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Autore: Krgul00    28/01/2022    1 recensioni
Charlie è una donna con dei segreti stufa che questi la tengano lontana da suo padre, l'unica persona che può chiamare famiglia. Tornata al suo paese natale per ricucire il loro rapporto, Charlie si troverà coinvolta con l'affascinate nuovo sceriffo.
Ma ancora una volta, il non detto rischia di mettere a repentaglio ciò che ha di più caro.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO OTTO
Lo sceriffo di Twin Lake, Ryan Clark, era un uomo sui quarantacinque anni, alto un metro e sessanta, che sembrava quasi nuotare nei suoi vestiti di due taglie più grandi. Magro come un chiodo e con i capelli radi, a causa del troppo stress, era un tipo ansioso e pieno di tic.
Passeggiando avanti e indietro nel piccolo ufficio di Logan, allacciava e slacciava in continuazione il polsino della sua camicia a quadri di un verde sbiadito e il movimento provocava un esasperante ticchettio continuo e ritmico.
“Non è servito a niente.” Brontolò. Tic.
Era un tipo bonario e pacato, Logan non lo aveva mai sentito alzare la voce; tuttavia, a suo modo, poteva essere davvero irritante. A sentire lui, quando era ansioso, sembrava che il mondo dovesse finire da un momento all’altro.
Tac. “È passata più di una settimana, e ne sappiamo tanto quanto prima.” Clark smise di camminare e finalmente si sedette. Logan, sulla sua sedia, era rimasto perlopiù in silenzio da quando l’altro era entrato e aveva iniziato a lamentarsi. Non si sarebbe sorpreso se, un giorno di quelli, Ryan si fosse seduto e avesse iniziato a parlare dei suoi problemi come in una seduta psichiatrica. Tic.
“Non è un grosso problema, Clark. Abbiamo appena iniziato a sondare il terreno.” Ciò che non disse fu che anche lui era preoccupato. Era vero, una settimana non era poi così tanto, ma se volevano stroncare il tutto sul nascere dovevano agire in fretta, avevano perso fin troppo tempo dietro ad Alan Hill.
Tac. Quasi pianse di gioia, quando Ryan smise di giocare con quel dannato bottone e iniziò a torturarsi il lobo dell’orecchio; doveva assolutamente regalargli un antistress per Natale.
Tuttavia, quella momentanea pace non sembrò evitargli il mal di testa crescente che si faceva strada dalla base del collo.
Ryan scosse la testa lentamente. “Dovrei dire ai miei uomini di smettere di tener d’occhio il Gryson’s?” Chiese, la vena d’ansia, a quella sola idea, perfettamente distinguibile nella sua voce.
Avevano concordato di sorvegliare, oltre a Hill, anche l’uomo con cui lo avevano visto la settimana prima: Liam Ruiz. Risultava avesse dei precedenti: era stato già arrestato per aggressione; tuttavia, sembrava comportarsi come un normale turista che si gode la vita, e non un organizzatore attivo di un traffico di droga. Stavano sulla strada giusta, lo sapeva. Un pezzo grosso non avrebbe rischiato di certo d’esser beccato con le mani nel sacco.
Logan, appoggiato con il gomito sul bracciolo della sua sedia, si strofinò una mano sulla fronte. “No, continuiamo a controllare questo Ruiz.” Rifletté per un istante, prima di aggiungere: “E anche Hill.”
Gli occhi di Ryan si spalancarono. “Anche Hill? Ma non si è mosso da quella casa per tutta la settimana.”
All’alzata di spalle di Logan, Clark abbassò la testa rassegnato. Si mise di nuovo in piedi, e riprese a camminare, iniziando a giocherellare con la fede.
“Quella donna ti ha detto altro?” Un pizzico di speranza trapelò da quelle parole che volevano sembrare disinvolte.
Logan non poté far a meno di correggerlo: “Charlie.” Specificò. “E no, non mi ha detto altro. Perché mai dovrebbe sapere qualcosa?”
Clark scosse la testa. “Non lo so, ma non sappiamo nemmeno perché ci abbia fornito le altre informazioni.” Osservò con tono asciutto.
Non aveva potuto fare a meno, la settimana prima, di dire a quell’uomo che non aveva idea di come la donna fosse venuta a conoscenza dell’ubicazione di Hill. Non aveva potuto tacere al riguardo, dato il rischio che avrebbero corso se effettivamente fosse stato tutto un piano contorto contro di loro.
Tuttavia, adesso, a quelle parole che potevano sottintendere un qualche tipo di coinvolgimento di Charlie, Logan si irrigidì e si mise sulla difensiva. “Voleva solo aiutarci.” Il tono gli uscì più duro di quanto avesse voluto.
