagliati enormemente su di lei.

“Di’ la verità: sono bravina a basket, per essere una femminuccia” disse Angel, mimando le virgolette a mezz’aria con le dita nel momento in cui pronunciò la parola “femminuccia”. Fece una smorfia al ragazzo biondo per farlo sentire ridicolo, tuttavia gli offrì una mano per aiutarlo a rialzarsi da terra, ma lui la respinse e fece da sé. Si scrollò un po' di polvere dai calzoncini e andò a posizionarsi accanto al ragazzo moro, che gli sussurrò: “Ti ha stracciato, Kevin.”

“Sta’ zitto!”, gli ordinò Kevin. Si protese verso Angel e le puntò un dito contro. “Tu!”, stette per dirle, ma qualcuno lo precedette.

Kevin e gli altri si girarono verso la porta e Angel si paralizzò non appena vide che quella donna alta e muscolosa dai capelli castani raccolti in una coda bassa dietro la nuca che doveva essere la signorina Hudson (anche se di “signorina” aveva ben poco, vista qualche ruga che già faceva capolino e la voce mascolina) la stava indicando e si stava dirigendo verso di lei.

“Mi dispiace, non volevo, la stavo aspettando per il provino, poi ho cominciato a parlare con i ragazzi e…”

“Risparmia il fiato, ragazza”, tagliò corto l’allenatrice. “Non hai bisogno di fare alcun provino, ho visto cos’hai appena fatto.”

Per un attimo, Angel credette di star per essere scartata e si sentì percorrere la schiena da un brivido freddo.

Poi la Hudson continuò: “Hai un gran talento, hai eseguito una capovolta spettacolare e un tiro perfetto. Per non parlare della tua coordinazione, dei tuoi riflessi… sei fantastica! Sei esattamente ciò di cui la squadra ha bisogno. Che ne pensate, ragazzi?”

Angel era al settimo cielo. “La ringrazio, non sa quanto mi rende felice”, disse, ma Kevin non esitò a interrompere il suo momento di gloria rispondendo alla domanda della signorina Hudson, sottolineando per l’ennesima volta che Angel fosse una ragazza e che nessuna di loro, alla McClaine, avesse mai giocato a basket.

“Vorrà dire che sarà una pioniera”, fu la risposta dell’allenatrice. “Come ti chiami?”, chiese poi alla ragazza.

“Angel Hassler.”

“Ho già sentito questo cognome. Sei forse la sorella di un certo Shane Hassler?”

“Sì, ha frequentato questa scuola dieci anni fa.”

“Oh, me lo ricordo bene”, sorrise la Hudson. “All’epoca stavo facendo il tirocinio per ottenere una cattedra come insegnante di scienze motorie qui. Lui e il suo migliore amico – mi pare si chiamasse Kyle – venivano spesso a chiedermi in prestito i soldi per comprarsi gli snack al distributore, perché nessun altro professore voleva anticiparglieli.”

Angel rise. Effettivamente, chiedere soldi in prestito per comprarsi la merenda era proprio da Shane.

“Ma adesso torniamo a noi, Angel”, batté le mani l’allenatrice. “So già in che ruolo farti giocare: sarai la nuova guardia tiratrice.”

Angel sgranò gli occhi e non riuscì a trattenere un gridolino. Essere entrata in squadra già bastava a farle salire l’autostima alle stelle, ma giocare nello stesso ruolo in cui aveva giocato Michael Jordan – il suo idolo, la sua più grande fonte di ispirazione – era una gratificazione indescrivibile.

Peccato che Kevin ebbe di nuovo da ridire. “Ma, signorina Hudson, una guardia tiratrice dovrebbe essere più alta del playmaker. Io sono il playmaker, e lei non è affatto più alta di me!”

“Però, in compenso, ha una capacità di elevazione che nessuno di voi possiede”, gli fece notare l’allenatrice. “Non importa se è un tappo – senza offesa, Angel –, basta che sappia saltare.”

“Ma…”

“Niente ‘ma’. È deciso: Angel Hassler, benvenuta in squadra!”, annunciò solennemente la signorina Hudson.

“Benvenuta, Angel”, ripeterono gli altri giocatori, che a turno le strinsero la mano.

Di nuovo, tutti tranne Kevin. Anche stavolta fu il suo amico, il ragazzo moro, a condurlo davanti a lei per farlo scusare.

“Qualcuno ha qualcosa da dirti”, disse ad Angel, tenendo il biondo fermo per le spalle.

Kevin alzò gli occhi e sbuffò. “Scusami, Pippi Calzelunghe, se ti ho sottovalutata. Penso che tu sia quasi brava, per essere una ragazza, e mi pento per come mi sono comportato. Mi chiamo Kevin e sono felice di averti in squadra.” Scocciato, si voltò verso l’amico e chiese: “Ho detto tutto bene?”

