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Autore: Adeia Di Elferas    30/01/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Se è quello che volete fare, con lui – aveva detto Bianca, quando la madre l'aveva messa a parte della sua intenzione di mandare Ottaviano al nord – vi supplico, fatelo partire prima che capisca che sono incinta, o appena lascerà questa villa, lo saprà tutta Italia.”

Caterina sapeva che la figlia aveva ragione e, al suo contrario, vedeva i risvolti più drammatici di quella possibilità. Se la Riario immaginava solo il pubblico ludibrio, lo scandalo e la difficoltà che ne sarebbe derivata a lasciare al figlio che sarebbe nato un eventuale titolo, oltre che un rispettabile natale, la Sforza poteva figurarsi il papa sfregarsi le mani con gioia. Poteva quasi vedere il Valentino sussurrare malevolo all'orecchio del padre e questi, entusiasta, avvallare la sua proposta, facendo uscire in fretta e furia di galera Astorre, ricordando a tutti il suo legame formale con Bianca. A quel punto che avrebbero potuto fare? Per legge, il bambino che sarebbe nato, sarebbe stato del Manfredi...

La sola idea faceva rabbrividire la Tigre e quindi, anche quel 6 aprile, mentre guardava il figlio Giovannino giocare come un pazzo con la sua spada di legno, non faceva altro che pensare a quanto fosse importante far partire Ottaviano il prima possibile.

“Stai attento...” disse, un po' distratta, la donna, mentre il bambino, per farle vedere quanto era diventato veloce, le sfrecciava davanti con l'arma finta alta sopra la testa.

Quel giorno compiva quattro anni, ma aveva la forza di una tempesta. Malgrado il vestitino scuro e indiscutibilmente femminile, Giovannino mostrava una fisicità e un'irruenza che, la Leonessa lo sapeva, rischiavano continuamente di tradirlo.

Aveva le ginocchia sempre sbucciate, e anche la sottile sottana scura che doveva portare si sdruciva di continuo. Aveva, dicevano le monache che se ne occupavano, un'innata capacità di cacciarsi in situazioni pericolose, rischiando cadute, colpi in testa, tagli e chissà quante altre disgrazie, eppure, invariabilmente, riusciva a cavarsela quasi del tutto incolume. Era silenzio, se non altro, ma quando si metteva a giocare correndo, a volte gridava gli urli di battaglia che aveva imparato dai racconti della madre.

Accanto a questo lato battagliero, però, Giovannino nascondeva sempre le stesse debolezze che aveva mostrato fin dai primi mesi di vita: detestava il buio e non sopportava di dormire da solo. Una delle suore del convento d'Annalena si era lamentata proprio quel giorno con Caterina del fatto che il piccolo, se lasciato solo di notte, o scappava dalla stanza e si infilava in quella di qualcuno, solo per aver compagnia, o, se la porta veniva chiusa a chiave, cominciava a gridare e piangere finché non svegliava qualcuno che gli stava così vicino fino al mattino.

“Vi pagherò di più.” aveva azzardato la Tigre, non sapendo se, in realtà, Fortunati pagasse per far rimanere in quel convento il bambino: “Ma fate quello che vuole. Se ha paura del buio, non vedo perché farlo soffrire.”

La monaca l'aveva guardata con aria di sufficienza, quasi a chiedersi se quella fosse davvero la donna che dicevano avesse combattuto perfino contro il Duca di Valentinois, e poi, borbottando qualcosa sull'eccessiva permissività delle madri che finisce a rovinare i figli, aveva detto che avrebbero fatto come chiedeva.

“Vieni qui...” fece Caterina, seduta su un rigido scranno di legno scuro in mezzo a quella stanza pressoché vuota in cui, ormai, incontrava sempre il suo ultimogenito.

Il piccolo Medici, mansueto ai comandi della madre, abbassò la spada di legno e corse verso di lei.

Era accaldato, con le guance piene e rosse, la fronte sudata e i capelli, castani e resi ribelli dalla loro fibra fondamentalmente riccia, erano spettinati come non mai.