L’altro, però, non sembrò farci caso. “Tu stesso hai detto che non sai come facesse a saperlo.” Notò semplicemente e alla sua espressione pacata, Logan si rilassò un poco; Ryan non era mai stato un tipo meschino, sapeva perfettamente anche lui che l’intervento di Charlie era stato provvidenziale.
L’altro uomo si fermò, girandosi a guardarlo negli occhi. “Stai attento con quella donna.” Il tono serio, ma lo sguardo bonario. Riprese la sua passeggiata. “Perciò, il nostro piano è aspettare?”
Logan si irrigidì e l’ansia dell’altro iniziò a pervadere anche lui; si massaggiò le palpebre: il mal di testa sempre più fastidioso. Era sempre stato un tipo paziente, ma a sentire quell’uomo sembrava avessero esaurito il tempo, e aveva paura che potesse essere davvero così.
“Per ora non possiamo fare altro.” Constatò, con un sospiro.
Clark si sedette ancora una volta, iniziando a muovere la gamba su e giù, nervoso. “Sono disposto ad aspettare altri tre giorni, dopodiché dovremmo provvedere a cambiare strategia.” Rifletté un attimo, e a qualunque conclusione sembrò arrivare non parve esserne felice. “Potrei chiedere ad un tizio che conosco di intercettare questi uomini per noi, ma non so quanto sia opportuno.” Fece una smorfia, Logan conosceva la frustrazione di non avere a disposizione le risorse necessarie per quel tipo di competenza.
Lo sceriffo di Sunlake annuì. “Vediamo cosa succede.”
Fu grato quando l’uomo se ne andò, alle cinque e mezzo.
Teso e spossato, Logan guardò le carte sulla sua scrivania. Non aveva alcuna voglia di lavorare e decise di lasciar perdere e andar via. Per quel giorno era sufficiente, aveva bisogno di distrarsi.
Chiamò sua madre che, alla notizia che voleva andare lui stesso alla biblioteca a prendere Jake, parve esultare di gioia.
Sylvie Moore ripeteva in continuazione al suo adorato figlio che lavorava troppo, ed effettivamente non era l’unica a pensarlo. Poteva anche avere ragione, ma Logan sentiva sulle spalle il peso della responsabilità di quella città; non era un peso gravoso, solo uno sprone in più che lo convinceva a rimanere – in ogni caso - fino a sera seduto sulla poltrona del suo ufficio. Non voleva deludere nessuno.
Ovviamente, era ben consapevole con chi sarebbe stato Jake, in biblioteca. Dalla domenica precedente, aveva rivisto Charlie solo a pranzo. Per i quattro giorni successivi al loro incontro al lago, lo sceriffo e il suo vice – con gran stupore di tutti – avevano iniziato ad unirsi a Charlie e Maddie al Red. Giravano parecchi pettegolezzi al riguardo, e l’ipotesi più quotata per questo improvviso cambio di scenario era la presunta infatuazione di Luke per Charlie.
Per poco non era scoppiato a ridere in faccia a sua madre quando glielo aveva detto.
In ogni caso, al loro bacio infinito ancora non ne era seguito un altro e a Logan formicolavano le mani solo al pensiero di poterla toccare di nuovo.
Quando entrò in biblioteca, vide diverse teste chine sui libri, ma nessuna era la zazzera scura di suo figlio.
Percorse il corridoio tra gli alti scaffali delle librerie, diretto verso quella piccola area relax dove l’aveva portato Charlie la volta scorsa.
Si fermò quando sentì la voce di Jake, il discorso già avviato. “…vuol dire che sono un fifone?”
Le sopracciglia di Logan per poco non toccarono il soffitto e, oltremodo curioso, sbirciò attraverso lo spazio tra i libri e lo scaffale soprastante: dall’altra parte, Charlie e Jake erano seduti sul tappeto a gambe incrociate, una scacchiera tra loro. Entrambi concentrati sul gioco, la testa bassa a guardare ognuno le proprie pedine.
Percepì un po’ della tensione del giorno abbandonarlo alla sola vista di quella scena.
Guardò suo figlio. I capelli scuri che gli aveva pettinato lui stesso quella mattina erano ormai un disastro, sparati da tutte le parti senza un senso. Sospettava che, non appena lo lasciava a scuola, se li scompigliasse in quel modo. Sorrise al solo pensiero.
Lo vide spingersi i tondi occhiali più su, sul naso, e sbirciare curioso verso la donna davanti a sé.
