Resta con me
– Novembre
2007 –
La camera dell'ospedale
era cambiata. Niente più tende bianche ma azzurre, il bicchiere d'acqua mancava
dal comodino, i cappelli un momento erano sciolti e gli altri raccolti. Yuzuha
non la ricordava più correttamente. Era strano come il momento più importante e
peggiore della sua vita avesse assunto degli spigoli tanto sfocati.
L'aveva guardata in volto? Aveva posato il libro prima di salire sul letto?
C'era mai stato qualcun altro? Il sogno era stato vivido, a tratti
realistico nelle parole ricordate punto per punto. Se fosse stato un testo
scritto avrebbe potuto riposizionarne anche le virgole. L'ambiente di
quell’anno lontano aveva però perso importanza, con gli anni i piccoli dettagli
erano venuti meno, insignificanti e privi di valore rispetto all''abbraccio. L'ultimo.
Il suo inestimabile tesoro. Quello che non sognava da quasi due anni era
tornato nuovamente a farle visita con una nota stridente. Lo aveva saputo allo
schiocco bagnato sulle guance, affondando le mani nella camicia ospedaliera così
ruvida al tatto.
Qualcosa era cambiato.
Quel giorno lontano, sua
mamma non aveva sorriso felice piangendo.
Il sogno era finito così
com’era iniziato, in uno sbuffo di colori distorto e immagini disgregate. Le
ciglia pesanti sollevate forzatamente al quarto tentativo erano state accolte
dalla penombra soffocante della camera ove gli unici sprazzi di luce
provenivano dal televisore silenzioso, un eterno sfarfallio grigiastro
bruciante al primo impatto.
Due anni dall'ultimo giorno in cui aveva sognato e modificato quel momento. Da
quella fatidica nottata di sangue nella chiesa, quando un ulteriore membro
della sua famiglia era uscito da una porta senza farne ritorno. In quell’ultima
occasione il suo inconscio aveva giocato con lei. Il letto ordinato era stato
sovrapposto all'altare, la sacca delle trasfusioni era stata sostituita da una
flebo incolore mentre il sangue ricopriva le ferite dei quattro ragazzi lì con
lei intenti a combattere. Fisicamente sua mamma non c'era stata, l'aveva solo
percepita alle spalle, sottopelle, nel cuore. L'abbraccio accogliente era stato
di Takashi. Il rifugio sicuro in cui nascondersi, una spalla tonica in cui
affondare a stretto contatto con una giacca sgualcita. Le parole di quella notte
erano state graffitate sul muro della sua memoria, indelebili e gelosamente
custodite.
Ti rispetto.
Il rombo del tuono la
riscosse, la pioggia battente picchiava freneticamente sui vetri tremolanti.
Fragili e delicati, incastonati in un telaio usurato dal tempo nella posizione
opposta alla finestra della sua camera.
Gli ingranaggi intorpiditi dal dormiveglia vennero messi in moto controvoglia
riavvolgendo gli ultimi momenti vissuti con un barlume di coscienza. Il profumo
speziato catturato dal naso dissolse lentamente la foschia rammendandole la
cena confusionaria a casa Mitsuya.
Takashi impegnato a rifinire il costume di scena per lo spettacolo scolastico
in cui lei sarebbe stata la protagonista aveva dimenticato la pentola sul fuoco
e il curry era stato salvato per miracolo. Luna lo aveva punzecchiato tutta la
cena per quell'errore, prendendo volutamente in giro uno dei talenti maggiori
che Takashi vantava di avere. Mana l'aveva accompagnata e in meno di cinque
minuti la cena era diventata la gara a chi metteva maggiormente in imbarazzo
l'altro. Inutile dire che il fratello maggiore fosse stato il vincitore
indiscusso con i suoi aneddoti, alla sesta rievocazione dei bagnetti
catastrofici le due sorelle gli erano piombate addosso di slancio per zittirlo
al limite della vergona.
L'acqua si era rovesciata sul tavolo, il curry era schizzato sui loro volti e
vestiti.
Takashi in preda alle risate si era fatto volutamente sconfiggere ricadendo a
terra con il duo dedito a prenderlo inutilmente a pugni sulla pancia indurita.
Involontariamente era scoppiata a ridere di gusto guardandoli azzuffarsi, in
una scena tanto diversa e impossibile da ammirare o prenderne parte tra le
solitarie mura della sua casa. Creando un attimo di smarrimento silenzioso in
cui tre paia di occhi dal medesimo colore l'avevano osservata sorpresi cessando
ogni altro movimento.
Si era sentita sbagliata, di troppo, in quel quadro di affetto
familiare.
Bocca e cervello si erano collegati a fatica nell’elaborare delle scuse
frettolose a cui dar voce non raggiungendo lo scopo. Era stata inglobata nella
lotta in un attimo.
«Yuzuha, non ti hanno
insegnato che non si ride alle spalle altrui?»
Takashi l'aveva afferrata
alle spalle bloccandole ogni pensiero. Il tocco leggero delle dita sui fianchi
sfiorati, le piccole e intermittenti carezze l'avevano spinta a scalciare per
una fuga al primo accenno di risata.
«No, no...Taka smettila!»
Quel nomignolo ereditato
dal fratello era diventato suo quando al secondo anno del liceo erano finiti
nella stessa classe. Un ulteriore frammento di confidenza, un'apertura per quel
ragazzo sempre presente per la loro famiglia da quando Hakkai l'aveva
incontrato in un parco.
«No, non posso, ho
dimenticato come si fa»
Il divertimento era stato
così tanto palese ad un soffio dal suo orecchio da non necessitare un confronto
diretto. I brividi le erano scivolati lungo la schiena persi poi nel
divincolarsi improduttivo quando era finita schiacciata contro di lui, incastrata
tra le sue braccia. Dopo averlo inutilmente provato a schiaffeggiare non aveva
potuto fare altro che ridere in affanno riuscendo a malapena a sollevare i
palmi.
«Sei un...» la frase era
morta al ghigno accattivante e alle dita di destra scivolate verso le gambe
piegate sul pavimento, sotto la pianta del piede fin troppo accessibile «No!...Idiota!»
Il sottile strato della
calza di nylon era stato totalmente insufficiente a proteggerla. Il calore
sbocciato sulla guancia premuta contro il volto imberbe saldamente incuneato
sulla sua spalla si era irradiato sino alle orecchie. L'istinto di fuggire e
arretrare al nuovo attacco l'avevano spinta all’indietro, la schiena premuta
maggiormente contro il petto del suo assalitore.
«Non puoi scappare»
Taiju le aveva ripetuto
quelle parole fino a marchiarle a fuoco sulla sua pelle. Un'infinità di
volte. Facendole desiderare l'esatto contrario, una via di fuga dalla
realtà durante i pugni e gli schiaffi sopportati per mantenere vanamente unita
la propria famiglia diretta all’autodistruzione. Quella frase involontariamente
pronunciata era tornata a bruciare surclassando ogni altro suono o percezione
circostante. Scagliandola indietro di mesi, al tunnel buio e tortuoso in cui
per lungo tempo non aveva mai osato sperare in una via d’uscita.
Era ancora impossibilita a scappare, bloccata da qualcuno di più forte capace
di tenerla ferma senza sforzo. C'erano ancora mani sul suo corpo ma non
pungevano la pelle, la lenivano come la malva cosparsa dopo ogni pestaggio per
evitare domande. Nessun grido d’aiuto premeva soffocato tra le labbra in una
villa troppo grande e solitaria. Era racchiusa fra due braccia improvvisamente
allentate in una minuscola casa in cui la povertà regnava sovrana, calda e
ospitale anche con una stufa non funzionante.
«Yuzuha?»
Il bisbiglio incerto di
Takashi sul collo l’aveva sentito a malapena nel fischio ovattato persistente.
Il campo visivo offuscato ai bordi aveva registrato le braccia intrecciate
sulla sua pancia allontanarsi fino a caderle inerti in grembo. La cascata dei
capelli argentei aveva anticipato il volto preoccupato sporto in avanti per
guardarla in faccia.
Aveva smesso di muoversi, di ridere, ma non ricordava di aver dato tale
comando ai propri muscoli. Una bambola di pezza non più proprietaria del corpo
scosso dai tremori dapprima non notati che nonostante tutta la sua volontà non era
riuscita a placare. La comprensione era dilagata inesorabile negli occhi color
lavanda slavata ad un soffio dai suoi, sostituita velocemente dal senso di
colpa nell’assordante silenzio frapposto fra loro.
«Mi dispiace…avrei dovuto
immaginarlo» il balbettio affrettato era stato sbagliato sulle labbra sempre
solari incupite e mordicchiate dalla colpevolezza «Sono un cretino, ho parlato
ed agito senza pensare»
Takashi non aveva avuto
bisogno di conferme, aveva capito tutto da solo. La notte in quella chiesa
l’aveva trasformato, non in meglio, lui non aveva mai avuto bisogno di essere
migliore di quanto già non fosse. Era stato più attento, difficilmente fermo
alle sole risposte date da Hakkai. Chiedeva personalmente a lei come stesse,
cosa pensasse, come le andava la giornata, cosa voleva mangiare quando andavano
tutti e due a casa sua. Includendo sempre di più anche lei sotto l’ala
protettiva dei “fratelli minori” nonostante avessero la stessa età.
Finendo con il leggerla dopo pochissimo tempo come un libro aperto. Il suo modo
di chiederle scusa, di ottenere un perdono che Yuzuha non aveva mai ritenuto
necessario dargli, non più almeno. Takashi non aveva nulla da farsi perdonare.
Forse due anni prima aveva odiato la sua cecità, l’ostinazione persistente con
cui difendeva Hakkai in ogni situazione senza notare la sua rabbia sbattutagli
in faccia dopo l’accordo stretto con Taiju. In cuor suo aveva sperato che
Takashi capisse come stavano realmente le cose in casa senza dirlo apertamente,
ma ciò non era accaduto fino allo scontro sanguinario in chiesa. Non l’aveva
mai incolpato realmente e quel briciolo di delusione era scomparso velocemente
quando venuto a fermarla ferendosi nel processo le era poi rimasta accanto. Era
stata sua la volontà far credere che Hakkai fosse quello più maltratto, il suo
dovere di sorella. Takashi l’aveva capito, aveva annuito qualche giorno dopo comprendendo
appieno quello che anche lui a ruoli invertiti non avrebbe esitato a fare ma, lei
lo sapeva. Lo vedeva dalle reazioni, dalle braccia ritirate velocemente
come in quel momento.
Lui, infondo, rimproverava ancora sé stesso per quella svista.
Il cuore d’oro di Takashi
sarebbe stato la sua rovina.
«Stai zitto»
Takashi l’aveva
assecondata, non perché l’avesse ordinato nella frase a malapena comprensibile
tra le lacrime. Yuzuha gli aveva afferrato gli avambracci prima che svanissero
alle sue spalle in una stretta spasmodica per non farlo scappare lontano da lei.
Attirandolo di forza nuovamente addosso, le braccia incociate attorno al suo
busto in un incastro complicato tipico delle camicie di forza.
«Resta così e basta» una
preghiera supplicata assaporando il sale infiltratosi sulle labbra tra i
rumorosi battiti ormai rimbombanti sottopelle «Non allontanarti…non tu…restami
vicino»
Takashi era rimasto.
