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Autore: Cladzky    26/01/2022    2 recensioni
La vita di una Polistes dominula, dall'alba a quella successiva, fra larve, morte, fiori e paesaggi siciliani.
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sollevò la testa dal pentagramma di quella zagara, osservando la spiaggia dal ramo più alto dell’albero. Aveva lavorato al punto da vedere il sole sbocciare dal mare. Il cielo si acquerellava di un viola bagnato, mentre le poche nuvole s’incurvavano, fumose, in sudari trasparenti.  Il mare borbottava la sua solita cantilena, sfrigolante quanto la spuma salata che andava sciogliendo la sabbia. Non tirava un filo di vento e l’aria andava scaldandosi. Era il caso di tornare. Tentò di muoversi ma perse contatto su quel ripiano friabile e scivolò giù dalla cima delle antère, annaspando inutilmente, cadendo sul bronzeo fondo umido della campana e toccando di schiena il fusto fibroso del pistillo. Scosse il capo, ancora intorpidita dal sonno, mentre la neve dorata andava cadendo da quegli stami di polline che ancora vibravano del suo passaggio, ricoprendola d’uno strato di cenere gialla. Si abbassò le antenne a livello del viso, per poi passarsele in bocca pigramente, liberando da quelle proteine i suoi sensori dolorosamente pizzicati. Fece fatica a mandar giù quell’impasto dolciastro dopo averne già consumato a sufficienza due fiori fa e desistette a leccarsi il resto del corpo. Prima o poi sarebbe scivolato via, sicché non aveva setole per trattenerlo a lungo. Si rimise dritta, aggrappandosi alla superficie vellutata e fredda della corona, e fece per cascare dal sonno dopo quello sforzo, ma ebbe un fremito e considerò una migliore idea sgusciare fuori da quella penombra. Arrampicandosi per la fibra inclinata, si portò sul bordo di uno dei petali, che sporgeva di molto dalla pianta di limoni, cadendo perpendicolarmente dritta sull’erba una decina di metri più in basso. Riguadagnò il paesaggio di prima, abbandonando l’odore della caverna di nettare per venire molestata dall’aspro sentore degli agrumi, ma quantomeno i raggi le impedivano di gelare nell’atmosfera pregna d’acqua. Si guardò nuovamente intorno per riprendere l’orientamento. La marea, macchiata di verde all’aurora, saliva la spiaggia, al limitare del quale si trovava la pianta. Al lato opposto della testa, il suo occhio mirava contemporaneamente una collinetta rotonda, irta di senecione. Collegò i due punti di riferimento e le fu chiaro da dove fosse venuta. Dacché si guardava oltre le spalle, concentrò le sue orbite nere, e relativo ocello, davanti a sé per trasalire, non dal freddo stavolta, ma dallo strano essere che le apparve.

Era un imenottero, questo era sicuro, ma era talmente cotonoso nel pelo e di colore così sgargiante da esserle alieno. Le proporzioni, poi, lasciavano intendere un corpo che iniziava in un testone e andava a restringersi nell’addome. Un bombo forse? Ma le ali erano troppo sottili. Ebbe il desiderio di alzarsi in volo, ma non aveva il coraggio di fare la prima mossa. Inclinò il capo e così fece il nuovo arrivato. Che volto affilato che aveva sotto quella peluria, pareva una come lei. Arretrò per guadagnare terreno e quello non la seguì, addirittura fece un passo indietro a sua volta. Inspirò più lentamente dai propri stigmi e rilasciò un sospiro a vedere un comportamento così poco aggressivo e la creatura fece lo stesso, distendendo la testa. Prese a digrignare. Se la creatura non l’attaccava poteva darsi fosse stanca quanto lei, ma ora la stava innervosendo con queste imitazioni. Credeva di rendersi simpatica? Si avvicinò decisa e lo stesso fece l’essere. Si bloccò da quell’improvvisa iniziativa e si arrestò sulle proprie zampe tremolanti, battendo le mandibole dalla tensione e, prevedibilmente, così si arrestò a tremare l’avversario, inspessendo il proprio manto d’ambra, ma con ben più foga rispetto a lei, tanto da deformare l’intero suo aspetto. Un bagliore improvviso scaturì sopra di lui, accecandola. Distolse lo sguardo, massaggiandosi il viso, nascosto fra gli arti anteriori, accucciandosi. Vibrò le antenne. Nulla? Neppure un rumore o un odore di qualche insetto all’infuori di lei. Che fosse scappato? Tornò a guardare e vide il mare verde, brillare di riflesso del sole.