Anche Logan spostò la sua attenzione su di lei. Aveva una visuale perfetta del suo profilo, con una ciocca dei suoi biondi capelli dietro l’orecchio. Seguì con gli occhi la linea dritta del naso, quella degli zigomi, fino a scendere su quella morbida delle labbra; scivolò lungo la curva del collo e immaginò di posare un bacio proprio lì, per sentirne il dolce profumo.
Si riscosse quando Charlie, prendendo in mano un pezzo, rispose. “Chiunque scapperebbe davanti ad un T-Rex.”
Logan non si sorprese; sapeva perfettamente che tipo di discorsi strani poteva fare Jake, e anche Charlie non sembrò affatto perplessa da qualsiasi domanda bizzarra suo figlio le avesse fatto.
“Noah ha detto che lui non lo farebbe.” Jake guardò la mossa della sua avversaria prima di continuare: “Sicuramente nemmeno tu fuggiresti.” L’assoluta fiducia con cui suo figlio lo disse lo fece sorridere ancor di più, anche lui era convinto che, in quell’eventualità, Charlie non si sarebbe semplicemente data alla fuga.
La donna buttò indietro la testa e rise di gusto, e quando si voltò si accorse del suo sguardo. Tra loro sembrò scorrere pura energia. Come sempre gli succedeva, Logan fu pervaso da un desiderio che non provava da tempo.
Quelle iridi blu sembravano attrarlo, come la luce una falena, e sotto la superficie azzurra vide nuotare gli enigmi intellegibili che Charlie custodiva tanto gelosamente. Tutto ciò, gli faceva solo desiderare d’esser il primo e unico uomo in grado di svelare tutti i segreti di quella donna.
Gli ci volle un momento per rendersi conto che, fin da subito, si era accorta di lui.
Gli fece una smorfia giocosa, prima di tornare a guardare il bambino davanti a sé, che ancora contemplava la scacchiera. “Scapperei terrorizzata, come chiunque. Sarebbe la cosa migliore da fare, in ogni caso. Solo un idiota se ne starebbe lì a farsi divorare.”
La risata di Jake fu un balsamo per i suoi muscoli tesi, e non gli sfuggi la luce di pura ammirazione con cui guardò Charlie.
Rimase ancora un minuto nascosto dietro la libreria, prima di decidere che fosse il momento di mettere al corrente anche suo figlio della sua presenza.
“Chi sta vincendo?” Esordì.
“Papà!” Jake saltò in piedi in un lampo e Logan lo prese in braccio senza sforzo, quando gli si buttò addosso. “Sto vincendo io!” Disse pieno di gioia, poi abbassando la voce per non farsi sentire gli bisbigliò all’orecchio: “Charlie non è capace a giocare.”
Logan rise, e guardò la donna, ora in piedi davanti a loro; il sorriso divertito sul suo volto, diceva chiaramente che era ben consapevole di quel che aveva detto.
“Ciao.” Lo salutò, le guance che si arrossavano leggermente. Gli ricordò la domenica precedente, al lago, quando se n’era rimasta ferma a guardarlo, improvvisamente esitante; anche allora, come adesso, aveva pensato a che contraddizione fosse. Era di gran lunga la donna più forte e risoluta che avesse mai conosciuto; tuttavia, poteva mostrare un’incomprensibile insicurezza, soprattutto quando si abbandonava tra le sue braccia in modo completo e disarmante.
Logan sorrise alla vista di quel rossore. “Ciao, Charlie.” Forse si perse più del dovuto nel blu di quegli occhi incredibili, perché quando riportò l’attenzione su suo figlio incontrò due iridi scure, identiche alle sue, che lo scrutavano con curiosità. Forse fin troppa.
“Vado a prendere lo zaino.” Disse Jake, divincolandosi dal suo abbraccio e saltellando via, dietro alle librerie.
Charlie gli si avvicinò, negli occhi la stessa luce che aveva domenica. Subito, le mani di Logan si posarono sui suoi fianchi, mentre quelle di lei sul suo petto. Le fece scivolare più in alto, sulle sue spalle e lì si fermarono.
Le sopracciglia della donna si aggrottarono, formando una rughetta nel centro della sua fronte. Lo scrutò attentamente negli occhi, prima di parlare. “Sei teso.”
Non era una domanda, e a quelle parole il peso della sua conversazione con Clark, di poco prima, tornò a farsi sentire. Sospirò, baciandole i capelli e beandosi della sua fragranza di fiori. Quel profumo era anche più dolce di quanto ricordasse.
“È solo il lavoro." Mormorò.
