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Autore: edoardo811    15/01/2022    3 recensioni
La Foschia è svanita. I confini del campo sono scomparsi e ora tutto il mondo può vedere i mostri per quello che sono realmente.
DANIEL non è mai stato un ragazzo socievole, per un motivo o per un altro, si è sempre trovato meglio da solo, lontano da tutti, perfino dal Campo Giove. Nemmeno i mostri hanno mai provato ad ucciderlo, come se non fosse mai esistito realmente.
CAMILLE è un pericolo, per sé stessa e per gli altri, una figlia di Trivia abbandonata in fasce, indesiderata, costretta a convivere con un lato di sé che non vuole fronteggiare, per paura di quello che potrebbe scatenare.
KIANA è una figlia di Venere, orgogliosa e testarda, che dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Tra auguri scansafatiche, eroici pretori e conflitti interiori nel Campo Giove, tre ragazzi diversi tra loro, tre nullità della Quinta Coorte, si ritroveranno con un obiettivo comune: imbarcarsi in un viaggio tra mostri, traditori, nuovi e vecchi nemici per impedire che il mondo sprofondi nel caos.
Genere: Avventura, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Dei Minori, Ecate, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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Un nuovo amico



«Ragazze!» gridò Daniel. «Ragazze, sveglia! Che cavolo vi prende?!»

Cominciò a scuotere Kiana e Camille con tutta la forza che aveva, al punto che la figlia di Venere gli avrebbe sferrato un cazzotto e lanciato un insulto da record, ma non ottenne alcun risultato: gli occhi di quelle due rimasero sigillati, senza dare alcun segno di volersi riaprire.

Temette il peggio, ma si rese conto presto che respiravano ancora. Erano solo svenute. Anzi… sembravano perfino addormentate. Il ragazzo rimase immobile, a scrutarle impotente. «Ma che è successo?»

«In nome di Somnus…» Una voce si alzò tra i fruscii del vento. «… dormi

Una lieve sensazione di vertigini percorse il corpo di Daniel, ma il ragazzo serrò le palpebre e scosse la testa, scacciandola subito. Strinse i denti e si alzò in piedi, voltandosi verso il limitare della radura. Un ragazzino era in piedi laggiù, le mani tese verso di lui, e un’espressione sbalordita malcelata dall’elmetto sopra la testa bionda. Nonostante l’armatura completa che aveva indosso, lo riconobbe comunque: era Nathan Miles, unico figlio di Somnus, il centurione della Terza Coorte.

«Ma… ma cosa…» sussurrò quello, prima di gridare spaventato quando Daniel sguainò il gladio. Indietreggiò di scatto e finì con l’inciampare.

Prima che Daniel potesse avventarsi su di lui udì altri fruscii, ma questi non erano causati dal vento: da ogni lato della radura cominciarono a spuntare fuori alcune persone. Non appena Daniel si accorse della loro pelle semitrasparente, sotto la quale poteva scorgere i loro crani, gridò per la sorpresa. Erano scheletri, con le ossa che rilucevano alla luce pallida della luna. Indossavano armature da legionari e uniformi sbrindellate della guerra di secessione. Alcuni erano armati di baionette e fucili, altri di spade. Li aveva visti solo qualche volta prima di quel giorno, durante le esercitazioni. La loro presenza lì poteva significare solo una cosa.

Un’ombra si plasmò nel bel mezzo della radura, di fronte a Daniel. Elias spuntò fuori come un’estensione del terreno, l’oscurità che si dissolveva attorno a lui in rigoli neri che colavano a terra. Non appena lo vide, Daniel soffocò un’imprecazione: li aveva trovati. Non si erano allontanati abbastanza dal campo e il trambusto che avevano fatto con le empuse doveva averli attirati dritti da loro.

«Maledizione» sibilò mentre gli scheletri, Elias e anche Nathan si avvicinavano a lui, circondandolo.

«N-Non capisco…» mormorò il figlio di Somnus, nascosto alle spalle del pretore. «Dovrebbe… dovrebbe dormire anche lui!»

Elias non staccò gli occhi da Daniel per un solo istante. A differenza del mantello e dell’armatura, indossava un lunghissimo cappotto di cuoio marrone e sbottonato, che mostrava la camicia bianca con bretelle e i pantaloni da cacciatore beige al di sotto di esso. Al cinturone attorno alla vita teneva appeso il fodero di un gladio e diversi pugnali, mentre sulla testa rasata portava una coppola. Sembrava un becchino che per hobby partecipava a risse in pub inglesi.