L’altro fece “così così” con la mano. “È un caso disperato, perdonalo”, suggerì ad Angel.

“Wow, Kevin, le tue parole mi commuovono”, rispose sarcastica. “E comunque, ti ricordo che mi chiamo Angel.”

“Per me sarai Pippi Calzelunghe”, decise Kevin.

Si fecero la linguaccia a vicenda, poi Angel venne convocata nello spogliatoio dalla signorina Hudson che doveva prenderle le misure da riferire alla sarta che le avrebbe confezionato la divisa.

Nel momento in cui l’allenatrice le posizionò il metro all’altezza di metà coscia, fino a dove sarebbero dovuti scendere i calzoncini della divisa femminile, Angel la fermò, chiedendole di scendere più giù perché – se fosse stato possibile – avrebbe voluto una divisa maschile.

La signorina Hudson la accontentò, ma quando venne il momento di chiederle di togliersi la giacca della tuta e vide la collanina nascosta sotto la t-shirt, le ribadì che era tenuta a toglierla per giocare, perché il pendente avrebbe potuto colpirla in faccia e farle male.

Angel scosse la testa. “Me l’ha regalata mia madre.”

La signorina Hudson conosceva Shane che sicuramente doveva averle raccontato tutta la storia, quindi avrebbe dovuto capire.

“D’accordo”, convenne, “ma assicurati di nasconderla sempre sotto la maglietta e fermarla con il nastro adesivo.”

“Lo farò, non si preoccupi”, le garantì Angel.

Prima di lasciarla andare, la signorina Hudson la scrutò attentamente e le disse: “Hai l’aria di essere una tipa tosta. Mi piaci.”

 

Un paio di giorni dopo, la notizia che per la prima volta ci fosse una ragazza nella squadra di basket aveva già fatto il giro della scuola.

Angel si sentiva costantemente osservata e indicata nei corridoi, ma a darle fastidio erano più i commenti le venivano fatti alle spalle che i gesti in sé.

“Saprà giocare veramente a basket?”

“Macché, secondo me è entrata in squadra solo farsi corteggiare dai ragazzi.”

Quando sentiva certe cose sul suo conto, Angel non poteva fare a meno di dare ragione alla signorina Hudson, che proprio il giorno prima le aveva detto: “Ricordati che, quando sei una ragazza, devi essere più forte psicologicamente che fisicamente per giocare a basket, perché là fuori è pieno di gente che cercherà di convincerti che non vali abbastanza. Non solo come giocatrice.”

I primi a dimostrarglielo erano stati proprio i suoi compagni di squadra.

Non solo in campo la trattavano come un’intrusa, ma in qualsiasi contesto. Non l’avevano mai invitata a sedersi con loro a mensa, quando la incontravano in giro non la salutavano o fingevano addirittura di non vederla. Quasi sempre la escludevano dalle loro conversazioni, oppure parlavano a bassa voce per non fargliele proprio ascoltare.

Le uniche occasioni in cui aveva modo di inserirsi nei loro discorsi erano le occasioni in cui Kevin non era presente, ma bastava che arrivasse lui e tutti smettevano di darle corda.

Tuttavia, Angel era riuscita a ricavare qualche informazione sui suoi compagni di squadra, a partire proprio dal biondo playmaker.

Tanto per cominciare, il colore dei suoi capelli non era naturale, anche se lui sosteneva il contrario. Di cognome faceva Martinez, ma per qualche motivo non pervenuto non sembrava andarne fiero.

Il ragazzo moro suo amico, invece, si chiamava Liam Torney e giocava come centro. Il suo ruolo si sposava a pennello con la sua corporatura: era il più massiccio di tutti e il più alto, persino più alto dello spilungone, il cui nome era Fletcher Dixon.

Fletcher era uno svampito abbastanza imbranato nei rapporti umani. Spesso faceva battutine fuori luogo che disturbavano gli altri membri della squadra ed emetteva una specie di singhiozzo stridulo quando questi lo rimproveravano urlando il suo nome. Ciononostante, era un valido giocatore e ricopriva il ruolo di ala piccola.

Infine c’era Doug Parker che giocava come ala grande, mentre tutti i ragazzi restanti rivestivano ruoli secondari.

Mentre prendeva alcuni libri dall’armadietto, Angel incontrò Markus e Satèle.

“Ecco la star!”, esclamarono all’unisono.

Angel indicò le proprie spalle. “C’è Lady Gaga dietro di me?”

“No, sei tu la star!”, rise Satèle. “Allora, com’è far parte della squadra di basket?”

“Sinceramente, non è proprio come me l’aspettavo. Diciamo che i ragazzi, al momento, sono un po'… distaccati nei miei confronti.”

“Che intendi dire con questo?”

“Che, anche sono nella squadra, non sono ancora della squadra.”

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: FrancescaPenna