La Sforza glieli accarezzò, lentamente, cercando di dare loro un aspetto meno caotico, ma rinunciò subito. A suo parere, la capigliatura del piccolo andava sistemata: bisognava tagliare, innanzitutto, e disciplinare. Sapeva, però, che quel suo desiderio non era realizzabile, al momento: tenere i capelli lunghi faceva parte del travestimento del piccolo. Anche se le monache, ormai, dovevano sapere più o meno tutte che Giovannino era in realtà un maschio, era necessario che chiunque altro, visitatore occasionale o emissario di Lorenzo che fosse, lo credesse una bambina, del tutto simile alle tante orfane che trovavano lì asilo.

“Quando torno a casa?” domandò, di punto in bianco, Giovannino, mentre la madre ancora gli accarezzava i capelli.

Colpita dalla precisione di quel quesito, la donna sospirò. Non voleva dargli una risposta vaga, ma non vedeva alternative. Se si fosse permessa di dargli una data esatta, per poi disattenderla, era sicura che anche con quel figlio, che tanto amava, avrebbe cominciato ad accumulare errori, ed era una cosa che non voleva fare per nessun motivo.

“Sto cercando di fare tutto quello che posso – gli disse, con serietà, come se si rivolgesse a un adulto – per poterti portare via di qui il più in fretta possibile. Prima di venire a prenderti e tenerti per sempre con me, però, voglio essere certa, ma proprio certa, che chi ti vuole del male non possa fartene.”

Il Medici si accigliò, spostando gli occhi verde cinereo dal viso della madre alle proprie mani, ancora strette sull'elsa della spada giocattolo. Parve convincersi della bontà di quelle motivazioni e, con un sorriso un po' spento, annuì.

“Va bene.” aggiunse, quasi a voler rasserenare la donna, che, invece, continuò a mantenere un'espressione abbastanza triste.

“Vuoi sentire una storia sui tuoi bisnonni? O su tuo nonno?” propose la Tigre, desiderosa di cambiare argomento.

Il bambino fece subito un sorriso pieno, e, allungando le braccia per farsi mettere sulle ginocchia della madre, ribatté: “Prima ti ripeto la preghiera che ho imparato ieri.”

Caterina non obiettò, e ascoltò con pazienza il latino stentato di Giovannino, correggendolo di quando in quando, ma lodandolo comunque per la sua mente sveglia e per la scioltezza della sua parola. La sorprendeva, in realtà, in paragone con gli altri suoi figli, quanto il Medici, così piccolo, sapesse già esprimersi così fluentemente. Le suore le dicevano spesso che era un bambino silenzioso e di poche parole, ma con lei sapeva esprimersi con proprietà di linguaggio, per i suoi quattro anni, e senza reticenze. La Leonessa sperava con tutta se stessa che quello fosse l'indizio del fatto che il figlio avesse preso l'intelligenza viva e ampia del padre, Giovanni.

“Sei proprio bravo.” concluse la donna e poi, dandogli un bacio in fronte, chiese: “La vuoi sentire ancora, la storia..?”

“Ancora quella del nonno in Francia!” esclamò il piccolo.

La Tigre sorrise, felice di vedere come quella fosse una delle storie che Giovannino prediligeva, e cominciò a raccontare: “Tuo nonno, Galeazzo Maria Sforza, all'epoca aveva poco più di vent'anni e ancora non era Duca. È stato tanto tempo fa: io avevo appena due anni e tuo zio Alessandro stava nascendo proprio in quei giorni. In Francia l'aristocrazia si stava ribellando al re e così il tuo bisnonno, il Duca Francesco Sforza, decise di mandare il suo primogenito, tuo nonno, in Francia ad aiutare il re a riportare la pace. Così lo mise al comando di un contingente di soldati e lo fece partire per le terre d'Oltralpe...”

 

Gaspare Sanseverino non riusciva a calmarsi. Aveva la bruttissima sensazione di essere stato seguito, eppure, anche quando provava a scrutare l'orizzonte da una delle feritoie della piccola torre, non vedeva altro che la campagna grigia e il lontanissimo profilo di Castelnuovo di Garfagnana.

