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Autore: edoardo811    02/01/2022    3 recensioni
La Foschia è svanita. I confini del campo sono scomparsi e ora tutto il mondo può vedere i mostri per quello che sono realmente.
DANIEL non è mai stato un ragazzo socievole, per un motivo o per un altro, si è sempre trovato meglio da solo, lontano da tutti, perfino dal Campo Giove. Nemmeno i mostri hanno mai provato ad ucciderlo, come se non fosse mai esistito realmente.
CAMILLE è un pericolo, per sé stessa e per gli altri, una figlia di Trivia abbandonata in fasce, indesiderata, costretta a convivere con un lato di sé che non vuole fronteggiare, per paura di quello che potrebbe scatenare.
KIANA è una figlia di Venere, orgogliosa e testarda, che dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Tra auguri scansafatiche, eroici pretori e conflitti interiori nel Campo Giove, tre ragazzi diversi tra loro, tre nullità della Quinta Coorte, si ritroveranno con un obiettivo comune: imbarcarsi in un viaggio tra mostri, traditori, nuovi e vecchi nemici per impedire che il mondo sprofondi nel caos.
Genere: Avventura, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Dei Minori, Ecate, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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IX

Alla ricerca di Ecate 



Avevano stabilito di non raccontare a nessuno quello che avevano in mente, ma Kiana non aveva potuto escludere David. Doveva dirgli che sarebbe sparita per un po’, anche se non spiegò il perché. Avrebbe voluto, però: con quello che era successo al suo migliore amico, David meritava di essere reso partecipe.

Tuttavia, proprio perché era suo fratello ed erano legati, doveva escluderlo da quella storia il più possibile. Ashley avrebbe potuto interrogarlo e se lui avesse giurato sullo Stige di non sapere niente, lei non avrebbe potuto fargli nulla.

Almeno, se lo augurava.

In realtà, doveva ammetterlo, era più preoccupata per Marianne. Lei era coinvolta tanto quanto loro in quella storia, li avrebbe aiutati a scappare dal campo di persona e poi sarebbe rimasta indietro, a beccarsi chissà quali conseguenze per proteggere loro le spalle.

Era tosta, se c’era qualcuno che avrebbe potuto reggere una situazione come quella era proprio lei, ma Kiana si sentiva comunque in pensiero. Stavano per infrangere una delle regole maggiori del campo, se non la più grande in assoluto.

Era anche vero che se non avessero fatto così, non sarebbero mai potuti andare a cercare Ecate. Avrebbero dovuto rimanersene fermi mentre Ashley tentava di risolvere una situazione che non poteva risolvere, perché la profezia non riguardava lei, con chissà quali conseguenze catastrofiche.

Lei e Camille stavano nella stessa stanza del dormitorio, assieme ad altre tre ragazze di cui conosceva giusto il nome e il cognome. Al termine di quella giornata d’inferno erano crollate tutte dal sonno, quindi non fecero caso alle altre due quando sgattaiolarono fuori.

Cam era ancora piuttosto tesa all’idea di cosa stavano per fare, ma ormai era tardi per ripensamenti; chissà, magari la vita da ribelle le sarebbe piaciuta. Non era la prima volta che Kiana sgattaiolava di nascosto dalla stanza, invece. L’aveva fatto spesso in passato. Proprio per andare da Mary. A quel pensiero, Kiana sentì le guance bruciare.

«Pensi che Daniel riuscirà ad uscire senza farsi notare?» bisbigliò Camille.

«Pensiamo noi ad uscire senza farci notare, per adesso» rispose Kiana, facendole strada lungo il corridoio. Avrebbe potuto camminare ad occhi chiusi, tanto bene conosceva quel percorso. Per fortuna non lo fece, o non si sarebbe mai accorta dell’ombra che si mosse di fronte a loro all’improvviso, facendole gelare il sangue nelle vene.

Prese Cam e la trascinò dietro la parete più vicina, tappandole perfino la bocca. Quella emise un verso sorpreso, ma per fortuna sembrò capire cosa stava succedendo, perché non tentò di liberarsi né di parlare. Kiana la tenne stretta a sé e si impose perfino di non respirare, mentre dal fondo del corridoio udiva quel rumore di passi che si avvicinavano. Erano pesanti e lenti, come di qualcuno che stava sostenendo un grande peso. Piuttosto azzeccato come paragone, visto che si trattava di Elias. Kiana era riuscita a malapena a scorgere la sua imponente figura prima di trascinare Cam al riparo. Non doveva averle viste, altrimenti i suoi passi non sarebbero stati così tranquilli. Però stava proprio marciando verso la loro direzione. La figlia di Venere trattenne un’imprecazione. Che cavolo ci faceva quel manesco lì? Voleva picchiare qualche altro poveraccio?

I passi erano sempre più vicini. Kiana avrebbe voluto urlare per la frustrazione; stavano per fallire ancora prima di cominciare. Un sussurro le fece accapponare la pelle: «Qui non c’è niente.»

Camille era rannicchiata contro di lei, le palpebre serrate, e continuava a farfugliare quella frase a voce bassa, ma neanche troppo. Nel silenzio tombale di quel corridoio, anche Elias, ancora distante, avrebbe potuto udirla: «Qui non c’è niente. Qui non c’è niente. Qui non c’è niente...»

Non sembrava nemmeno una frase. Dal modo in cui la pronunciava, e da come sembrava concentrata, pareva di più una litania, o una formula. Stava anche parlando in latino, si rese conto Kiana. La sua mente portata per capire quella lingua non le aveva nemmeno fatto cogliere la differenza.

I passi di Elias si fermarono all’improvviso. Kiana trattenne il fiato: erano appena dietro l’angolo. Un metro ancora, e il pretore le avrebbe viste.

«Non venire qui!» ordinò Camille, gridando a voce bassa. «Qui non c’è niente

Kiana fu travolta all’improvviso da una forte sensazione di vertigini. Se non fosse stata appoggiata al muro, sarebbe sicuramente caduta. Le parole di Cam si insinuarono nelle sue orecchie, come i bisbigli di uno spirito dalla voce calda e sensuale, che le fecero formicolare l’intera spina dorsale. Lo stomacò le si attorcigliò e iniziò a fare fatica a tenere gli occhi aperti.

Lì… non c’era niente. Ma se non c’era niente… lei come faceva a esserci?

Era… davvero lì?

Le scappò un mugugno appesantito. Perché… perché era lì? Che stava facendo? Forse… forse doveva tornare indietro.

Camille le strinse il piumino con forza, tanto da afferrarle anche la pelle e farla riprendere da quella trance. Si guardò attorno, spaesata, realizzando di trovarsi ancora nel corridoio. Nello stesso istante, il rumore dei passi riprese all’improvviso. Kiana divenne più rigida di un morto e si appiattì contro la parete, assieme a Cam. Elias però non apparve dietro l’angolo. Nel giro di pochi attimi, la ragazza realizzò che il rumore dei suoi stivali sul pavimento si stava affievolendo sempre di più.

Quel bestione se ne stava andando.

Ci volle ancora un po’ di tempo prima che si riprendesse dallo stupore e si accorgesse anche delle mani ancora contratte a pugno di Camille, che tiravano con forza la sua giacca a vento.

