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Autore: SkysCadet    28/01/2022    0 recensioni
La cittadina di Filadelfia sembra un borgo tranquillo, in cui la gente comune passa la giornata senza occuparsi degli strani avvenimenti che accadono da diverso tempo. Tuttavia, Simon si ritrova - suo malgrado - a combattere per la salvezza delle anime sfuggite al potere dei Lucifer. Tra questi c'è Joshua, un ragazzo con un dono particolare. Il giorno in cui Ariel - una matricola impulsiva dell'università di Filadelfia - lo incontra per la prima volta, capisce che in lui c'è qualcosa di diverso dagli altri ragazzi. Solo un nome sembra in grado di cambiare il corso degli avvenimenti, un nome che i Lucifer non possono nominare...
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L'animo tormentato di Ariel aveva una compagna a Filadelfia. Lucia non riusciva a svegliarsi dal sonno disturbato che aveva caratterizzato quella notte. 

Le lenzuola erano disordinate ai piedi del letto, la finestra spalancata lasciava entrare un soffio caldo e avvolgente che riusciva a spostare la tenda velata. Dopo essersi girata e rigirata, alla ricerca di una posizione comoda, con rapidi gesti delle braccia tolse via anche il cuscino, per poi mettersi seduta, ansante e con gli occhi ancora chiusi. 

Un sogno la disturbava. Immagini confuse, sbiadite, le vorticavano davanti. 

«Basta! Ti prego!» 

Quella visione le stava provocando gravi capogiri, capaci di farla cadere sul pavimento se non si fosse ancorata al materasso. Per molti minuti, non riuscì ad aprire gli occhi per tornare alla realtà. 

Nella visione, un violento boato sembrò romperle i timpani, tant'è che dovette portare i palmi alle orecchie. Un fumo grigio seguì il rumore e  le annebbiò la mente, mentre le immagini caddero al suolo, come foglie di un albero mosso dal vento. Erano fogli bianchi, che una volta poggiati al pavimento, lo coprirono come un tappeto; si piegò oltre il bordo del letto per osservare meglio e su ogni carta era incisa solo una parola, un nome, per l'esattezza. 

Si sporse di più per cogliere uno dei fogli e, nel leggere, lacrime calde sgorgarono dai suoi occhi verdi, che apparivano ancora chiusi.

 Il nome di Joshua riempiva il pavimento della sua camera, diventata una stanza senza pareti e inondata da una luce bianca, innaturale e gelida.

Dei passi riecheggiavano in quell'ambiente illusorio. Un ragazzo si posizionò di fronte a lei: vestito di un paio di pantaloni scuri, una maglietta bianca, sporca di sangue, e un mantello nero sulle spalle. Aveva gli occhi azzurri e i capelli neri incorniciavano un viso simile a quello di Acab. Il giovane di fronte a lei era malridotto, contuso, e, in ginocchio, con uno sguardo implorante, le chiedeva perdono.

«No. Mai!» gridò.

Quell'urlo rabbioso destò Heliu dal suo sonno profondo. Si sedette, prima di poggiare i piedi nudi sul marmo delle mattonelle e si strofinò gli occhi con i palmi delle mani sudate. Si alzò, e, dopo qualche passo lento, avvicinò la mano alla maniglia della porta, ascoltando l'ambiente circostante prima di aprirla. Già altre volte si era trovato in quella situazione, perciò, prima di uscire dalla sua camera, attese l'arrivo di uno dei ministri di Simon. Dopo tutto, non propriamente vestito, si sarebbe ritrovato nella stanza della ragazza chissà in quale condizione. Gilbert aveva il turno in ospedale e non sarebbe tornato prima dell'ora di pranzo, Simon era a riposo e, forse, nessuno, a parte lui, aveva sentito l'urlo di Lucia. 

Decise di far scattare la serratura e percorrere il corridoio a piedi scalzi, con i pantaloncini da mare e una canottiera bianca, girandosi indietro di tanto in tanto.

Lucia non era molto distante, le camere erano posizionate su uno stesso piano e gli bastò percorrere qualche metro per trovarsi di fronte alla porta della giovane.

Si voltò un paio di volte, con i muscoli tesi e lo strano presentimento che quel che stava per fare non era del tutto secondo le regole del Centro. 

Avvicinò l'orecchio al legno e tentò di capire se la situazione fosse davvero critica.

«Non sei altro che un demone. Vai via! Ti odio!» le urla stridule, gli bloccarono il respiro. 

