Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: egleshalimar    26/01/2022    0 recensioni
[Gli eventi narrati in questa fanfiction hanno luogo durante ciò che accade nella terza stagione di Attack on titan. NO SPOILER S4].
Diventata regina, Historia deve piegare ancora una volta la propria identità dentro un ruolo che non è stato deciso da lei. In questo percorso, due persone faranno la differenza. Eren Jaeger, verso cui nutre un sentimento di tenerezza che la fa "sentire a casa" in maniera incredibilmente naturale. E Levi Ackerman, verso cui instaura un rapporto di amore-odio, che la spinge continuamente a superare i propri limiti.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christa Lenz, Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I
 
“Accetterò ad una condizione” gli avevo detto, gli occhi accesi da una forza creatrice e distruttiva insieme. Me la sentivo addosso: la forza della natura che abbatte e che dà vita, energica e inarrestabile. “Mi permetta di sistemare personalmente i conti con il mio destino.”
 
Dopo avrei potuto non combattere più. Avrei cambiato identità: sembrava essere questa la fatalità che collegava i pezzi della mia vita, un filo rosso che cuciva insieme tutte le me stessa che ero già stata e che sarei stata. Figlia rifiutata, Christa, cadetto, soldato del Corpo di Ricerca, figlia ritrovata, marionetta, destinata. Adesso regina. Avrei accettato anche questo pezzo di me, questo nuovo vestito che mi sarebbe stato fatto addosso su misura. Un militare, una regina. Non avrebbe fatto differenza, nel teatro dell’assurdo che era la mia vita fin da quando ero nata. Mettetemi in mano ciò che volete, pensavo, va bene ogni cosa. Se sarà una spada, combatterò; se sarà uno scettro, regnerò.
Ma quell’ultima battaglia era mia. Avrei rinunciato a ogni cosa, avrebbero potuto scorticarmi viva per cambiarmi pelle, cavarmi gli occhi per cancellarne l’azzurro, tagliarmi la lingua per essere la bambola più ubbidiente che potessero sperare di incoronare. Non quella battaglia, era tutto ciò che chiedevo.
Il capitano Levi aveva assottigliato gli occhi, a quel suo modo con cui rende le pupille appena visibili, due puntini grigi che scrutavano le mie intenzioni. Mi parve scocciato dalla mia richiesta. Mi sentii una bambina viziata che faceva i capricci per ottenere un regalo in più. Come se non avessi già creato abbastanza problemi, come se la mia squadra non avesse rischiato la morte nel tentativo di recuperarmi dopo essere stata rapita.
Partecipando allo scontro con Rodd Reiss avrei messo a repentaglio ogni cosa. Se fossi morta, il piano elaborato dal comandante Erwin sarebbe andato in fumo. Il trono sarebbe rimasto vacante e il danno sarebbe stato irreparabile.
 
Non fu possibile piegarmi. Irremovibile, indossai l’uniforme, le mie armi e il dispositivo per il movimento tridimensionale. Mikasa mi suggerì che quando sarei diventata regina avrei dovuto picchiare il piccoletto. Avrei voluto cominciare da subito. Datemi una corona di carta, pensai, mi accontento di dargli anche solo un calcio negli stinchi. Mi sentivo ancora addosso quel suo sguardo recriminatorio. Mi aveva fatta sentire così piccola e stupida. Mentre il comandante Erwin spiegava il piano d’attacco, mi morsi la lingua perché pensai di aver capito. Avevo capito ciò che mi aveva angosciata di quello sguardo.
Ancora una volta, il filo rosso di tristezza che legava ogni parte della mia vita, aveva stretto un altro nodo. Non era vero che l’unica costante della mia storia era stata il cambiamento d’identità, l’essere pressata all’interno di un contenitore dopo l’altro, tirata fuori e rimodellata, fusa e nuovamente indurita, smangiata, tagliata, ridotta, tanto da non ricordare più come fossero i miei confini, i margini della mia persona. Avevo appena ricordato e messo in luce dentro di me un’altra costante. Il rimprovero negli occhi di mia madre. Il suo rifiuto. La rabbia gelida con cui aveva sperato che fossi morta prima. La disperazione con cui desideravo mi amasse. No, anche solo uno sguardo, sarebbe andato bene anche solo questo.
