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Autore: Ikki_the_crow    01/02/2022    0 recensioni
Il primo capitolo di una storia iniziata tempo fa e mai portata avanti. Magari prima o poi la riprenderò.
Ewa è una donna d'affari. Risolve problemi, di qualsiasi genere essi siano, ad un prezzo molto elevato. Forse troppo.
Lo fa da anni, ed è brava nel suo mestiere.
Ma un nuovo incarico metterà in discussione tutto quanto.
Genere: Dark, Horror, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Professionista

Come sempre, la prima cosa che vide aperti gli occhi fu buio. Nonostante fossero passati anni, non si era mai abituata a dormire con la luce dei lampioni che entrava dalle finestre, così teneva sempre le imposte serrate.
Tastando alla cieca, la donna raggiunse il comodino. Si sentì un “clic” sommesso, ed una tiepida luce iniziò subito a diffondersi per la stanza, strisciando sul tappeto e arrancando sui mobili rustici come se fosse anch’essa assonnata per la levataccia. L’orologio sul muro segnava le cinque e venticinque del mattino.

La donna si sollevò dal letto singolo senza un gemito, soffocando uno sbadiglio e stiracchiandosi piano, un arto alla volta. Una volta in piedi, raggiunse l’ampia portafinestra e
spalancò i vetri e le imposte, lasciando entrare il caos della città e l’aria tiepida di aprile.
Non che il mese importasse: anche in pieno inverno, la prima azione della giornata di Ewa Hendler consisteva nell’aprire le finestre, uscire sul balcone ed osservare il mondo davanti a lei. Anche quando faceva davvero freddo, si concedeva al massimo una vestaglia sopra il pigiama.
L’aria fredda le ricordava quando era piccola e si svegliava all’alba: ora il mondo era cambiato, la notte non era più buia e silenziosa, ma l’atmosfera al mattino presto conservava la stessa aura magica.

Rimase sul balcone per qualche minuto, a respirare piano. Non troppo a lungo, però: i gas di scarico delle macchine e degli impianti di riscaldamento erano un po’ più rarefatti, lassù, ma si facevano sentire lo stesso. Quando le finestre del palazzo di fronte iniziarono a riflettere i raggi del sole nascente, rientrò e richiuse la finestra, per poi dirigersi in salotto.

“Buongiorno, amore mio” mormorò alla stanza vuota.
O meglio, ad un quadro dall’aria vissuta che campeggiava nell’ambiente minimalista, tra una libreria ricolma di faldoni e una serie di mensole costellate di vasi di vetro fine e statuette dalle forme strane.
Rappresentava un giovane uomo dall’aria pensierosa, poggiato ad un tavolino ricolmo di carte scarabocchiate e strumenti insoliti. Aveva lo sguardo assorto, immerso nella lettura di un tomo dall’aria polverosa che teneva in una mano, mentre con l’altra si scostava un ricciolo nero che gli era scivolato davanti alla fronte.

Quel quadro era l’unico oggetto di tutta la casa a cui Ewa tenesse veramente, l’unica immagine che avesse del grande amore della sua vita. Ogni volta che si era trasferita, anche quando era stata costretta a lasciare tutto e a spostarsi in fretta e furia, si era sempre portata dietro la tela, custodendola gelosamente.
La bastava guardarla per sentirlo di nuovo vicino, come se lui fosse ancora lì, ad abbracciarla e a sussurrarle che tutto sarebbe andato bene, di non preoccuparsi di nulla.

Lanciando occhiate amorevoli al quadro, si sedette al bancone che separava il salotto dalla cucina e piluccò distrattamente una tazza di cereali con frutti di bosco. Come sempre, si incantò ad osservare il modo in cui il ricciolo nero si avvolgeva intorno alle dita del ragazzo, perdendosi nei ricordi. Quante volte l’aveva osservato mentre compieva gli stessi gesti con aria distratta, immerso nei propri pensieri.
Era incredibile pensare che il pittore non aveva mai conosciuto Percy, ma aveva dipinto tutto basandosi unicamente sulle descrizioni che Ewa gli aveva fatto di lui. Quel talentuoso artista era stato uno dei suoi primi contratti: era abile, desideroso di farsi conoscere e di migliorare la sua già eccellente tecnica. Lei gli aveva dato quello che lui
desiderava, in cambio del solito pagamento più quel piccolo extra. Il suo capo non ne era stato entusiasta all’epoca, ma lei non se n’era mai pentita.