«Cam.» Le toccò una spalla e quella sussultò di colpo, grazie agli dei trattenendo all’ultimo istante un grido. La scrutò come se fosse stata uno spettro. Poi, come un fulmine a ciel sereno, la abbracciò con un gemito spaventato, affondando la testa contro il suo petto senza troppi complimenti.

«C-Cam!» sibilò Kiana, con il volto in fiamme. «Che ti prende?!»

Camille tremava come una foglia, la fronte imperlata di sudore. Sembrava davvero che avesse visto un mostro orribile. La sua voce premuta contro la sua giacca uscì come un mugugno sommesso: «Credevo… credevo di non farcela.»  

«Sta… sta tranquilla.» Kiana ricambiò l’abbraccio, dandole qualche colpetto sulla schiena. Non aveva idea da cosa la stesse rassicurando, ma non aveva importanza. In quel momento sembrava la cosa più giusta da fare. «Va… va tutto bene adesso.»

Camille non sembrava avere affatto intenzione di staccarsi da lei. Sempre più imbarazzata, Kiana aggiunse: «Dobbiamo andare, Cam. Elias potrebbe tornare.»

La sua amica si riscosse. Annuì, poi la lasciò andare. Si asciugò le lacrime e avanzò per il corridoio per prima, senza dire altro. Kiana la seguì, questa volta sentendosi lei quella ad aver visto un fantasma. Tutta quella situazione le ricordò quello che era successo giusto quella mattina, nelle terme, con Kyle. Cam l’aveva fatto di nuovo, aveva… “ipnotizzato” Elias.

E non solo. La voce di Camille era stata così ferma e decisa che anche lei per un attimo aveva sentito il desiderio di ascoltarla e di credere ad ogni parola pronunciata. Avrebbe voluto chiedere a Camille che diamine avesse fatto, ma sapeva che non avrebbe mai avuto risposte, o almeno non in quel momento.

Se non altro non avevano fallito prima di cominciare. Anche se avrebbe preferito un inizio un po’ migliore di quello.

 

***

 

Una nuvoletta di fiato condensato uscì dalle labbra di Kiana, che erano screpolate per il freddo. «Ci sta mettendo troppo.»

La Via Principalis era deserta, i fauni dormivano e i lari pensavano che Camille fosse la loro sovrana, quindi non avrebbero detto nulla se l’avessero vista in giro. Avevano comunque scelto di incontrarsi con Daniel tra i vicoletti dei dormitori, in modo da non rischiare di essere visti in alcun modo. Peccato solo che dello zombie non ci fosse nemmeno l’ombra, ed era quasi mezzanotte.

Se non fosse arrivato per l’ora stabilita, allora sarebbero dovute andare da Mary e attenderlo là ancora per mezz’ora. E se nemmeno a quel punto si sarebbe fatto vedere, significava che si era fatto beccare – o che era rimasto addormentato – e a quel punto tutto quanto sarebbe saltato e sarebbero dovute tornare indietro, pregare che nessuno si fosse già accorto della loro assenza, e fare finta di nulla finché non avrebbero studiato la mossa successiva.

Perlomeno, ora Camille non sembrava più spaventata come nel corridoio, ma solo angosciata dall’assenza del loro complice. Come al solito, le bastava pensare in qualsiasi modo a Daniel e la sua mente non badava più a nient’altro, nemmeno al fatto che fino a un secondo prima stava per scoppiare a piangere, o che aveva mandato in trance Kiana ed Elias.

Doveva ammetterlo, quando nel corridoio aveva avvertito quella sensazione così assurda e inquietante, la figlia di Venere aveva avuto paura. Aveva perso il controllo del proprio corpo, della propria volontà, ed era stata convinta, al cento percento, che davvero non si trovava più in quel luogo. Per quei pochi istanti la sua mente si era piegata al volere di Camille, senza alcuna via di scampo. Lanciò un’occhiata fugace alla sua compagna, che non sembrò accorgersene, e deglutì.

Che cosa poteva fare quello scricciolo di ragazza, veramente?

Rimase a studiarla per qualche istante. Aveva la daga appesa alla cintura, sopra quei vestiti assurdi costituiti da gonna che arrivava alle ginocchia, calze di lana lunghe, anfibi e un maglione sotto allo spesso bomber sbottonato. Pure in una missione per salvare la madre doveva essere fricchettona.

Almeno lei era riuscita a portarsi dietro la sua arma, Kiana invece era stata costretta a separarsi dalla lancia, troppo lunga e ingombrante da trasportare, specie se non poteva nemmeno trasformarla in un oggetto come un fermaglio o cose del genere. Si era quindi portata dietro un gladio e due pugnali, tenendoli nascosti nello zaino. Non le piaceva combattere con quelle armi, ma non aveva avuto molta altra scelta.

Un cigolio fece drizzare la testa ad entrambe. Una finestra proprio sopra di loro si aprì in quel momento e Kiana afferrò Cam per farla appiattire contro la parete assieme a lei. Cominciava a credere che fosse destino che venissero beccate da qualcuno, poi, però, realizzò chi avesse aperto la finestra.

Daniel sbucò fuori come un’ombra. Salì in piedi sul davanzale e si voltò, richiudendosi dietro la finestra con una calma e una naturalezza che lasciarono Kiana a bocca aperta. Dopodiché, lo zombie che però non sembrava affatto tale cominciò a muoversi lungo la parete, aggrappandosi ad appigli invisibili, mattoni sporgenti, davanzali, persiane. Più che uno zombie, sembrava un gatto. Un gatto nero, per rimanere in tema. Il gatto zombie raggiunse la grondaia sul lato del palazzo e la usò come palo dei pompieri per calarsi giù.

Atterrò proprio accanto a loro e si batté le mani sulla giacca a vento per pulirsele. Non batté ciglio quando si rese conto che le sue compagne di viaggio erano proprio lì, entrambe atterrite. Anzi, fece qualcosa che Kiana mai gli aveva visto fare in vita sua: sorrise.

«Ehi.» Si indicò lo zainetto che aveva alle spalle con il pollice, e poi fece un’altra cosa inaudita: si scusò. «Scusate, ho perso tempo per prepararmi lo zaino. Allora, andiamo?» La sua voce era incredibilmente gioviale, malgrado il tono basso. Non attese nemmeno risposta: sgusciò tra i vicoletti e cominciò a muoversi con passo rapido e felpato, rendendo azzeccato il paragone con il gatto di poco prima.

Kiana si scambiò uno sguardo con Camille, che sembrava sconvolta tanto quanto lei.

Raggiunsero Marianne all’ingresso della galleria che portava al Tunnel Caldecott, il passaggio più rapido tra il Campo Giove e il mondo esterno. Arrivare lì fu semplice, visto che era un punto controllato dalla torre che Marianne si era gentilmente “offerta volontaria” di occupare per quella notte.

«Alla buon’ora» mugugnò Mary con il suo solito tono severo, e Kiana capì che era di buon umore. «Sbrighiamoci.»

Li condusse nella galleria semibuia e dall’aria viziata.

«Un momento, ma chi c’è di guardia all’ingresso del tunnel?» domandò Camille.

Marianne non rallentò. «I Vega.»

Dopo quella risposta, nessuno ebbe nulla da aggiungere. Malgrado l’ora tarda l’autostrada era affollata come al solito, in un viavai interminabile da, e verso, San Francisco.