Tacitamente l’aveva accolta restando dietro di lei, sedendosi a sua volta sul
pavimento, stringendola con una forza sconosciuta da toglierle il fiato. Le
gambe avevano circondato le sue tirate al petto mentre la scia incontrollabile
trasbordata oltre le sue ciglia ne aveva bagnato il volto riposizionato sulla
spalla. I pollici impotenti stritolati dalle sue mani non avevano potuto
asciugarle le lacrime, la guancia premuta nuovamente sulla sua ne aveva assolto
il compito. Riducendosi ad accarezzarle i dorsi contratti con i polpastrelli in
piccoli cerchi concentrici. Il profumo delicato che lo contraddistingueva
l’aveva coccolata, dolce e avvolgente come l’abbraccio meraviglioso della sua
infanzia. Un aroma poco mascolino – totalmente prevedibile vivendo con tre
donne sotto lo stesso tetto – i petali dei fiori appena sbocciati raccolti al
mattino, un mix di piante dalle proprietà terapeutiche per spiegarne l’effetto
balsamico. Lentamente si era calmata inspirando a fondo quella vicinanza,
godendosi il calore sgorgato dai punti di contatto capaci di sciogliere il gelo
impossessatosi dei suoi arti e del suo cuore.
Le catene spinose immaginarie
si erano spezzate con un sinistro cigolio rimpiazzato dalle pulsazioni ininterrotte
sulla schiena. Un ritmo costante accompagnato dalla morbidezza delle labbra adagiate
sulla gota inumidita per un bacio dolce e soffice quanto lo zucchero filato
tanto amato durante i festival. Inaspettato. Takashi non si era mai
spinto oltre una carezza affettuosa, una stretta fraterna o un qualunque gesto
che contemplasse una sorta d’invisibile distanza. Una linea da non oltrepassare.
L’apparenza per poterla chiamare e trattare come le due sorelline senza rimorsi
o ambiguità, la stessa mantenuta saldamente da lei negli ultimi sette mesi a
stretto contatto. Però, Takashi non poteva più essere come Hakkai. Qualcosa era
mutato nel loro rapporto, così gradualmente da non rendersene conto finché i
capelli cortissimi non avevano raggiunto il collo e i lineamenti maturi
occupato la sua mente. Un semplice sorriso era divenuto sufficiente a
scioglierle lo stomaco, un complimento a farla saltellare allegramente fino a
sera.
Il bacio innocente? A
farle impazzire il cuore.
Hakkai aveva avuto
ragione nelle sue disinvolte battutine. Insulsa e stupida, la scusa dei capelli
utilizzata per tenerlo lontano le si era ritorta contro accentuando la sua
cotta adolescenziale. Era bastato poco per infatuarsi. I modi gentili e
teneri così inusuali dalla forza bruta sprigionata in una scazzottata l’avevano
conquistata in pochi pomeriggi di compagnia, nel periodo in cui aveva
desiderato ostinatamente avere indietro un fratello maggiore da ammirare più
che un fidanzato da amare.
Ora, la situazione era
diversa.
«Credo di aver rovinato
la cena…»
Le parole erano scivolate
pesanti dalla bocca impastata dal pianto, basse e insicure ugualmente udite nel
religioso silenzio scandito dal ronzio del frigorifero.
«Chi se ne importa»
Takashi l’aveva mormorato
con fermezza separando le guance incollate, usando la curvatura del suo stesso
braccio come base d’appoggio per guardarla meglio. Lei non era riuscita a fare
altrettanto. Le loro dita fermamente intrecciate sul petto avevano catalizzato
la sua attenzione spingendola nell’imbarazzante riflessione. Erano finiti
estremamente vicini, più di quanto non lo fossero mai stati. Intimi. Le
pieghe della gonna ricaduta accartocciata sulla base della vita a malapena
avevano coperto l’indispensabile. I capelli scossi dal respiro di Takashi le
avevano solleticato il collo ad ogni espirazione, venendo meno al compito di
nascondere adeguatamente il rossore affluito sul viso.
«Non pensare di essere
sola, per nessuna ragione al mondo» la gelatina sostituitasi al suo cuore era
esplosa in minuscoli frammenti allo scatto repentino con cui si era voltata «Hai
Hakkai, le tue amiche, me. Le promesse sono fragili, non posso
prometterti che non ti capiterà mai più un momento di tristezza o di sentirti
di nuovo in quel modo…ma parlami. Hai la mia parola, questa volta farò
il possibile affinché non accada»
I battiti erano diventati
dolorosi, impegnati in un incontro di arti marziali nella sua cassa toracica.
Takashi aveva poggiato la fronte contro la sua cancellando ogni barlume d’informazione
nella sua testa, dalla più articolata alla più basilare. La respirazione non
era mai stata così complicata. Tutto sarebbe stato più facile se Takashi in
passato non l’avesse mai chiamata sorellina.
«Ti meriti la felicità,
di gettare alle spalle tutto il tuo dolore senza più voltarti indietro»
«Taka…potrebbe volerci
una vita, non puoi-»
«Passerò con te tutto il
tempo che voglio affinché tu possa vivere sentendoti libera»
Stavano ancora parlando come
fratelli?
Era stato impossibile
rispondere a quell’interrogativo con tutte le cellule celebrali partite per una
vacanza natalizia anticipata. Il rosa pieno delle labbra aveva ricevuto tutta
la sua attenzione, la mente ne aveva disegnato il sapore in assenza del
coraggio. Le aveva viste le spezie utilizzate nel curry ma, su quelle
sporgenze carnose avrebbe prevalso la curcuma o lo zafferano? E della cannella
ne sarebbe rimasta traccia? Il peperoncino poteva averle coperte tutte senza
via di scampo? Il calore rovente delle guance si era espanso al girocollo
sotto la lana pizzicante e la domanda su cos’altro avesse aggiunto Takashi era
sorta spontanea.
Yuzuha non aveva più ascoltato una parola. Forse il discorso non era nemmeno
andato avanti e non c’erano stati responsi attesi, forse Takashi era stato
perso quanto lei in quei microscopici millimetri separatori per pensare a cosa
dire. Non avrebbe saputo dirlo né allora né ripensandoci, anche se l’urletto
improvviso di Luna li aveva colti impreparati entrambi. Ricordandole
vergognosamente la presenza di altri due abitanti della casa.
Se Takashi si era offeso alla stretta annullata quasi con violenza non l’aveva
dato a vedere. Tutt’altro, quasi comprendendo il suo imbarazzo ed estraniamento
per l’assenza di Mana l’aveva messa al corrente dei fatti con la sua solita
naturalezza. Le due erano scappate a giocare mentre lei era troppo impegnata a contenere
le risate per accorgersene, nell’implicito messaggio nascosto: “non ti hanno
vista piangere, non hanno sentito nulla, non hanno vista nulla”. Quasi nulla.
L’ultima parte poteva averla aggiunta di sua iniziativa ma seppur in modo
contorto era stata bambina anche lei, non si era stupidi come sovente si
credeva. Luna l’aveva guardata a lungo prima di concentrarsi sul fratello con
uno sguardo che le aveva fatto porre centinaia di quesiti irrisolti. C’erano
state delle scuse non dette, interrotte dalla nonchalance con cui Takashi aveva
chiesto alla bambina se lei e la sorella avessero ancora fame. Il consueto
sorriso perennemente presente mentre proponeva di riscaldare una cena ormai
raffreddata consumata allegramente con il vociare della sorellina più piccola.
Il resto della serata era
trascorso senza intoppi e meno imbarazzante di quanto inizialmente previsto. Si
era offerta di lavare i piatti e risistemare la cucina mentre lui terminava gli
ultimi accorgimenti al vestito, in modo da tenersi occupata e quantomeno
distante. Luna e Mana l’avevano aiutata tra una lotta saponata e l’altra
alleviandole i pensieri con grasse risate e storielle assurde di quello che
combinavano rispettivamente all’elementari e alla scuola materna, facendola
propendere per una carriera distante anni luce dall’insegnamento.
L’ultimo punto al costume era arrivato con lo scoppio del temporale
prolungandole il soggiorno di qualche ora. Takashi aveva saggiamente deciso di
non accompagnarla in moto fin quando la pioggia non si fosse un minimo
attenuata, impedendole però di andare a prendere l’autobus da sola con tutto
l’occorrente per lo spettacolo al seguito. Pericoloso. Era stata quella
la giustificazione rifilatale allo sdegno ampiamente manifestato, sfortunatamente
per lei con una cordialità e una premura contro cui non era riuscita a
irritarsi ulteriormente.
La seppur piccola rivincita l’aveva ugualmente ottenuta pochi minuti dopo. Luna
e Mana avevano insistito per guardare insieme uno dei loro film preferiti
pregando invano il fratello di mangiare gli snack comprati quel pomeriggio. Il “no”
vanamente pronunciato più volte da Takashi era venuto meno quando aveva dato
manforte alle bambine, fino a cedere con il disappunto stampato sulla faccia.
La soddisfazione era stata grande, protratta nella degustazione delle patatine
mentre il piccolo carrellino con il televisore era stato spostato con reticenza
nella cameretta condivisa. Era stato divertente anche non considerando
minimamente i dinosauri del film d’animazione. Trascinata sui futon posizionati
per terra e attorniata dai cuscini extra prelevati dal divano si era finalmente
sentita a casa, accolta, in pace con sé stessa.
Casa…
Yuzuha cessò il perdersi
nei propri ricordi. La videocassetta seguita svogliatamente era andata avanti
mentre la pioggia scrosciante non aveva accennato a calmarsi. Il picchiettio
incessante sui vetri aveva attirato la sua attenzione più dei dinosauri dai
nomi strampalati, il calore della coperta poggiata addosso l’aveva coccolata.
Takashi le aveva detto qualcosa…qualcosa che non ricordava.
Incurante del bruciore
provocato dallo sfarfallio fissò con occhi vacui la trasmissione inesistente
mentre un dubbio atroce prendeva forma nella sua mente. Il televisore
arricchito da adesivi sorridenti sembrò farsi beffa della sua ingenua e
retorica domanda, quasi parlando attraverso lo smile giallo appiccicato accanto
al pulsante.
“Sì cara, sono ancora il
televisore del film, quello che non hai visto a casa tua”
Yuzuha annuì al vuoto,
preoccupandosi più dell’effettivo risvolto della faccenda che di star parlando
mentalmente con un oggetto inanimato. Il televisore aveva avuto ragione, lei a
casa non c’era mai tornata.
«Merda»
L’imprecazione sussurrata
– repentinamente censurata – l’aveva spinta a voltarsi verso la prima conferma.
Luna e Mana dormivano placidamente in posizione scomposte, l’una con la gamba
sulla pancia dell’altra e le braccia allargate su un groviglio di coperte scostate
indefinito. Non era più chiaro dove iniziassero o finissero i rispettivi futon nella
penombra ma entrambi erano sicuramente da scartare dalla lista. La famiglia
Mitsuya non viaggiava nell’oro, la camera di piccole dimensioni condivisa in
tre non lasciava adito ad altre spiegazioni. Se le due bambine dormivano nei rispettivi
posti letto lei poteva averne occupato soltanto un altro, togliendolo al
legittimo proprietario.
No, peggio.