Le mani di lei si fecero strada sulla sua nuca, fino all’attaccatura dei capelli, in un massaggio lento e rilassante. Logan chiuse gli occhi, per poi riaprirli di scatto quando sentì le labbra morbide di Charlie toccare brevemente le sue, in un fugace e tenero bacio.
“Dimmi cos’è che ti preoccupa.”
Era strano per lui avere qualcuno con cui poterne parlare. Anche con sua madre cercava di non affrontare troppo spesso il discorso lavoro e, in ogni caso, la donna non aveva mai avuto l’effetto calmante che sembravano avessero quelle mani delicate sul suo collo.
Logan si abbandonò ad un sospiro. “Stiamo seguendo la pista di Hill da una settimana ormai, ma l’uomo che era con lui non si espone. Siamo preoccupati.” Scosse la testa. “Inoltre, quella non è nemmeno la nostra giurisdizione. Non so come faremo.”
Fu un lampo, ma Logan lo vide: l’indecisione passò veloce in quelle iridi azzurre.
Rimasero a guardarsi per un lungo momento, entrambi consapevoli che c’era qualcosa che lei non stava dicendo. Si costrinse a rimanere in silenzio, non le avrebbe fatto una domanda a cui sapeva non avrebbe risposto.
Un’altra emozione, però, iniziò a prendere il posto dell’indecisione: la vergogna, e con quella iniziò a sbiadire pian piano la sua Charlie. Le strinse i fianchi, sperando che quello bastasse a farla restare con sé.
“Non farlo.” Le bisbigliò a fior di labbra e occhi blu cercarono i suoi. “Va bene. Non importa.” Mormorò ancora, e fu ripagato da un sorriso incerto. Sembrava imperversasse una lotta dentro quella bella testa bionda.
Logan non poté resistere oltre, e la baciò.
Sentì il seno di lei premergli morbido contro il petto, quando la tirò a sé; le infilò la mano tra i capelli, inclinandole il viso all’indietro e quando le loro lingue si toccarono Charlie si abbandonò ad un piccolo gemito di piacere. Gli morse il labbro inferiore, lo succhiò con delicatezza e Logan si sentì come un cavo elettrico scoperto immerso nell’acqua.
Finì tutto bruscamente. Lei si scostò d’improvviso, facendo un passo indietro e iniziando a mettere in ordine la scacchiera. Gli ci volle qualche istante per rendersi conto dei passi concitati in avvicinamento.
Ancora a corto di fiato, Logan si passò una mano tra i capelli e cercò di riprendersi.
“Sono pronto!” Esultò Jake, spuntando da dietro la libreria, insieme a Maddie.
Era arrivato il momento di andare.
 
Guardando padre e figlio allontanarsi, Charlie pensò a quello che era stata sul punto di dire: “Peter Cox.” Era stato un momento. Il pensiero di pronunciare quel nome era venuto così spontaneo che l’aveva sorpresa.
Come avrebbe fatto a giustificare quell’informazione? Conosceva la vera identità di Liam Ruiz, aveva il suo fascicolo salvato sul computer. Non era nemmeno sicura che quell’informazione sarebbe tornata utile allo sceriffo, ma aveva desiderato vedere Logan alleggerito dalla sua preoccupazione e, per un attimo, se n’era infischiata del resto. In cuor suo, era consapevole che una volta iniziato a rivelare informazioni a Logan non sarebbe più riuscita a smettere.
Le era stato chiaro fin da subito che Liam Ruiz, a differenza di Adams e Nelson, era ben consapevole dell’eventualità che qualcuno ascoltasse le sue chiamate. Anche se arrogante e fin troppo sicuro di sé, in quello era un tipo accorto.
Tuttavia, nonostante Ruiz non si sbilanciasse, non si poteva certo dire lo stesso di chi gli gravitava intorno.
In quattro giorni, Charlie si era costruita una fitta rete di contatti: chiunque chiamasse Liam Ruiz entrava nella lista di persone intercettate, così come chiunque si mettesse in contatto con una qualsiasi di queste.
Controllare gli scambi di tutta questa gente, ovviamente, richiedeva molto tempo ed energia e Charlie aveva iniziato a dormire a singhiozzo, poiché spesso le chiamate – di cui era meglio conoscere i dettagli in tempo reale – arrivavano nel cuore della notte.
Ogni volta che veniva avviata una telefonata da una di quelle persone, anche il cellulare di Charlie iniziava a squillare e, semplicemente accettando la chiamata, poteva sentirne la conversazione, che veniva sempre registrata e salvata.
