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Autore: Chiccagraph    01/01/2022    0 recensioni
"Perché ci vuole coraggio a lasciare andare uno dei fili che tiene insieme il complesso reticolato del tuo cuore.
Ci vuole coraggio a reciderlo sapendo che difficilmente potrai riannodarli insieme ai tuoi. È un filo sciolto che può decidere di legarsi dove vuole: allacciarsi nuovamente ai tuoi o lasciarsi trasportare via dal vento.
E lui aveva mille ragioni per farlo, per tagliare via quella rosa pericolosa e tornare a prendersi cura del parco incontaminato dei suoi sentimenti. Aveva mille motivi per andarsene. Ed uno solo per restare. Ma quell’unico motivo, cazzo, aveva degli occhi bellissimi."
O la fic Serquelicia di cui tutti abbiamo bisogno
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Altri, Il professore, Raquel Murillo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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«Stupido!» imprecò ad alta voce.

«Che razza di stupido!» borbottò, tra sé e sé. «Il più grande stupido sulla faccia della terra. Potrei vincere una medaglia per l’uomo più stupido dell’anno» continuò, accompagnando le parole con un gesto stizzito delle mani. 

Non riusciva a credere di essersi lasciato andare in quel modo di fronte alla donna. Un conto era abbassare le difese, un altro era raderle completamente al suolo. 

Cosa gli era venuto in mente? 

Ovviamente non stava pensando. Era questa l’unica spiegazione logica che si era dato. Lui era equilibrato, attento, furbo… come aveva potuto lasciarsi andare in questo modo?

Era arrossito come un ragazzino delle medie, finendo con il confermare quello che la donna gli aveva appena detto. Lui non la stava guardando, no, la stava letteralmente mangiando con gli occhi, e lei se ne era accorta. Dannazione! 
Nel momento in cui i denti avevano preso contatto con il cuscinetto di carne delle sue labbra, aveva smesso di ragionare. Ogni suo pensiero si era concentrato su quell’unica parte del corpo della donna e come le bollicine nello champagne era salito il suo desiderio di scoprire che sapore nascondessero quelle labbra, dalla voglia incontenibile di toccarle, leccarle, morderle. 

Non poteva continuare così. 

Semplicemente non poteva. 

Alicia stava diventando un pericolo e non sapeva più come gestirla senza rischiare di mandare tutto a puttane. 

Raquel gli aveva dato il semaforo verde per parlarle e dirle la verità, non per saltarle addosso. 

O forse aveva avuto la sua approvazione anche per quello?

Era tutta la mattina che si nascondeva nella sua stanza per paura di dover incontrare nuovamente la rossa e stava iniziando a sentirsi ridicolo a restarsene seduto su questa poltrona da ore. 

Era un uomo, che diamine! 

Con uno slancio deciso si alzò e si diresse verso la porta; mise una mano sulla maniglia e osservò per un breve istante la maniglia d’ottone. Era bronzato ai lati e più scuro al centro, nel punto in cui più e più volte era stato accarezzato dal palmo della mano. Il passaggio di una persona era facilmente riconoscibile su di lui. 
Quella discromia indicava alle persone, senza bisogno di parole, cosa dovevano fare, dove dovevano toccarlo e dove dover premere. Magari esistesse una mappa dei punti anche sulle persone. Sarebbe stato più facile capire come gestirle e dove mettere le mani. Un perimetro luminoso che indicasse le zone off limits. Come nei giochi che trovi nelle prime pagine delle parole crociate; magari bastasse unire i punti da 1 a 10 per individuare a colpo d’occhio quali zone è possibile toccare e quali invece sono proibite al tocco di un amico – che era poco più di uno sconosciuto, nel suo caso. 

Nei suoi sogni, Sergio avrebbe voluto far ben altro che accarezzare il corpo di Alicia. Avrebbe voluto sfiorare la sua pelle che immaginava liscia e soda, come questo pomello. Fredda al tatto e calda al suo interno. 
Assaggiare le sue labbra, accarezzare la sua anima e saziare la sua fame di lei. 