Poi una lunga corsa fino ai rimproveri di Ymir. La mia amica così forte, così testarda, così grande. La guardavo come si guarda una montagna, una maestra, la corda che ti salva dal pozzo profondo in cui sei caduta. Era così ferma e protettiva che amai essere amata da lei. I suoi rimproveri mi ferivano come l’indifferenza di mia madre, per questo quando mi guardava sentivo crescere in me una felicità sconosciuta. Ricercavo in lei l’approvazione che nessuno mi aveva mai dato. Era dura con me, a volte quasi crudele. Ma era abile a risanare il taglio della sua lingua con la cura delle sue carezze. Era come se venisse a redimere la severità di mia madre con l’amore di cui la mia genitrice non era mai stata capace.
Infine, stretta tra le braccia di mio padre, avevo creduto di aver trovato la mia pace. Nella penombra notturna della stanza in cui aveva chiuso me ed Eren pensai davvero che il mio destino fosse tutto lì, in quel petto largo di uomo, dentro cui batteva un cuore uguale al mio. Il filo rosso per un attimo era scomparso, si era nascosto invisibile nella trama di quell’illusione. La verità attese poco prima di rivelarsi. La siringa stretta nella mia mano, la decisione che prendeva forma nei miei occhi. Non l’avrei usata. Avrei rifiutato l’imposizione di questa nuova forma che avrebbe nuovamente spezzato le mie ossa, lacerato la mia carne, fuso il mio cervello – stavolta letteralmente. Ed eccoli, là erano soltanto in agguato, come iene affamate fecero capolino dagli occhi di mio padre le bestie che mi erano state compagne da sempre: rimprovero, rifiuto, rabbia, rancore. Ero figlia loro.
Adesso l’avevo capito. Lo sguardo del capitano Levi era diventato insostenibile dal momento in cui si era trasformato in qualcosa che conoscevo bene. Ero una delusione anche per lui. Lo ero sempre, quando mi azzardavo a modellare da sola i confini delle mie scelte. Lo odiavo perché il suo era solo l’ultimo anello di una catena di sguardi che mi stringevano la gola, i polsi, le caviglie, e mi annichilivano.
 
Non riuscivo a scollarmelo di dosso, quello sguardo. Non ne capivo il motivo, ma gli occhi del capitano Levi non si mossero mai dalla mia nuca, mentre sulle mura preparavamo i carichi di esplosivo. Li sentivo pungere dietro il mio collo, come se fossi uno di quei giganti a cui rimuovere la parte vitale. Mi innervosii. Non ero ancora una regina, non avevo bisogno di una scorta. Volevo combattere un’ultima volta a fianco dei miei compagni da loro pari. Si era sentito così, Eren, per tutto quel tempo? Una specie di bomba ad orologeria da tenere sott’occhio.
Sei una ragazza normale, mi aveva detto lui una volta. Per la prima volta mi ero sentita libera da un peso che pensavo inscalfibile. Invece erano bastate quelle poche parole per farmi respirare qualche secondo. Ero normale. Ero umana. Potevo sbagliare. Non ero costantemente sotto processo. Come mi aveva fatta stare bene. Invece gli occhi del capitano Levi erano il sigillo della mia anormalità. Guardava così solo il suo obiettivo. Levi non guardava le persone, lui guardava il destinatario della sua azione. Se eri un nemico, eri il destinatario del suo colpo mortale; se eri un compagno, eri il destinatario delle sue parole; se eri un sottoposto, il destinatario dei suoi ordini. E gli occhi accompagnavano le intenzioni, come se guardasse dentro il mirino prima di sparare. Se mi stava guardando, dunque, io ero la sua missione.