Il calore ancora
percepito al risveglio non era stato il rimasuglio di un sogno. Il ciondolo a
forma di limone penzolante dal cinturino in caucciù baluginava fiocamente alla
luce del televisore. Il regalo sciocco e antiestetico che aveva immaginato
sepolto tra milioni di rifiuti nella discarica più vicina aveva fatto bella
mostra di sé sul polso niveo il giorno dopo il festival dei fiori di ciliegio,
quello seguente e i giorni successivi. Era rimasta sorpresa quando Takashi
aveva ammesso candidamente di apprezzarlo “è un tuo regalo, no?” ma non
avrebbe mai immaginato desiderare di non vederlo. Il bracciale giaceva sul suo
stomaco insieme al resto del braccio coperto dalla stessa maglia su cui qualche
ora prima aveva riversato fiumi di lacrime.
Come aveva fatto a non
notarlo prima?!
Lentamente ne seguì il
contorno fino all’attaccatura della spalla, perdendosi a contemplare con un
pizzico d’ansia la sua gamba abbracciata da quella mascolina. La mancanza di
coperte abbandonate ai piedi del futon non era stato un problema insormontabile
per il suo corpo, lo sfregamento fra calze e pantalone bastava a riscaldarla
per intero. Accaldandola in zone fino a quel momento ignorate tanto da
spingerla ad arrossire solitaria per i suoi stessi pensieri. Esitante, con la
saliva frazionata allo stretto indispensabile cessò infine la sua indagine
guardandolo in faccia.
Takashi dormiva placidamente a quella ridotta distanza già sperimentata qualche
ora prima, il volto affondato nel cuscino con la bocca dischiusa in una smorfia
involontaria. La frangia argentea copriva uno degli occhi ricadendo scomposta insieme
al resto dei suoi capelli facendole provare l’irrefrenabile desiderio di
scostarli per ammirarlo meglio. Il calore alla pancia bruciò a ritmo con la
mano sollevata lasciata a metà strada, indecisa se assecondarne o meno la fantasia.
Dai capelli sarebbe passata alla guancia, da lì alla bocca arrivando ad un
punto in cui ammirarlo dormire o bearsi di quelle carezze accennate non le
sarebbe bastato. Era al varco di non ritorno, se avesse smesso di negare
l’esistenza di quell’attrazione sarebbe stata la fine del suo autocontrollo.
Il tentativo di provare a sguisciare via silenziosamente restò un’idea vagante
come altre, per nulla ascoltata dalle sue mani entrate in contatto con i
sottili crini d’argento dall’insolita morbidezza. I capelli decolorati
difficilmente restavano lisci e setosi sottoposti a quello stress di tinture
più volte all’anno, lei stessa faticava a placare l’effetto crespo dell’umidità
nelle uggiose mattine con il solo colore naturale.
Li aveva scostati
avvicinandoli delicatamente all’orecchio con il martellare del cuore nel petto
e la voce della ragione in preda a crisi isteriche. Le dita avevano indugiato
sui contorni scorrendo oltre il lobo, accarezzando i lineamenti dolci del viso
abbelliti dai primi insignificanti accenni di peluria percepibili solo al
tatto.
Il cuore compì la
capriola schiantandosi contro le costole al tremolio delle palpebre, le mani
corsero nella ritirata immediata allo spicchio lilla puntato confusamente su di
lei.
Takashi sbatté le
palpebre intontito, sventagliando le ciglia sempre più velocemente alla
crescente contestualizzazione. Yuzuha lo fissò con due occhi sbarrati torturando
a sangue le proprie labbra. Il tentativo di farla smettere gli fece collocare
l’esatta posizione dei suoi arti: uno bloccato sotto il cuscino e l’altro
scostato al risveglio, adagiato sulla lana. Soffice. Le dita colpite da
scariche elettriche invisibili ballarono sulle rotondità del seno afferrato propendendo
per una fuga molto tardiva alla parata carnevalesca esplosa nella testa.
«Uhm…scusa, non -» volevo?,
la voce non collaborò spingendolo a maledirsi internamente per non riuscire a
insudiciare la lingua seppur con una menzogna parziale «Devo essermi addormentato
prima della fine del film, non volevo metterti a disagio…solitamente ho Luna e
Mana che si infilano nel cure della notte e non c’è questo rischio»
Yuzuha annuì
vigorosamente, incapace di elaborare una risposta di senso compiuto
all’ossigeno inesistente fino al cervello. Era tremendamente sbagliato trovare
appagante quella stentata carezza fatta da Takashi. Lui non era un fratello di
sangue ma di quelli acquisiti che raramente si trovano nella vita, da voler bene
e amare come Hakkai.
Da quando il suo tocco
era diventato eccitante?
«No…nessun problema»
frettolosamente ed inciampando nei suoi stessi piedi per rimettersi in piedi
ballonzolò incerta sul futon «Io devo andare. Sì, a casa. Hakkai mi aspetta»
Takashi ancora disteso
fissò imbambolato lo scatto della ragazza sfregandosi la guancia
improvvisamente accaldata. Lo sguardo distolto per educazione non minimizzò il
fuoco esploso sul resto della faccia. Yuzuha nella foga si era dimenticata di
indossare una gonna e di fornire un’annessa panoramica con la sua posizione
seppur nella penombra, almeno finché la domanda nemmeno udita non l’aveva colto
in flagrante. Impegnato a contar i bottoni presenti nella scatola sul bordo
della scrivania pur di non essere annebbiato da pensieri peccaminosi era
tornato a guardarla riluttante. La lampadina si era accesa nella testa della
ragazza, Yuzuha battute le mani sulla gonna si era allontanata velocemente a
retromarcia inciampando nel groviglio della coperta prima che potesse avvisarla.
Tornando nolente seduta
lì con lui.
«Yuzuha, calmati… »
sbiascicò a bassa voce puntellandosi sui gomiti, la voce rauca di chi si è
appena svegliato dal più profondo dei sogni, assicurandosi che le due bambine
stessero ancora dormendo prima di continuare in un sussurro «Sta ancora
piovendo a dirotto là fuori, aspetta»
«E con questo? Devo
tornare a casa» fu la concitata risposta rifilata alla ricerca infruttuosa e
frettolosa del suo cellulare nelle tasche della divisa sgualcita, ai piedi del
futon, nella giacca abbandonata sulla sedia «Può anche grandinare, non fa nulla,
non posso di certo dormire qui!»
«Ma è notte fonda! Perché
questa fre-»
«Domani abbiamo scuola, è
tardi, sono rimasta più del dovuto» frustrata per l’assenza dell’apparecchio
elettronico simile a un mattoncino tornò a rialzarsi in piedi stando bene
attenta a non compiere lo stesso errore «Pensa poi se tua madre tornasse e ci
vedesse così! Si farebbe strane idee»
Takashi restò a fissarla
confuso stropicciandosi un occhio ancora mezzo intontito dal sonno, faticando a
star dietro alle frasi sputate a raffica mentre il suo cervello stava ancora
ingranando la prima marcia. Yuzuha suo malgrado fece lo stesso per motivi
diversi, imbambolata da quell’innocenza del dormiveglia trovata
indefinibilmente attraente, sfoggiata involontariamente dal ragazzo strisciato
carponi fino alla scrivania posta al suo fianco.
«In realtà credo ti abbia
già visto» mormorò lui soffocando uno sbadiglio, una mano premuta sulla bocca e
l’altra sollevata tranquillamente insieme alla sveglia dalle lancette
fosforescenti «Sono le due del mattino…sarà tornata da almeno due ore»
«Stai scherzando?!»
Yuzuha avrebbe voluto uno
scuotimento di testa e non un assenso noncurante. Takashi aveva archiviato la
questione come un dettaglio futile, un insignificante mosca ronzante a cui non
dare peso. Era vero, lei non aveva avuto molte occasioni per incontrare la
signora Mitsuya, non la conosceva bene per suppore e creare castelli sui suoi
modi di fare ma una cosa la sapeva: la donna rimboccava sempre le coperte alle
sue bambine quando rincasava. L’aveva visto con i suoi occhi in diverse
occasioni quell’estate, quando era stata riaccompagnata personalmente a casa in
piena notte dopo interi pomeriggi passati a studiare insieme.
Sicuramente li aveva
visti insieme, abbracciati, addormentati.
Non osava pensare alle strane idee formulate dalla donna, doveva sparire prima
dell’indomani, magari non tornando più in quella casa.
«Yuzuha? Ehi?»
Allo schiocco di dita
persistente tornò alla realtà fissando atterrita le iridi chiare ad un passo da
lei, incapace di collegare quando Takashi si fosse alzato in piedi senza
premurarsi di sistemare il maglioncino e la camicia sottostante. La stoffa
spiegazzata fuoriusciva dai pantaloni ricadendo scompostamente sulla cinta,
scoprendo lembi di pelle che non avrebbe dovuto guardare insieme alla testa
arruffata e le guance arrossate derivate dal sonno.
Quasi saltò all’indietro
per respirare correttamente, con un sorrisetto tirato, a tratti isterico, stampato
sulla faccia. Disposta a qualunque cosa per eliminare il silenzio confuso in
cui era annegato Takashi. Yuzuha avrebbe voluto urlargli di aggiustare i
capelli incastrati nel cerchietto nero all’orecchino anziché restare a
guardarla, lei stava faticando a tenere a freno le mani e non invadere
ulteriormente quello spazio personale di sua iniziativa mentre lui continuava a
creare pretesti per mettere il suo autocontrollo in discussione.
«Stavo dicendo…è ormai
notte fonda e non ci sono nemmeno più autobus, avverti Hakkai che resti qui a
causa del temporale così domani mattina non si spaventa non trovandoti in casa»
la cadenza tranquilla di Takashi e il sorrisetto sghembo sortirono l’effetto
opposto, anziché rassicurarla la gettarono nel panico «Se ti lasciassi uscire
ora mamma potrebbe non farmi arrivare vivo al tuo spettacolo di Natale»
«Ma…» Yuzuha balbettò a
vuoto incapace di formulare una risposta corretta alla ciocca di capelli
castana scivolata sulla faccia e riportata dietro l’orecchio dalle dita di
Takashi «Non ho portato nulla per la notte»
La scusa dell’anno,
quella scema e per nulla d’aiuto.
«Non preoccuparti per
questo, credo di avere ancora un vecchio regalo di Draken dello scorso anno» il
ragazzo la oltrepassò ridacchiando, scavalcando silenziosamente i posti letto
delle sorelle per scavare nel piccolo armadio dalle ante consunte «Sai, non ha
proprio il senso della misura quando si tratta di capi di abbigliamento»
Fuori misura era un
eufemismo. Yuzuha ammirò dubbiosa la maglia a maniche lunghe stesa da Takashi,
di tre taglie più grande per lui e probabilmente inappropriata per lo stesso
Draken. Nera e felpata con uno strambo animale rosa sgangherato, allucinato e
verosimilmente sotto effetto di acidi cucito sul davanti.
Simile a qualcosa a cui Yuzuha non riusciva a dare un nome.
«Non l’hai cucito tu,
vero?» domandò titubante prima di lasciarsi sfuggire commenti inappropriati
sulla bruttezza del disegno, chiaramente sbagliato persino per lei che di
cucito non capiva nulla «Sai…come esercitazione»
«No, no» il sorriso si
ampliò sopprimendo una risata più rumorosa mentre tornava da lei, trattando la
maglia come un estimabile tesoro concesso eccezionalmente per lei «È opera di
Draken, ricordi quella maglia su cui ti ho chiesto un parere lo scorso anno?»