Abbassò lo sguardo nuovamente al freddo oggetto di metallo che teneva strettamente all’interno della mano. Devo essere completamente impazzito se inizio a paragonare Alicia a una maniglia. 

Con la testa ancora piena di pensieri, prese un lungo respiro e si decise ad uscire dalla stanza.

 

--

 

Era quasi ora di pranzo quando si decise a scendere le scale che dal piano superiore portavano direttamente nel salone. Nella stanza c’era profumo di pomodoro fresco e basilico. Alicia doveva aver preparato il sugo per il pranzo, mentre lui si decideva a fare la passeggiata della vergogna. 

Percorse la breve distanza che lo portava in cucina e si affacciò allo stipite della porta, appoggiandosi con entrambe le mani sulla cornice in legno. 

La stanza era vuota.

Dove erano finiti tutti?

Nello scolapiatti, appena lavati, c’erano il biberon e il ciuccio della bambina. Sui fornelli spenti la pentola con il sugo e il mestolo poggiato in equilibrio su un manico. 

Si affacciò alla finestra della cucina, quella dove questa mattina era seduta Alicia a sorseggiare il suo caffè, e guardò in basso verso il giardino. Sedute su un telo colorato, nella penombra del ciliegio in fiore, c’erano la rossa e la bambina. Rimase ad osservarle per qualche momento, fantasticando su un sogno che non poteva realizzare, e poi decise di rimboccarsi le maniche e finire di preparare il pranzo.

Riempì la pentola d’acqua e riaccese il fornello del sugo, tenendo premuta la manopola verso il basso - ci voleva sempre un po’ prima che il gas raggiungesse il piano cottura – con uno scoppiettio la fiamma prese vita e girò intorno al piattino di ottone illuminandolo di blu. Una volta acceso il fornello, girò la manopola al contrario impostandola al minimo. 

Buttò la pasta e impostò il timer a calamita attaccato sopra la cappa della cucina. 

Apparecchiò la tavola e una volta che era tutto pronto si asciugò le mani sul grembiule che aveva legato in vita. 

Il pranzo sarebbe stato pronto in un paio di minuti, era arrivato il momento di andare a chiamare la donna. 
Tirò fuori il telefono dalla tasca in cerca di un segno da parte di Raquel. Nessun messaggio. Nessuna chiamata. 

Possibile che non fosse ancora tornata? 

Una volta uscito dalla portafinestra del salone, sulla veranda, notò lo zaino e il cappello di paglia che Raquel indossava questa mattina. 

Ecco dove sei finita. 

Raquel si era fermata in giardino una volta tornata dal paese. Sergio sapeva perfettamente chi avesse catturato la sua attenzione. Si sfilò le scarpe e camminò scalzo nel prato, affondando i piedi nell’erba - una vecchia abitudine che aveva fin da bambino. Gli piaceva camminare a piedi nudi nel prato, sentire l’erba che si abbassava sotto il suo peso e solleticava con il suo movimento la pianta del piede. 

Raquel era seduta sul telo insieme ad Alicia e Victoria, con la schiena appoggiata al tronco dell’albero. In ogni mano teneva un pupazzo che faceva volteggiare nell’aria davanti al volto della bambina. Alicia era seduta di fronte a lei, dando le spalle a casa, con la bambina seduta tra le sue gambe incrociate. Victoria ormai riusciva a tenersi in una posizione seduta se appoggiata con la schiena, ma spesso le capita di perdere l’equilibrio e scivolare di lato; in questo modo, circondata dalle gambe della madre, sarebbe stato impossibile cadere a terra. 

A mano a mano che si avvicinava si accorse che Alicia stava leggendo, anche se da quella posizione non poteva vedere il libro che teneva tra le mani. La sua voce, dolce e melodiosa, però, poteva sentirla perfettamente. 