A grandi falcate, lungo le mura, tentai di allontanarmi dal peso di quelle iridi di ferro. Fu allora che lo vidi. In lontananza l’essere immenso che un tempo era mio padre si faceva strada strisciando, distruggendo, incenerendo. A colpirmi fu il fatto che non ne provai disgusto. Era solo un’altra forma dentro cui si era costretto un uomo. Forse non siamo altro che questo, pensai, un grumo di coscienza e intenzioni travasabili da un corpo all’altro. Da un corpo umano a uno da gigante. Mi ritrovai a pensare nuovamente ad Eren. Io avevo solo sfiorato la possibilità di trasformare il mio corpo a quel modo. Cosa doveva significare per lui sapere di doverlo fare, a breve, durante la battaglia? O era forse un pensiero a cui ormai si era abituato? Lo rividi piangere nei miei ricordi, mentre fino a qualche ora prima mi supplicava di divorarlo. Era forse una supplica nascosta, quella di mettere fine alle sue sofferenze, e io non l’avevo colta?
Non sentii lo schianto, non sentii l’urlo che mi avvertiva di stare attenta, avevo ancora il viso di Eren incastrato nell’occhio della mia mente. Mi ero distratta fissando il gigante ancora in lontananza e mi ero persa nei miei pensieri. Non feci in tempo a rendermi conto che una botte carica di esplosivo era sfuggita dalla corda con cui i miei compagni a qualche metro da me la stavano legando, e adesso rotolava verso di me. Nel breve istante che ci separava dall’impatto riuscii solo a calcolare che non avrei fatto in tempo a spostarmi. Ci saremmo scontrate e saremmo esplose insieme.
Subito dopo, il volo. L’aria che sferzava la mia faccia, il vuoto nello stomaco dovuto al salto da una grande altezza. Non ero esplosa, avevo saltato. Non volontariamente, però. Sentivo una stretta forte attorno al mio costato e dentro di me, dalle viscere, una rabbia crescente perché sentivo di aver capito a chi appartenessero le braccia che mi avevano afferrato. Non ebbi il tempo di pensare ad altro perché dopo arrivò il dolore fisico dell’impatto. Lanciandoci nel vuoto, stavamo volando contro il tetto di una casa. Non so se fu una fortuna, ma avevamo preso in pieno un lucernario, lo avevamo sfondato ed eravamo atterrati dentro l’abitazione. Tutto nero, avevo serrato gli occhi per proteggerli dalle schegge di vetro e di legno. Sapevamo che non era ancora finita, la bomba era rotolata giù dalle mura assieme a noi. Esplose a distanza dall’abitazione, ma l’onda d’urto si estese nel raggio di diversi metri. Ci fu un collasso e ancora altro buio.
 
Ci volle un po’, ma lentamente ripresi conoscenza. Il mio cervello passò al setaccio tutte le sensazioni fisiche che potevo ricavare. Ero distesa, la schiena doleva. Sopra di me pezzi sparsi di materia: legno, mattoni, vetro. Chiamai a rapporto ogni arto: faceva tutto molto male, ma sembrava che non ci fosse nulla di rotto. Quando gli occhi si abituarono al buio, capii che c’era qualche punto illuminato nel luogo in cui mi trovavo. Tentai di sollevarmi, puntellandomi sui gomiti. Presi a rimuovere i pezzi più grossi che impedivano il movimento delle gambe. Presto sentii un’altra presenza accanto a me, che con gesti veloci sollevava quei pesi dal mio corpo.
Strinsi i denti. Pur immersa nella penombra, riuscivo a leggere l’espressione contratta del suo viso. Levi era arrabbiato. Sentii di nuovo quella fitta dentro il petto, quel dolore sottile di qualche ora prima, quando gli avevo detto che avrei combattuto. Avrei voluto piangere. Avrei voluto piangere fino a diventare cieca, per non dover più vedere su nessuno uno sguardo del genere.
Durante quel lavoro furioso di rimozione, ad un tratto sperai che parlasse. La furia silenziosa con cui mi aiutava a liberarmi dai residui dell’esplosione mi terrorizzava più di un rimprovero urlato. Avrei desiderato che gridasse, che mi prendesse a schiaffi, che desse sfogo in qualche modo alla sua collera. Avrei voluto che mi punisse, perché quel silenzio mi ricordava la sordità di mia madre.