“Che stupida”, si disse, gorgogliando in un riso amaro e tornando a fronteggiare il suo rivale. Avanzò un tarso verso di lui e questo tese il proprio. S’incrociarono precisamente sulla punta, ma non sentì nulla di solido, solo la superficie di una goccia di rugiada che aderiva alla sua zampa. “Farsi ingannare dal proprio riflesso”.

La perletta d’acqua dava un’immagine ben curiosa rispetto a come si ricordava, ignorando la deformazione naturale della superficie convessa. Tutto quel pelo ocra, per esempio, da dove veniva? Girò il capo di novanta gradi e vide che il riflesso non mentiva. Da quel che vedeva dei suoi fianchi, dal torace fino all’ultimo urosternite, il polline di prima le era rimasto addosso, appiccicato dalla stessa umidità mattutina che aveva creato quel globo in cui si era specchiata. Ovvio che muoversi le risultasse tanto estenuante. Vibrò le ali e trovò pure quelle pesanti, lanose di granuli e difficili da scollare dal proprio dorso. Le mancò il respiro. Sentì un solletichio elettrico agli stigmi e scoprì anch’essi intasati. Saltò un paio di respiri, alzò l’addome e rilasciò la cosa più vicina che un insetto potesse avere a uno starnuto. Niente da fare, doveva aspettare di asciugarsi al sole.

Percepì un ronzio con le sue antenne libere. Stavolta non c’era inganno, era il rumore di qualcun altro che si avvicinava. Tendendo per bene i suoi flagelli lo trovò sopra la propria testa. S’issò per osservare quel bruscolino nero cirolare la pianta un metro più in alto, con movimenti rilassati e pesanti. Riconobbe le manovre. Doveva trattarsi di un’ape. S’irrigidì nel tentativo di smuovere le ali abbastanza velocemente, ma le due paia si erano incollate fra loro in quell’impasto argilloso di polline bagnato. Il suo addome prese a palpitare più di prima e sentì un suo settimo arto grattare la superficie del fiore. Aveva estratto il pungiglione istintivamente. Osservò l’ape circolare un altro paio di volte. Forse si sarebbe potuta posare su un’altra di quelle zagare della cima ma ovviamente non lo fece. Precedentemente aveva già consumato le secrezioni degli altri fiori dopo il suo lungo viaggio e solo quello sopra cui si trovava era stato lasciato intonso, dacché era sazia. Individuando dunque il più invitante pasto, la mellifera scese nella sua direzione con larghe curve. Sapendo di non poter correre abbastanza veloce da seminarla, di poter volare affatto o di poter combattere dato il suo torpore, decise che mostrarsi innocua fosse l’azione migliore. Camminò all’indietro lungo il petalo, lontano dagli stami, sempre mantenendo gli occhi sul profilo dell’ape in avvicinamento. Si era fatta tanto prossima da poterne distinguere i profili ingrossati delle corbicule nelle zampe posteriori, le antenne nere e la criniera color miele che dalla testa gli vestiva il torace. Cercò di mantenere un atteggiamento placido ma non indifeso e trattenne un sobbalzo quando questa si poggiò dinnanzi a lei. Appena più minuta in statura, l’ape prese a grattarsi il capo dalle forme rotondeggianti senza alcuna fretta di finire. Lei continuò ad arretrare nella speranza di non venire calcolata, fino a sfiorare, rabbrividendo, la goccia di rugiada con la punta dell’addome. Durò un momento il gelo, appena per farle scappare un gridolino al sentirselo salire per la schiena, poi la perletta scivolò via, sospinta sull’estremità del petalo. Quest’ultimo si inclinò leggermente per il cambio di peso, piegandosi verso il basso. Girò la testa, ignorando momentaneamente la nuova arrivata per vedere quella pesante sfera rotolare via, in procinto di cadere. Si assicurò per bene alla fibra bianca della zagara, aderendo alla superficie con il torace. La goccia cadde e rilasciò del proprio peso il petalo, piegato come il braccio di un trabucco, che scattò verso l’alto. Lo slancio verticale le staccò l’anima dal corpo. Quando il petalo tornò come un elastico indietro, il suo corpo rimase sospeso per aria, senza presa sulla superficie. Cadde a peso morto e fece di tutto per issarsi su quella fibra, ma era fin troppo umida per una presa al volo e i suoi empodi scivolarono sul bianco.