Prima o poi, però, sapeva che sarebbe dovuta intervenire sul campo; già in precedenza con una bottiglia di birra aveva reperito più informazioni che in qualsiasi altro modo. Uomini e donne non sembravano affatto restii a parlare con lei: era troppo bella, troppo bionda e troppo donna per poter rappresentare una qualche minaccia, e lei non faceva nulla per mitigare quell’impressione, con un atteggiamento frivolo e superficiale incarnava lo stereotipo della svampita senza cervello.
Charlie aveva sperato di poter rimandare il più possibile quel momento, ma iniziava a chiedersi se un suo intervento non potesse facilitare anche il compito della polizia – oltre il suo, ovviamente.
Aveva pensato, quindi, di condividere quell’informazione con Logan. Non che prima d’ora non avesse mai scambiato informazioni per altre, ma in quel caso, oltre a non ottenere nulla in cambio, si sarebbe compromessa.
Non che non si fidasse di lui. Era impossibile non farlo, quell’uomo era una continua sorpresa: non aveva fatto domande, nonostante sapessero entrambi che c’era del non detto tra loro; anzi, aveva capito, proprio come aveva promesso che avrebbe fatto.
Lei, più di tutti, sapeva quanto un’informazione facesse la differenza in quei casi, e sapeva anche che, semmai avesse deciso di aiutarli, le indagini della polizia avrebbero fatto enormi balzi in avanti in poco tempo. Ciò, però, voleva dire uscire dal seminato: doveva trovare Cole Rodriguez, non aiutare a sventare un’organizzazione criminale.
Sospirò, abbattuta.
“Cosa c’è?” Le chiese Maddie, ancora vicino a lei.
Charlie la guardò, quei dolci occhi castani velati di una leggera preoccupazione. “Non so cosa devo fare, Diddi.” Ammise in un sussurro sconsolato.
“Riguardo a cosa?” Maddie, Charlie lo sapeva, avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutarla, ma fu costretta a scuotere la testa, non potendo confidarsi come una volta.
“Magari davanti una tazza di tè ti sentirai meglio.” Ne sembrò assolutamente sicura; quindi, la seguì fino alla minuscola sala ristoro.
Sorseggiarono il tè in silenzio e Charlie si chiese, con più serietà delle volte precedenti, il motivo di quel suo rimandare la fase operativa. Non le era mai successo di voler evitare di mettersi in gioco in prima persona.
Ripensò a quanto le era piaciuto, al Gryson’s, sapere di avere Logan con sé; tranne che, questa volta, non poteva di certo chiedere allo sceriffo di accompagnarla.
Sbirciò verso l’altra donna, intenta a immergere un biscotto al cioccolato nel suo tè e un’idea malsana iniziò a prender piede nella sua testa, qualcosa che non avrebbe mai creduto potesse venirle in mente.
Sembrava che Sunlake avesse uno strano effetto su di lei.
Continuò a lanciarle occhiate fugaci, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione dell’altra se davvero avesse osato chiederle una cosa del genere. Proprio come quando erano ragazzine e si trascinavano nei guai dell’altra, Charlie era sicura che Maddie sarebbe saltata ad occhi chiusi giù da una scogliera se solo glielo avesse chiesto.
Ciò che aveva in mente non sarebbe stato pericoloso, quello era certo, ma era ben consapevole che non era nemmeno strettamente necessario e assolutamente imprudente.
Posando la sua tazza sul tavolo, Maddie la riscosse dai suoi pensieri. “Chiedimelo.”
Charlie spalancò gli occhi, stupita. Non aveva pensato ad alta voce, ne era certa.
L’altra sbuffò, appoggiandosi sul tavolo, il mento sulla mano. “Te ne stai lì a soppesarmi, facendoti mille mila film. Chiedimelo e basta.”
Scosse la testa, cercando di levarsi quell’idea folle dalla testa.
Dopo un lungo momento di silenzio, Maddie si raddrizzò, un piccolo broncio sulle labbra. “Davvero non me lo dirai?” Dolci occhi castani cercarono i suoi.
“È una pessima idea.” Le disse Charlie, tentando di convincere sia Diddi sia sé stessa, ma l’altra non sembrava avere intenzione di demordere.
“Hai detto la stessa cosa di quelle montagne russe, anni fa.” Alzandosi dalla sedia, si girò verso il piccolo lavello del cucinino e iniziò a lavare la sua tazza. “Non è una buona idea Diddi, probabilmente vomiteremo.” Disse in una pessima imitazione della voce di Charlie. La guardò da sopra una spalla, le sopracciglia inarcate come a sottolineare la sua domanda successiva: “E poi alla fine è andato tutto bene, non è vero?” Mosse la mano come ad accantonare quelle sue stupide preoccupazioni.