Le sue iridi brillarono di luce color oro: all’improvviso, il gladio nelle mani di Daniel divenne più pesante di un carro armato, al punto che avrebbe finito con lo spezzarsi il braccio o la schiena se non l’avesse lasciato andare. La spada cadde a terra con un tonfo pesantissimo e affondò nel suolo come un biscotto nel latte.

Daniel indietreggiò incredulo, mentre gli occhi di Elias smettevano di brillare. Il pretore si sgranchì il collo e le nocche, mostrando i guanti di pelle che coprivano le mani; attorno al collo aveva una collana fatta con un cordino nero, il ciondolo nascosto sotto il colletto della camicia.

Gli scheletri si avvicinarono ancora di più, assieme al figlio di Plutone che li comandava. Nel giro di pochissimi istanti Daniel era stato disarmato e neutralizzato senza nemmeno combattere. E sapere che tutto quello era avvenuto per mano di Elias, lo stesso che si divertiva a malmenare chi non poteva nemmeno difendersi, gli fece ribollire il sangue nelle vene.

«Dimmi un po’, è stata Ashley a mandarti?» domandò Daniel. «Pensi mai con la tua testa, o è sempre lei a dirti cosa devi fare?»

Elias non rispose. Sguainò il gladio, uno spadone grosso almeno il doppio di quello di Daniel, con il manico d’oro massiccio e la lama nera come la pece, di Ferro dello Stige. Come se i suoi maledetti scheletri non fossero una polizza assicurativa più che sufficiente.

«In nome del Senato e il Popolo di Roma, vi dichiariamo in arresto!» esordì Nathan, ancora nascosto dietro a Elias, con voce che tradì diverse vene di tensione.

«L’unico che dovreste arrestare è lui» sibilò Daniel, accennando con il mento a Elias. «Visto che nel tempo libero si diverte a pestare il nostro augure.»

Elias spalancò gli occhi, finalmente mostrando un’emozione di stupore. Nathan però era alle sue spalle, quindi non ci fece caso. «Bene, possiamo anche aggiungere la calunnia alla lunga lista dei crimini a cui devi rispondere!»

Daniel ignorò il figlio di Somnus, concentrandosi su Elias. «Tu sai che è tutto vero, però.»

Nessuna risposta. Un sorrisetto sghembo nacque sul viso di Daniel. «Dimmi, è divertente essere il cagnolino di Ashley? Credo proprio di sì, altrimenti non saresti così bravo a farlo.»

Elias fece una smorfia, ma continuò a non rispondere. Fece un cenno agli scheletri, che chiusero ancora di più le distanze con Daniel. Il ragazzo osservò prima loro, poi il pretore, con quanto odio avesse in corpo.

Non ci sarebbe tornato al campo, era escluso. Non dopo il sogno che aveva fatto quel pomeriggio. Qualunque fosse il significato che quegli incubi maledetti avevano, qualunque fosse il motivo per cui era arrivato al Campo Giove senza passare per la Casa del Lupo, qualunque fosse la ragione per cui per lui era così difficile vivere in quel mondo, era certo che avrebbe trovato le risposte che cercava una volta trovata Ecate. E quindi l’avrebbe trovata, a qualsiasi costo.

Non era giorno. Non si sentiva debole, fiacco, stanco. In mezzo alla notte, tra quelle ombre, con la sola luce della luna, si sentiva un’altra persona. Si sentiva potente. Dei mucchietti di ossa e un gigante figlio di Plutone non sarebbero bastati per fermarlo. Strinse i pugni, sentendo le proprie interiora attorcigliarsi. Tutto a un tratto cominciò a sentirsi più leggero, come se il suo corpo si stesse liberando di chissà quale zavorra inutile che lo teneva ancorato a terra.