Decise di tentare. Aprì la porta lentamente, analizzando la situazione dall'esterno, ma quando la vide accartocciata su se stessa, con la fronte appoggiata al materasso e i tremori muscolari che preannunciavano una convulsione, si fiondò ai piedi del suo letto per cercare il contatto visivo. Si piegò sulle ginocchia «Lucia...» le sussurrò. «Lucia, sono qui.» 

Posò il suo palmo sulla guancia innaturalmente gelida della ragazza, ma una voce autorevole e profonda gli bloccò gli arti e gelare il sangue.

«Non toccarla. Spostati. Adesso.» 

Nathan era posto sulla porta e lo fissava con sguardo truce e pugni stretti. Heliu si girò lentamente e per non incontrare subito il suo sguardo di fuoco, camminò a occhi bassi; via via che si avvicinava inquadrò le sneakers basse e scure, i jeans chiari e quando arrivò al busto notò il petto alzarsi e abbassarsi in maniera irregolare dentro una maglietta nera. Un profondo senso di terrore lo fece drizzare rigido, quasi sull'attenti nell'incontro con quegli occhi minacciosi. Il ragazzo fece aprire la bocca, per giustificarsi, ma il ministro lo anticipò e, a denti stretti, gli ordinò: «Non una parola. Esci.» 

Nathan non gli staccò gli occhi di dosso mentre Heliu lo oltrepassava per uscire e, a giusta distanza, gli bloccò il braccio.

 «Guardati dal toccare nuovamente un'anima che ha bisogno di liberazione invece che di una umana consolazione!» Heliu sbarrò gli occhi, aumentando la frequenza del respiro; in fondo, aveva avvertito qualcosa di strano. La presa di Nathan si fece più vigorosa. «La prossima volta, chiama un Mandato, stupido!» 

«S...Sì» boccheggiò l'altro.

«Ora informa Simon. Corri.» 

Lo seguì con lo sguardo mentre si dirigeva verso le scale di corsa. In cuor suo, Nathan sperava che l'amore che quel giovane incosciente provava per Lucia non lo avesse portato a collegare lo spirito carnale a quello maligno della ragazza; sarebbe bastato il tocco di un cuore aperto e vulnerabile per far sì che il demone passasse da un'anima all'altra e creare un collegamento di morte.

Rimase sull'uscio, aspettando l'arrivo di Simon, ascoltando la mente pervasa da pensieri preoccupanti.


 

***

 

Per un tempo indefinito, Acab poté osservare le labbra di Ariel, così vicine alle sue da riuscire a vedere le increspature della pelle secca e fondere il respiro nel suo; dietro di lei, il buio impenetrabile da cui erano riusciti a scappare, fino a quel momento, indenni. Quel buio li tenne stretti, per chissà quale ragione.

Ariel attese, percorrendo con lo sguardo le linee invisibili che delineavano i contorni del viso di Acab; la saliva inesistente e il suo respiro affannoso solleticava le labbra aride. 

«Tu...» cominciò Acab, quasi non riuscisse a comporre quel concetto che aveva mosso le sue azioni fino a quel momento. «Tu sei stata la mia rovina...» a denti stretti, chiuse gli occhi e si bagnò le labbra, mentre quelle parole avevano prodotto spilli acuminati nella schiena di Ariel, che tentò di allontanarlo da sé, facendo una leggera pressione con i palmi sul suo petto.  «Però...» stringendola con più vigore per farla partecipe di un battito incontrollato «...In te, c'è la luce della mia redenzione.» Concluse, poggiando il mento sul suo capo. 

Ariel non riuscì a trovare la forza di rispondere o di ribattere, ma gli fece capire che, forse, in qualche modo, aveva ragione. Se quelle parole fossero state reali, sicuramente avrebbe avuto una buona possibilità di redimersi.

"Non basta essere portatori luce."

Ariel ricordò una delle ultime prediche di Simon. 

"Bisogna essere luce. Amarci gli uni gli altri, come Gesù Cristo ci ha amato, ci fa diventare luce."

Si trovavano su due gradini, l'uno su quello più alto, l'altra su quello più basso e, improvvisamente, sentendo che la presa di Acab si allentava, percepì un senso di vuoto dietro di lei; lui la tenne dalle braccia e si piegò sui talloni, con occhi bassi.

Per Ariel era tutto troppo surreale. Da quando aveva compiuto l'azione di colpire a morte il padre, Acab non sembrava più lo stesso. 

In fondo, come avrebbe potuto esserlo?

Lei non poteva saperlo ma - nei piani di Acab- una volta piegato in ginocchio, lei avrebbe visto le serpi e, nello stesso momento, lui si sarebbe offerto alle fauci dei rettili, permettendole la fuga.