Charlie sogghignò al ricordo. “Tu hai vomitato, però.” Osservò con calma, pregustando la reazione dell’amica.
“Solo perché avevo mangiato troppi hot dog!” Rispose indignata ora come allora, facendola ridere.
Finì il tè in un unico sorso e si alzò, avvicinandosi a lei.
“Ti giuro che stavolta non accadrà.” Promise Diddi in un sussurro speranzoso, gli occhi castani pieni di aspettativa e le mani giunte in preghiera.
Charlie sospirò rassegnata e l’altra iniziò a saltellare sul posto dalla felicità. Nonostante tutto, non poté trattenere un sorriso.
“Va bene, ora calmati.” Le disse mettendole le mani sulle spalle, cercando di placare i suoi saltelli incontrollati. Maddie rimase così, vicino il piccolo lavello della sala ristoro a guardarla, in attesa delle sue prossime parole.
“Deve rimanere un segreto, e dovrai fare esattamente ciò che ti dico senza fare domande. Capito?”
Maddie annuì, piena di entusiasmo. Guardandola, Charlie considerò ancora una volta di fare marcia indietro.
Non sarà pericoloso. Si disse.
La decisione fu presa: “Stasera usciamo, metti il vestito più carino che hai.”
 
Quella sera, parve che ogni singolo aspetto del piano di Charlie sarebbe stato ignorato; eppure, non era poi chissà quale piano complesso, troppo difficile da ricordare.
Charlie aveva individuato il loro obiettivo, un certo Isaac Evans che – da quanto aveva capito dalle intercettazioni – possedeva il magazzino dove veniva depositata la droga; tuttavia, tra i tanti fabbricati che possedeva, era indispensabile individuare quello giusto – censito o no.  
L’uomo, uno dei più piccoli anelli della catena dell’organizzazione di Alan Hill, era solito frequentare un piccolo locale appena fuori Twin Lake City, lo ‘Swing’.
Non aveva informato Maddie di tutto ciò, ovviamente, la donna sapeva solo che avrebbero dovuto incontrare qualcuno, metterlo a suo agio e farlo parlare il più possibile, in particolar modo della sua attività.
C’erano solo poche regole da rispettare, in tutto questo. Innanzitutto, niente nomi. Lei sarebbe stata Susan e l’altra sarebbe stata Claire.
“Non mi piace Claire. Dovremmo trovare qualcosa di più divertente…” Si lamentò Maddie, in macchina.
“Non deve essere divertente, serve solo in caso-”
“Oh mio dio!” Charlie fu interrotta dal gridolino di felicità dell’altra, che iniziò a saltellare sul sedile del passeggero. “Ho avuto un’idea geniale! Possiamo chiamarci come le Charlie’s Angels!” Con la coda dell’occhio la vide mentre la fissava esuberante, in attesa di una reazione da parte sua. “L’hai capita? Perché tu sei Charlie!” E iniziò a ridere a crepapelle.
Non poté fare a meno di ridere con lei. “Diddi, è una cosa seria.”
L’altra non l’ascoltò e continuò come niente fosse. “Io voglio essere Sabrina Duncan e tu puoi fare Kelly Garrett.” Affermò, come se fosse già deciso.
Charlie scosse la testa. Era una pessima idea usare nomi di personaggi di serie tv, ma usare nomi di donne che impersonavano degli agenti segreti? Assolutamente da pazzi. “No, Diddi. Tu sei Claire e io Susan.”
“Va bene.” Disse Maddie imbronciata. “Ma sarebbe stato molto più divertente.”
Decisero un segnale di aiuto – toccarsi due volte il sopracciglio – e uno di ritirata – uno sbadiglio plateale – a esclusivo utilizzo della sola Charlie. Sarebbe stata lei, infatti, ad agire in prima persona, a parlare con Isaac e a decidere quando fosse stato il momento di andar via. Ma in generale, la regola aurea era: comportarsi in modo disinvolto.
Il locale era piccolo e buio, rosse luci soffuse illuminavano l’ambiente e la musica di sottofondo rendeva l’atmosfera fumosa e sensuale. Tavolini neri, tondi, un po’ roccocò, riempivano lo spazio e solo pochi erano occupati, il posto era perlopiù vuoto; pertanto, fu facile per Charlie individuare Evans.
Solo dopo, alla fine di tutto, si rese conto che il suo piano andò completamente a rotoli non appena si accomodarono.