“Oh” Fu il suo unico verso mentre le sue zampe posteriori già sentivano il vuoto sotto di lei. Di norma non doveva temere le cadute, ma chi lo sapeva che tutto quel polline non l’avesse appesantita abbastanza da schiantare al suolo? Chissà poi che non cadesse proprio sopra un formicaio, così frequenti fra le radici degli alberi, o l’attendesse qualche geco, lucertola, o peggio, una sua simile e parassitaria muratrice. Sbatté le ali, ma ancora si muovevano appena e goffe. Già vedeva il cielo ora che il suo corpo era perpendicolare al terreno, in attesa che scivolassero via anche le sue ultime paia di zampe, ma non lo vide allontanarsi. Due tardi adesivi si chiusero intorno il suo torace e poi un altro paio l’afferrarono ai lati della testa. Un paio ancora, stavolta di occhi a specchio al retrogusto di mirtillo, la scrutarono dalle orbite di una testa appiattita e dal morbido villo leggerissimo. Con la sola forza delle zampe posteriori, la nuova arrivata impediva ad ambo i loro corpi di precipitare, sfregando il petalo con il petto, distesa in avanti. Perché protendersi ad aiutarla? Non vi era motivo per impedire l’allontanamento di una sua competitrice, eppure faceva di tutto per tirarla su, agitando i suoi segmenti chetinosi lucidi all’alba. Le unghie dell’ape andavano però anch’esse a slittare in avanti. Non aveva la forza di tirarla su del tutto. Senza pensare accettò l’aiuto e saldò con precisione le proprie nella fibra della foglia, sollevandosi con una trazione. L’ape indietreggiò, lei si fece avanti. E ora che voleva fare? Api come lei, mellifere, non erano certo carnivore a differenze di certe loro simili, quindi perché non la lasciava andare? Detto fatto, la paffuta mollò la presa dalla sua testa e torace solo per avvicinarsi ancora di più e finirle con la testa triangolare dietro la propria, poggiandole la ligula sul collo, chiudendovi le mandibole intorno per tenerla ferma. Si scosse violentemente e questo bastò a far arretrare l'inopportuna salvatrice, che rimase immobile, con una zampa sospesa in un giro incompleto a osservarla chinando il capo, con mezzo boccone di polline in bocca. Infine si girò del tutto, volando con un balzo energico sulla cima delle antère.