Yuzuha la ricordava
perfettamente. Era rimasta incantata dall’enorme drago rosso meticolosamente
cucito simmetricamente per tutta la lunghezza della maglia, a destra e
sinistra, due maestose creature ricreazione perfetta e migliorata del tatuaggio
impresso sulla testa di Draken. Completate dalle code avviluppate attorno alla
manica fino a metà braccio che avevano reso quel regalo confezionato a mano una
piccola opera d’arte.
«Sì, mi era piaciuta
tantissimo. Era il regalo per il compleanno di Draken, giu-…»
la frase andò via via scemando alla realizzazione di cosa dovesse essere lo
sgorbio rosa raffigurato sul suo futuro pigiama «Non dirmi che questo…coso…lo
ha cucito lui per ricambiare il pensiero»
Takashi incurvò le labbra
annuendo, facendo penzolare la testa di lato, con la gioia negli occhi
abbracciato a un capolavoro che di bello per lei non aveva proprio nulla se non
il pensiero. Non che immaginare Draken con in mano ago e filo fosse una scena
di tutti i giorni, proprio non riusciva a vederlo bene in un lavoro tanto
delicato.
«Twin Dragons»
«Mh?
Il vostro soprannome?» chiese afferrando i pantaloni della tuta e la maglia
tesa verso di lei che nella migliore delle ipotesi le avrebbe fatto da vestito
«Sarebbe stato più semplice per lui proporti lo stesso tatuaggio… anzi, a
questo punto mi chiedo come abbia fatto a tatuarsi un disegno tanto figo date
le sue doti artistiche»
Takashi istintivamente
portò la mano alla tempia destra grattando il cuoio capelluto sopra quel
disegno accuratamente celato sotto strati di capelli. Draken non gli avrebbe
mai permesso di sfoggiare lo stesso tatuaggio ma paradossalmente vantava con
chiunque il loro status di draghi gemelli. Tra loro c’era una fiducia
indiscussa, non avrebbero esitato a porre la propria vita nelle mani
dell’altro, era il fratello di cui avrebbe seguito sempre le orme.
L’altra metà di una stessa medaglia.
«Potrei averlo
indirettamente aiutato…ma, ti racconto la storia solo se prendi il mio futon
per la notte mentre io vado a occupare il divano»
«No!»
Yuzuha si coprì istantaneamente
la bocca al monosillabo fin troppo alto, voltandosi lentamente verso le due
bambine mossesi leggermente ma ancora profondamente addormentate. Il ragazzo
accucciato accanto a loro sistemò le coperte scivolate via tranquillizzandola,
sussurrando quanto i due terremoti necessitassero di trombe, cannoni e magari
un’intera banda musicale nella stanza per svegliarsi.
«Taka non puoi dormire su
quel divano microscopico con il freddo che fa, facciamo il contrario»
«Ed io che pensavo di
evitare la discussione offrendoti una favola della buonanotte» lo sbuffo
divertito accompagnò il mento poggiato sul palmo della mano, in bilico sulle
ginocchia piegate ad un soffio a terra «Non sono riuscito a suscitare la tua curiosità?»
Le palpebre cascanti
illuminate dal televisore ancora acceso così come la nota furba e provocatoria
dell’ultima domanda avevano suscitato altro. Yuzuha aveva stretto l’abbigliamento
tra le mani cercando di non pensare alla malizia inesistente da lei percepita. Inutilmente.
Le parole avevano abbandonato la sua bocca prima che potesse fermarle.
«Puoi sempre condividere
il futon con me, stavamo già dormendo così»
Il sorrisetto di Takashi
si era bloccato, un attimo, quel microscopico momento necessario a far avviare
una serie di domande retoriche senza risposta nella sua testa. Una più
catastrofica dell’altra.
«Sempre che non ti dia
fastidio, non voglio ovviamente costringerti a dormire tutto storto in quel
misero spazio… Facciamo così, la storia per quanto intrigante la racconti un
altro giorno. Io vado di là sul futon e tu resti qui con sul divano. No,
aspetta, cosa sto dicendo? Il contrario, dobbiamo fare il contrario»
L’apocalisse prevista non
era giunta al termine dello stallo sproloquiante in cui si era coperta la
faccia pur di smettere di parlare a vanvera e incasinare ulteriormente il
discorso. Nascosta dietro i vestiti, quegli stessi indumenti profumati come lui
che aumentarono la fitta allo stomaco accentuando il calore sul viso. Lei era
più coraggiosa di così, non era il tipo da nascondersi o scappare a una frase
detta male. Al leggero colpo di tosse inspirò a fondo uscendo dal suo
nascondiglio. Takashi passata una mano tra i capelli a capo chino aveva
riportato gli occhi su di lei con la solita rassicurante aura di pace.
«Sicura che per te non
sia un problema?»
No.
«Sicura»
Yuzuha voleva la stessa
sicurezza tanto decantata dalla sua voce. Incerta, era rimasta a spostare il
peso da un tallone all’altro guardando la porta della camera da cui sarebbe
dovuta uscire per andare in bagno a cambiarsi. Non era ancora pronta a
incontrare accidentalmente la padrona di casa. Le serviva un contatto con
l’acqua gelida del lavandino ma non una conversazione su cosa stesse facendo
nel letto del figlio.
«Puoi usare l’altro lato
della camera per cambiarti»
Takashi ancora
accovacciato le aveva indicato la tenda divisoria posta in mezzo alla stanza,
l’escamotage utilizzato per dividere l’angolo delle bambine dal suo in mancanza
di ulteriore spazio per una camera propria. Divisorio quasi inutile
considerando le due piccole pesti sempre pronte ad aprire la tenda e trascinare
i loro futon nell’angolo del fratello o infilarsi senza permesso accanto a lui.
Utile però per lei, per catapultatasi immediatamente dietro il piccolo tratto
scorrevole ancora utilizzabile e non occupato dalle bambine addormentatesi
proprio nel mezzo. Cinquanta centimetri più che sufficienti per cambiarsi e
bearsi della perspicacia con cui lui continuava a intuire silenziosamente la
direzione dei suoi pensieri.
Takashi dal canto suo
prese la t-shirt notturna rovistando nel cassettone per un pantalone da
affiancarci, abituato a dormire solitamente con quel pezzo mancante in meno
sicuramente non attuabile quella notte. Fermandosi ad osservare costernato la
poca attenzione riposta nell’operazione quando praticamente mezzo armadio era
stato tirato fuori inutilmente.
Più agitato di quanto volesse ammettere e dare a vedere.
Non avrebbe dovuto accettare di dormire insieme a lei dopo il piccolo incidente
del risveglio. A cena era riuscito a mantenere per sé tutti quegli impulsi del
proprio corpo cedendo solo con un misero bacio, accusando volutamente il curry
del bruciore alle labbra provato nelle ore seguenti. Perlomeno finché il suo subconscio
non l’aveva tradito facendolo addormentare e svegliare accanto a lei, mandando
all’aria tutti i suoi buoni propositi di non chiudere occhio e accontentarsi di
vederla dormire. Una scemenza, una situazione come un’altra che aveva gettato
benzina sul fuoco rammentandogli tutte quelle sensazioni che cercava di
dimenticare in sua compagnia.
Hakkai era stato chiaro l’anno prima durante le pulizie a casa Shiba.
Ad inizio gennaio, un
paio di settimane dopo lo scontro con Taiju, si era volontariamente offerto di
aiutare Hakkai e Yuzuha nella sistemazione delle cose appartenute al fratello.
I due avevano voluto riporre tutta la roba in degli scatoloni per liberarsi
materialmente della sua presenza, nonostante la volontà di conservarle in
soffitta. In segno di scuse per non aver potuto far molto la notte di Natale,
nonostante il fermo rifiuto dei due pronti a sostenere il contrario, li aveva aiutati a
spostare tutto ritrovandosi ad ora di pranzo da solo con Hakkai nella camera
appartenuta a Taiju. Yuzuha era uscita a comprare qualcosa di già pronto
lasciando loro due a occuparsi delle ultime cose.
«Pensavo piacessi a mia
sorella, così gliel'ho chiesto a Capodanno»
Hakkai aveva tirato fuori
il discorso dal nulla scorrendo l’indice sui volumi nella libreria, di spalle
al suo goffo tentativo di sorreggere la scatola quasi scivolata via dalle mani
per la sorpresa.
«Ma mi ha detto "Vedo
Mitsuya solo come un fratellino... perché ha i capelli corti"» ridendo
tra sé Hakkai l’aveva sorpassato scrollando braccia e spalle per sollevare il cartone
abbandonato sul letto mentre il suo cuore dava i primi accenni di aritmia «Le
ragazze sono strane, a cosa serve avere una cotta per uno già impegnato come
Takemichi...Taka ti sei addormentato in piedi?"
«Eh? No, arrivo»
Al fianco di Hakkai per
il resto della giornata c’era arrivato solo fisicamente, finendo con il
rimuginare per giorni su quelle parole ingenuamente confessate, consapevole di
non poter mai diventare qualcos’altro per Yuzuha. Lei aveva trovato il suo
amore non corrisposto, come lui aveva trovato il suo. Ma, al contrario della
ragazza lui non era riuscito a mantenere le distanze, un po’ a causa di Hakkai,
un po’ per la volontà di volerle stare accanto come amico e fratello. Il club
di economia domestica, gli scontri della Toman con conseguente
scioglimento e le sue sorelle gli avevano dato pretesti utili per accantonare
quei pensieri e portare avanti la sua vita finché il destino non aveva messo il
suo zampino facendoli finire nella stessa classe. Distruggendo giorno dopo
giorno ogni speranza di vedere Yuzuha solo e soltanto come una cara sorella.
Quel lontano gennaio Hakkai aveva posto la domanda alla persona sbagliata.
«Ti piace Yuzuha»
Draken al contrario non
si era nemmeno preoccupato di renderla una domanda.
Dallo scioglimento della gang e con paradossalmente il suo tempo libero ridotto
a poche ore notturne, l’ex vicecomandante della Toman
era stato costretto a pedinarlo durante le commissioni giornaliere pur di
passare del tempo insieme dopo la chiusura dell’officina. Il pomeriggio della settimana
scorsa l’aveva invitato a cena, obbligandolo a comprare insieme gli ingredienti
prima di tornare all’abitazione con un risvolto totalmente inatteso. Draken
aveva sputato l’osservazione senza mezzi termini davanti il negozio di
alimentari in cui pochi istanti prima avevano incontrato e salutato i fratelli Shiba.
«No»
Istintivamente l’aveva
negato, con una durezza fuori dall’ordinario osservando le due figure ormai
lontane alla fine del marciapiede. Incapace di appurare chi stesse effettivamente
cercando di convincere con quella negazione dopo un anno e mezzo speso a
sopprimere ogni sentimento diverso dall’amore fraterno.
Lo schiaffo sul collo
l’aveva colto alla sprovvista, decisamente più forte e violento delle solite
pacche rifilategli scherzosamente da Draken.