I suoi soldati, che per fortuna non erano molti, e quindi si potevano nascondere più facilmente, aspettavano suoi ordini, ma tutto ciò che Fracassa riusciva a dire, di quando in quando, era: “Stiamo calmi... Aspettiamo... Non ci troveranno...”

Da quando aveva cercato di passare allo stipendio dei pisani, i fiorentini se l'erano presa con lui e avevano cominciato a inseguirlo, stanandolo dal mantovano, in cui stava vivacchiando senza far grossi danni, e costringendolo a fuggire fino a lì. Quei dannati repubblicani avevano perfino aizzato contro di lui i paesani di Barga, e, per non perdere tempo e uomini a lottare con dei contadini, Gaspare aveva preferito cercare un riparo isolato e moderatamente sicuro.

Quando aveva visto una chiesetta sperduta dotata di una torre che dava l'impressione di essere ben fortificata, non aveva avuto dubbi e aveva dato ordine di passare lì il tempo necessario.

Gli sembrava paradossale, essendo ancora senza una condotta, di aver trovato dei nemici tanto decisi a catturarlo o, più probabilmente, a ucciderlo.

Quella chiesetta, in territorio estense, gli dava una certa sicurezza. Si era messo in testa che, se i fiorentini non avessero visto la sacralità del posto come un motivo valido per non insistere, avrebbero comunque capito che un'azione di forza non autorizzata in un territorio di pertinenza di Ercole, Duca di Ferrara, era un qualcosa da evitare come la peste. Firenze, stretta com'era nella morsa delle tensioni tra Francia, papato e Impero, non poteva permettersi certi di inimicarsi gli Este per una simile sciocchezza...

“Adesso...” soffiò il Sanseverino, dopo aver fissato ancora l'orizzonte per parecchio tempo ed essersi reso conto che stava scendendo la notte: “Adesso riposiamo. Domani valuteremo se rimetterci in cammino o restare qui ancora un po'.”

Nessuno espresse contrarietà e così, dopo aver organizzato i turni di guardia, Fracassa e i suoi uomini si organizzarono per passare la notte e riprendere un po' di forze.

 

Non appena il buio fu quasi totale, tra la vegetazione che copriva per buona parte il circondario della chiesetta in cui si erano visti sparire Fracassa con i suoi, Niccolò Piccinino fece un segno con la mano a Bernardino da Cremona e Giorgio Della Barba.

Questi, che ben conosceva il significato di quel gesto, riportarono l'ordine agli altri soldati e tutti, come un sol uomo, cominciarono ad avvicinarsi sempre di più alla torretta. Il piano era stato deciso fin dal momento stesso in cui si era stati certi che il Sanseverino aveva eletto quel posto come nascondiglio.

Nessuno se la sentiva, di entrare in un edificio consacrato e uccidere degli uomini o anche solo farli prigionieri: dunque era necessario stanarli, come avrebbero fatto con dei ratti.

L'avvicinamento fu lento e ben ponderato. Di certo c'era qualcuno a far da guardia e quindi era fondamentale essere silenziosi e attenti. Il fruscio tra il fogliame doveva essere l'unico rumore prodotto da quell'avanzata ineluttabile.

Arrivati abbastanza vicini alla piccola torre, Piccinino diede ancora un segnale e, in fretta, ma sempre senza far quasi rumore, tre soldati scelti si adoperarono a preparare l'ordigno che avrebbe fatto uscire le loro prede dal nascondiglio.

 

Gaspare si era appena assopito. Non si era reso conto, fino a quel momento, di essere così tanto stanco. Gli era bastato sedersi in terra, la schiena contro la fredda pietra della parete, per cominciare a perdere i contatti con la realtà.

Aveva chiuso gli occhi da pochi secondi, però, quando un forte odore di fumo lo svegliò di colpo. I suoi uomini stavano tossendo, si agitavano, correvano a destra e a manca per capire quale fosse l'origine di quella nuvole densa e scura che rendeva l'aria irrespirabile.

“C'è un incendio! Un incendio!” cominciò a gridare qualcuno.