L’espressione di Elias cambiò ancora una volta. I suoi occhi color oro si spalancarono e fece perfino un passo indietro, sembrando spaventato. Daniel corrugò la fronte, prima di accorgersi del lago di oscurità che stava cominciando ad invadere la radura: una gigantesca pozzanghera di acqua nera e stagnante, da cui perfino gli scheletri si tennero alla larga, emettendo degli strani versi simili a sibili. E non appena Daniel si accorse che quell’oscurità stava uscendo da lui, filtrando fuori dal suo corpo e gocciolando dai suoi vestiti, gli scappò un grido spaventato. La pozza si arrestò all’improvviso, bloccandosi a metà strada tra lui e tutti i suoi inseguitori.

«Deos meos» bisbigliò Nathan, pietrificato. Osservò Daniel sconvolto. «Ma chi diavolo sei, tu?»

Magari lo sapessi, pensò il semidio in fuga, paralizzato tanto quanto loro. Non aveva idea di che cosa avesse appena fatto. Sapeva solo che aveva seguito l’istinto, aveva pensato a quanto bene si sentisse, a quell’energia che gli scorreva nelle vene, ed era successo tutto quello. Quell’oscurità… era sua? Poteva… controllarla?

Non riuscì a pensarci, perché si accorse degli scheletri che, riprendendosi dallo stupore, ricominciarono ad avvicinarsi, camminando sopra la pozzanghera. Prima che Daniel potesse fare qualsiasi cosa, però, un altro rumore forò la notte, scuotendogli le ossa fino al midollo.

«BAU!»

Daniel sgranò gli occhi.

Non è possibile…

Dalla boscaglia spuntò fuori un’altra figura, molto più grande di tutti i presenti messi assieme. Un gigantesco segugio infernale che cominciò ad attaccare a vista gli scheletri. Prima che potessero reagire, uno di loro era già stato scaraventato con una zampata dall’altra parte della radura, mentre un altro si era ritrovato incastrato nella mandibola del molosso, sballottolato come un osso giocattolo di gomma.

«Ma cosa…?!» ululò Nathan, con voce più alta di un’ottava, prima che il segugio si voltasse verso di lui, con le orecchie alzate. Il figlio di Somnus gridò e si nascose dietro Elias, che invece aveva sollevato la spada con un’espressione di pura incredulità stampata in faccia.

Il segugio sputò lo scheletro che aveva in bocca e si voltò verso di Daniel, schiudendo le fauci e facendo penzolare la lingua di carta vetrata rosa tra quei denti così affilati da affondare nel cemento. «BAU!»

Daniel realizzò cosa stava per succedere.

«No no no no, fermo, fermo!» urlò disperato, mentre il molosso lo caricava a muso duro.

Esattamente come quel pomeriggio lo cilindrò in pieno. Il ragazzo gridò, un dolore atroce lo colpì al petto, e si aspettò qualcosa di perfino peggiore quando si sarebbe schiantato sulla schiena, con il segugio a schiacciarlo con il suo peso, tuttavia accadde l’inaspettato: non appena toccò terra con la schiena si sentì affondare nel terreno, mentre l’oscurità che fino a un istante prima aveva invaso la radura cominciava a ricoprire ogni cosa.

Tentò di urlare disperato, ma non uscì un solo sibilo dalla sua gola. L’unica cosa che riuscì a fare, fu osservare impotente le tenebre che circondavano lui e il segugio infernale.

E l’ultima cosa che ricordò, fu la lingua graffiante del molosso che gli assaliva la faccia.

 

***

 

Una raffica di immagini diverse apparve di fronte a lui.

La terra che ribolliva. Figure oscure che lo circondavano, gli occhi bianchi lattiginosi, i corpi neri come la notte, senza forme, senza tratti fisici. Un salone dal pavimento di marmo nero lucido, le pareti avvolte di tenebre che ribolliva su di esse, plasmandosi e cambiando forma come se fossero vive. Un trono di ossidiana vuoto esattamente al fondo di esso, da sopra il quale provenne la voce di una donna: «Sarai tu il mio prescelto.» 

Quando le immagini finirono, rimase soltanto oscurità. Daniel sentiva dolore dappertutto. Le ossa erano a pezzi, lo stomaco gli faceva male, ogni cosa bruciava così tanto che gli pareva di essere appena uscito da un vulcano.

«Daniel.»

Un'altra voce lo chiamò all'improvviso. Era di una donna, dal timbro gentile. Era anche familiare, ma non riuscì a riconoscerla. «Svegliati, Daniel. Non abbiamo molto tempo.»