Thia e Minho erano all’ingresso della galleria, ma non erano in strada. Erano rimasti dentro il corridoio e si affacciavano fuori con l’aria di due reduci da una rapina in banca. Aria accentuata dai due borsoni che tenevano a tracolla.  

«Esa gente nos ve! Qué está sucediendo??» domandò Thia, con un soffio di voce. A Kiana sarebbe piaciuto molto capire che diamine avesse detto.

«La bruma se ha disipado» rispose Marianne, senza nemmeno guardarla.

«QUÉ?!»

Kiana osservò Mary a labbra schiuse. «E da quando parli spagnolo?»

Lei le strizzò l’occhio, senza rispondere. «Avete tutto quello che vi serve?» chiese invece.

«Vestiti, nettare, ambrosia, cibo e acqua.» Kiana sollevò le spalle. «E armi, ovviamente. Direi che non serve altro.»

«E per dormire?»

«Ehm…»

«Cosa faresti senza di me?»

Marianne fece un cenno ai Vega, che si avvicinarono con i borsoni. Li consegnarono ai tre ragazzi e dentro trovarono sacchi a pelo e anche una tenda montabile.

«Wow…» mormorò Kiana, genuinamente senza parole. «Ti sei data da fare.»

«Non sarà un viaggio semplice, avrete bisogno di tutto il necessario.»

Kiana si mise il borsone a tracolla, assieme allo zainetto. Mentre Daniel e Camille confabulavano con i Vega, osservò Mary dritta negli occhi, sincera come mai era stata. «Grazie.»

«E di che?» Marianne le sorrise, facendole sussultare il petto. «Era il minimo che potessi fare per aiutarvi. Dovete trovare Ecate, e salvare questo posto.»

«Perché non vieni anche tu?» Kiana non stava scherzando. «Ci saresti di grande aiuto.»

«Non posso lasciare la Quinta Coorte. Soprattutto ora che Allen non c’è più. Inoltre, quando Ashley scoprirà che tre della quinta sono spariti…» Marianne serrò le palpebre, e un velo di tensione le coprì il volto. «… sicuramente pretenderà risposte. Dovrò farmi carico di tutto, in modo da proteggere gli altri.»

Kiana schiuse le labbra. Quella pazzoide aveva appena ammesso che si sarebbe presa il proiettile al posto loro. «Mary…»

«Cos’è quella faccia, Farhat? Pensi che il centurione esista solo per dare ordini?» Marianne si avvicinò. Profumava di vaniglia. «Devo proteggervi. Come centurione, come figlia di Bellona e anche come legionaria. È il mio dovere. Voi, però, dovrete fare il resto. Posso contare su di voi?»

La figlia di Venere stritolò la tracolla del borsone. «Certo.»

«Bene.» Mary l’abbracciò a tradimento. «Bonam fortunam

La mente di Kiana registrò a malapena quelle parole, troppo presa dal profumo inebriante di Mary. Il suo petto si trasformò in un tamburo da guerra. L'abbraccio fu veloce, troppo veloce pensò Kiana, così veloce che non riuscì nemmeno a ricambiarlo. Avrebbe voluto dire qualcosa. Avrebbe voluto dire così tante cose che non sapeva nemmeno da dove iniziare. E quindi scelse la più infelice di tutte: «Abbiamo… incrociato Elias, prima.»

L’espressione rilassata del centurione si dissipò in una nuvola di vapore. «Che cosa? Vi ha viste?»

«No. Cam…» Kiana esitò. Non era sicura di come spiegarlo. Non era nemmeno certa che fosse la cosa giusta dire quello che era successo. «… Cam e io ci siamo nascoste. Non c’ha viste.»

Vi fu un attimo di silenzio, in cui la figlia di Bellona si corrucciò.

«Pensi… pensi che abbia sospettato qualcosa?» le chiese Kiana, incerta.

«Non lo so. Ma di tutte le sere in cui poteva trovarsi lì, perché proprio questa?»

Se Kiana avesse avuto una risposta, di certo non l’avrebbe cercata da qualcun altro. Forse Elias era passato davvero di lì per caso, ma ne dubitava. Mary aveva detto esattamente quello che pensava lei.

«Che… che Dante abbia cantato?» mormorò, per non farsi sentire da Cam, che stava ancora chiacchierando con gli altri tre.

Marianne scosse la testa. «Non avrebbe alcun senso. Non dopo tutto quello che ha fatto per rivelare la verità a Camille.»

«Magari ha avuto un ripensamento.»

«Dante sapeva anche del ritrovo al tunnel Caldecott. Se davvero avesse rivelato tutto, non sareste riusciti ad arrivare fin qui.»

«Magari Elias pensava di coglierci in castagna ancora prima.»

Un profondo sospiro scappò dalle labbra del centurione. «Non lo so, Kiana. So solo che dovete andare. E io devo tornare alla torre prima che qualcuno noti la mia assenza.»

Notando la sua espressione afflitta, Kiana maledisse la sua idiozia. Avrebbero potuto salutarsi prima, memori di quell’abbraccio, e invece aveva rovinato tutto quanto.

«Hai fatto bene a dirmelo» disse Mary, come leggendole nel pensiero. Le sorrise di nuovo e Kiana intuì il suo tentativo di farla sentire più tranquilla. «Terrò gli occhi aperti. E magari discuterò con Dante, per capire se davvero ha detto qualcosa oppure no.»

«Va… va bene.» Come prima, Kiana sentiva di volerle dire ancora qualcosa. Un “mi dispiace”, forse.

«Mi dispiace di essere stata una stronza colossale quando tu volevi solo il meglio per tutti noi.»

La voce di Cam che la chiamava interruppe quella frase che, Kiana era certa, non avrebbe mai visto la luce del giorno in ogni caso: «Dobbiamo andare, Kiana.»

«S-Sì, arrivo…» Kiana incrociò un’ultima volta lo sguardo di Mary.

Il centurione si portò la mano sul petto. «Senatus Populusque Romanus.»

«Senatus… Populesque Romanus» ripeté Kiana, riuscendo a sorridere di nuovo.

«Senatos Popolske Romanos» gracchiò anche Thia, giusto per completezza, mentre Minho teneva giusto la mano sul petto.

Daniel e Camille si aggregarono al coro, e poi, infine, i sei ragazzi si separarono. Mentre Kiana procedeva sulla linea di mezzadria assieme ai suoi compagni di viaggio si voltò un’ultima volta, sperando di incrociare ancora quegli occhi azzurri, ma erano già spariti dentro la galleria. Le scappò un sospiro affranto e proseguì.

Adesso che erano ufficialmente fuori dal campo, la loro impresa poteva avere inizio. Loro tre erano appena diventati gli eroi che avrebbero dovuto salvare Ecate, il campo e forse pure il mondo intero. Agli occhi di tutti quanti, però, sarebbero stati soltanto dei fuggiaschi. Avrebbero avuto tutti contro, ne era certa, e proprio per questo non potevano permettersi di fallire.

Una figlia di Venere con la mania di alzare le mani, una piccola e gracile figlia di Trivia che però aveva chissà quale potere nascosto e per finire uno zombie gatto con l’abitudine di non sorridere mai.

La squadra perfetta, insomma.

 

***

 

Non era sparita solo la Foschia astratta, il Velo Invisibile, quella che studiavano sui libri e che non potevano vedere.