«Acab.» Lo chiamò, con voce ferma. Lui alzò lo sguardo, perplesso alla vista del suo muso duro. «Ancora non mi hai detto cosa sta per succedere e perché dovrei perdere la vita a causa tua...» disse d'un fiato, stanca di aspettare il compiersi dell'ignoto.

Alla fine, anche la morte sarebbe stata un'ottima via d'uscita a quell'inferno. Dopo tutto, lei aveva la certezza che Gesù Cristo l'avrebbe accompagnata nell'eternità; ma perché Acab aveva usato quelle parole, non le era dato saperlo. 

Lui si girò di scatto e vide le serpi avvicinarsi alla sua schiena, pronte a sputare veleno. Sapeva di aver detto quella frase per prepararsi all'eventualità che il suo piano non fosse andato a buon fine. Quegli animali erano stati un inconveniente del tutto inaspettato.

«Ne ho abbastanza!» esclamò, perentoria Ariel, prima di muovere un passo per oltrepassarlo, ma al sentire la sua stretta alle gambe per impedirle il passaggio, ebbe un crollo di nervi. Lo spinse malamente alla parete con un movimento brusco e gli urlò: «Smettila! Non c'è niente, Acab! E' la tua mente! E' la tua mente!» 

Lui sbarrò gli occhi, e, sbigottito, schiuse le labbra per proferire suono, ma non riuscì ad articolare alcuna parola. 

Ariel non seppe spiegarsi il motivo della reazione che aveva appena avuto; sapeva solo si aver udito il timbro di una voce familiare, oltre il portoncino di ferro che svettava alla fine dell'ultima rampa di scale.

In un paio di sorrisi nervosi, Acab fissò lei e poi le scale, per poi chiederle: «C...Come hai fatto a farle andare via? Non hai nemmeno usato il Suo Nome...» farfugliò «T...Tu.» e, in un misto di gioia e terrore, giunse ad una conclusione: «Tu sei il Leone di Dio.» 

Acab rivolse lo sguardo un'ultima volta al punto in cui vi erano solo cinque gradini di cemento. Tornato sui suoi occhi marroni, le regalò un sorriso, pieno, ampio, di chi ha la felicità tra le dita. Quella curva nel suo viso - così diversa dai precedenti - provocò un profondo turbamento nel cuore di Ariel, come una scossa di terremoto a un palazzo già instabile. 

Poi, in un istante, quella voce familiare udita poco prima, divenne fin troppo riconoscibile.

Nathan...

Un pensiero e le gambe di Ariel percorsero quella rampa saltando gradini, per poi bloccarsi di fronte alla porta: l'emozione le faceva tremare le mani e tutto il suo essere venne come irrigidito. Fu la spallata di Acab a permettere l'accesso a quello che Ariel, in un lancinante colpo allo stomaco, riconobbe come il Pub Lithium.

***


 

Serrande di metallo abbassate fino ad altezza d'uomo, luci spente, e, alla porta d'ingresso, di vetro e legno scuro, era posto un cartello, incollato al vetro malamente con del nastro adesivo trasparente; sul foglio, a lettere cubitali, c'era scritto: "Chiuso per allestimento".

Nathan si tolse gli occhiali da sole, e, portandoli alle labbra, aguzzò la vista, piegandosi in avanti per vedere cosa si stesse muovendo nel locale. 

Era mezzogiorno, e ancora si faceva sentire il caldo tipico del sud: un calore che soffoca i pensieri, anche nel mese di ottobre.
L'uomo gettò aria dalla bocca, facendo cadere al suolo i suoi preziosissimi occhiali scuri. Si piegò sui talloni per prenderli e vide del movimento all'interno del locale. Con un cenno della mano, indicò al suo collega di rimanere nell'auto blu, mentre lui apriva la porta del pub Lithium senza nessuna resistenza. 

Lievemente sorpreso, fece qualche passo verso l'interno, ascoltando lo scampanellio che indicava l'arrivo dei clienti ai gestori del locale, che, apparentemente non erano presenti.

«Siamo chiusi!» 

Una voce da dietro il bancone del bar gli suggerì la presenza di un ragazzino che, probabilmente, stava sistemando le bottiglie di alcolici. 

Si fermò all'entrata per osservare bene l'ambiente del locale più rinomato della Città. 

Pose gli occhiali nello scollo a 'V' della maglia bianca e spostò i capelli all'indietro per poi accarezzarsi il mento lievemente barbuto. 