Daniel riaprì gli occhi. Ancora una volta, non vide altro che buio, un nero senza fine, denso come la notte più profonda. Il buonsenso delle persone le portava a credere che il buio fosse una cosa negativa, mentre la luce una cosa positiva. Quel luogo, quelle tenebre senza fine, avrebbero dovuto spaventarlo, farlo sentire in pericolo, invece avevano l’effetto opposto. Si sentiva… bene, lì. Come se fosse a casa. Quel luogo buio, di qualunque cosa si trattasse, ovunque fosse, gli trasmetteva una sensazione di pace e nostalgia che non credeva di aver mai provato prima.

Le tenebre di fronte a lui cominciarono a muoversi, ad assumere una forma. Non seppe come, ma Daniel riuscì a distinguere chiaramente la donna che gli apparve di fronte. Era avvolta in un mantello fatto di piume, intriso dell’oscurità che la circondava. Indossava un cappuccio da sotto il quale spuntava una lunga coda di capelli che ricadeva morbidamente sulla sua spalla, come una macchia di inchiostro. Nonostante lui non prestasse mai attenzione a quei dettagli, il suo viso era davvero bello, dalle labbra carnose e la pelle di un'insolita tonalità violacea. 

Quando aprì gli occhi, Daniel rimase senza parole: erano due fari luminosi, che squarciarono le tenebre e che gettarono un bagliore sul sorriso gentile e scaltro della donna. Si rese conto che in realtà non erano veri occhi, ma… stelle. Stelle in miniatura, brucianti di luce ed energia, impossibili da non notate, impossibile non rimanere incantati da esse.

Il ragazzo rimase pietrificato di fronte alla sconosciuta. Non perché catturato dal suo aspetto, dalla sua bellezza, o rapito dai suoi occhi, ma perché quella donna… aveva qualcosa di familiare. Se lo sentiva dentro, una sensazione fortissima, che stava occupando tutto quanto. L’istinto gli stava urlando a pieni polmoni che lei non era una donna qualsiasi. 

Come se le stelle al posto degli occhi e il corpo fatto di oscurità non fossero un segnale abbastanza chiaro. Ma c’era qualcosa di più. Camille aveva raccontato di come si fosse sentita quando aveva incontrato Ecate e a lui sembrò di provare proprio quella sensazione nonostante non fosse certo di cosa significasse davvero. 

«Chi… chi sei tu?» riuscì a domandare, con voce tremante.

Lei gli sorrise. I denti erano così bianchi da essere accecanti, una fila di perle d’avorio candido. Si avvicinò a lui senza che nemmeno se ne rendesse conto. Non era molto più alta di lui, eppure si sentì comunque un bambino di fronte a lei. Le mani della donna si posarono sulle sue spalle, calde, morbide. Gli accarezzò delicatamente una guancia, e la sua espressione si addolcì. «Quando verrà il momento, Daniel, lo scoprirai. Adesso, però, per la tua sicurezza devi sapere il meno possibile.»

«Sei… sei una dea?»

«Sì. Sono una dea. Non una dea conosciuta, però. O almeno… non sono conosciuta come lei.»

«Chi… chi è “lei”?»

La donna gli sorrise di nuovo, ma questa volta sembrava triste. «Devi promettermi una cosa, amore mio.» 

Quando lo chiamò in quel modo, Daniel sussultò. Le mani della donna tornarono a stringerlo per le spalle, con presa salda, forte. La sua espressione era di angoscia, ma cercava comunque di sorridergli, come se per lei lui fosse più importante di qualsiasi altra cosa. «Non ascoltare lei. Mai. Cercherà di usarti, di controllarti. Vorrà che tu faccia tutto quello che ti ordinerà, ma tu non sei suo. La tua... vita appartiene solo a te. Trova il tuo percorso, la tua strada. Trova la tua persona.»

«Io… non… non capisco» sussurrò lui. Gli venne da piangere e non seppe nemmeno il perché. In qualche modo, sentiva come se il dolore della donna fosse anche il suo.

«Vorrei poterti dire di più, Daniel, ma non posso espormi troppo, o lei potrebbe accorgersene. Devi adempiere al tuo destino e arrivare alla verità con le tue forze. Mi dispiace.»