“Chiaro” Considerò rigirando il collo, ancora disturbata da quel tocco “Se neppure io potevo riconoscermi così conciata, come poteva un’ape?” E si scosse un poco di granuli dall’ocello. “Il mio odore dev’essere stato celato come il mio aspetto. Potrebbe avermi confusa per l’operaia di un’altro nido o che so io”. Proseguì a speculare, camminando giù per il ricettacolo della zagara, non prima di aver buttato un’occhiata a quell’altra che andava a ricoprirsi come lei di gameti. Scese fino a un buon punto illuminato dal sole che si alzava timido, fino a capitare sopra la calda superficie di uno dei limoni. Tutto quel polline le rendeva più sopportabile l’odore di quell’agrume e finalmente potè scollegare parte del cervello e riposare le sue membra sfinite. Tutto il mondo si fece fioco e sfumato, mentre il gelo andava fugato dal calore penetrante del mattino. La brezza marina cominciò ad alzarsi, agitando le fronde della pianta, ma salda era la sua presa sulle rughe della buccia. Passò qualche secondo e ancora non sentiva il bisogno di muovere una zampa. Doveva essere proprio stanca per ristorare così a lungo e patire il solo stare in piedi. Erano avvenute così tante tangenti a farle perdere tempo, dalla scivolata, al riflesso, all’apparizione dell’ape, che si era dimenticata di nuovo i suoi punti di riferimento per tornare indietro. Bah, li avrebbe ristabiliti ancora una volta svegliatasi. 

Un volteggiare turbò il suo sonno. Era l’ape di prima quel bruscolino che a malapena vedeva sfregare il rosa del cielo? No, ne avrebbe udito il ronzio. Quei movimenti ampi lasciavano intendere una massa maggiore e quell’apertura alare… Era un uccello, ma di che tipo. Provò a metterlo a fuoco. Quell’arcobaleno di penne, quelle ali taglienti da libellula, quel lungo becco, quelle piccole zampette chiare. Era un gruccione. Non poteva proprio avere un attimo di pausa, vero? Non le riuscì di muoversi come le impartiva l’istinto. Stanca com’era non sarebbe andata lontano a piedi e le ali ancora non si erano asciugate del tutto da quella segatura bagnata. Richiuse il collegamento con gli occhi e tornò al suo riposo snervante, piacevole ma così scoperto, abbassando le antenne. Se non si fosse mossa non l’avrebbe vista, ma era dura non vedere una macchia nera come lei su un limone maturo. Nera? Ma no, lei non era più nera, come aveva visto lei stessa e l’ape pocanzi. La brezza fece vibrare il manto di polline dal suo dorso. Se era gialla come credeva poteva anche credere di non essere avvistata dagli occhi saettanti di quel merope azzurrino. Ma il gruccione scese ugualmente verso la loro pianta con una virata improvvisa. Ecco, era finita, muoversi adesso era inutile, ma era preferibile che aspettare la morte. Con passi tremolanti scese lungo l’equatore dell’aspro elissoide, fino a tornare nell’ombra. Udì il trillo lacerante del gruccione, un frullare d’ali e infine, impercettibile a chi manca di antenne, l’orrore di un imenottero. Ma tutto questo avvenne alla sua sinistra, più in alto. La zagara dondolava, strappata nei suoi petali dal passaggio di unghie da rapace, lo stesso che ora si allontanava, lasciandosi dietro, nella polvere di polline, solo una piccola ala trasparente, preda della brezza salata.

“Se fosse un mondo giusto, una buona samaritana come lei non sarebbe finita così”. Ponderò, guardandosi intorno. Da una parte la spiaggia, lambita dal verde, da un’altra il colle di senecione. Troppo giallo per i suoi gusti quel giorno. Scordò l’ape e prese vibrare le ali. Finalmente si erano asciugate e la polvere andava staccandosi dal suo corpo. Si scrollò un altro poco per alleggerirsi fino a lasciarsi cadere dal frutto. Compì una parabola rovesciata in planata e riprese quota con la spinta della caduta. Battè le ali finché non gli fu possibile mantenere l’assetto di volo e si allontanò dall’albero, verso l’entroterra. Sarebbe stato un viaggio lungo quanto l’andata. Si leccò un poco di gameti che gli erano rimasti sul metatarso per tirarsi su di morale. Funzionò e cominciò a fare una lista di tutte le cose che avrebbe riferito al vespaio, distratta però da una canzoncina da operaia che gli tornava ora alla mente sulle carcasse e i fiori.

   
 
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