Il rumore dei suoi passi era attutito da un tappeto spesso, di colore bordeaux; ai lati dell'ingresso vi erano vasi dalle linee moderne che contenevano piante da interno di media altezza; alzando lo sguardo, l'occhio era catturato dall'ampio spazio dedicato alla pista da ballo sulla sinistra, di forma circolare e circondata da tavolini e divanetti neri, mentre la postazione del Dj era - stranamente - poco lontana dal bancone del bar. 

Si diresse alla sua destra, dove gli sgabelli di metallo con seduta girevole in pelle, suggerivano al ministro detective le intenzioni dei gestori del Pub: far rimanere il più breve tempo possibile i clienti in quella postazione perché l'area più importante era sicuramente la pista da ballo; la musica - soprattutto ad alto volume- avrebbe inibito la coscienza di chi vi si avvicinava, che, presumibilmente, doveva già essere carico di alcol e droghe. 

Tutte queste considerazioni e intuizioni logiche lo accompagnarono mentre arrivava in prossimità del bar. Si sedette a braccia conserte. Si sporse oltre il bordo interno con fronte aggrottata nell'osservare il ragazzo che, fino a quel momento, non si era accorto della sua ingombrante presenza. 

Con entrambi i gomiti sull'acciaio, attese che il giovane, dai capelli biondo platino e dal taglio asimmetrico, lo degnasse della sua attenzione, fin quando, dopo l'ennesimo rumore di bottiglie che vengono spostate e sistemate, bussò sulla superficie del bancone così insistentemente che il ragazzo sobbalzò, rischiando di battere la testa. 

Il giovane si drizzò e, spostando un ciuffo di capelli all'indietro, increspò la fronte: «Non sa leggere? Il locale è chiuso» si preoccupò di scandire. 

Nathan batté le palpebre un paio di volte e, inarcando le sopracciglia, si girò indietro per poi riportare lo sguardo sornione sull'altro. Portò la mano sinistra dietro la schiena e avvicinò agli occhi del ragazzo il distintivo della Polizia di Filadelfia.

«Immagino di non darti l'aria di chi sa leggere un cartello, vero...» schioccò due dita. «Come hai detto che ti chiami?» 

«Non l'ho detto, infatti.» 

Quel ragazzotto poteva avere una quindicina di anni e sicuramente lavorava lì solo per guadagnare qualcosa in più da portare alla sua famiglia indigente. Dopo tutto, lavoravano così i Lucifer, utilizzando i più bassi metodi di aggancio. 

Tuttavia, l'aria spocchiosa e lo sguardo da sfida che si ritrovava non sembrava appartenere a chi si guadagna da vivere onestamente. 

«Senti un po', tu, perché non ti rilassi e rispondi gentilmente a qualche domanda, eh? Se collabori, ti assicuro che non accadrà nulla di male.»

In una smorfia di disprezzo, il giovane gli rispose con tono beffardo: «Io non posso rispondere a nulla, devo chiamare il capo» e, ruotando il busto verso un telefono posto alla parete, fece per digitare il numero, ma avvertì una forza che lo tirava all'indietro. 

Nathan si era sporto oltre il bancone e, senza nemmeno troppa fatica, l'aveva portato a pochi centimetri dalla sua faccia, tenendolo dal colletto della camicia. 

«Il tuo capo sembra essere abbastanza impegnato se lascia un pivello come te, da solo, nel suo preziosissimo Lithium» gli ringhiò, a denti stretti. Non voleva realmente fargli del male; un po' di timore gli avrebbe fatto abbassare la cresta di giovane Lucifer. 

Il ragazzo, con occhi sbarrati e arti tremanti, annuì più volte, fino a quando l'altro non lo lasciò andare.  

«Avanti, per prima cosa, voglio sapere cosa succede qui dopo le due di notte. Te lo sto chiedendo con calma.» 

Non appena il ragazzo si sistemò la camicia nera e Nathan si mise nuovamente seduto, a braccia conserte, si udì in lontananza il nome del ministro, urlato stridulamente da una voce femminile oltre la pista da ballo. 

Sbarrò gli occhi, iniziando a respirare spasmodicamente. Una seconda volta quella voce lo chiamò gridando e, questa volta, avvertì una morsa all'altezza dello stomaco. 

«Non può essere...» disse fra sé. Saltò giù dallo sgabello. «È impossibile». 

Sì mise a  camminare a grandi falcate verso la zona dei privè; sentiva l'adrenalina scorrergli sottopelle e attraversare i nervi. 

Quando vide Ariel oltre uno dei divanetti neri, una scossa gli attraversò il cuore, portandolo a correre nella sua direzione, scavalcando un tavolino.