Lo lasciò andare e cominciò ad indietreggiare, senza smettere di guardarlo e di rivolgergli quel sorriso venato di tristezza. «Volevo solo che tu sapessi questo, amore mio. Sappi che veglierò sempre su di te. Finché potrò fare qualcosa per aiutarti, ti prometto che la farò. Tu però devi aiutare la tua amica a salvare Ecate.»

Daniel fu scosso da un fremito. 

Salvare Ecate. Perché gli sembrava che ci fosse qualcosa di sbagliato in quella frase?

Chi era quella donna? E chi era la “lei” da cui lo stava mettendo in guardia? C’erano così tante domande che ancora avrebbe voluto fare, ma le parole si rifiutarono uscirgli dalla bocca. Le tenebre che li circondavano cominciarono a sfaldarsi, pareva di osservare inchiostro che colava lungo una tela, una tela che però era fatta di inchiostro a sua volta: una scena irreale e impossibile da descrivere.

L’immagine della donna cominciò a mischiarsi con le tenebre, affievolendosi poco per volta. Tese un’ultima volta la mano verso di lui, carezzandogli appena la guancia con la punta delle dita. «E non avere paura del tuo agitato fratello» disse ancora, poco prima di scomparire. «Gli ho chiesto io di venire a cercarti. Ti proteggerà.»

Daniel schiuse le labbra. Fratello? Quale fratello?

Quel mondo svanì. L’oscurità coprì l’oscurità, poi apparve la luce, e si ritrovò strappato via da una forza invisibile da quel rifugio caldo e accogliente.

 

***

 

Prima ancora che riaprisse gli occhi, capì che c’era luce. Lo capì perché, oltre a sentire caldo, si sentiva anche un autentico straccio.

E poi, arrivò la carta vetrata.

Gridò per la sorpresa, e per il dolore, mentre quella roba umida e ruvida gli scorticava la faccia, insudiciandolo e inondandolo con una zaffa nauseabonda. Spalancò le palpebre e si ritrovò con il muso di quel segugio infernale a un palmo dal naso, la lingua ancora a penzoloni e l’espressione giocosa.

«O-Ok…» riuscì a gemere. Avvicinò le mani, cauto, al collo del molosso, e cercò di spingerlo via delicatamente. Ci fu in istante di stallo, ma poi quello decise di separarsi da lui, anche se forse l’aveva fatto per sua volontà e non perché lui l’aveva allontanato. Daniel era abbastanza sicuro che se il segugio avesse scelto di rimanere sopra di lui, allora ci sarebbe rimasto.

Si rimise a sedere a fatica, di nuovo, e ogni movimento gli arrecò un male pazzesco, di nuovo. Tuttavia, a differenza della visione di poco prima, ora non era circondato da calde e accoglienti tenebre, ma era sdraiato su un prato in mezzo a chissà quale bosco sotto al sole autunnale. Doveva essere arrivato il mattino mentre era svenuto. Non faceva caldo, ma gli sembrò comunque di essere in procinto di trasformarsi in una pozzanghera come quella che aveva creato quella notte.

La prima cosa che fece, fu andare a mettersi all’ombra di un albero, prima gattonando e poi riuscendo a rialzarsi in piedi, con tutte le ossa e tutti i muscoli del corpo che protestavano per lo sforzo. L’ombra non migliorò molto la sua situazione, ma sempre meglio che starsene sotto il sole. Dopodiché si accorse del segugio che trotterellava per quella piccola radura in mezzo agli alberi, marcando il territorio, annusando l’erba, e annusando anche le due ragazze svenute poco distanti.

«Cam! Kiana!»

Daniel corse da loro proprio mentre il nasone del segugio infernale era ad un centimetro di distanza dai capelli di Kiana. D’istinto cercò il gladio, ma si ricordò di averlo perso. Capì ben presto, comunque, che non ci sarebbe stato bisogno della spada. Il segugio non sembrava ostile, anzi, tutt’altro. Non appena Daniel lo vide mentre leccava per bene anche la figlia di Venere, intuì che poteva stare tranquillo.

Certo, a meno che non la stesse solo assaggiando prima di mangiarsela, ma se fosse successo il ragazzo se ne sarebbe fatta una ragione.

Oltre a Kiana e Camille c’erano anche i borsoni, la tenda smontata e i sacchi a pelo. E di Elias, Nathan e gli scheletri non c’era più alcuna traccia. Daniel ripensò a quello che era successo, al segugio che gli saltava addosso facendolo sprofondare in mezzo alle tenebre, e ripensò a quello che aveva fatto Elias quando era apparso dal nulla.