Fracassa, le gambe ancora intorpidite dal brevissimo sonno, non ebbe la lucidità di valutare a fondo la situazione. Gli parve, e forse era davvero così, che l'obietivo principale, in quel momento, fosse evitare che morissero tutti asfissiati.

Intercalando i colpi di tosse agli ordini, riordinò i suoi soldati e li fece tutti scendere fino alla base della torre, senza, comunque, trovare mai il vero fulcro dell'incendio.

Uscirono nella notte fresca d'aprile, sotto un cielo scuro come l'inferno e, prima ancora che riuscissero a tornare a respirare normalmente, sentirono il clangore delle armi e si trovarono sopraffatti dai nemici.

Gaspare Sanseverino capì subito di non aver scampo. Molti dei suoi, nella fuga, avevano addirittura lasciato le armi nella torre. Era una lotta impari e crudele. Alzò le mani, gridò di essersi arreso e, seppur per qualcuno dei suoi fosse troppo tardi, evitò la strage.

“Hai fatto bene a consegnarti.” gli disse Piccinino, mentre Bernardino da Cremona e Giorgio Della Barba lo legavano personalmente: “Quando arriveremo a Firenze, dirò io stesso al Gonfaloniere quanto sei stato altruista.”

“Quando saremo a Firenze – tossicchiò Fracassa, occhieggiando nel buio verso Niccolò – ti renderai conto dell'errore colossale che hai fatto, a prendermi mentre mi trovavo sul suo estense... E capirai che nemmeno l'Imperatore sarà felice di sapere quello che avete fatto...”

“Un condottiero al soldo di Pisa è un nemico, per Firenze.” ribatté Piccinino, la voce che, però, perdeva sicurezza: “Nessuno potrà biasimarci per averti fatto prigioniero.”

“Sarebbe così, se io avessi firmato con Pisa...” sogghignò Fracassa, ma, prima che potesse ridere davvero, Niccolò gli assestò un pugno nella pancia, intimandogli di tacere.

 

Caterina, alla fine, si era fermata solo pochi giorni alle Murate, decidendo che fosse il caso di rientrare alla villa prima del previsto, in modo da poter mettere a punto la partenza di suoi figlio Ottaviano.

Tramite Suor Elena aveva saputo che Francesco aveva già mandato a chiamare Cesare, in modo che passasse da Castello per prendere il fratello, e poi spostarsi al nord. Dato che a Pisa si stavano scaldando gli animi e benché Cesare non fosse che l'Amministratore Apostolica – in attesa di avere l'età stabilità per l'investitura a Vescovo – il ragazzo aveva sentore di poter essere coinvolto in affari bellici che né lo riguardavano, né gli interessavano. Allettato, quindi, dall'idea di cambiare aria e di incontrare il cugino, Cardinale Raffaele Sansoni Riario, aveva accettato immediatamente.

La Sforza aveva lasciato a malincuore il convento, perché più tempo passava con Giovannino, più ne avrebbe voluto passare. Allontanandosi da lui aveva la crudele impressione di perdersi molte cose di lui. Le era già successo, per motivi diversi, anche con Bernardino, e non se l'era mai perdonato davvero, dover quindi ripetere quella brutta esperienza le pesava in modo particolare.

Nel tragitto tra le Murate e la villa, però, la consolava pensare che Fortunati sarebbe arrivato da lei a breve. Gli aveva scritto già il giorno prima, facendogli capire che era tempo di concretizzare i loro sforzi e mandare Ottaviano al nord e che, inoltre, le serviva la sua presenza per valutare alcune cose importanti.

In quei giorni non aveva avuto modo di incontrare Lucrezia Medici, che non si era fatta viva, probabilmente perché non sapeva di trovarla alle Murate. Avrebbe voluto chiedere lei stessa un colloquio, ma le era mancata la voglia, preferendo trascorrere tutto il tempo che poteva con il figlio e, anche se in misura nettamente minore, con la nipote.

Cornelia cresceva sana e forte, e aveva già delle astuzie che la facevano sembrare più grande della sua età. Caterina, in tutta onestà, non riusciva a decifrare cosa provasse per lei. Si limitava a starle vicina, a guardarla giocare, ad ascoltarla, e a sorprendersi, comunque, di quanto fosse intraprendente, specie se paragonata al padre, l'indolente Ottaviano.