«Alice chiede al Bianconiglio: “per quanto tempo è per sempre?” e il Bianconiglio risponde: “a volte, solo un secondo”» 

Sergio rimase in disparte a guardare le due donne, ancora ignare della sua presenza. 

«Alice incalza allora di nuovo: “E quanto tempo è un secondo?” al che il Bianconiglio replica: “Quando ami, un’eternità”» Alicia lesse l’ultima frase e poi alzò gli occhi cercando lo sguardo dell’altra donna. Raquel la stava già guardando e quando i loro occhi si incontrarono mosse la testa in avanti, annuendo impercettibilmente. 

Uno straniero non si sarebbe accorto di quel minimo gesto, ma il professore, che guardava la scena da così vicino, si rese subito conto del dialogo silenzioso tra le due donne. 

Aveva un posto in prima fila in quella platea di sentimenti ingarbugliati. 

Ahem! Si schiarì la gola annunciando la sua presenza. 

Alicia piegò la testa di lato, sfiorando con il mento la spalla, per osservare l’uomo alle sue spalle. Raquel, seguendo il suo movimento, alzò anche lei il volto verso l’alto.

Entrambe le donne gli stavano sorridendo. In quel preciso istante si sentiva l’uomo più fortunato del mondo. 

 

--

 

Una volta rientrati in casa si diressero tutti e tre in cucina per pranzare. Sergio era seduto a capotavola, alla sua destra Alicia con Victoria - semi seduta nel suo ovetto con un pupazzo in mano - e alla sua sinistra Raquel. 

Il perfetto ritratto di una famiglia felice. 

E pensare a quanto era stato difficile raggiungere questo clima di pace. 

I primi giorni erano stati parecchio complicati. Gli sbalzi umorali di Alicia erano stati la cosa più difficile da gestire. Era doloroso vederla soffrire in quel modo, ma a nessun dei due era permesso di avvicinarsi più del dovuto. Non sapevano come gestire la donna quando il suo unico modo di chiedere aiuto era chiudersi in sé stessa. 

Le mancava la sua vita, le mancava il suo lavoro, le mancava suo marito. E questa sequenza interminabile di mancanze era difficile da riempire. Non si può pretendere di colmare completamente un vuoto, perché ogni vuoto ha la sua forma e ha bisogno di quella perfetta sagoma per riempirsi. Per colmarlo devi inserire ciò che l’ha causato. Se lo riempi con altro, spalancherà ancora di più le sue fauci. Non si chiude un abisso con l’aria. 

Il vuoto rimane così e continua a inghiottire tutto quello che incontra.

La mancanza, a volte, è più forte della presenza. Non la si può leggere, non la si può toccare, ma solo avvertire. 

Le notti insonni ad allattare la bambina si erano sommate a quelle in cui i suoi pensieri non le lasciavano tregua. La mattina si aggirava per casa come un fantasma, con profondi solchi neri sotto gli occhi - gonfi di pianto - e i capelli legati in un panino scomposto. L’equilibrio delle sue giornate si era rovesciato; le mattine erano diventate ombre pallide e spente della notte. 

Alcune volte lasciava la bambina con Sergio. Era doloroso e al tempo stesso rincuorante per lei vedere l’uomo prendersi cura di sua figlia. Sua madre le aveva detto che non è la carne o il sangue, ma è il cuore che ci rende genitori, ed aveva ragione, perché Sergio era un papà perfetto per la piccola Victoria. Attento, dolce, affettuoso. Come lo sarebbe stato il suo Germán.

Nessuno avrebbe scommesso sulla loro convivenza e invece, con il passare del tempo, avevano trovato il loro equilibrio.

Precario, ma pur sempre un equilibrio.

Il ciclo del dolore richiede del tempo per chiudersi. All’inizio aveva subito una battuta d’arresto e sembrava quasi impossibile superare quello scoglio, e poi, con il tempo, le cose sono iniziate a cambiare.

Non è stato un cambiamento repentino, ma piuttosto un lungo processo di interiorizzazione.