Quando fummo entrambi in piedi, ci guardammo attorno. Eravamo finiti in una sorta di cantina, e non eravamo soli. Adesso che il fischio alle orecchie si era affievolito, potevamo sentire delle voci mozzate, dei singhiozzi, dei sussurri. Alcune persone si erano rifugiate in quel luogo a seguito dell’ordine di esercitazione che era arrivato dalla Guarnigione. Capimmo che, prima dell’esplosione che aveva fatto collassare parte del soffitto, un soldato aveva fatto in tempo a rientrare nell’abitazione, e adesso stava raccontando agli altri cosa aveva visto dalle mura. Li stava terrorizzando con il racconto di Rodd Reiss e della bestia in cui si era trasformato, che avanzava minuto dopo minuto verso la città. Sentivo crescere in me una rabbia devastante. Avrei dovuto essere là fuori, pronta a combattere, e invece ero bloccata in quel covo di idioti che si erano rinchiusi là dentro a fare la fine dei topi, spaventandosi a vicenda con storie dell’orrore, come bambini. Stavo per urlare loro contro, quando sentii poco distante da me dei rumori.
Il capitano Levi aveva preso ad ammassare scarti di materiale, cominciando a creare una sorta di montagnetta contro il muro. Mi dovetti costringere a interagire con lui. Gli chiesi cosa stesse facendo.
“Là in alto una parte del soffitto è crollata, ma l’apertura è bloccata dai pezzi esplosi dal primo piano. Se li rimuoviamo, possiamo uscire da lì”. Il suo tono era pacato, pratico. Era ancora il mio capitano e io la sua sottoposta. Mi sentii travolgere da una tristezza ineffabile. Mi sentivo in colpa per essere responsabile di quell’intoppo, ero arrabbiata perché avrei preferito essere da sola pur di non leggere ancora una volta la delusione nei suoi occhi, ed ero disperata perché volevo combattere lontano da lì.
“Mi dispiace” mormorai, trattenendo le lacrime. Odiavo i miei occhi per il modo in cui bruciavano.
Lui si voltò a guardarmi. “Che c’è, non ce la fai? Sei ferita?”
Aggrottai la fronte, cercando di sostenere il suo sguardo. “No, dico che mi dispiace per questa situazione”.
I suoi occhi non mutarono espressione. Rimasero fissi, duri, freddi.
“Quando ti avevo detto di non combattere, era questo a cui mi riferivo. Dovresti aver imparato che il campo di battaglia non ha regole. Non è logico, non si può prevedere. Ti aspetti di seguire una strategia, e poi la guerra si fa da sé. Un barile rotola verso di te ed esplodi. Così insensata è la vita umana”. La voce non aveva alcun accento sentimentale, non mostrava inflessioni. Grigia come i suoi occhi.
“La nostra missione è quella di uccidere Rodd Reiss e di incoronarti regina dentro le mura” continuò, asciutto. “Qualcuno lassù si occuperà della prima parte. Per quanto mi riguarda, possiamo anche restare qui tutta la notte, perché ho appena preso in carico la realizzazione della seconda parte del piano”.
Mi abbandonai ad un urlo disperato e rabbioso.
“NO! Non è così che andrà!” protestai, continuando a urlare. “Sono stanca di essere trattata come un pacco da trasportare da un posto all’altro. Non me ne frega niente di qual è la tua missione. Devo essere io a uccidere quel mostro e per quanto mi riguarda, potrò anche morire nel tentativo”.
“Adesso stai cominciando a rompere davvero” si innervosì Levi. Mi stupì quel cambio repentino dei suoi modi. “Ti sembra che a me stia bene lasciare tutta l’azione agli altri? Ti sembra che non vorrei essere lassù a combattere? E intanto guarda dove sono. Mi sono lanciato dalle mura per proteggere il tuo atterraggio. Puoi protestare, puoi urlare fino a straziarti la gola, puoi pure picchiarmi se vuoi, ma dal momento in cui ho scelto di afferrarti nella caduta, tu sei diventata la mia priorità. Che ti piaccia o no”.
Non seppi come reagire. Mi tornò in mente l’occasione in cui avevo promesso a Ymir che avremmo vissuto lontano da tutti, finalmente libere nelle nostre scelte, rendendo conto solo a noi stesse. Quanto era lontano il ricordo di quella sensazione. Eppure, per quanto inebriante, vi avevo rinunciato. Perché? Cos’era stato più forte?