Quando arrivò alla villa, dopo aver salutato tutti i figli, ed essersi resa conto che, come sempre, il suo primogenito si era ben guardato dall'andare ad accoglierla, così come di chiedere in un secondo momento notizie del fratellino, fu tentata di parlargli proprio di Cornelia, sia per farlo vergognare del suo totale disinteresse nei suoi confronti, sia per vedere come avrebbe reagito nel sentirla nominare.

Di fatto, arrivò sera senza che la donna trovasse il coraggio e le parole per farlo, e lasciò perdere.

Solo Bianca, dopo cena, quando furono sole davanti al camino della sala delle letture, le chiese notizie della piccola: “In fondo mi manca anche lei, oltre che Giovannino.” spiegò: “Ho passato mesi con lei... E comunque resta mia nipote.”

La Tigre la guardò per un po', cercando di capire se ci fosse qualche rimprovero sotteso alle sue parole, poi chiese: “Vorresti che la facessi venire qui alla villa?”

“Per costringerla a subire l'indifferenza di Ottaviano?” ribatté aspra la giovane: “No, no, credo che stia meglio con Suor Ubbidienza.”

Quella costatazione bastò a chiudere la questione. La realtà, per quanto scomoda a entrambe, era che la piccola cominciava ad assomigliare molto al padre e quel fatto riduceva in tutt'e due il desiderio di averla in casa.

“Tu come stai?” chiese allora la Sforza, cercando di distogliere l'attenzione dalla questione di Cornelia, anche se, lo sapeva bene, si trattava solo di rimandare una decisione che prima o poi avrebbero dovuto prendere.

“Sto bene.” rispose la Riario, ma tenendo sempre il capo chino sul lavoro di ricamo a cui si stava applicando.

“Hai avuto ancora nausee..?” provò a chiedere Caterina.

“Qualche volta, ma un po' meno.” ammise lei: “Credo che il mio corpo si stia abituando...”

“E di Troilo hai più avuto notizie?” la domanda, sorta in modo innocente, portò Bianca a sollevare in fretta lo sguardo e mettersi sulla difensiva.

“Tornerà quando sarà sicuro per entrambi che lo faccia.” rispose, con un po' di freddezza.

La Leonessa stava per ribattere, per spiegare che non aveva intenzione di mettere in dubbio la serietà dell'emiliano, tanto meno quella del loro amore, quando frate Lauro si affacciò nella sala e richiamò la sua attenzione.

“Che c'è?” chiese la milanese, infastidita da quell'interruzione.

“Il piovano – spiegò Bossi, con il suo solito sorrisetto che corrugava ancor di più il suo viso già segnato dal tempo – è appena arrivato e chiede di voi.”

La Tigre fu sorpresa solo fino a un certo punto dall'ora tarda dell'arrivo di Francesco. Ciò che le premeva di più, in quel frangente, era carpire la reazione di Bianca. In tutta onestà non sapeva dire se alcuni dei suoi figli avessero compreso che Fortunati fosse diventato il suo amante. Lei aveva cercato di stare attenta, ma era complicato, vivendo in una villa come quella, nascondere ai ragazzi qualcosa del genere, specie perché fin da piccoli si erano abituati, almeno così pensava, a riconoscere in lei certi segnali.

La Riario, ritornando a ricamare come nulla fosse, le disse solo: “Andate pure, non preoccupatevi, davvero. Io e i miei fratelli saluteremo Messer Fortunati domattina...”

Quelle parole non sarebbero state indicative di nulla, se non fosse stato per il rossore che stava tingendo il collo niveo della ragazza.

“Non ho fretta.” si impuntò Caterina, restando seduta e facendo già un cenno di commiato a Bossi.

“Fossi in voi, invece, correrei.” le disse la Riario, sicura che, in quel modo, la madre avrebbe capito che lei sapeva e che non disapprovava.