La nebbia vera e propria era sparita. Il tunnel non era mai stato più lindo e tinto di quel momento. L’ideale per una scampagnata pericolosissima sul ciglio di un’autostrada. E, soprattutto, l’ideale per ottenere occhiate stranite dagli autisti di passaggio. A un certo punto Kiana si ritrovò perfino a salutare le macchine di passaggio. Un po’ di buona educazione, come il suo caro padre le aveva insegnato.

«Dobbiamo toglierci da qui» mugugnò Daniel, dopo un centinaio di metri. «Diamo troppo nell’occhio.»

«A proposito, dove stiamo andando?» chiese Kiana, affrettandosi per mettersi a fianco di Camille, in cima al gruppo. «Hai detto di percepire la presenza di Ecate, ma dov’è di preciso?»

Camille si scostò la ciocca di capelli più lunga, facendola ricadere lungo la tempia sinistra. «Non… non conosco la posizione esatta. Per adesso pensiamo ad arrivare a San Francisco. Da lì potremo prendere un treno, o un taxi per spostarci più in fretta. Più saremo vicini e più il legame con mia madre sarà forte, come una bussola.»

«Non… non dobbiamo andare in Canada, vero?»

«Che hai contro il Canada?»

«Nulla. Sono solo… strambi.»

«Tutti sono strambi per te.»

«Sì, come il tuo nuovo ragazzo.»

«Dante non è il mio nuovo ragazzo!»

«E come sai che parlavo di lui?»

Nessuna risposta. Camille sembrava reduce da un’abbuffata di peperoncini habanero, rossa e madida di sudore.

«Cam? Tutto ok?»

«… ti odio.»

Un sospiro provenne alle loro spalle. La voce di Daniel arrivò soave e melodiosa come il gracido di un ranocchio: «Se tutto il viaggio sarà così, farò meglio a tornare indietro e farmi malmenare da Elias.»

Kiana si voltò per rivolgergli un sorrisetto di sufficienza. «Nessuno ti ferma, zombie.»

«Mh-mh. Dì un po’, ti rimetterai con Marianne dopo che avremo salvato Ecate?»

L’aria venne risucchiata via dal corpo di Kiana. Scrutò Daniel come se fosse stato un morto che camminava nel vero senso della parola, e rimase paralizzata di fronte al suo sorrisetto beffardo.

«Cos’è, pensi che non abbia capito che tra voi c’era qualcosa?»

«Aspetta!» Camille sembrava ancora più sconvolta di Kiana. «Tu stavi con Mary?!»

Ovviamente l’unica che non l’aveva capito era la sua migliore amica. Kiana si voltò, più rigida del morto parlante dietro di lei, e tenne lo sguardo fisso davanti a sé. «Non… mi va di parlarne» riuscì a gemere, e accelerò il passo prima che arrivassero altre domande.

Nessuno disse più nulla, e tra i tre calò un silenzio carico di imbarazzo in cui Daniel dovette crogiolarsi compiaciuto per almeno il successivo chilometro e mezzo di camminata.

 

***

 

Riuscirono a trovare un punto in cui scavalcare la recinzione dell’autostrada, per togliersi dalla vista di tutti i passanti prima che arrivassero i soccorsi stradali, o la polizia, a controllare che diamine ci facessero lì tre ragazzini a piedi nel cuore della notte.

Daniel, che come capacità fisiche era sempre stato alla pari, se non peggio, di Cam, scavalcò la parete di ferro e plastica in un batter di ciglia e saltò dall’altra parte come se nulla fosse, per poi proseguire nell’erba alta delle colline di Oakland.

«Ehi, zombie!» protestò Kiana. «Fermati!»

Lui sembrò realizzare solo in quel momento che loro due dovevano ancora scavalcare. Si voltò verso di loro con aria colpevole e si scusò.

Kiana scosse la testa, domandandosi da dove tutta quell’energia gli fosse uscita tutto ad un tratto. Si issò in cima alla barriera stradale e tese un braccio a Cam per assisterla, poi la spinse dall’altra parte senza troppi complimenti, facendola gridare inviperita, e saltò giù accanto a lei. La aiutò a rimettersi in piedi mentre si massaggiava il fondoschiena e si beccò un’occhiataccia, a cui rispose con il suo solito sorrisetto.

Erano sul limitare di San Francisco quando si fermarono per la notte, in uno spiazzale spoglio, celato tra i boschi e le colline. Daniel disse che forse era meglio andare avanti, arrivare almeno fino alla città, poi però dovette rendersi conto che nel cuore della notte e dopo due ore di camminata le due ragazze non erano più in grado di continuare. Ancora una volta Kiana si domandò se quello fosse lo stesso tizio emo che avevano conosciuto nella Quinta Coorte o se fosse un suo clone malvagio che amava sorridere e camminare. Siccome era così energico decisero che sarebbe toccato a lui fare la guardia. La cosa non sembrò turbarlo, incredibilmente. Sì, era per forza un clone malvagio.

La figlia di Venere aprì il borsone che le aveva lasciato Mary, per prendere i sacchi a pelo, e non appena finì di tirare la cerniera le scappò un grido indispettito: «Non è possibile!»

Tra i sacchi a pelo, come per farsi beffe di lei, c’era il maledetto beauty case che Venere le aveva donato. Lo afferrò con la mano tremante per la rabbia e lo scrutò con quanto odio avesse in corpo.

«Ti… ti ha seguito anche qui?» domandò Camille, sbalordita.

«A quanto pare.» Kiana strinse la mano attorno all’astuccio, poi si alzò in piedi e lo scaraventò il più lontano possibile, dandolo in pasto alle fronde di Oakland, anche se sapeva che prima o poi sarebbe riapparso, proprio come aveva sempre fatto.

Si sdraiò non appena finirono di montare la tenda e disporre i sacchi a pelo al suo interno. Daniel e Camille la fissarono attoniti, ma lei non badò a loro: dopo quello scherzetto di Venere aveva perso ogni desiderio di parlare con qualcuno almeno fino al mattino successivo.

 

***

 

Per fortuna, si addormentò in fretta. Per sfortuna, fece un sogno. 

Un’altra cena di famiglia, l’ennesima in cui si era ritrovata a fare l’esclusa.

Era sola, come sempre. Aveva cinque cugini, figli dei suoi zii, che si rincorrevano per la mastodontica villa, giocavano a nascondino o sfoggiavano le loro collezioni di videogiochi e giocattoli, il tutto rigorosamente senza invitarla a partecipare. 

All’epoca Kiana era poco più che una bambina e non sapeva davvero quello che stava succedendo. Rivedendo quella scena con gli occhi di una ragazza più grande, poteva accorgersi di quanto falso e meschino fosse tutto quello.

Suo padre discuteva con gli zii di affari, qualcosa su come aumentare i profitti del trimestre, perché probabilmente centinaia di milioni non erano sufficienti: forse voleva comprarsi un’altra villa, oppure un’altra Bugatti. 

E poi c’erano sua nonna e le sue zie, sedute a tavola a farle compagnia con i loro discorsi. Ogni tanto le rivolgevano dei sorrisi gentili, ma per tutto il tempo non facevano che confabulare tra loro. Kiana non conosceva il persiano, solo qualche parola, tipo “madre”, “padre” e “figlia”, e per qualche fortuito caso del destino erano proprio le tre parole del momento, spesso condite da quegli sguardi all’apparenza gentili rivolti proprio verso di lei e suo padre, ma che in realtà erano tutt’altro.