«Tu… tu ci hai aiutati» mormorò sbalordito, verso il molosso. Quello si voltò verso di lui e piegò le orecchie, emettendo un guaito confuso. Daniel sorrise senza nemmeno rendersene conto, avvicinandosi al cane. «Hai… hai fatto un viaggio nell’ombra!»

«Bau?» Il segugio cominciò ad inseguirsi la coda all’improvviso, trasformandosi in una mortale centrifuga alta tre metri.

Una risatina scappò dalle labbra del ragazzo, sempre più incredulo. «Quindi non vuoi mangiarci!»

Il cane smise di correre in tondo e si sedette, per ispezionarsi là dove Daniel avrebbe preferito non mettere mai gli occhi.

«Oh, beh…» mugugnò, grattandosi la tempia. «… almeno ora so che sei un maschio.»

«BAU!» Il segugio saltò in piedi e gli leccò la faccia, strappandogli un altro grido, alimentato dal fatto che quella lingua era appena stata dove non sarebbe mai dovuta stare.

«Per favore, basta leccate» implorò Daniel, rabbrividendo. E pensare che anche i cani normali facevano quel genere di cose abitualmente, prima di leccare beati i loro padroni. Possibile che nessuno la trovasse una cosa disgustosa?

«Allora… ehm… quindi ora sei dei nostri?» domandò, anche se non si aspettava davvero una risposta. Il molosso, infatti, piegò la testa e lo osservò come se la creatura bizzarra fosse lui. Doveva essere poco più che un cucciolo, non uno di quei cagnoni spietati e assetati di sangue. Forse aveva preso Daniel in simpatia, per chissà quale motivo, e lo aveva risparmiato nella battaglia, e poi lo aveva seguito di nascosto.

«Beh… in ogni caso, grazie per l’aiuto» concluse il ragazzo, regalandogli qualche buffetto sul collo. Gli diede le spalle e tornò a concentrarsi sulle ragazze svenute.

Se nemmeno la lingua graffiante del cane era bastata per svegliare Kiana, dubitava che lui ci sarebbe riuscito. Provò a concentrarsi su Camille, ma fu tutto inutile, nemmeno lei volle saperne di riaprire gli occhi. Respiravano ancora, quindi se non altro erano vive, ma erano così rigide da sembrare morte. L’incantesimo di Nathan per il sonno doveva essere stato molto più potente di quanto avrebbe potuto immaginare. Su di lui, però, non aveva funzionato. Daniel storse le labbra, corrucciato. Perché su di lui non aveva funzionato? Forse per lo stesso motivo per cui le empuse non lo avevano ingannato.

No… sapeva bene perché le empuse non l’avessero fregato, e non era affatto lo stesso motivo.

Lasciò perdere con un sospiro. Pensarci su era inutile. E anche tentare di svegliare quelle due era inutile. C’era la magia di Somnus, il dio del sonno, di mezzo, non sarebbe mai riuscito a ridestarle. Forse solo Nathan poteva spezzare l’incantesimo, ma di tornare indietro non se ne parlava. Doveva cercare aiuto. Ma dove? Da chi? 

Daniel si passò la mano tra i capelli con un sospiro esausto. Le cose erano precipitate così in fretta che nemmeno gli sembrava vero. Dov’erano, a venti chilometri dal campo, neanche? Nemmeno a San Francisco erano riusciti ad arrivare. Forse avrebbero davvero dovuto lasciare ad Ashley le redini della situazione.

«Sì, come no» gracchiò.

Afferrò prima Camille e poi Kiana e le trascinò dietro dei cespugli, nascondendole da sguardi indesiderati. Non aveva idea di quanto si fossero allontanati con quel salto nell’ombra, ma di sicuro Elias era ancora là fuori, a cercarli assieme ai suoi maledetti scheletri.

Nel frattempo il segugio infernale era ancora lì, a trovare tutto quanto interessante: foglie, ramoscelli, ciuffi d’erba, era come se non avesse mai visto niente di così incredibile. A un certo punto cominciò a camminare attorno alle due ragazze, annusandole e poi scavando buche. Augurandosi che non avesse frainteso e che ora stesse creando delle fosse, Daniel gli diede le spalle e si guardò attorno per pensare a una soluzione.