La ragazza era piegata dai singhiozzi e dalle lacrime, vestita solo di brandelli di stoffa nera che ricordava l'abito indossato mesi prima, il giorno del suo ingresso al Dark Lithium.

 Acab la teneva per le spalle e, prima che potesse dare qualche spiegazione all'uomo, si ritrovò il respiro rabbioso e  prepotente di Nathan sul naso. 

«Se non fossi un Ministro di Gesù Cristo, ti avrei già fatto fuori»

Acab deglutì, serrando la mascella per poi abbassare lo sguardo ai pugni chiusi e tremanti dell'altro. 

«Nathan, no...» 

Nathan sentì la mano gelida di Ariel sfiorargli il gomito per attirare la sua attenzione e dissuaderlo da quei pensieri.

«Acab ci ha salvato. Dobbiamo proteggerlo. Lo staranno già cercando, ma...» proseguì con urgenza. «Joshua è ancora laggiù! Lo devi salvare! Ti prego...» 

«Joshua è ancora laggiù? E perché?!» domandò come una furia, facendo arrossare il volto e evidenziare le vene del collo. 

«Non lo so...» sussurrò Ariel e quando l'ennesima lacrima le attraversò la guancia, continuò: «So solo che pensava che con Acab sarei stata al sicuro.»

Nathan la guardò, martoriandosi il labbro inferiore per contenere in quel gesto tutta la sua disapprovazione. 

Subito dopo, fissò gli occhi torvi su Acab, che dall'aspetto sembrava un capro condotto al macello. Si sciolse dai fianchi la giacca di pelle non indossata in precedenza e la pose sulle spalle di Ariel e, stringendola sé, frizionò il palmo sul suo braccio per scaldarla. 

«Voi starete qui e io andrò a prendere Joshua» decise, mentre accompagnava la ragazza verso uno dei divanetti e la aiutava a sedersi.

«Ti serviranno rinforzi» si pronunciò Acab, in tono deciso. 

Nathan lo squadrò e, bagnandosi le labbra, si avvicinò a lui grattandosi la mascella

«Ringrazia Dio che c'è Ariel. Questo dovrebbe bastare a darti una possibilità di redenzione, ma d'ora in avanti evita di dar fiato alla bocca. Sono stato chiaro?» 

Gli occhi scuri di Nathan gli incutevano timore, ma, arrivato a quel punto non doveva e non voleva perdere altre vite, dopo sua madre e dopo suo padre. 

«Ci sono trappole che nemmeno io conosco» gli comunicò, sostenendo il suo sguardo. 

Nathan, che si era incamminato verso la porta di metallo rimasta aperta, si bloccò sul posto e, alzando gli occhi al soffitto, si scrollò quell'affermazione di dosso in un profondo sospiro. 

Acab abbassò lo sguardo, come sfiduciato; in fondo, come avrebbe potuto credergli se la causa di tutto quel male era stato lui.

 Poi, un istante, come attanagliato da un tetro presentimento, una fitta alla bocca dello stomaco gli bloccò il respiro; sbarrò gli occhi e,  rivolgendoli al ragazzo del bar, iniziò a sentire sudore ghiacciato bagnare le tempie. Cominciò a camminare, claudicante, verso di lui, muovendo le braccia. 

«No, ti prego...» sussurrò tra le labbra. 

Il giovane era dietro la postazione del DJ con le dita sull'esploditore, che - a occhi inesperti - veniva confuso con i tasti della console. 

«Non farlo!!» gli urlò disperato, destando la curiosità di Nathan e Ariel.

Tuttavia, un boato precedette la sua caduta al suolo per l'esplosione proveniente dai sotterranei da cui erano fuggiti. 

L'onda d'urto li colpì in pieno. Prima di tutti Nathan - che era il più vicino - e subito dopo Ariel. Una montagna di calcinacci li coprì interamente, rendendo l'ambiente polveroso. 

Le orecchie di Ariel fischiavano e tutto intorno era un susseguirsi di figure scomposte: sedie e tavolini rivoltati, vetri sotto i palmi delle mani. Un fumo grigio riempiva la sua vista appannata. I bronchi tappati dalle polveri la costrinsero a tossire insistentemente. Le labbra a contatto con la superficie della pista da ballo saggiavano il sapore secco e inconsistente dell'aria rarefatta. 

Piantò i palmi al suolo e cercò di rialzarsi. 

Ruotando il busto, dolorante, vide la porta di metallo da cui erano entrati scardinata e accartocciata poco lontana da lei.

Nel silenzio di quell'orrore, si udì solo il suo urlo agghiacciante.

 

   
 
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