“Capitano Levi” pronunciai, con una nuova forza nella voce. Non urlavo più. Avevo una fermezza disperata nel tono e nello sguardo. Mi sentivo come inebriata di una forza non mia, che mi trascinava verso nuove intenzioni. “La tua missione è fare di me una regina, dico bene?”
Rimase in silenzio, come sondando i miei movimenti, forse decidendo se zittirmi una volta per tutte con un colpo che mi tramortisse. Calcolando come disinnescarmi.
“L’ho realizzato anch’io, proprio adesso” mantenni la mia voce calma, sperando di suonare convincente. In realtà, sentii che non mi importava di convincerlo. Davo voce a un germe che mi stava crescendo dentro, una convinzione che stava affossando le sue radici dentro la mia carne e spingeva per ramificarsi fuori da me. “Pensavo che avessi acconsentito alla vostra idea di far di me una regina perché non avrei avuto altra scelta. Perché tra tutte le cose che potrei essere, l’idea di essere utile – non una regina, semplicemente utile – mi pareva la più degna. Ma adesso ho capito che non è così. C’è sempre una scelta, dico bene? E io ho scelto di essere una regina perché ho capito che sono nata per essere questo. Tutto ciò che ho passato, che ho sofferto, prima di arrivare qui doveva condurmi a questo. Quindi ti prego, lasciami essere ciò che sono”.
Mi accorsi di stare sorridendo. Mi accorsi, anche, di non essere mai stata più in pace con me stessa come mentre pronunciavo quelle parole di fronte al capitano Levi. Lui rimase a guardarmi negli occhi per tutto il tempo, nemmeno sbatté le palpebre. Per la prima volta non mi sentii a disagio nel sostenere quello sguardo. E per la prima volta quello sguardo non mi apparve ostile.
“Cosa hai in mente?” mi chiese, ma dalla sua voce era scomparsa ogni traccia di ira.
“So che non ho ancora una corona in testa, ma non credo faccia differenza. Lasciami essere una regina. E la tua regina oggi vuole combattere”.
Pensai di essermi spinta troppo oltre. La voce era rimasta ferma e inflessibile. Solo un leggero tremito aveva compagnato quel tua. Sentii di aver peccato di prepotenza. In quel luogo e in quel momento, Levi era ancora un mio superiore. Ma non mi diedi il tempo di aspettare la reazione del capitano. Feci uno scatto verso le persone sedute contro il muro in fondo alla cantina. Sentivo l’adrenalina che pervadeva ogni mio nervo.
“Ehi voi!” richiamai la loro attenzione. Notai solo allora che, oltre il soldato che aveva raccontato di aver visto Rodd Reiss, ce n’erano altri due del Corpo di Guarnigione. Insieme a loro, sei civili in tutto. “Dovete aiutarci a riaprire la breccia nel soffitto. Dobbiamo risalire in superficie”.
“Non dire sciocchezze, ragazzina!” venni aggredita da uno dei soldati. “Forse non ti è chiaro cosa sta succedendo là fuori. Non ti aiuteremo ad aprire un passaggio che possa facilitare la strada ai giganti”.
“Il gigante è uno solo, e dalle sue dimensioni vi assicuro che, se davvero dovesse superare le mura, una fessura nel soffitto sarebbe l’ultimo dei vostri problemi”.
“Non se ne parla”.
“Ascoltatemi, vi supplico” dissi con più forza. “Là fuori c’è un abominio, è la verità. Ma è da solo e noi abbiamo un piano per abbatterlo. È necessario che io sia là fuori. Avete paura, ed è normale. Io sto per uscire ad affrontare una bestia immensa con queste due lame qui, che potrebbe usare come stuzzicadenti. Nulla di tutto questo ha un senso. Vi chiedo solo di fidarvi di me, perché se mi aiutate ad uscire da qui, io esco per combattere. Vi prometto che non un solo capello dei vostri rischierà qualcosa, vi difenderò con la mia stessa vita”.
Ad uno ad uno, lentamente, ancora riluttanti, si alzarono. I tre soldati e perfino i civili. Loro ammassarono tutto ciò che avrebbe potuto aiutarli a raggiungere il soffitto, io e il capitano Levi usammo il movimento tridimensionale. Arrivati là sopra, tutti insieme riuscimmo a riaprire un passaggio.