Il sogno che aveva appena fatto balenò nella sua mente all’improvviso. Provò a ricordare il viso di quella donna nel mantello e con suo enorme stupore realizzò di riuscirci. Poteva immaginarsela alla perfezione, di fronte a lui, con quegli occhi e quel sorriso brillanti.

Una strana sensazione cominciò a farsi largo dentro di lui, un moto di sconforto che non riuscì a spiegarsi. Quella donna aveva un aspetto familiare. Anche la sua voce. Eppure, niente. La sua mente giocava con lui: gli sembrava di trovarsi di fronte a un puzzle incompleto. 

Però gli aveva detto di salvare Ecate. Daniel si inumidì le labbra e fissò il suolo.

Qualcosa non tornava. Ma cosa? E chi era il fratello che lei aveva mandato ad aiutarlo? 

Si voltò verso il segugio infernale. Lo osservò mentre teneva il muso infilato in una buca a mo' di struzzo e scosse la testa.

Certe volte aveva proprio dei pensieri assurdi.

Un grido si alzò in aria all’improvviso, facendolo sobbalzare. Sembrava una donna ed era allarmato.

«Bau?» Il segugio drizzò le orecchie. Subito dopo si era già tuffato in mezzo alle fronde. L’urlo di quella donna si ripeté, ora terrorizzato, e Daniel realizzò che era molto vicino. Imprecò tra i denti e cominciò a correre, sperando che non si trattasse di una mortale di passaggio che era stata assalita da un furgoncino peloso a quattro zampe.

Corse tra le frasche, rinvigorito dalle ombre che gli altri alberi gettavano su di lui, scavalcò un mucchietto di cespugli e sbucò in un’altra radura. Ritrovò il segugio infernale chino sopra una figura, le zampe premute su di essa per tenerla ferma. Non appena la vide, Daniel spalancò gli occhi. Era una donna, sì, ma solo per metà: la parte posteriore era quella di un cavallo nero come la pece.

«L-Lasciami! Lasciami andare mostro!» si stava lamentando quella, tentando di spingere via, inutilmente, il segugio infernale.

«Una… una centaura» sussurrò Daniel, incredulo.

Lei si accorse di lui. Il suo viso era grazioso, tutto sommato. Magro, dello stesso colore della sua parte equina, con grandi occhioni marroni, da cerbiatto. I capelli invece erano lunghi e color caramello, intrecciati con ramoscelli. «Ti prego, aiutami!»

Daniel trasalì, e si rivolge al segugio. «Ehi… ehm… lasciala andare.»

Quello non l’ascoltò subito. Prima avvicinò i denti alla centaura, strappandole un altro grido. Le annusò i capelli, emise un ringhio baritonale, forse per farle capire chi comandava, ma poi la lasciò andare e si rimise accanto al ragazzo.

«Quel… quel coso è tuo?!» domandò la centaura, incredula. Aveva una vocetta squillante, con un forte accento californiano.

«Ehm…» Il ragazzo provò a rispondere, ma poi si rese conto che la centaura era a petto nudo, con le sue forme di donna umana – molto, molto generose – in bella vista.

«Oh, cavolo!» Distolse lo sguardo, il sangue che schizzava al cervello per l’imbarazzo.

La centaura tentò di rialzarsi, ma gemette per il dolore e rimase bloccata a terra. Daniel si accorse che aveva una freccia conficcata nella coscia posteriore.

«Aspetta, ti aiuto» si offrì, avvicinandosi.

«N-No! Non ti avvicinare!» gridò lei, con voce allarmata. «S-Sto bene così! V-Vattene ora!»

Daniel corrugò la fronte, domandandosi perché stesse rifiutando il suo aiuto. Poi, però, si ricordò che aveva altri problemi e scrollò le spalle. «Come ti pare.»

Si voltò e fece per andarsene, quando un fruscio provenne dall’altra parte della radura. Il segugio infernale cominciò a ringhiare e anche la centaura fece un verso spaventato. Un uomo incappucciato spuntò tra i cespugli, con un arco pronto a scoccare stretto tra le mani. Mugugnò stupito quando si accorse di quell’improbabile trio. La centaura, invece, riuscì a rialzarsi giusto per barcollare al riparo dietro a Daniel. Non ci volle molto prima che il semidio collegasse l’arco dell’uomo alla freccia conficcata nella sua coscia.