«Smettila Mitsuya»
massaggiandosi la nuca pulsante aveva osservato confuso l’occhiata d’acciaio e
l’atteggiamento autoritario riserbato rarissime volte per lui «Smettila di
mentire solo per non ricordarmi Emma»
Tutto il disappunto per
il colpo a sorpresa era scemato spingendolo a guardare il lastricato del
marciapiede ottenebrato dal senso di colpa. Il suo bluff era stato facilmente
scoperto, dalla morte di Emma aveva smesso volutamente di fare commenti sulle
ragazze viste in giro o di portare in qualsivoglia modo la conversazione su un
ambito più personale. Le notti successive alla perdita della ragazza le avevano
passate spesso insieme. L’aveva invitato più volte ad andare da lui, a viaggiare
in moto fino all’alba o semplicemente ad accettare la sua presenza al suo
fianco in silenzio nei pressi del cimitero. Sapeva quanto fosse forte,
nonostante tutto il dolore ancora visibile era riuscito ad andare avanti e
costruirsi un futuro. Lo ammirava, ma allo stesso tempo non poteva far a meno
di ricadere recidivamente in quei comportamenti da mamma apprensiva
irritante così etichettati da Draken.
Evidentemente era stato
scoperto prima del previsto, il suo amico aveva solo atteso il momento propizio
per sbatterglielo letteralmente in faccia.
«Mi dispiace, non volevo
procurarti ulteriore dolore»
«Come se non lo sapessi»
Draken aveva sbuffato
poggiandosi al parapetto della carreggiata stradale, le braccia incrociate
sulla tuta sporca d’olio di motore e un ghigno ironico presto impresso sulla
faccia. Era stato perdonato velocemente.
«Lo dicevo io che la vita
da delinquente non ti apparteneva» l’insinuazione derisoria avrebbe dovuto
infastidirlo ma nemmeno il più piccolo pizzico di insofferenza trovò via
d’uscita «Sei fottutamente buono…se non esistessi dovrebbero crearti»
«Perché anche un
complimento detto da te somiglia a un insulto?»
«Sei un cazzo di cuore di
burro»
Alle occhiate oblique dei
passanti aveva sospirato sollevando le buste della spesa, accennando in
direzione di casa sua per non cambiare nuovamente supermercato a causa del suo
amico. La lista di ingiurie fasulle dette per il solo gusto di infastidirlo si
era attenuata quando l’aveva abbandonato diversi passi indietro. Draken
ovviamente non si era scomposto scoppiando a ridere di gusto. In poche falcate
aveva recuperato la distanza perduta strappandogli di mano uno dei sacchetti
per passargli amichevolmente un braccio attorno al collo.
«Mitsuya, apprezzo
davvero i tuoi sforzi ma non serve, continuo a pensare ad Emma ogni singolo
giorno anche senza te e i tuoi problemi di cuore» l’equilibrio faticosamente
trattenuto e lo strattone alle spalle lo costrinsero ad arrestare il cammino in
mezzo al marciapiede «Quindi, sputa il rospo e ammettilo ad alta voce»
«Sì, mi piace...»
«Chi?»
Draken l’aveva scosso
leggermente chinandosi in avanti pur di guardarlo in faccia, esortandolo a dire
quelle sillabe che proprio non volevano saperne di uscire dalla bocca. Era
stato già tremendamente difficile ammettere finalmente a qualcuno diverso dallo
specchio del bagno quell’interesse, visto e considerato che il suo riflesso
ancora attendeva un cenno affermativo del capo mai arrivato. Giungere a
confessare apertamente il suo nome era stato un atto esponenzialmente più
complicato, aveva reso definitivo quel sentimento.
«Yuzuha» infine l’aveva
sussurrato a labbra tremanti nel caos cittadino, a stento udito tra lo
sfrecciare delle auto e il chiacchiericcio della gente passatagli accanto, un
nome come altri per quegli estranei, un’associazione capace di cospargere di
porpora le guance per lui «Ma non ho speranze, a lei interessa qualcun altro,
almeno così mi ha detto Hakkai una volta»
Il burbero colpetto sul
petto l’aveva spinto a guardare gli occhi scuri del suo interlocutore
nonostante l’imbarazzo, non gli piaceva essere compatito e per sua stessa considerazione
il suo tono era sembrato troppo arrendevole. Draken però schioccata la lingua
non aveva detto nulla, l’aveva semplicemente esortato a camminare riprendendo
parola solo in sella alla sua moto condivisa per quel giorno.
«Per esperienza, non
lasciare nulla d'intentato...potresti pentirtene quando non ne avrai più
l'occasione» il casco e il vento non avevano impedito al resto della frase
mormorata al suo orecchio di generare emozioni contrastanti nel tragitto verso
casa «Il tempo non ti è amico»
Takashi quell’allusione
l’aveva recepita perfettamente, quella conversazione era stata difficile per
entrambi. I rimpianti celati nel cuore di Draken poteva soltanto immaginarli,
desiderando non provarli tanto presto. Perdere qualcuno di così importante, in
così giovane età, era un dolore con cui non voleva fare i conti tanto presto.
Il tre agosto di due anni prima al sol pensiero di trovare Draken in obitorio e
non in sala operatoria era impazzito, la rabbia esplosa nel suo corpo l’aveva
portato a prendere a pugni il muro per l’impotenza.
Immaginare di perdere lui, qualcuno della sua famiglia o la stessa Yuzuha gli
faceva paura.
Da una parte poteva soltanto ringraziare lo scioglimento della banda per aver
allontanato la maggior parte dei suoi amici da possibili guai e pericoli,
diminuendo le possibilità di vedere qualcuno di loro attorniato da fiori e
incenso come ultima volta.
Baji ed
Emma erano stati più che sufficienti, non ne avrebbe retto un’altra.
«Taka? Posso tornare?»
Takashi sospirò
dolorosamente scompigliandosi i capelli all’esplosione della bolla malinconica
nella quale si era rintanato. Yuzuha aveva terminato di cambiarsi mentre lui
era rimasto ad osservare il nulla. Esortato a muoversi velocemente dai passi
ovattati, sostituì la divisa scolastica con i due pezzi della tuta finendo di
tirar su i pantaloni contemporaneamente allo scostamento della tenda.
Il buffo tentativo minaccioso
di Yuzuha non gli impedì il solco di un sorriso. La maglia oversize lunga sino
alle ginocchia e arrotolata sui polsi vinceva a mani basse contro l’indice
intimidatorio puntato verso di lui nel tentativo di imporgli di non ridere.
Yuzuha gli appariva
incredibilmente bella anche conciata in quel modo.
I capelli disordinati
appiattiti dalle dita e il broncio torvo gli facevano soltanto venir voglia di correre
verso di lei, abbracciarla e non lasciarla più andare.
«Direi che possiamo
andare a dormire»
Il buio suo alleato gli
aveva impedito quella pazzia nonostante il presupposto di averla distesa
accanto. Ignorando ogni pensiero logico l’aveva invitata ad accomodarsi sul
futon spegnendo finalmente il televisore per lasciare il predominio
all’oscurità della notte. Le imposte parzialmente chiuse rischiarate da radi
lampi esterni conferivano il minimo indispensabile fascio di luce utile a
identificare le forme della stanza e null’altro.
Nessun particolare,
nessun volto, nulla da contemplare inebetito fino al mattino. Almeno finché gli
occhi non si fossero abituati al buio. In quel caso la tiepida speranza era di
essere già stato abbracciato da Morfeo e portato in una terra lontana prima di
perdere la testa.
«Smettila di ridere sotto
i baffi o giuro che te la faccio pagare»
«Ti assicuro che non lo
sto facendo»
«Bugiardo, ti vedo»
«Ma se siamo al buio»
Takashi mossosi a tentoni
tra i borbotti sommessi incassò suo malgrado un pugno alla spalla una volta
inginocchiato sulla coperta, colpo più che meritato considerando la sottile
risatina che non era riuscito ad arrestare del tutto. Non soddisfatta del poco
dolore inferto Yuzuha aveva azzardato anche uno schiaffo che la fortuna dalla
sua parte aveva fatto giungere in piena faccia una volta sdraiato al suo
fianco.
«Va bene, mi arrendo! Lo
ammetto, stavo ridendo»
«Non credevo bastasse
così poco per vincere… tsk, sei il solito
gentiluomo che lascia vincere le donne. Irritante»
Yuzuha l’aveva borbottato
accanto a lui, così vicina nel buio da preferire una sconfitta fulminea al
rischio di toccarla accidentalmente in posti sbagliati durante un’amichevole
lotta. La sua mano voleva esplorare le curve di quel corpo, infilarsi sotto la
maglia data in prestito e accarezzarle la pelle. Una fantasia piuttosto ardita
che della correttezza e l’atteggiamento nobiliare appena associato a lui non
aveva nulla.
«Forse sì, forse no…chi
lo sa»
Rannicchiata nel suo
angolo Yuzuha si era voltata dando le spalle all’altra presenza sotto le
coperte. Parlare di cose inutili e punzecchiarlo come al solito erano sembrati
i pretesti giusti per mantenere una parvenza di normalità in quella situazione,
ma con Takashi così arrendevole non erano durati a lungo. Il sonno l’aveva
abbandonata da un pezzo, non sarebbe riuscita a dormire facilmente con la
tachicardia in corpo e gli abiti di Takashi stretti addosso. Era come averlo a
fianco – non che materialmente non fosse così – ma congiunto a lei pelle contro
pelle, senza alcuno spazio frapposto tra loro dalle coperte.
Incasinata com’era non aveva fatto caso a quanto facesse freddo nella camera
quando si era cambiata, le temperature invernali e le pareti sottili non
trattenevano adeguatamente il calore. La coperta tesa fra di loro ai due capi
opposti dello stretto letto facilitava l’infiltrazione degli spifferi gelidi
procurandole brividi nonostante internamente andasse a fuoco. La stufetta rotta
era stato sicuramente il problema di quel gelo a cui non era per nulla abituata
ma tediare ulteriormente il padrone di casa facendo presente il bisogno di quell’ulteriore
coperta era fuori discussione.
Takashi così silenzioso
poteva essersi già addormentato.
«Etcì!»
«Hai freddo?»
Yuzuha si morse le labbra
insultando il suo stesso organismo poco resistente. Mentire non l’avrebbe
giovata in ogni caso, Takashi avrebbe capito la sua bugia continuando a
indagare.
«Un po’…ma non
preoccuparti»
Il fruscio segnalò lo spostamento
di coperte alle sue spalle spingendo il suo orgoglio a reagire, Takashi era
dannatamente prevedibile quando si trattava di preoccuparsi per il prossimo. Il
richiamo duro di farsi gli affari suoi almeno per una volta restò sospeso sulla
punta della lingua alla soluzione inaspettata adottata. Il braccio pallido era scivolato
sul suo fianco stringendosi attorno alla pancia, impedendole di completare la
rotazione e voltarsi e far valere il suo punto di vista. Takashi l’aveva
poggiato leggermente, con cautela, cingendola soltanto quando era stato certo
di non essere scacciato con un manrovescio o una gomitata d’autodifesa. La
sicurezza si era fatta largo nel semplice gesto, l’azzardo insicuro era stato
convertito in una solida stretta che l’aveva spinta all’indietro. L’aveva
attirata verso di sé in mancanza di una resistenza, racchiudendo le sue mani
gelide sotto la propria dotata di riscaldamento autonomo. Il calore sprigionato
dalla presa e attraverso il contatto tra i loro corpi era stato più che
sufficiente a farle dimenticare le basse temperature. I respiri leggeri le
avevano stuzzicato il collo scatenando brividi lungo la spina dorsale, spingendo
lei stessa ad accoccolarsi il più possibile tra le braccia accoglienti. Fino a
ritrovarsi ad usare come cuscino l’incavo dell’altro braccio fatto passare
sotto la testa.