Io e Levi fummo fuori in breve tempo. La casa era collassata su sé stessa, quindi ci ritrovammo già all’esterno.
“Se ne uscirò viva” sospirai, “darò una medaglia a ognuno di loro”.
Sentii un suono soffocato alla mia destra e stentai a credere alle mie orecchie finché non mi voltai a guardare il capitano. Aveva ridacchiato. Durò qualche istante, poi tornò subito serio.
“Hai ottenuto quello che volevi, ora stammi a sentire. Hai fatto un bel discorso prima, ma l’incoronazione è ancora lontana: fino ad allora appartieni al Corpo di Ricerca, come tutti gli altri. Non ho modo di combattere e di farti da balia insieme. Quindi se torni sulle mura ci vai da soldato, e ci vai per uccidere”.
Sperai che, prima di lanciare i cavi del suo dispositivo e di spingere il corpo in volo verso le mura, avesse avuto il tempo di vedere il grande sorriso che mi si era spalancato sul volto.
 
Avvenne tutto molto in fretta. Nei miei ricordi è come un susseguirsi di forme e colori. Riuscii a tranciare in due il nucleo vitale di mio padre, che era volato via nell’esplosione con cui avevamo distrutto il suo corpo di gigante. L’incoronazione avvenne quello stesso pomeriggio. Trattenni nei miei ricordi la sensazione fisica del penetrare con le lame la spessa carne del mostro e quella della pesante corona poggiata sul mio capo. Fu tutto un miscuglio indistinto di adrenalina e dolore.
Dopo la cerimonia, mi lasciarono da sola in una stanza del palazzo in cui avrei alloggiato. La capitale non mi piaceva, desideravo trovare un posto che sentissi più affine. Mi guardavo allo specchio. Era come se volessi studiare quella mia nuova forma, come se avessi paura che non mi sarei riconosciuta, se avessi incrociato il mio sguardo sul riflesso di un vetro, dell’acqua, dell’argento delle posate. Fissavo nella mente ogni dettaglio del viso. I capelli che non avevo mai portato raccolti, e adesso acconciati con delle strette trecce. La corona, sempre pesante, ma che non sentivo ancora di togliere. Avrei imparato a riconoscere anche il segno rosso che avrebbe lasciato sulla mia fronte. Il candore del vestito mi abbagliava, faceva apparire la mia pelle ancora più bianca, quasi trasparente. Mi spaventai perché mi sembrò la pelle di una morta, o di una statua di cera. Magari, mi ritrovai a pensare, solo così avrei potuto essere finalmente immutabile.
Mi odiai perché intimamente mi trovavo bella. Ymir si sarebbe sicuramente fatta beffe di me, in quegli abiti. Due colpi lievi alla porta. Senza motivo, mi angosciai. Non avevo voglia di vedere nessuno e allo stesso tempo mi spaventava l’idea che qualcuno volesse parlarmi. Come se adesso si aspettassero da me delle risposte diverse da quelle che avrei dato un paio di ore prima. Ma non sapevo, non sentivo, nulla in più di ciò che avrei potuto sapere e sentire due ore prima.
La porta si aprì verso l’interno rivelando la figura sottile del capitano Levi. Trattenni il respiro.
“Chiedo udienza, Vostra Maestà” lo sentii dire, con la sua voce roca. Gli feci un cenno, entrò, richiuse la porta dietro di sé. Mi tornò alla mente come un lampo ciò che era accaduto qualche ora prima. Spinta dalla gioiosità della festa e dall’influenza di Mikasa, mi ero davvero azzardata a colpire il capitano Levi davanti ai miei compagni. Era stato un pugnetto leggero sul suo fianco, ne ero rimasta terrorizzata, ma lui aveva sorriso.
Mi scappò una breve risata. “Sei venuto a restituirmi il colpo?” Mi sforzavo di infondere leggerezza e gioco alla mia voce, ma ero sicura che negli occhi potesse leggere la mia tensione.
Sperai che sorridesse ancora una volta, ma non lo fece.   
“Sono venuto a fare rapporto sulla mia squadra”.
Sentii il viso diventarmi una maschera di ghiaccio. Il capitano? Rapporto, a me? Avevo fatto parte della sua squadra letteralmente fino a quella mattina. Cosa si aspettava che rispondessi?