Delle volte basta un graffio e si riaprono tutte le cicatrici. 

Bisogna riuscire a soffocare quello che hai dentro perché il mondo continuerà a girare anche se il tuo cuore si è spento. Non importa se vivi o se stai solo esistendo, la vita è adesso e ogni giorno bisogna correre e non fermarsi, mai, anche quando è difficile, anche quando è faticoso, anche quando il passato ti culla tra le dolci braccia dei ricordi e ti fa desiderare fermarti in quella bolla pacifica. 

Bisogna avere pazienza e sopportare il dolore e i graffi. Le parole delle volte sanno essere più taglienti di un’ascia sulla pelle, ma l’amore sa sanare tutte le ferite. 

In fondo, prima che il Piccolo Principe l’addomesticasse, la volpe l’avrà graffiato qualche volta. Perché l’amore è così, fa un po’ male.

Ed é proprio quell'amore non confessato che aveva seminato i suoi frutti ed era fiorito.

Sergio era seduto al tavolo a guardare le due donne mentre sparecchiavano la tavola e chiacchieravano tra loro. Victoria si divertiva a buttare a terra ogni cosa che le capitasse sotto tiro, alternando gridolini di gioia a strilli per richiamare l’attenzione dei tre adulti nella stanza. 

«Cosa c’è?» chiese Sergio, raccogliendo per la terza volta lo stesso pupazzo da terra.

La bambina cercò con una mano di afferrarlo di nuovo, mentre con l’altra, chiusa in un pugno, si stropicciava gli occhietti.

«Hai sonno, non è vero?» sussurrò alla bambina, e come risposta venne accolto da un sorriso sdentato. 

Allungò le mani per tirarla fuori dall’ovetto e nel momento in cui la bambina capì che l’avrebbe presa in braccio iniziò a scalciare felice con i piedini. 

La tirò su e quando si trovarono con i volti alla stessa altezza, Victoria appoggio le sue manine sulle sue labbra, dandogli dei leggeri colpetti. Sergio la spostò di lato, poggiandola di schiena sul petto, sorreggendola con un braccio in mezzo alle gambe, per evitare che gli afferrasse gli occhiali e li lanciasse in giro per la stanza.

Tirò verso l’alto il gomito, arricciando sul suo corpo la bambina e quando le sue guance paffute raggiunsero l’altezza delle sue labbra le schioccò un bacio rumoroso sulla pelle. «Andiamo a fare le nanne». 

Alicia e Raquel erano talmente prese nei loro discorsi che non si resero conto che Sergio e la bambina avevano lasciato la stanza.

--

«La niña?» Alicia posò il canavaccio con cui stava asciugando i piatti sul piano della cucina e si girò verso il tavolo. «La niña?» ripeté come una cantilena. 

Raquel afferrò il panno bagnato e lo gettò nella cesta dei canavacci da lavare. 

«Starà con Sergio» rispose concisa, continuando a riordinare gli utensili lavati.

Alicia si appoggiò con i fianchi al pianale guardando un punto imprecisato della stanza, pensierosa. «Mmh…» poggiò entrambi i palmi delle mani sul piano dietro di lei e si diede uno slancio in avanti staccando il corpo dal ripiano. 

Senza dire una parola lasciò la stanza alla ricerca dell’uomo e della bambina. 

Raquel sorrise sommessamente pensando a quanto la donna fosse cambiata. O più semplicemente aveva tirato giù la maschera pietra che aveva indossato in questi ultimi mesi, ed era tornata ad essere la ragazza che nei primi anni dell’accademia le aveva fatto battere il cuore. 

 

--

 

«Oh bella ciao, oh bella ciao, oh bella ciao, ciao, ciao»

«Che razza di canzone stai cantando a mia figlia?» chiese Alicia incredula, facendo capolino con la testa nella stanza in penombra.