Takashi era un
termosifone nonostante la maglietta a maniche corte. Il perché le due sorelline
finissero sempre accanto a lui in special modo in inverno non era più mistero.
«Va meglio?»
Yuzuha avrebbe voluto
restare così in eterno.
«Sì»
Takashi abbassò le
palpebre affondando il viso nei capelli sottostanti, ringraziando di non poter
essere guardato in faccia. Non era riuscito a fermarsi, l’aveva abbracciata
assecondando l’istinto rendendosene conto troppo tardi. Yuzuha si era
avvicinata così tanto da non distinguere più il buon senso dai piaceri
personali. La luce accesa o spenta avrebbe fatto poca differenza per i suoi
ormoni ballerini.
«Non avevi una storia da
raccontare?»
«Mh»
La storia dell’incontro
con Draken, quella del tatuaggio tanto speciale e significativo. Takashi non la
ricordava più. I ricordi non collaboravano, tutti schierati verso i momenti
trascorsi con Yuzuha; dal più innocente giorno scolastico al pomeriggio passato
al mare con lei e le sorelline, dalla torta preparata insieme per il compleanno
di Hakkai ai fuochi d’artificio ammirati da soli sotto le stelle, dalla spesa effettuata
nello stesso supermercato al vestito per una festa realizzato esclusivamente
per lei.
Tutti con un unico comune denominatore: il contatto con lei.
Il foglio contemporaneamente preso dal banco, la scivolosa crema solare tra le
dita strofinate sulla schiena pallida, gli schizzi di panna leccati via dalla guancia
in segno di sfida dopo il disastro in cucina, la mano intrecciata alla sua per
allontanare un corteggiatore indesiderato al festival, lo stesso ombrello
condiviso sotto la pioggia stracolmi di buste, il metro sartoriale fatto
scorrere sul corpo, attorno alla vita, lungo i fianchi, intorno al seno. Ottantatré,
settanta, ottantasette.
Numeri marchiati nel cervello, incapaci di essere dimenticati.
Yuzuha aveva elogiato il
suo vestito più del dovuto con complimenti immeritati ma senz’altro apprezzati,
ignara dello schizzo recante un completino intimo osé in perfetto pendant con
l’abito indossato alla festa dove era stata invitata da una sua amica. Il
disegno aveva preso vita spinto dalla fantasia galoppante alla fine delle
attività del club scolastico, con una modella stilizzata superflua fin troppo
simile a lei anche per un estraneo. Hakkai aveva fatto irruzione nell’aula
insieme a Draken – frequentatore abituale di una scuola non sua – e per poco
non aveva dovuto mangiare la carta e fuggire dalla finestra per evitare che i
due impiccioni continuassero a insistere di dover vedere come se lo cavava il
loro stilista in erba.
Il punto debole
dell’essere appassionato di sartoria in piena crisi ormonale era immaginare
troppo facilmente quante cose una persona potesse o meno indossare. Il disegno
degli slip e del reggiseno poco casto era stato un suo capriccio, una fantasia
che non aveva voluto condividere con nessuno di loro. Dire ad Hakkai di aver
progettato ricami e pizzo velato immaginandoli addosso a sua sorella, a letto
con lui, probabilmente pronta a farseli sfilare era stato fuori discussione.
Aveva fatto sparire velocemente lo schizzo dalla loro vista innescando un tira
e molla vinto per pura fortuna tra i due giganti in quella lotta totalmente
impari. Draken prevedibilmente aveva conquistato la vetta ma altrettanto inaspettatamente
era stato il primo ad arrendersi e dichiarare una resa che Hakkai non aveva
potuto fare altro che assecondare. Non provando nemmeno a gettare l’occhio sul
bottino conquistato gliel’aveva restituito squadrandolo con un ghigno divertito
allora non compreso, qualcosa nel suo atto disperato di volerlo tenere segreto
l’aveva convinto. Soltanto dopo il pomeriggio in cui aveva messo a nudo il proprio
cuore con lui l’aveva capito, non era stata una semplice tregua. Draken aveva
già intuito che qualcosa non andava, prima ancora che lui facesse i conti con i
suoi sentimenti e le sue fantasie per quella perversione a lungo considerata
sbagliata verso di lei.
Il completino sexy alla
fine l’aveva realizzato dopo aver sfogliato diverse riviste di moda fai da te,
cucito e accuratamente confezionato, segregato dietro strati di vestiti e
scatole nell’armadio. Lontano da occhi indiscreti e dalla mancanza di un legame
e la giusta dose di coraggio per regalarlo.
«Taka?»
«Sì…oh, allora, tutto è
cominciato l’unica sera che ho deciso di scappare di casa»
Il pilota automatico
l’avevano tutti, persino le persone. L’iniziale titubanza Takashi l’abbandonò
senza farci caso, elargendo dettagli e momenti di quella serata lontana senza
porci attenzione. Distante dalla realtà e dal ricordo, fisso con la mente sulla
ragazza accanto a lui, sul suo profumo, sul concerto di battiti esploso tra le
scapole.
«Non ci credo…hai
scambiato un’opera d’arte per del cibo»
Yuzuha era scoppiata a
ridere presto raggomitolata contro di lui.
Il volto nascosto sul suo braccio intorpidito, baciato dalle labbra premute
sulla pelle scoperta per soffocare le risate altresì rumorose. Il corpo scosso
da tremori ripercossi sui suoi tendini in tensione, sul desiderio di ricevere
tra quelle carezze labiali involontarie piccoli morsi da ricambiare sul collo
longilineo messo in mostra dalla manica scivolata via.
La maglia fuori misura
era stata una cattivissima scelta.
Il suo discorso aveva
perso il filo all’ammissione di essersi tatuato il drago stilizzato. Incapace
di crederci Yuzuha aveva compiuto l’errore peggiore di tutti voltandosi a
guardarlo. Il buio aveva rotto la loro alleanza, gli occhi abituati
all’oscurità ed aiutati dallo schermo del cellulare sul pavimento illuminatosi
per una notifica l’avevano tradito.
«Non continui?»
Il disagio al basso
ventre l’aveva invogliato a distanziare il bacino quel tanto per non far capire
la natura dei suoi pensieri, salvando quel poco di dignità rimasta. Le guance
arrossate da contorno al sorriso entusiasta e lo scintillio di pura felicità
intravisto negli occhi bronzati per un singolo istante erano stati sufficienti
a mandare tutto in blackout.
«Taka?»
Il display ritornò inerte
contrariamente all’organo tra le sue gambe.
Era una questione di poco sforzo, sarebbe bastato uno spostamento in avanti per
accorciare la distanza tra le loro labbra e scoprirne il sapore. Il buio non
aveva mai avuto importanza, conosceva l’esatta posizione verso cui andare,
anche chiudendo le palpebre il desiderio non si sarebbe assopito.
Cinque centimetri.
«Ti sei imbambolato?»
I suoi pensieri erano
maledettamente folli.
La mano adagiata sulla
curva del fianco tremò per restare al suo posto e non discendere verso le
rotondità del fondoschiena. Il battito di ciglia perplesso lo attirò più
vicino, il respiro irregolare trattenuto bruciò nella casa toracica.
Quattro centimetri.
«No…»
«Oh…c’è qualcosa che non
va?»
Molte erano le cose fuori
posto, a cominciare dalla compagnia nello stesso letto in attesa dell’alba fin
troppo lontana. La piega pensierosa aveva increspato le sopracciglia castane
mentre la perplessità le aveva arricciato le labbra, un quadro grazioso,
tenero, buffo.
Attraente al punto da voler dissipare i suoi dubbi in un unico modo.
Tre centimetri.
«Yuzuha…»
«Sì?»
La distanza raddoppiò non
per buon senso ma per rispetto.
Il suo corpo era stato
chiaro, non sarebbe riuscito a vedere il sorgere del sole senza fare qualche
sciocchezza ed evitarla non era più possibile. Poteva solo limitare i danni
senza annientare la fiducia indiscussa riposta in lui. Baciarla senza
autorizzazione non rientrava tra le opzioni contemplabili a mantenere un legame
anche se dopo anni ad occuparsi degli altri, delle sorelline, degli amici, di
ogni persona che chiedesse il suo aiuto avrebbe voluto soltanto essere egoista.
Pensare ai propri
desideri senza rimorsi di coscienza e senza rimpianti.
Egoista.
«Takash-»
«Promettimi che non
scapperai nel cuore della notte, che resterai qui con me anche se in stanze
diverse» uno, due, tre…dieci, venti, quaranta battiti si susseguirono
freneticamente nella pausa ansiogena di quel sussurro sviscerato intoppando tra
le parole «Promettimi solo questo»
Yuzuha sussultò mentre
scostava la frangia, la mano sollevata sul volto era rimasta catturata da
quella di Takashi scappata dal fianco durante la frase improvvisa. Palmo a
palmo, dita intrecciate serrate con forza sul dorso pressato quel tanto da far
male senza lasciare il segno.
«Di costa stai parlando?
Perché dovrei scappare?»
L’ansia aveva aperto una
voragine nel suo stomaco, un buco nero fatto di emozioni contrastanti. Yuzuha
si sentiva soffocare dalle idilliache speranze immotivate in guerra aperta con
la paura di aver accidentalmente reso fin troppo chiari i suoi sentimenti.
«Promettimelo…per favore»
Impreparata per quel
rifiuto diretto prossimo ad arrivare secondo le sue supposizioni, aveva provato
ad allontanarsi senza riuscirci. Takashi aveva accentuato la prese guardandola
negli occhi con un’espressione quasi impaurita, supplicandola silenziosamente
oltre che con le parole.
«Promesso»
Non era stata colpa sua, lui
non doveva rattristarsi per quello che stava per dire.
Era stata lei ad innamorarsi della persona sbagliata, quella così dolce da
preoccuparsi perfino di farla restare male con un rifiuto. Enfatizzando ancora
una volta nei suoi pensieri quanto lo ritenesse speciale per tutti quei piccoli
accorgimenti.
«Io…io…»
Takashi non aveva
continuato.
La bocca dischiusa non
aveva emesso altri suoni, lo sguardo distolto era stato diretto al lenzuolo tra
morsi agitati alle labbra. Il sospiro frustrato era sgorgato feroce quanto lo
stritolamento alla mano, il volto era stato celato dall’altra tirata via da
sotto il suo busto.
«Cavolo… » il pollice e
l’indice stretti sul ponte del naso non avevano placato la tensione spingendo
il risolino isterico a riempire il silenzio «Quanto sono negato per queste cose»
Yuzuha deglutì stando
bene attenta a non lasciar trasparire la tristezza scivolata in ogni singolo
arto. Le mancava già stargli accanto, parlargli ogni giorno, scherzarci, sfiorarlo,
accarezzarlo; ammirarlo concentrato sui suoi schizzi con la matita rotolata tra
le dita, uno sbuffo scioccato alle interruzioni di Hakkai e un sorriso gentile
sempre riservato per lei.
Essere la prima a vedere le sue invenzioni, consigliarlo, indossare per prima quegli
iniziali tentativi fantasiosi che l’avrebbero sicuramente portato a coronare il
suo sogno di designer.