Prima che potessi replicare, Levi riportò brevemente qualche avviso. Dove alloggiava la squadra, cosa avrei dovuto fare se avessi voluto entrare in contatto con loro, per quanti giorni sarebbero rimasti nella capitale.
“Tutto qui?” mi lasciai sfuggire, visibilmente delusa.
“Desidera altre informazioni?”
Perché mi stava trattando con quella deferenza? Odiavo quel tono, odiavo il desiderio di farglielo notare. Pensai di non doverlo fare. Non sarebbe stato appropriato che gli dicessi di trattarmi come prima. In realtà, nemmeno ciò che era successo quella mattina sarebbe dovuto accadere, quegli scambi così carichi di sentimentalismo. Mi ero lasciata andare e non avrei dovuto. Non tra un capitano e una sua sottoposta. E adesso che eravamo una regina e un militare al suo servizio, non avrei potuto chiedergli altro che quel distacco.
Ero solo tristemente consapevole del fatto che non mi sarei più sentita come quando quella mattina gli avevo confessato l’intenzione che era nata in me. Epifanie del genere sono destinate ad essere condivise tra poche persone. Pochissime persone, se sei una regina. Quasi nessuno.
“Prima di congedarmi, posso dire solo un’altra cosa?” disse Levi.
Sì, ti prego. “Certamente”.
Si avvicinò di qualche passo. Era un uomo di cui si avvertiva la presenza in una stanza. Era piccolo, ma spandeva attorno a sé un’aura forte e magnetica. Spostandosi nella penombra della sala, era come se avesse modificato il baricentro di tutta la città.
“Volevo dirti che avevi ragione, stamattina”. Quindi ricordava. “Non siamo stati noi a scegliere che tu diventassi regina, era il tuo destino”. Ricordava la mia epifania, il mio momento di rivelazione. “E non ne sono diventato consapevole oggi in battaglia, o nel pomeriggio durante l’incoronazione. È stato per il modo in cui hai parlato ai tuoi futuri sudditi, che ancora non sapevano di esserlo. Allora mi sono accorto, come te, dopo di te, che non ti abbiamo affatto scelto. Siamo solo stati fortunati ad averti qui al momento giusto”.
D’un tratto mi sentii profondamente stanca. Una stanchezza inebriante, come dopo una festa sfrenata o un banchetto a cui si è mangiato tanto, tantissimo. Sentivo un tepore tutt’attorno e tutto dentro. Gli occhi mi si annebbiarono come per un vapore che veniva dall’interno.
“Perdonami” sentii la mia stessa voce mormorare. “Sono davvero molto stanca”. Accompagnai quelle parole al movimento del mio corpo, che si abbassò a cercare il divano alle mie spalle. Mi sedetti. Avevo gli occhi socchiusi, ma posso giurare di averlo visto distintamente. Levi che si inginocchiava di fronte a me. Non mi guardava in viso, i suoi occhi seguivano i movimenti delle sue mani, e le sue mani si sollevavano verso la mia testa, per prendere la mia corona. D’un tratto venni liberata da quel fardello. Sentii una frescura inaspettata sulla fronte e la testa leggera, fu piacevole. Solo allora Levi mi guardò negli occhi.
Non mi guardava come mia madre, che non mi vedeva affatto. Né come Ymir che vedeva in me la donna che desiderava che fossi. Non mi guardava come Reiner, quel giorno in cui avevo stracciato la mia gonna per farne una benda per il suo braccio ferito. Né come Jean, o Armin, o Connie.
Sovrapposi ai suoi gli occhi di Eren, nel giorno in cui mi aveva detto che ero una ragazza normale. Com’ero stata felice del modo in cui mi vedevano i suoi occhi verdi. Com’ero felice di come mi vedevano, in quel momento, quegli occhi grigi.
Mi risvegliai alle luci dell’alba, con i raggi del sole che entravano prepotenti dalle grandi finestre alle mie spalle, e mi ferivano gli occhi. Ero sdraiata sul divano. Individuai la forma tondeggiante della corona poggiata su un tavolino poco più in là. Sul mio corpo, a farmi da coperta, la pesante cappa verde del Corpo di Ricerca.
   
 
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