“Ti avevo detto di indossare il tuo vestito migliore.” Osservò Charlie sottovoce, sedendosi ad un tavolo al centro della stanza, ben visibile a chiunque.
Gli occhi di Maddie si spalancarono per la confusione. “Questo è il mio vestito migliore.”
Le sopracciglia di Charlie si inarcarono per l’incredulità e lanciò una seconda occhiata all’abito nero, dal taglio severo, dell’amica. “Sembra tu debba sostenere un colloquio di lavoro.” Commentò trattenendo una risata.
“È quello che ho indossato per il funerale di nonna...” Lo disse come se ciò non avvalorasse la tesi di Charlie che, stavolta, rise sul serio.
Maddie le fece una linguaccia e poi iniziò a guardarsi intorno, come cercando qualcuno. “È già qui?” Le chiese, sembrava iniziasse ad essere nervosa.
Le prese una mano, rendendosi conto di quanto fosse umidiccia. “Rilassati, Diddi.”
Dopo un profondo respiro, le fece un sorriso un po’ traballante.
“Eccolo lì, a quel tavolo.” Charlie indicò verso la sua destra con un leggero cenno del capo, sperando che quell’informazione l’aiutasse a calmarsi ulteriormente.
Si appoggiò tranquillamente allo schienale della sedia, un braccio sulla spalliera e uno mollemente abbandonato sul bracciolo, le gambe accavallate: semplicemente una donna che si godeva una serata con un’amica.
Si accorse, però, che Maddie non aveva smesso di fissare oltre di lei, verso Isaac Evans, e con un piccolo calcio sotto il tavolo, richiamò l’attenzione dell’altra. “Smettila di fissarlo.”
Fulminei, gli occhi di Maddie tornarono nei suoi e le sorrise in modo incerto, come a chiedere scusa.
Ordinarono da bere: un Old Fashioned per Charlie e un Martini per Maddie.
“Agitato, non mescolato.” Non poté fare meno di aggiungere, ridacchiando e Charlie alzò gli occhi al cielo - doveva per forza citare James Bond – ma, dopotutto, era felice che Maddie fosse abbastanza a suo agio da scherzare.
Seguì con lo sguardo il cameriere che, presa l’ordinazione, tornò dietro il bancone a preparare i loro cocktail e quando riportò la sua attenzione a Diddi, la beccò che fissava ancora Evans.
Stavolta, le diede un piccolo schiaffetto sulla mano, per rimproverarla; tuttavia, questo servì solo a distogliere la sua attenzione dall’uomo per i successivi trenta secondi.
Fu normale, quindi, che Isaac si accorse dello sguardo insistente di Maddie su di sé, e non ci mise molto a presentarsi al loro tavolo.
Aveva tre anni meno di loro, alto poco più di un metro e ottanta, aveva un fisico magro e asciutto, capelli chiari e occhi castani, con un naso un po’ troppo grande per il suo viso.
Era un ragazzo carino, in fin dei conti, ma rimaneva pur sempre un poco di buono.
“Buonasera, ci conosciamo?” Chiese a Maddie, in piedi davanti a loro, visibilmente incuriosito.
Dimentica delle regole che avevano concordato – doveva essere Charlie a parlare con lui -, Diddi rispose: “No!” E subito si affrettò a giustificarsi: “Scusa, mi ricordi un mio caro amico.” Arrossì, ridacchiando timidamente.
Senza chiedere il permesso e senza distogliere gli occhi da Maddie, l’altro si sedette. “Mi chiamo Isaac, comunque.” Le tese la mano.
“Io sono… uhm… Sabrina e lei è… uhm…Kelly.” Charlie le lanciò un’occhiataccia che l’uomo non parve notare. Così come non notò l’esitazione di Diddi sui loro nomi - o comunque l’attribuì alla timidezza - e non sembrò nemmeno essere un fan delle Charlie’s Angels. Non parve accorgersi di Charlie, seduta a quello stesso tavolo. Sembrava come ipnotizzato da Maddie.
Il ragazzo sorrise, caloroso. “È un vero piacere Sabrina. Posso offrirti da bere?” Al cennò di assenso di lei, si alzò per avvicinarsi al bar.
“Ti avevo detto niente Charlie’s Angels.” Osservò in tono piatto, prendendo un sorso del suo drink.
Maddie le rivolse ancora una volta un sorriso di scuse, giocherellando con il suo bicchiere. “Mi sono agitata.”
Tuttavia, ciò che successe dopo fu stupefacente e Charlie – come si rese conto a fine serata – si divertì come mai prima in una missione sotto copertura.