Infatti, dopo un solo attimo di esitazione, la Sforza deglutì e la ringraziò e poi, leggera come se quella nuova consapevolezza le avesse tolto un peso enorme, si alzò e andò dritta verso il portone d'ingresso, camminando tanto svelta da sembrar quasi decisa a seguire alla lettera il consiglio di Bianca.

Quando finalmente vide Francesco, la Tigre rallentò il passo. Il fiorentino, che stava parlando di qualcosa con Bernardino, che era subito accorso a salutarlo, guardava a tratti il ragazzino a tratti la donna. Caterina riusciva a riconoscere quello sguardo, l'aveva visto tante volte, eppure, sul viso del piovano, non aveva la connotazione volgare o famelica che aveva nella maggior parte degli uomini.

“Adesso perdonatemi, Messer Carlo – fece il piovano, interrompendo abbastanza bruscamente il Feo – ma devo riferire novità importanti a vostra madre.”

Il ragazzino, dopo aver guardato per un istante la madre e poi di nuovo Fortunati, parve combattere una dura battaglia con se stesso e poi, come se avesse deciso che la cosa gli stava bene e basta, salutò il fiorentino e la Tigre e se ne andò di corsa.

Mentre la Sforza si chiedeva se oltre a Bianca, anche Bernardino avesse capito tutto, l'uomo le si avvicinò e le prese con discrezione una mano, stringendola: “Ho davvero delle notizie importanti.”

“Andiamo in camera.” propose allora la Leonessa e, senza aspettare una risposta, intravedendo Creobola arrivare dalle scale di servizio, le gridò: “Porta i bagagli del piovano nelle sue stanze. E non farmi disturbare fino a domattina.”

Una volta giunti in camera, il fiorentino, stanco dal viaggio, si sedette sul letto e cominciò a trafficare con la tasca interna del suo giubbone: “Prima di tutto, così non mi dimentico, c'è questa missiva di Benedetto Balear Riario – disse, porgendo la lettera alla Tigre – vuole che gli confezioni delle camicie per un Vescovo che sembra sia molto intimo con il re.”

“Altre camicie?” sbuffò Caterina, incrociando le braccia sul petto e fissando il camino, chiedendosi, del tutto disinteressata alle camicie ordinate da Benedetto, come mai Fortunati non l'avesse salutata in modo più caldo, almeno ora che erano in camera da soli.

“Sono certo che con l'aiuto di Bianca...” iniziò a dire Francesco, ma la donna gli parlò subito sopra.

“Credevo che ti fossi mancata di più, sai?” la sua considerazione era un pensiero a voce alta, in realtà, non aveva alcuna intenzione di indurlo a fare qualcosa, voleva solo metterlo a parte della sua sorpresa.

“Io...” il piovano, che in realtà moriva dalla voglia di baciarla e stringerla a sé fin dal giorno stesso in cui aveva lasciato la villa per rientrare a Cascina, non sapeva cosa dire: “Io... Io non so come funzionino queste cose... Avevo paura di infastidirti.”

La milanese, allora, dopo aver lanciato la lettera di Balear Riario sulla scrivania, si andò a sedere accanto a Fortunati, spalla contro spalla e, facendo scorrere lo sguardo dai suoi occhi, fino alle labbra, mise in chiaro: “Non mi infastidisci.”

Come un cavallo a cui fosse stato dato un colpo di sperone, Francesco si slanciò in avanti e la baciò. Si sentiva ancora goffo, ma il desiderio era tale da non farlo preoccupare di rendersi ridicolo.

Caterina apprezzò molto quel guizzo di vita, il suo sapore e il calore del suo abbraccio. Le era mancato tutto, in quei giorni e non aveva voglia di aspettare ancora. Senza dargli tempo di dire o fare altro, gli fece capire in modo molto chiaro cosa volesse e il piovano non si tirò indietro.

Dopo aver sfogato tutto quello che sentiva in corpo, la Tigre lo tenne stretto a sé, sotto alle coperte.

Francesco, ancora non avvezzo a quel tipo di situazione, era sopraffatto dal contatto con la pelle di lei, dal suo odore che gli sembrava pervadere ogni cosa, e dal solletico che i suoi lunghi capelli bianchi gli davano al petto.