Sergio le sorrise complice. «Beh, è una ninna nanna» rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Alicia entrò nella stanza, lasciando la porta accostata alle sue spalle. «Da quando una canzone partigiana, simbolo della resistenza, è considerata una ninna nanna?» chiese imbronciata, avvicinandosi.

«A Victoria piace» 

Alicia lo guardò scettica, con un cipiglio sul viso. 

Sergio guardò dapprima la donna di fronte a lui e poi tornò a concentrare la sua attenzione sulla bambina che con una manina alzata cercava di afferrargli gli occhiali. «Mio padre me la cantava sempre prima di addormentarmi»

«Ora si capiscono tante cose»

«Che?»

«Niente» disse con un sorriso impertinente.

Sergio si aggiustò gli occhiali e riprese a cantare la seconda strofa della canzone, simulando tranquillità, nonostante il cuore gli battesse forte in gola alla vista di quel sorriso sghembo. 

«Oh, per favore» Alicia si passò una mano sulla fronte spostando la frangia di lato, sospirando esasperata. 

«Cosa?» sussurrò Sergio, per non disturbare la bambina. 

«Perché stai sussurrando?» chiese, sussurrando a sua volta.

«Per non svegliarla»

Alicia scosse la testa e si avvicinò all’uomo, rimanendo alla sua sinistra per osservare più da vicino la bambina. «Sta dormendo davvero!» sussurrò sbalordita.

«Te l’ho detto. A Victoria piace questa canzone»

La donna lo guardò, mentre sorrideva soddisfatto verso la bambina addormentata tra le sue braccia. Da così vicino sentiva il profumo della sua colonia, di quell’odore dolce e muschiato che si era abituata ad avere intorno. Lo guardò timida, abbassando di tanto in tanto lo sguardo, con la paura di essere scoperta ad osservarlo così da vicino.

«Oppure la trova talmente tanto noiosa da preferire dormire piuttosto che sentirti cantare»

«Cállate» 

Ispirò con il naso, cercando invano di trattenere una risata. «Sai Victoria non è ancora in grado di parlar-»

Sergio girò di scatto la testa verso Alicia e si scontrò con il suo viso. Talmente tanto concentrato sulla bambina non si era reso conto di quanto erano vicini. Da questa distanza poteva vedere la distesa di lentiggini disegnate sulla sua pelle - se glielo avessero chiesto avrebbe saputo dirne il numero esatto. I capelli erano raccolti in una coda bassa, appoggiati sparsi sulla spalla. Le labbra coperte da un leggero velo di burro di cacao. Odorava di cannella. Avrebbe voluto succhiarle. 

Nessuno dei due si mosse o disse una parola, entrambi vittime dello stesso incantesimo che sembrava calamitare i loro volti sempre più vicini.

I loro corpi si piegarono in avanti, attratti come i due poli opposti di una calamita. Nessuno dei due aveva fatto la prima mossa, si erano appoggiati nello stesso tempo, insieme. Proprio nel momento in cui le labbra di Sergio rubavano l’ultimo grammo d’aria che le separava da quelle della donna, la bambina si agitò tra le sue braccia. 

Si separarono all’istante, realizzando solo in quel momento quello che stavano facendo. 

Imbarazzato, con lo sguardo fisso a terra, Sergio cullò al petto la piccola che iniziò a piagnucolare.

«Te l’avevo detto» mormorò Alicia, cercando di nascondere l’imbarazzo che aveva colorato le sue guance di rosso. «A mia figlia non piacciono queste canzoni»

Sergio sorrise scuotendo leggermente la testa. «Le piacciono» ribadì «È solo che le piacciono di più le coccole»

«Come alla mamma» 

Sergio smise di ondeggiare la bambina, mentre registrava il significato di quelle parole. Poi allargò le labbra in un sorriso dolce e accarezzò con la mano libera la guancia liscia della bambina. Nel momento in cui alzò gli occhi Alicia non c’era più. 

«Come alla mamma» ripeté pensieroso prima di riprendere a cantare l’ultima strofa della canzone.

   
 
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