Quando l’uomo tornò al tavolo, infatti, iniziò un’amichevole conversazione con loro – perlopiù con Maddie in realtà – e così scoprirono che Isaac si era da poco lasciato con la sua ragazza, con la quale era stato due anni, e che questa assomigliava molto a Diddi. Raccontò di come vivesse ancora con sua madre e di come la cosa infastidisse profondamente la sua ex; tuttavia, non se la sentiva di lasciare la donna, poiché era anziana e aveva ancora bisogno di lui, soprattutto per pagare le bollette e le spese mediche.
Fu lì che Charlie, che era stata in silenzio fino ad allora, si intromise: “E di cosa ti occupi, Isaac?”
Quella domanda sembrò ricordare a Maddie il loro proposito per quella sera, perché d’improvviso la donna si fece più dritta e più attenta e iniziò a subissare il poveretto di domande.
Da parte sua, l’uomo non sembrò affatto restio a parlare del suo lavoro; ovviamente, non disse quali favori facesse ad Alan Hill, ma sembrò davvero lusingato dall’interesse della sua amica.
Aveva ereditato l’attività del padre, che a sua volta l’aveva ereditata da suo nonno, e la ditta di famiglia era stata una delle più importanti della contea di Twin Lake per la produzione e la lavorazione del legno. Ed ovviamente, per tutto ciò, erano necessarie strutture per lo smistamento e la conservazione.
“Ho sempre ammirato gli uomini tanto intraprendenti da gestire una propria attività. Tu no, Kelly?” Maddie pronunciò quel nome con troppa enfasi e si girò a guardare Charlie per sorriderle complice. Avrebbe potuto benissimo farle anche l’occhiolino, già che c’era.
Lei, però, ricambiò il sorriso e, stranamente, non le importò. Si sarebbe aspettata di rimanere oltremodo infastidita da quella inottemperanza delle sue regole ma, invece, trovò tutto ciò stranamente rinfrescante.
Neanche a dirlo, l’uomo fu decisamente ringalluzzito da quell’osservazione. “Siamo una delle aziende più grandi di tutto il paese.” Si pavoneggiò, e Charlie dovette soffocare una risata nel suo bicchiere a quell’esagerazione assurda.
Quella degli Evans non era stata l’azienda più grande della contea nemmeno quando la dirigeva il nonno di Isaac. Figurarsi del paese. La concorrenza e la crisi economica, poi, si erano fatte sentire, ed ora, sotto la malagestione del nipote rischiavano di fallire.
Lanciò uno sguardo a Maddie che si sporse in avanti sul tavolo, assolutamente concentrata sul biondino.
“Incredibile.” Commentò, genuinamente colpita da quella vanteria. “Devi possedere diversi impianti.” Constatò pensierosa. “Mio cugino dirige un’azienda di-” Il calcio di Charlie sotto al tavolo, la interruppe.
Niente informazioni personali.
Isaac batté le palpebre perplesso a quella brusca interruzione, e quando fu chiaro che Maddie non avrebbe continuato, ne approfittò: “Si, in effetti ho sei depositi funzionanti.” Dichiarò, orgoglioso.
Bingo. Erano due di troppo, rispetto al numero che risultava al catasto.
Charlie si rilassò sulla sedia e si godette il suo Old Fashioned, il sapore zuccheroso dell’arancia sulla lingua, mentre continuava ad ascoltare con divertimento la conversazione tra i due.
In quegli anni aveva avuto a che fare con ogni sorta di persone: colletti bianchi, delinquenti, milionari, ereditiere, anche un prete una volta; e, tra tutti, Isaac Evans era la persona più carina che avesse incontrato. Evidentemente, anche la criminalità era vissuta diversamente da quelle parti.
L’uomo, infatti, fu tranquillo e piacevole per tutta la serata; non cercò di allungare le mani, non le sminuì, non ostentò la sua posizione - o roba simile – e non cercò di fregarle in alcun modo. Anzi, fornì gentilmente anche i punti in cui sorgevano i suoi adorati depositi.
Per tutto il tempo, poi, Charlie rimase sé stessa. Non dovette far la parte della svampita che tanto sembrava piacere agli uomini. Rimase a guardare, con suo gran divertimento, una Maddie Foster che faceva il terzo grado ad Isaac Evans, ignara che l’uomo sembrava sempre più innamorarsi di quel suo dolce interesse per lui.
Non le importò nemmeno quando Diddi non si accorse – per ben quattro volte – del suo plateale sbadiglio, che avrebbe dovuto sancire la fine di quella serata.
Alla fin fine, andò tutto per il verso giusto.
   
 
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