Credevano che lei non capisse che stavano parlando di sua madre, del fatto che se ne fosse andata, che fosse un’eretica, una “poco di buono” che li aveva abbandonati. 

Dicevano che si era approfittata del buon cuore e della ricchezza di Amir per assaggiare la bella vita e poi fuggire non appena si era ritrovata con una figlia indesiderata in grembo. E perciò da quel momento Amir aveva tentato di colmare il vuoto dentro di sé dedicandosi anima e corpo al lavoro. Su quest’affermazione in realtà Kiana si trovava parzialmente d’accordo, solo che secondo lei Amir non stava cercando di colmare il vuoto con il lavoro, ma con i soldi. Peccato solo che nel suo petto non ci fosse soltanto un vuoto, ma una voragine, un pozzo senza fondo, una bocca impossibile da saziare.

Le storie che si erano inventate di sana pianta su suo padre erano davvero strappalacrime, non c’era che dire. Lui che non voleva rinunciare al bambino, a differenza di quella donna che l’aveva abbandonato, lui con il cuore spezzato, lui che si faceva forza per crescere da solo una figlia inaspettata – “indesiderata” forse era un termine più appropriato. 

E come in ogni storia con un eroe protagonista, ci voleva anche qualcuno da antagonizzare. E quel qualcuno era proprio Kiana, il lascito di quella donna che era entrata nelle loro vite, che aveva avuto l’ardire di non partecipare mai a un pranzo o una cena con il resto della famiglia Farhat e che poi era scomparsa senza lasciare tracce.  

Accusavano Kiana di essere nata, di essere una figlia bastarda che aveva privato Amir di un primogenito maschio che potesse portare avanti l’attività di famiglia. 

Kiana era certa che anche se fosse stata un maschio quell’attività non l’avrebbe voluta. Lei non sarebbe mai stata come suo padre, mai. Non si sarebbe trasformata in un uomo d’affari senza scrupoli, disposto a tutto pur di guadagnare qualche dollaro in più, anche a mandare famiglie intere sul lastrico e a morire di fame.

Non sarebbe mai caduta in quel baratro.

In tutto questo, lei era costretta a tenere per sé la verità su suo padre. Non poteva dire che in casa loro si mangiava la carne, o che si saltavano tutte le preghiere giornaliere, o che lui non le faceva indossare l’hijab se non per andare dai parenti. Non poteva né fare né dire nulla. Poteva solo subire quelle continue vessazioni e basta.

La sua unica cugina, Afareen, arrivò all’improvviso a chiederle se voleva giocare con loro. Lei rimase in silenzio per la sorpresa, ma poi accettò con gioia. Era la prima volta che succedeva, ed era genuinamente felice di essere stata considerata da loro.

Non aveva idea di quello che stava per succedere.

All’inizio andò tutto bene. Fecero qualche partita a nascondino e lei, come per paura inconscia di essere dimenticata, scelse nascondigli pessimi giusto per farsi trovare subito. La presero anche in giro per questo, ma lei cercò di riderci sopra e di assecondarli. Era felice di essere quella che cercava, diceva.

Le cose precipitarono non appena si ritrovarono in un’ala della villa deserta e lontana dai loro genitori. Il più grande dei suoi cugini, Darius, si avvicinò a lei. Aveva dodici anni ed era considerato il primogenito, anche se in realtà non lo era affatto, perché era nato qualche mese più tardi di Kiana. Tuttavia era un maschio, perciò un giorno lui sarebbe diventato parte dell’impresa di famiglia, a differenza di lei, e quindi si comportava già come se fosse il proprietario indiscusso. 

«È vero che tua madre ti ha abbandonata?»

Kiana si pietrificò, sorpresa per quella domanda a bruciapelo. 

«Dai, lasciala stare» mormorò Afareen, che era la sorella minore.

L’idiota di suo fratello la ignorò. Si avvicinò a Kiana e la spintonò. «Ehi, ti ho fatto una domanda. Devi rispondermi.»

«N-Non mi ha abbandonata» mormorò Kiana.

«Davvero? E allora perché lei non c’è?»

«Non… non lo so. Ma non mi ha abbandonata.»

Suo cugino rise, mentre tutti gli altri iniziavano a circondarla. In mezzo a loro c’era anche Afareen, che sembrava spaventata. 

«I miei genitori dicono che era una poco di buono, e che si è soltanto approfittata di tuo padre» proseguì Darius, con quel tono insopportabile.

Kiana si irrigidì. Non aveva mai conosciuto sua madre, ma detestava quando gli altri parlavano in quel modo di lei. «Non è vero.»

«Però se n’è andata. Forse si è sentita in colpa di aver avuto una figlia.»

«Smettila…»

Lui la spintonò con più forza. Qualcuno le fece lo sgambetto e precipitò a terra, sbattendo violentemente la testa e gridando per il dolore. 

«Kiana!» esclamò Afareen, mentre le risate degli altri si sollevavano. 

Kiana si alzò a fatica, gli occhi inumiditi a causa del dolore lancinante alla testa. Si accorse degli sguardi carichi di malizia di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi cugini, i suoi parenti, sangue del suo sangue. La sua famiglia

«Sei solo una femmina. Non conti niente» sogghignò Darius. «E non hai nemmeno una madre. I miei genitori dicono che è una vergogna che tu porti il nostro cognome e che non dovresti essere qui.»

Afareen si chinò accanto a lei. Era così piccola e minuta, non assomigliava affatto a suo fratello. «Stai bene?»

«Che stai facendo? Non aiutarla» ordinò Darius, con voce dura. «Noi non dobbiamo mischiarci con lei.»

La bambina sussultò. Guardò Kiana con espressione mortificata. «Scusa…» 

Si rialzò in piedi senza più guardarla e tornò accanto ai loro cugini, tenendo la testa bassa.

«Avanti, vattene!» Darius indicò a Kiana il corridoio che portava alla sala da pranzo. «Noi non ti vogliamo!»

La testa di Kiana faceva un male pazzesco. Ma non era niente in confronto al dolore che sentiva al petto. Cominciò ad andarsene senza guardare nessuno di loro, massaggiandosi sul punto dove aveva sbattuto e lottando contro le lacrime che cercavano di riversarsi dagli occhi. 

Non era giusto. Perché facevano così con lei solo perché non aveva più sua madre? Come se non le facesse già abbastanza male sapere di non averla mai conosciuta, sapere che non l’avrebbe mai vista.

Non era colpa sua. Non l’aveva scelto lei. Perché la trattavano in quel modo?

Perché… perché sua madre se n’era andata? Perché l’aveva lasciata sola?

Perché… non l’aveva portata con lei?

Un verso spaventato la fece fermare all’improvviso. Si voltò di scatto e vide i suoi cugini che ora se la stavano prendendo con Afareen. 

«Cosa ti è saltato in testa?» stava dicendo Darius, strattonandola. «Perché hai invitato la bastarda a giocare con noi?!»

«I-Io…» Afareen provò a rispondere, ma Darius le fece lo stesso che aveva fatto a Kiana e la spinse a terra. Un altro dei bambini le tolse l’hijab, scoprendole i capelli ricci e neri; i bambini cominciarono a passarselo, divertendosi di fronte ai tentativi inutili della bambina di riprenderselo. 