«Takashi non è
necessario…»
La frase non trovò
conclusione, bloccata dal nodo alla gola.
Sentiva le lacrime pungere agli angoli degli occhi prontamente ricacciate
indietro per non rendere il tutto ancora più complicato. Era stato sciocco
pensare di poter andare nella medesima direzione sentimentale. Lui avrebbe
potuto avere chiunque al suo fianco, lei sarebbe rimasta per sempre soltanto la
sorellina del suo più accanito e alquanto ambiguo sostenitore. La felicità non
si raggiungeva così facilmente, gliel’aveva detto.
«…non fa nulla, davvero»
Takashi spostò il braccio
e il volto tornò visibile insieme alla persistente stanchezza delle palpebre
cadenti, insolitamente accentuata sulla carne pallida. I contorni delle borse
sotto gli occhi scavavano rudi i lineamenti troppo delicati per appartenere ad
un uomo, profanavano quella bellezza sfiorita dalle notti negligenti passate
sveglio a studiare o concludere mansioni domestiche rimaste incomplete anziché
riposare. Lambiti fugacemente con poco tatto dal fascio di luce esterno. Il
lampo li aveva enfatizzati, i solchi avevano gettato ombre scure attorno ai tormentati
occhi inchiodati su di lei. Un misto di lilla e argenteo, insoliti e dai confini
mescolati al bianco della sclera in cui lei si era totalmente smarrita.
L’accennato sorrisetto
agrodolce lo intravide appena persa com’era nella sua contemplazione alla
deriva. Apparentemente sghembo per chi non lo conosceva ma colmo di rammarico
per chi, come lei, aveva imparato a cogliere tutte le sfumature. Esageratamente
affranto, fin troppo vicino all’essere lui la parte lesa piuttosto che il detentore
del coltello dalla parte del manico.
Non stava per infrangere
i suoi sogni?
«Yuzuha, perdonami»
I filiformi capelli
argentei le accarezzarono la fronte scossi da un vento inesistente all’inusuale
e alquanto disperata richiesta di assoluzione. Takashi le aveva lasciato la
mano come l’uccellino svolazzante nei cartoni animati abbandona il proprio nido
diretto al cofano dell’auto in bilico sul ciglio di dirupo. Il battito d’ali incerto,
il peso piuma improvviso a malapena adagiato sulla carrozzeria.
La morbidezza premuta
contro le sue labbra non le aveva lasciato scampo.
Takashi l’aveva baciata
senza il giusto preavviso, leggero e fatale come l’auto precipitata nel vuoto
al peso di troppo. Un contatto soffice, umido, dalla lunghezza indeterminata. Il
primo ed unico ottenuto nella sua vita. Le riviste femminili e i racconti delle
sue compagne con le loro frasi fatte non erano state sufficientemente paragonabili
alla scarica di emozioni detonata nell’addome insieme al rombo minaccioso del
tuono. La bocca scottava contro la sua fredda, assuefaceva la razionalità
spingendola ad assecondarne il movimento per impedirne la sospensione. Lo
spaesamento era stato sostituito dall’esitante ricambio. Un movimento della
bocca appena accennato, il labbro inferiore catturato tra le proprie, la lingua
scivolata sullo strato di carne morbida in cui i denti affondarono debolmente.
La microscopica
interruzione di Takashi a stento registrata tra lo scambio d’effusioni
divampato in un gioco di carezze passionali e scambi di lingua.
La mano era risalita
sulla sua guancia facendosi largo tra i capelli, insinuandosi sulla nuca,
spingendo i loro visi sempre più vicini. Le sue braccia erano scattate attorno
al collo schiacciandosi contro di lui, attorcigliandosi tra i capelli gettati
alla rinfusa sulle coperte divenute un campo di battaglia. I ripensamenti avevano
cessato di esistere, soppressi dalla forza calamitica sostituitasi alla muraglia
meticolosamente eretta da entrambi, in piedi fino a pochi secondi prima. Irrefrenabile
e irrazionale, incapace di arginare le carezze lascive cosparse sui loro corpi
e i baci sempre più appassionati privi di ritegno che la ragione ormai
addormentata era ben lontana dallo spiegare.
Yuzuha lasciò scivolare
il braccio sotto di lei mugugnando soffocata alla punta dei polpastrelli
strofinati alla base della schiena. Avvinghiata a lui e al rigonfiamento irrigidito
dei pantaloni sfregato contro la pancia, impazienti di non perdere alcun
secondo a disposizione senza conoscersi fisicamente l’un l’altro. Viandanti
esploratori nella stessa inesperienza tra le coperte aggrovigliate e baci
bagnati sempre più passionali.
Placati soltanto dal clic
della riserva d’ossigeno esaurita.
Imbarazzati e affannati
dalla stessa audacia messa in mostra alla lenta ripresa d’afflusso ai polmoni,
sopresi dalla frenesia che li aveva travolti portando l’una cavalcioni
sull’altro, intimità a contatto. L’inguine di Yuzuha pulsava contro la stoffa
dei pantaloni scivolati oltre la molla dei boxer, svelata nei movimenti
frenetici come la propria pancia parzialmente scoperta. La mano di Takashi le
aveva afferrato la natica sinistra crogiolandosi con l’altra sotto la maglia,
arruffato e sconvolto quanto lei dalla piega degli eventi. Entrambi immobili,
indecisi sulla giusta reazione o le corrette parole da elargire per quel confuso
scoppio erotico ambivalente.
«Takashi…» il sussurro
tra i sospiri ansanti acquisì una nota lamentosa al palmo ancora premuto contro
il seno, artefice involontario dell’attrito scaturito all’alzamento e abbassamento
del petto «Ho bisogno di sapere questo cosa significa»
Takashi umettò il labbro
gonfio e insolitamente asciutto inspirando a fatica con un tremolio al
sopracciglio e l’ombra sfuggente di un ghigno incerto, quasi a voler
sottolineare con la sola mimica facciale l’ovvietà di quella risposta altresì complicata.
Parzialmente rincuorato negli iniziali timori da quell’implicito consenso non
verbale.
«Pensavo che il mio atto
volgare fosse stato abbastanza esplicativo… ma comprendo la tua perplessità»
bisbigliò con il cuore palpitante in gola, gli occhi strizzati alla cascata di
capelli castani penzolati ai lati della faccia in quel momento intrappolata
dalle braccia poste a sostegno sul futon per non finirgli addosso «Devo esserti
sembrato una qualche sorta di maniaco sessuale, incapace di parlare ma quasi
perfettamente in grado di svestirti senza permesso…ti chiedo scusa»
«Ti stai scusando di
nuovo…perché cavolo continui a farlo?»
Yuzuha la pose come
un’accusa poco velata, le mani erano state allontanate reticenti da lei per
essere riposte in grembo. Takashi nemmeno per un istante aveva distolto lo
sguardo, fissandola silenzioso con quell’intensità capace di farle
attorcigliare le viscere.
Recluso nella consueta gabbia di riflessione spesso innescata dall’elaborazione
di constatazioni particolarmente difficili da spiegare.
«I tuoi ormoni si sono
improvvisamente svegliati rendendosi conto che sono una donna e non più una sorellina?»
da sola si soprese per l’ironia e la casualità inserite sul finire della
domanda priva di vergogna ormai superflua se paragonata all’indecente posizione
in cui ancora giacevano «Mi hai chiesto di perdonarti perché stavi per usarmi soltanto
per i tuoi personali piaceri senza pensare ai miei sentimenti? Per della mera
attrazione fisica? Per cosa Takashi…dimmelo»
«Non oserei mai trattarti
egoisticamente come un oggetto»
Takashi l’aveva ribadito
veemente, con quella stessa pacata e intransigente determinazione mostrata nel
faccia a faccia con Taiju senza nemmeno pensarci. Il suo solito sé, il ragazzo
pieno di valori e principi per cui aveva perso la testa.
«Lo so benissimo, solo
non capisco tale cambio d’approccio. Per me sei una sottospecie di angelo, non
ti rendi nemmeno conto di quanto sei speciale con la tua gentilezza e la tua
dolcezza, sei una rarità Takashi…una di cui io non riesco più a fare a meno
nella mia vita» il volto arrossato quanto il suo sotto di lei si era cosparso
di sorpresa, tra i sospiri rumorosi gli occhi chiari dilatati all’inverosimile
l’avevano osservata costernati «Mi rifiuto categoricamente di crederti una
persona talmente meschina da potermi sfruttare solo a scopi sessuali. Per
questo ti chiedo, cosa ti ha spinto?...Non voglio farmi un’idea sbagliata, non adesso,
non con te»
«Sei bellissima»
Yuzuha quasi si strozzò
con la sua stessa saliva all’improvviso complimento detto con tutta la
sincerità di cui Takashi era in possesso. Tranquillo e pacato, come se gli
avesse semplicemente parlato delle previsioni meteo previste per l’indomani
mentre lei faticava a creare profonde frasi dal senso compiuto.
«Eh?! Taka-»
«Mi sono innamorato di
te»
Una dichiarazione
semplice, senza fronzoli, detta con estrema naturalezza da chi fino a un minuto
prima aveva sostenuto la sua incapacità di dialogo. Yuzuha non avrebbe mai
capito quell’insicurezza per nulla veritiera celata nell’essere perfetto che afferratagli
delicatamente l’estremità della maglia l’aveva lentamente tirata in basso vero
di sé. La bocca nuovamente premuta sulla sua in un bacio stracolmo di dolcezza,
soffice e angelico quanto le carezze trascinate sulle guance bollenti raccolte
tra le mani. Il desiderio prorompente sostituito dalla placida armonia di labbra
rincorsesi pigramente per abbracciarsi, ritrovarsi, godersi il momento e non
lasciarsi più andare. La bolla di coccole in cui esistevano solo loro senza
alcun secondo fine, sdraiati l’uno sull’altro con nessuna intenzione di
spostarsi di un millimetro. Beati nel calore sviscerato dai loro corpi, cuore a
cuore nell’abbraccio soffocante sotto le coperte. Takashi, eterno sdolcinato,
trasmetteva tutto il suo amore anche in quello. Un bacio all’angolo della
bocca, uno alla guancia, uno alla base del mento susseguito dalla piccola scia
alternata a sospiri posata lungo l’incavo del collo.
La trattava come il più fragile dei tesori, in modo totalmente opposto all’irruente
versione di sé messa in luce attimi prima. Il lato angelico smielato che
prendeva il sopravvento sugli impulsi lussuriosi rendendolo ancora più
attraente, accentuando quella fiamma di felicità accesasi insperatamente su una
candela spenta e tediata da tempo dalle intemperie.
«Fratellone?»
Takashi imprecò a fior di
labbra sussultando al richiamo infantile assonnato, gli occhi socchiusi
riflessi in quelli oro colato allarmati dinanzi ai suoi. Yuzuha rotolata immediatamente
da parte sistemò alla meglio i capelli ingarbugliati mentre scostava la coperta
per osservare la figurina della bambina arrancata sul suo futon.
«Cosa c’è Mana? Un brutto
sogno?»
Mana, la testolina
inclinata nel buio si era fermata a metà esplorazione sbattendo le ciglia oltre
alle manine sulle lenzuola, confusa dalla presenza della ragazza ancora a casa
loro. Annuendo incerta dopo qualche istante alla domanda preoccupata del
fratello che si era seduto sciogliendo quello che chiaramente per lei era un
abbraccio molto affettuoso.