«Spostati, ragazzino» disse quello infatti, scrutandolo da sotto il cappuccio. «Sto dando la caccia a quella preda da giorni. Non la perderò per causa tua.»

Daniel lanciò una rapida occhiata alla centaura, con la coda dell’occhio, e si accorse del suo sguardo terrorizzato, gli occhi da cerbiatto spalancati.

«Sei un cacciatore?» domandò all’uomo, calmo, studiando i suoi vestiti. Pantaloni lunghi e cappotto spesso, marroni scuro, una faretra piena di frecce e una cintura a cui erano appesi un coltello e una scarsella di pelle.

«Quello che sono non è affar tuo» sbottò l’uomo, prima di dare una rapida occhiata al segugio infernale, che nel frattempo aveva piegato le zampe, pronto ad attaccare.

«Io odio i cani. Sono solo dei bastardi ingrati.» Infilò la mano nella scarsella. «Questa volta però sono preparato.»

Daniel pensò che avrebbe estratto un’altra arma, invece tirò fuori qualcosa di molto diverso: un grosso pezzo di carne, avvolto nell’alluminio, di un intenso colore rosso. Non appena lo vide, il segugio emise uno strano guaito.

«Ehi bello, guarda qui. Lo sai cos’è questa? Questa è carne di vacca rossa. Rarissima da trovare, da quando il Ranch è stato chiuso, ma deliziosa, davvero, davvero, deliziosa. La vuoi?» Cominciò ad agitarla e il molosso la seguì con lo sguardo, rapito. «Bene.» L’uomo la scaraventò in mezzo alla vegetazione, rendendola un puntino invisibile tra gli alberi. «Valla a prendere allora!»

«Oh, andiamo» commentò Daniel. «Pensi davvero che…»

La terra tremò, tanto forte il segugio cominciò a correre. Si tuffò di nuovo tra i cespugli e svanì alla vista in un batter di ciglia. Il ragazzo rimase immobile, atterrito, mentre l’uomo rideva soddisfatto. «Visto? Non ci si può fidare dei cani. Sono solo bestie prive di cervello.»

«Ma… tu te ne vai in giro con pezzi di carne nella borsa?» domandò a quel punto Daniel, non sapendo nemmeno che cosa lo sbalordisse di più.

«Dopo quello che mi è successo? Sarei stupido a non farlo.» La voce del cacciatore era carica di veleno. Sembrava proprio nutrire un odio profondo per i cani, anzi, per ogni cosa in realtà. Sollevò l’arco, puntandolo verso di Daniel. «Non che la cosa ti riguardi.»

La centaura gridò spaventata e Daniel, per qualche, stupido, motivo, decise di farle da scudo. «Ascolta, non ho idea di che cosa tu voglia da lei, ma…»

Uno schiocco improvviso, seguito da un sibilo. Qualcosa perforò l’aria, rapido come una freccia, e punse il petto di Daniel trasformando la sua frase in un mugugno soffocato. Barcollò all’indietro, le labbra schiuse e gli occhi spalancati. Abbassò lo sguardo, credendo di essere in preda alle allucinazioni.

Rapido come una freccia. Sì, come frase si addiceva piuttosto bene.

Con la mano tremante per i brividi, tentò di staccarsi quella freccia apparsa improvvisamente nel suo petto, ma non appena la sfiorò sentì le forze mancargli. Stramazzò prima in ginocchio, poi su un fianco.

«Levati di mezzo» disse il cacciatore, mentre un altro grido terrorizzato proveniva dalla centaura. In mezzo al fortissimo fischio delle sue orecchie, però, entrambe le loro voci furono poco più che bisbigli ovattati.

Una disarmante sensazione di freddo lo colpì al petto, mentre avvertiva tutte le forze abbandonarlo, insorgendo dalla prigione del suo corpo attraverso la ferita sanguinante. Nella periferia della sua visuale, vide nubi di tenebre cominciare a danzare, tracciando archi e piroette nell’aria come ballerine fatte di ombre.

Iniziarono a coprire ogni cosa, il cielo, il bosco, tutto. Un ultimo gemito gli scappò dalle labbra, poi le sue palpebre divennero di cemento, e tutto il mondo scomparve.



   
 
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