«Dirò a papà che te lo sei tolto» sogghignò Darius. Sollevò il velo come un trofeo e le diede un’altra spinta.

Afareen cadde a sedere con le lacrime agli occhi. «N-No, per favore…»

«Sì invece. Così imparerai a…»

«Ehi!»

Darius si voltò. Il crepitio delle nocche di Kiana che si infrangevano sul suo naso permeò l’aria. La bambina poteva sopportare che se la prendessero con lei, ma non sarebbe mai rimasta indifferente alla scena di sua cugina che veniva tormentata solo perché aveva cercato di essere gentile. 

Suo cugino finì con la schiena sul pavimento e cominciò immediatamente a piangere, coprendosi il naso storto e sanguinante, di sicuro rotto. Prima che qualcun altro potesse fare qualsiasi altra cosa, Kiana afferrò l’hijab di Afareen, che era caduto a terra, e osservò il resto dei bambini con odio. Sollevò la mano coperta del sangue di Darius. «Ne volete anche voi?!»

Le grida e il pianto di Darius lacerarono l’aria. Gli altri indietreggiarono spaventati, mentre Afareen la osservava con gli occhi spalancati per lo stupore. 

«Che sta succedendo qui?!»

Kiana si pietrificò. Suo padre e i suoi zii entrarono nella stanza proprio in quel momento, trovando lei con una mano insanguinata, l’hijab di Afareen stretto nell’altra e Darius a terra che piangeva. I loro sguardi valsero più di mille parole. 

«Kiana» mormorò Amir. «Che stai facendo?»

Kiana avrebbe potuto dire di essere innocente. Avrebbe potuto dire che era tutto un malinteso. Chiedere scusa, magari. Invece restituì l’hijab ad Afareen, che lo prese senza dire nulla, e incrociò lo sguardo di suo padre. La realtà dei fatti si palesò finalmente di fronte a lei. Erano stati i genitori di Darius a inculcargli quei pensieri in testa. I fratelli di suo padre, le zie sedute al tavolo a spettegolare assieme a sua nonna e chissà quanti altri, tutti a trasmettere lo stesso messaggio: lei non era voluta, lì. Non lo era mai stata. 

Le parole le uscirono dalla bocca sotto forma di un sussurro venato di rabbia: «Ti odio.»

Per la prima volta da quando era nata, vide Amir fare un’espressione di puro stupore. «Che cosa?»

«Ti odio. Ti odio! TI ODIO!» Cominciò a gridare, a riversare tutta la sua rabbia su quel bugiardo e anche sui suoi zii, su tutta quella maledetta famiglia. «VI ODIO TUTTI! TUTTI!»

Non si era mai sentita così arrabbiata. Odiò suo padre, per essere un vile uomo d’affari senza scrupoli, senza anima, senza cuore, marcio fino al midollo. Odiò i suoi zii, per aver cresciuto quei mostri che l’avevano trattata in quel modo. Odiò le sue zie e sua nonna per tutto quello che avevano detto su di lei alle sue spalle. 

E odiò anche sua madre, per essere scomparsa. 

In quel momento, mentre urlava con tutto il fiato che aveva in corpo, la sua rabbia bruciante e le sue lacrime amare erano rivolte soprattutto a lei, a sua madre.

Odiò quella donna, chiunque ella fosse. La odiò con tutta sé stessa per averla lasciata con quei mostri, per averla costretta a vivere quella vita che non aveva mai chiesto, a subire tutti quegli insulti, quelle vessazioni ingiuste e a cui non aveva mai potuto rispondere. 

Non ricordava di preciso cosa fosse successo dopo quell’incidente. Nella sua mente c’era solo un’immagine sfocata di suo padre che la portava via di peso, blaterando scuse, dicendo che era “una figlia difficile” e facendo il suo solito vittimismo.

Quel sogno maledetto finì così, con lei e suo padre che si allontanavano con la limousine e lui che la osservava come se fosse stata una creatura pericolosa. 

Kiana avrebbe voluto svegliarsi. Non voleva più rivivere quei momenti. Invece, il sogno si trasformò. 

Da una visione orribile passò ad un’altra. 

Non era più bambina. Ora si sentiva adulta. Ragazza. Insomma, era lei al presente. Ed era sul bordo di un precipizio. Non aveva idea di dove fosse, né di che burrone si trattasse; tutto era nero, scuro, e le pareti dell’abisso erano di roccia granitica e affilata.

Poteva guardare solo da una parte, ossia verso il fondo. Non appena lo fece, realizzò che il detto “Quando osservi dentro l’abisso, l’abisso osserva dentro di te” non poteva essere più reale. Venne colpita da un brivido che la scosse dalla testa ai piedi.

C’era qualcosa là sotto. Qualcosa che era certa di non voler conoscere.

«Che cosa pensi di fare?» La voce di una donna risalì il baratro, rimbalzando sulle pareti e uscendo con uno sbuffo d’aria che le scompigliò i capelli.

Kiana indietreggiò, smettendo di guardare, ma continuò comunque a sentirsi osservata. 

«Tipico di voi figli di Venere. Soltanto perché siete dalla parte romana, pensate che vostra madre sia speciale, e che voi siate dei guerrieri. Ma non lo siete. Dovreste imparare a stare al vostro posto.» La voce della donna proseguiva, proveniente dal nulla, raschiante e tagliente. «Perché sei partita anche tu, Kiana Farhat? Davvero credi che servirai a qualcosa?»

Lo stomaco di Kiana andò in subbuglio. Sentì la rabbia schizzare dalle vene fino al cervello. La voce di quella donna era come vento che soffiava sopra un incendio che non intendeva fermarsi finché non avrebbe consumato tutto quanto.

«La tua amichetta, Camille Gray? Lei sì che può essere utile. Ha un legame con Ecate. Possiede poteri interessanti. Il vacuo Daniel, invece? Nemmeno lui ha idea di quanto sia potente in realtà. E tu, Kiana Farhat? Tu che cos’hai, oltre che quel bel faccino?»

Kiana avrebbe voluto urlarle che aveva due gambe per prenderla a calci nel sedere finché non l’avrebbe implorata di smettere, ma si sentì drenata di ossigeno all’improvviso. Le parole si rifiutarono da uscire dalla sua bocca.

«Quando Ecate morirà, toccherà a tutti gli altri. E tua madre sarà la prima, Kiana. Distruggerò Venere personalmente, e mi prenderò il suo posto, ciò che è mio di diritto. Ma non temere: quando accadrà, tu, e i tuoi amici, sarete già spacciati. La tua amichetta Camille non troverà mai la sua adorata madre. E Daniel… non potete neanche immaginare che cosa vi sta nascondendo, mentre tu, Kiana… tu sarai la prima a cadere.»

L’abisso cominciò ad allargarsi, inglobando tutto quanto. Kiana spalancò gli occhi e tentò di fuggire, ma era pietrificata. L’ultima cosa che udì, prima di precipitare nel vuoto, fu la risata intrisa di crudeltà della donna.

 

***

 

La voce di Daniel che le chiamava fu la prima cosa che udì: «Ragazze! Ragazze svegliatevi!»

Kiana scosse Camille, sdraiata nel sacco a pelo accanto a lei, riuscendo a svegliarla. Uscirono dalla tenda, armate di gladio e daga, e si ritrovarono di fronte una scena del tutto inaspettata.