“Di cosa volevi parlarmi?” chiese lei, a un certo punto, la voce un po' arrochita e un torpore che reclamava il sonno, ma che non le impediva di ricordarsi ciò che il fiorentino le aveva annunciato al suo arrivo: “Non penso che l'ordine di camicie di quell'inetto sia la notizia importante di cui parlavi...”

L'uomo scosse piano il capo, e poi, convincendosi che probabilmente per la Leonessa mescolare a quel modo gli affari da amanti e quelli di Stato fosse normale, le sussurrò, mentre azzardava a metterle una mano sul fianco, apprezzandone la morbida pienezza: “Firenze ha fatto uno sgarro a Ferrara, una cosa non grave, ma che gli ambasciatori stanno gonfiando all'inverosimile.”

“Che cosa è successo?” chiese, subito allarmata, la donna.

Poiché Caterina si era puntellata all'istante su un gomito, staccandosi un po' da lui, Francesco fece altrettanto, arrivando così a fronteggiarla. Le raccontò di quello che era successo vicino a Castelnuovo di Garfagnana e di come, saputi i dettagli, gli Este si fossero adirati, accusando la Repubblica di aver fatto loro un torto gravissimo, comportandosi da padroni in casa loro.

“E il Gonzaga?” il collegamento della Leonessa fu immediato.

Ormai il Marchese di Mantova era legato a filo doppio non solo con gli Este, essendo il marito di Isabella, figlia del Duca di Ferrara, ma anche coi Borja, dato che Lucrecia aveva sposato suo cognato Alfonso...

“Per ora sembra ne sia rimasto fuori, ma non possiamo sapere quanto sia pericoloso, cercare il suo aiuto, adesso.” spiegò il piovano: “Se ci fosse un precipitare diplomatico degli eventi e lui venisse tirato in mezzo...”

“Sapendo che sono in contatto con lui, Lorenzo avrebbe un appiglio in più per trascinarmi in tribunale con qualche scusa e insistere per l'affidamento di Giovannino.” completò il pensiero la Tigre: “E magari anche per farmi dichiarare una traditrice e farmi impiccare.”

Francesco non disse nulla, ma il modo in cui sollevò il sopracciglio le fece capire che pensava esattamente la stessa cosa.

“Ciocca mi ha scritto che non è tanto... Aspetterò a rispondergli.” decretò la milanese: “Mentre per il resto... Ho altre lettere da farti vagliare. Domattina mi dirai cosa ne pensi. E poi chiuderemo anche la questione di Ottaviano. Prima parte, meglio sarà.”

Il piovano annuì e, dandole un bacio sulla fronte, si mosse appena, portandola ad abbracciarlo di nuovo. La Sforza chiuse gli occhi, premendo il viso contro il collo del suo amante. Quel semplice contatto la stava già calmando. Era felice di averlo al suo fianco anche in quel modo. Benché il senso di solitudine che la seguiva pressoché da sempre non se ne andasse mai del tutto, in quel momento il calore della pelle di Francesco, il suo respiro lento e l'amore che le sapeva dimostrare ormai anche con il proprio corpo, lenivano il suo tormento.

Senza che quasi se ne accorgesse, con una semplicità che entrambi sentirono come rassicurante, ripresero a baciarsi e poi a cercarsi, finendo per amarsi di nuovo, con una dolcezza diversa, priva della fretta che li aveva agitati poco prima.

Alla fine, come sciolti da quella seconda unione, si tennero stretti ancora un po' e poi, accomodandosi meglio, senza aver nessuna voglia di lasciare il caldo del letto per spegnere le poche candele rimaste accese, si prepararono a un meritato sonno fino al mattino.

“Ti amo.” sussurrò l'uomo, come ormai faceva spesso, dopo che si erano amati, e la Leonessa, ammorbidita dalla tenerezza che lui sapeva darle, non gli rispose, ma gli strinse la mano in un modo così intimo che per Francesco fu come sentirsi dire che anche lei l'amava, malgrado non fosse in grado di dirglielo a voce.

 

   
 
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