«Yuzuha-chan sei rimasta a farci compagnia?»
«Uh…sì, era ormai tardi»
Yuzuha sorrise riluttante
balzando seduta a sua volta, con la migliore espressione di isterica
tranquillità rifilabile in quelle circostanze. Aggiustandosi freneticamente la maglia
spiegazzata e qualunque altra parte dei suoi indumenti fuori posto prima che la
curiosità della bambina sfociasse in domande sbagliate.
«Oh…Fratellone
però potevi dormire sul divano e non rubarle il letto»
Se lei voleva trovare una
zolla di terra dove andare a scavare una fossa in cui sotterrarsi per il resto
dei suoi giorni, Takashi era pronto per tenere un discorso alla Nazione. Posato,
parlava alla bambina con un autocontrollo da far invidia al presidente mentre sotto
le coperte rialzava i pantaloni precedentemente calati.
«Senti, senti chi parla…tu
non stavi cercando di fare lo stesso?»
Mana imbronciata aveva
richiuso la bocca alla risatina divertita del fratello, schiaffeggiando
scontenta le braccia protese ironicamente verso di lei finché Takashi
sghignazzante non l’aveva catturata di peso trascinandola in grembo. La piccola
peste stretta tra le braccia si era sistemata meglio per nulla intenzionata a tornarsene
a nanna molto presto, piuttosto decisa invece a rifilare per quella ripicca blande
offese al fratello intento a prometterle i migliori dorayaki del mondo.
Lontana da quello che era
il discorso principale, almeno così aveva sperato Yuzuha.
«Cosa ci faceva Yuzuha-chan sopra di te?»
Per soddisfazione
personale, Yuzuha ebbe la grazia di poter ammirare un barlume di incertezza
comparire sul volto di Takashi senza essere la sola completamente a disagio. Il
suo amico, fidanzato o qualunque altra cosa fosse data la mancanza di tempo per
discuterne aveva cominciato a grattarsi la guancia con il sorriso più tirato
mai visto sulla sua faccia.
«Ci stavamo riscaldando»
fortunatamente per lei la bambina era stata troppo concentrata a guardare lui per
notare la sua occhiata scettica ampiamente vista dal diretto interessato che
faticò a restare serio «Yuzuha aveva freddo, voleva compagnia come spesso fai
tu»
La scusa sembrò
convincere la bambina che scossa la testolina convinta si era alzata per catapultarsi
di peso l’istante successivo addosso al fratello, per farlo tornare disteso con
lei sotto le coperte nella posizione che aveva visto prima.
«Voglio farlo anche io!»
il gridolino soffocato da Takashi che le intimava di fare silenzio e abbassare
la voce non servì a farle smettere di pensare a Yuzuha quanto tutta quella situazione
avesse assunto una piega altamente fraintendibile «Yuzuha-chan
vieni anche tu, non preoccuparti!»
«Tranquilla piccola, io
sto bene ora» bisbigliò dando foto tutta alla sua serietà per continuare la
frase senza sorridere stupidamente o ridere sfacciatamente «Mi sposto nel tuo
letto così voi potete…sì, riscaldarvi come fanno tutte le persone normali»
«Ma no, resta qui anche
tu sei hai freddo!»
«Mana, il letto sarebbe
ancora mio…»
«Vieni! Entriamo anche in
tre!»
Yuzuha afferrata per la
manica si ritrovò ad assecondare la richiesta infilandosi con un sospiro accanto
a loro, limitandosi – una volta assunti tutti una posizione consona – a poter
soltanto comunicare tramite sguardo con Takashi. Mana si era letteralmente
intrufolata nel mezzo, accoccolata il più vicina possibile al fratello che dondolando
leggermente tentava di farla addormentare il più in fretta possibile
provocandole una discreta dose d’invidia.
Takashi aveva continuato a ondeggiare senza sforzo, arcuando le labbra in un
dolce sorriso rivolto esclusivamente per lei quando si era conto di essere
osservato. Il braccio disteso oltre il terzo incomodo per arrivare alla sua
pancia e intrecciare le dita con lei sotto le coperte. Intenzionato a dormire
così per tutte le ore di sonno rimanenti, non prima di aver sussurrato con fare
cospiratorio all’orecchio della bambina semiaddormentata.
«Mana…questo modo di “riscaldarsi” non
dirlo a Luna, né tantomeno alla mamma»
Yuzuha aveva premuto le
unghie nella carne, indecisa se ridere o piangere per le figuracce che di lì a
poco si sarebbe ritrovata ad affrontare con la signora Mitsuya. La bambina
aveva annuito nel dormiveglia, addormentatasi velocemente, probabilmente
nemmeno capendo cosa le era stato chiesto. Takashi accortosene aveva sbuffato sconsolato
riserbandole un mesto sorriso di rammarico, conscio quanto lei che le peggiori
domande sarebbero toccate a lui.
«Mi dispiace per te»
Takashi aveva scrollato
la testa al sussurro ironico, sfoggiando un sorrisetto accattivamene che le
aveva fatto desiderare di essere nuovamente soli. L’intreccio di mani
allontanato dal corpicino addormentato era stato avvicinato alla bocca per
adagiarvi un casto bacio in mancanza di ulteriore libertà d’azione, mantenendolo
a sé incurante di poter essere scoperto.
Takashi non l’avrebbe
lasciata sola, l’aveva promesso.
«Buonanotte Yuzuha»
«Buonanotte Takashi»
Prima che potessero pensare
di distanziarsi il sonno prese il sopravvento trascinandoli in un’altra realtà.
Le mani restarono bloccate al petto, all’altezza del cuore di Takashi.
**
SCENA BONUS **
«Ti ho detto che mi
dispiace!»
Yuzuha sbatté irritata
l’anta dell’armadietto cambiandosi le scarpe nell’atrio della scuola,
intenzionata a considerare il discorso unilaterale con suo fratello completamente
chiuso. Takashi se l’era svignata velocemente ad inizio battibecco, catturato e
trascinato via dallo stuolo di ragazzine del club di economia domestica di cui
avrebbero dovuto parlare in seguito. Tutte quelle presenze femminili intorno a
lui cominciavano a infastidirla.
«Mi hai fatto
preoccupare! Ti ho anche chiamato e inviato più messaggi! Tu e Taka-chan potevate almeno avvisarmi con un misero
testo che avresti dormito lì… » alla voce melodrammatica pensò fugacemente che
sì, Takashi la responsabilità di suggerirle di avvisare il fratello l’aveva avuta,
ma lei era stata lei troppo impegnata a immaginare lui in altri contesti per
portarla a termine «Avevo deciso di chiamare persino la polizia se non ti fossi
presentata a scuola!»
«Per l’amor del cielo, mi
sono scusata dieci volte. Sto bene!»
Alzando gli occhi al
cielo sistemò la giacca della divisa incamminandosi nel corridoio con ancora il
suo ignaro e alquanto blaterante fratello al seguito. Il primo pensiero era
stato dirgli della sua nuova relazione, immediatamente accantonato all’irritazione
fattale salire appena aveva varcato i cancelli. Per vendetta l’avrebbe lasciato
nell’oblio ancora un po’.
«Eh grazie, lo so ora! Alle
quattro quando mi sono svegliato non trovandoti ho persino chiamato Draken, Chifuyu, Hina che fortunatamente
non ha risposto perché non avrei saputo cosa dirle, Pah-chin,
Peh-yan, Takemichi, Taij-»
«No, no, aspetta un
attimo» fermatasi bruscamente in mezzo al corridoio afferrò il fratello per la
giacca cominciando a scuoterlo come un budino «Tu hai chiamato Tajiu?! E cosa caspita gli avresti detto?»
«Cosa potevo mai dirgli?!»
fu la risposta alquanto perplessa di Hakkai i cui capelli ondeggiavano da una
parte all’altra a ritmo con lo spostamento «Gli ho detto che eri scomparsa tutta
la notte dopo aver detto che restavi a cena da Taka-chan!»
«Sei….sei un cretino!»
Yuzuha colpì senza
ritegno con la propria cartella la testa del fratello per evitare di prenderlo
a calci davanti al resto della scuola. Girando sui tacchi e camminando a passo
di marcia oltre Chifuyu sbucato fuori dall’aula che
pensò bene di non fare domande, restando nel suo angolo ombroso a salutarla con
un’incerta alzata di mano.
Nonostante entrambi
portassero rispetto a Takashi, il fratello maggiore non era proprio uguale a
quello minore. Al termine dell’unico incontro avuto negli ultimi due anni Taiju
aveva burberamente chiesto come stesse Mitsuya. Non chiamandolo Mitsuya,
nemmeno Takashi, nemmeno con il soprannome affibbiatogli da Hakkai. No, Taiju che
non li vedeva da un anno e mezzo aveva posto la domanda a lei chiedendole “come
sta il tuo fidanzato?” facendola
quasi strozzare con il succo di frutta. Non in modo ironico, non per
sbeffeggiare, gliel’aveva domandato totalmente convinto della sua asserzione,
guardandola quasi come se fosse lei la bugiarda quando l’aveva contraddetto.
«Si può sapere cosa ti
prende?!» seduto per terra intento a massaggiarsi la testa Hakkai lo urlò nel
corridoio alla figura della sorella ormai prossima a svoltare l’angolo, colpito
sulla testa dai buffetti consolatori di un sempre più perplesso Chifuyu «Ero angosciato ed è stato proprio lui a dirmi di
non preoccuparmi se eri con Taka-chan! Perché
ti sei arrabbiata tanto?!»
«Sei un’idiota!»
_._._
Note finali
Non ho resistito.
Dovevo pubblicare qualcosa per festeggiare il mio decennio di iscrizione qui su
EFP avvenuto il 31 dicembre ma non ho fatto in tempo, e ho pure pubblicato in
un fandom diverso da quello scelto. Ma, pazienza, auguri a me! (?)
Ehm…proseguendo verso qualcosa che vi interessa sicuramente di più, dopo mesi
di gestazione finalmente questa storia ha visto la luce. Per chi non fosse un
maniaco del dettaglio come la sottoscritta informo che prima della stesura ho
provveduto a informarmi sul sistema scolastico giapponese (sì, cambiano
compagni di classe annualmente), Yuzuha ha realmente la stessa età di Takashi,
la camera di Takashi qui riportata (link) è
un disegno ufficiale realizzato dall’autore e sì, io sono ossessionata da lui.
Lo adoro come personaggio
e amo vederlo insieme a Yuzuha, per me sono semplicemente perfetti. Vorrei che
anche Wakui si ricordasse della sua esistenza per
regalarmi tale gioia canonica (suvvia, non serviva specificare la lunghezza dei
capelli se non per uno scopo…aaaargh, Wakui ascoltami e ricordati quello che fai dire ai tuoi
personaggi! >.<).
Detto questo, ringrazio
di cuore tutti i futuri lettori, in special modo chi arriverà fino alla fine. Augurandomi
di trovare qualcun altro amante di questa coppia e di regalare una gioia a chi,
come me, attendeva di poter leggere una storia su di loro 💜
Auguri di buon anno a tutti!
Aky
Questi personaggi non mi
appartengono, ma sono proprietà di Ken Wakui, questa storia è stata scritta senza alcuno
scopo di lucro.