Daniel era in piedi, armato anche lui di spada. Di fronte a lui, sul limitare dello spiazzo dove si erano fermati a dormire, c’erano cinque ragazze bellissime. Kiana non credette ai propri occhi. Erano tutte vestite allo stesso modo, con uniformi da cheerleader arancioni e bianche, pompon e le iniziali di chissà quale istituto ricamate sopra. Tutte tranne una, quella al centro.

Quella indossava un giubbotto di pelle pesante, sbottonato, una cintura borchiata sopra gli shorts scuri, anfibi e calze lunghe fino a metà coscia strappate, entrambe seguite da calze a rete che salivano fino al ventre scoperto, passando sotto agli shorts.

I capelli erano asimmetrici, più corti su una tempia e molto più lunghi sull’altra, di un verde fluo con diverse mèche lunghe gialle, rosse e viola. Il viso era bello ma spigoloso, incattivito quasi, con rossetto e ombretto neri come la pece.

Avrebbe potuto fare coppia con Daniel: l’emo e la punk. Peccato solo che lui la stesse osservando come se fosse il male personificato, e anche Camille sussultò: «Empuse!»

Daniel rispose con un grugnito, senza distogliere lo sguardo dalle nuove arrivate. Kiana sbatté le palpebre, ma l’aspetto di quelle cinque non cambiò. Si accorse che i suoi compagni erano pronti a combattere e anche lei sollevò il gladio, anche se con un attimo di esitazione.

«Come mai non siete nel vostro campo?» domandò l’empusa punk, con un sorrisetto divertito. Si sfilò il giubbotto, scoprendo un top rosso mattone senza spalline e le braccia abbronzate e ricoperte dai tatuaggi più variegati – teschi, fiamme, tribali, serpenti e un mucchio di altri simboli sconosciuti – al punto da far sembrare quello di Cam una misera macchiolina di inchiostro.

Appoggiò la giacca sopra la spalla e si portò l’altra mano sul fianco, esaminandoli uno ad uno con espressione beffarda. «Non che faccia molta differenza, ormai, che siate nel campo o meno. Le vostre stupide barriere non vi proteggono più.»

«Che cosa volete?» domandò Camille.

«Non è ovvio? Siamo qui per uccidervi, sorellina.»

Kiana spalancò gli occhi. «Sorellina?» sussurrò a Cam.

Voleva essere udita solo da lei, ma la punk rise. «Le empuse sono figlie di Ecate, bellezza. Proprio come la tua amica. Anche se in realtà, lei è una figlia di Trivia. È un gradino più in basso rispetto a noi.»

Camille affondò le dita sul manico della daga, divenendo più rigida di un chiodo. «Nostra madre è stata rapita. Perché volete ucciderci? Non volete che la trovi?»

«Proprio così.» L’empusa sogghignò di fronte all’espressione sconvolta di Camille, poi si rivolse alle sue compagne. «Io mi occupo di loro due. Voi quattro, pensate a lui» e indicò Daniel, che non si era mosso di un centimetro. «È un maschio. Sarà una preda facile.»

«Sì, Ruby!»

Le empuse si divisero. Ruby si avvicinò a Kiana e Camille, con le mani che si incendiavano e gli occhi che si tingevano di rosso sangue. Kiana strinse i denti e fletté le gambe. Non riusciva a non pensare a quanto incantevole fosse quella tizia, e la cosa cominciava a darle sui nervi.

Ruby scattò all’improvviso, piombando in mezzo a loro in una tempesta di fiamme. Le due ragazze si divisero, schivando gli artigli dell’empusa. Mentre indietreggiava, Kiana scorse le altre quattro ragazze mentre continuavano ad avvicinarsi a Daniel con calma innaturale. Lui non si era ancora mosso di un passo.

«Questo è carino per davvero» commentò una di loro, una biondina, leccandosi le labbra.

«Avanti tesoro, vieni» disse un’altra, una con la carnagione scura come l’ebano. «Fatti dare un bacio…»

«Daniel!» lo chiamò Camille, mentre schivava un altro attacco di Ruby. «Non farti imbrogliare! Sono mostri!»

«Ma come ti permetti?!» Ruby si fiondò su di lei, sogghignando in maniera innaturale. Per un istante, apparve la sua vera forma: capelli fiammeggianti, una gamba di bronzo e uno zoccolo equino. Durò poco, però: un secondo dopo, era di nuovo la punk scostumata e dalle forme molto generose. «Noi siamo stupende!»

Camille gridò, scansandosi un attimo prima che gli artigli dell’empusa le forassero la faccia. Inciampò e cadde sulla schiena, con Ruby che torreggiava su di lei. Kiana si frappose prima che potesse finirla, sferzando l’aria con il gladio. La punk saltò all’indietro, schivando il colpo con facilità.

Lo sguardo di Kiana scivolò da lei a Daniel, che ormai era stato accerchiato dalle altre empuse. La bionda si avvicinò a lui, ridacchiando, e gli accarezzò la guancia. «È fin troppo semplice…»

Lo zombie rimase immobile, a ricambiare lo sguardo seducente di lei. Kiana avrebbe voluto gridargli di svegliarsi, di non farsi fregare, ma non ci riuscì. Le bastò guardare quella ragazza di sfuggita per rimanere stregata da lei. Una folata di vento fece arrivare al suo naso un odore così intenso da essere quasi nauseante, un profumo inebriante, di petali di rose, pesche e vaniglia.

La testa cominciò a girarle. Strizzò le palpebre, cercando di concentrarsi, ma si sentì come se le fosse venuto sonno all’improvviso. Barcollò stordita, ma per fortuna Ruby non sembrò farci caso, anche lei concentrata sulle sue quattro amiche alle prese con Daniel.

«È tutto vostro ragazze» commentò divertita.

«Sei proprio un bocconcino…» bisbigliò l’empusa con la pelle d’ebano, afferrando Daniel per il mento. I suoi denti divennero affilati all’improvviso e si avventò su di lui.

«Daniel!» gridò Camille inorridita, prima che un urlo lacerante perforasse la notte.

«Levati dai piedi» sibilò Daniel, con voce roca, il gladio conficcato nello stomaco dell’empusa. Lo ritirò e spinse via la ragazza, che esplose in una nube di polvere.

Il ghigno divertito svanì dal volto di Ruby. «Ma cosa…?!»

Prima che le empuse si riprendessero dallo stupore, Daniel ne aveva già uccisa un’altra, decapitandola con un taglio netto. Le altre due indietreggiarono.

«Che succede?» Daniel scattò verso di loro. «Non sono più una preda facile?»

Un’altra cadde con la pancia trafitta. La bionda, l’ultima, si inciampò e lo guardò dal basso terrorizzata.

«A-Aspetta!» implorò, alzando le mani. «Non… non vorrai fare del male ad una fanciulla indife…» Il gladio le trapassò la gola, trasformando la frase in un gorgoglio soffocato. Kiana sussultò di fronte a quella vista. Per lei era stato come se Daniel avesse davvero trucidato una ragazza qualsiasi.

«Sparisci.» Il ragazzo ritirò la spada e l’ultima empusa si dissolse. Dopodiché, spostò lo sguardo su Ruby. «Tocca a te adesso.»

Ruby si riscosse dallo stupore e strinse i pugni. «Pensi di farmi paura, moccioso? Io sono molto più potente di quelle quattro!»

Daniel fece un passo verso la sua direzione e la punk strillò, indietreggiando. «F-Fermo dove sei!»

«Credevo di non farti paura» mugugnò Daniel, sollevando un sopracciglio.

Ruby serrò la mascella. Se lo sguardo avrebbe potuto uccidere, Daniel sarebbe stato disintegrato. Camille si rialzò in quel momento, imitata da Kiana, e tutti e tre la circondarono. La figlia di Venere si massaggiò la tempia, stordita. Aveva una leggera sensazione di vertigini, e non riusciva a capire perché. Non poteva essere la magia di Ruby.

Oppure sì?

La sua immagine continuava a sfarfallare, passando dalla bella ragazza punk al suo vero aspetto di empusa. Il suo odore era inebriante, rischiava di farla svenire. Kiana strinse i denti e si concentrò, cercando di scacciare via quella sensazione, ma era difficile, tremendamente difficile.

«Pensate davvero di poter salvare Ecate?» domandò Ruby in quel momento, facendo vagare lo sguardo su tutti loro, e riacquisendo il suo ghigno beffardo. «Siete già morti. Lo sapete, sì?»

Camille si fece avanti, dura. «Perché vuoi ostacolarci? Chi ti ha mandata?»

«E ti aspetti che te lo dica, sorellina?» L’empusa ridacchiò. «Vi basta solo sapere che l’attacco è già cominciato. Tempo una settimana, ed entrambi i campi saranno distrutti. Non resterà altro che polvere. Divide et impera, come dite voi. E voi sarete molto divisi.»

Ruby fece il segno delle corna con la mano, mentre il suo corpo veniva coperto di fiamme. «Ci si becca.» Esplose in una coltre di fiamme, costringendoli a distogliere lo sguardo. Quando la luce si diradò, l’empusa era scomparsa.

Un silenzio irreale scese nella radura, interrotto solo dagli sbuffi del vento. L’odore intenso della punk si dissolse poco dopo. Kiana si sentì più snebbiata, ma la sensazione di vertigini non passò.

«Smontate tutto» affermò Daniel, avviandosi verso la tenda. «Dobbiamo andarcene da qui.»

Osservarlo aiutò Kiana a riprendersi dallo stordimento. «Aspetta, zombie! Che cavolo era quello?!»

«Mh? Quello cosa?»

La figlia di Venere indicò il punto in cui le quattro empuse erano morte. «Quello! Insomma, hai… hai ucciso quelle quattro da solo! Ma come ci sei riuscito?!»

«Infilzandole con una spada.»

«Non mi riferisco a quello! Voglio dire… come hai fatto a non farti abbindolare da loro?»

Daniel sollevò le spalle. «Non lo so. Non mi sono fatto abbindolare e basta.»

Quella risposta non era esattamente quello che Kiana si aspettava. Il modo in cui lui si era comportato… era stato proprio come se la loro illusione non lo avesse nemmeno scalfito. A lei era bastata soltanto Ruby per mandarla in confusione, lui invece aveva resistito ai poteri di quattro di quelle mezze vampire combinate. Ripensò al sogno che aveva fatto, quel baratro maledetto, e la voce che aveva sentito. Aveva detto che Daniel era molto più forte di quanto pensassero. Che si riferisse a quello?

Spalancò gli occhi. Il sogno! Doveva raccontarlo ai suoi compagni, appena possibile. La voce aveva chiamato Daniel anche in un altro modo, “vacuo”. Se Kiana non fosse stata così angosciata dopo quell’attacco, avrebbe trovato quel soprannome piuttosto divertente, nonché calzante.

Mentre finiva di smontare la tenda, il suo sguardo scivolò su Camille, che non aveva più detto una parola. Se ne stava china a ripiegare i sacchi a pelo, e sembrava davvero turbata. La voce nel sogno aveva detto anche qualcosa su di lei, sul fatto che avesse poteri interessanti, e in effetti nemmeno quello si poteva negare. Avrebbe voluto parlargliene, ma Daniel aveva ragione, quel posto non era più sicuro.

Aveva appena finito di chiudere il borsone, quando un gemito sfuggì da Camille. Kiana si voltò allarmata. «Cam! Stai bene?»

L’amica la osservò con sguardo improvvisamente vitreo, pallida come un lenzuolo, cioè, ancora più pallida. «Ra… gazzi…» biascicò. «A… ttent…» Stramazzò con la testa sopra il sacco a pelo prima che potesse finire la frase.

«Cam!» Kiana fece per soccorrerla, ma la testa ricominciò a girarle. La sensazione di vertigini di poco prima ritornò, dieci volte più intensa, anche se Ruby era sparita. Quindi non era opera sua. Il mondo cominciò a vorticare attorno a lei, le sembrò di trovarsi in una centrifuga. Cercò di rimanere concentrata, ma sentì le palpebre incredibilmente pesanti.

«Ehi! Kiana! Camille! Che cavolo vi prende?!» Daniel corse verso di loro. Scosse Cam per la spalla, senza risultati. Il suo volto divenne una macchia sfocata e indistinta. I lineamenti si distorsero, lo sforzo di Kiana di tenere gli occhi aperti divenne insostenibile.

«Z-Zombie…» riuscì a mugugnare, prima di crollare su un fianco, il corpo incapace di reggersi da solo.

Poco prima che tutto quanto svanisse attorno a lei, udì un’altra voce sconosciuta provenire in una zona indefinita attorno a lei, seguita da un grido di Daniel.






 

 

Ehilà gente, grazie per aver letto!

Non mi dilungherò molto. Dunque, progettavo di far uscire questo capitolo dopo l’Epifania, ma poi ho pensato che sarebbe stato un po’ troppo, e poi per alcuni le vacanze non sono ancora finite, quindi perché non farlo uscire adesso, in questa tranquilla domenica. 

Succedono un po’ di cose in questo capitolo, proprio come nella Spada del Paradiso, ogni personaggio avrà il suo piccolo arco, qui abbiamo intravisto quello di Kiana, con il suo passato burrascoso con la sua famiglia, e una misteriosa voce che la deride. Chi sarà mai costei? Sarà forse la stessa che parla anche con Daniel? E chi lo sa. 

Qua lascio un disegno che ho fatto di Ruby l’empusa, penso sia l’unico personaggio che ho disegnato subito dopo aver scritto perché il design mi piaceva tantissimo. Naturalmente la rivedremo, dopotutto è la sorella di Camille, nonché figlia di Ecate. 

https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Ruby-l-empusa-il-Velo-Invisibile-902584687?ga_submit_new=10%3A1641142509

Mentre che ci sono, lascio anche altri due disegni che ho fatto in questi giorni.

Edward (finalmente): https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Edward-Model-l-Araldo-di-Amaterasu-902263568

E Rosa (finalmente): https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Rosa-Mendez-la-co-capocasa-di-Apollo-902370795

Presto rivedremo entrambi nella raccolta. So che continuo a ripeterlo, ma è solo perché non mi sono ancora deciso a sistemare il prossimo capitolo che deve uscire. Appena lo farò, aggiornerò la raccolta. 

Bene, ho detto tutto, grazie a Roland e Farkas per le recensioni e alla prossima!

   
 
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