Circa un’ora più tardi, uscita dalla doccia e con addosso uno dei vari completi che aveva nell’armadio – camicia bianca, pantaloni e giacca nera, scarpe basse – Ewa si apprestò ad uscire di casa per un’altra giornata di lavoro.
Prima di richiudere la porta, lanciò un ultimo bacio in direzione del quadro e si osservò con attenzione nello specchio che aveva appeso all’ingresso. I corti capelli neri le ricadevano intorno al viso ovale, forse un po’ troppo pieno per i canoni di bellezza che andavano per la maggiore in quegli ultimi anni. Non che a lei interessasse: non era in cerca di un partner. Aveva già qualcuno.
L’ultima occhiata al trucco intorno agli occhi scuri, un paio di rapidi colpetti al ciuffo di capelli rossi come il fuoco che da appena sopra l’orecchio destro si estendeva lungo la tempia e fino alla nuca, un’aggiustatina veloce al rossetto leggero che le sottolineava le labbra piene e la donna si chiuse la porta alle spalle diretta verso l’ascensore. Appesa a tracolla, una capiente borsetta di pelle. Prima di andare in ufficio, aveva una faccenda da sbrigare.

Come tutte le mattine, si fermò alla caffetteria all’angolo per ordinare un espresso grande con poco latte e una spruzzata di vaniglia – una delle poche novità degli ultimi tempi che aveva accolto con piacere – seguito da un salto ad un fast-food in cerca di un sacchetto di cibo da asporto, per poi dirigersi verso la fermata della metropolitana.
Non erano neanche le sette del mattino, e il flusso di pendolari era ancora scarso: la maggior parte dei viaggiatori a quell’ora stava rincasando da un turno di notte, trascinando un piede dopo l’altro come automi troppo stanchi ed assonnati per accorgersi veramente di quello che gli succedeva intorno.
La fermata della metropolitana era una di quelle periferiche, a mezz’ora abbondante di viaggio dal centro, ricoperta di graffiti osceni e malamente illuminata da luci al neon che parevano moribonde e tuttavia rifiutavano caparbiamente di spegnersi definitivamente e lasciarsi sostituire, preferendo trascinarsi in una ronzante agonia.
Ewa scese le scale nella penombra itterica che ormai le era diventata familiare, seguì il corridoio per un paio di svolte e individuò quello che stava cercando.

Sembrava un fagotto di stracci abbandonato in un angolo, ma lei sapeva che si trattava di una persona, una ragazza che non doveva avere più di venticinque anni ma che la vita aveva trasformato in una grottesca caricatura di se stessa, con la gentile partecipazione di sostanze non propriamente lecite. Ewa l’aveva notata chiedere l’elemosina in quella stazione da qualche tempo, l’aveva osservata con attenzione per capire se potesse valerne la pena e aveva deciso che sì, c’era ancora qualcosa di valore nella sua anima. Una goccia di orgoglio, forse, o la consapevolezza di star scivolando sempre più in basso e non vedere ancora il fondo.
Non sarebbe stato un risultato eccezionale, certo, ma tutto faceva brodo.
Dopo tutto, gli affari sono affari.

Si avvicinò alla ragazza accasciata sul marciapiede e, quando le fu giunta di fronte, si fermò ad osservarla. Ewa non era molto alta, poco più di un metro e mezzo, e la ragazza le arrivava quasi al petto nonostante fosse seduta per terra. Sembrava dormire, ma Ewa sapeva per esperienza che chi faceva una vita come quella aveva sempre i sensi all’erta.
E infatti, dopo qualche secondo, gli istinti della vagabonda registrarono qualcosa di strano e la spinsero a sollevare la testa con sguardo vigile e spaventato.

“Ehi. Tranquilla.” Ewa le sorrise, tenendosi sempre an un paio di passi di distanza. “Non volevo disturbarti.”
Prima bugia, si disse.

La ragazza si grattò la pancia, nascosta sotto una felpa sformata che un tempo doveva essere stata azzurra. Sotto una zazzera di capelli sudici tagliati malamente con tutta probabilità con un paio di forbici, i suoi occhi azzurri erano vigli e attenti.

“Ehi, bella signora. Ce l’hai qualche spicciolo?” cantilenò, attaccando con la sua solita tiritera. “Devo prendere un treno per andare all’ufficio di collocamento, e mi mancano meno di cinquanta centesimi per…”

Ewa la interruppe, accovacciandosi di fronte a lei e passandole una monetina. La vagabonda la afferrò con aria rapace.

“Sii sincera, ragazza. Sappiamo tutte e due che non è di questo che hai bisogno” le disse.
L’altra si ritrasse immediatamente, rivolgendole uno sguardo sospettoso.

“Che cazzo vuoi, troia?” la aggredì. “Vattene, lasciami in pace!”

Ewa non si scompose. Estrasse dalla borsetta il sacchetto del fast-food e allungò anche quello verso la ragazza.

“Perché non prendi anche questo? Le patatine sono ancora calde. E credo che la sorpresa ti piacerà.”

Suo malgrado, la giovane sentì lo stomaco borbottare. Sembrò lottare con se stessa, indecisa.
Ewa rimase immobile, il sacchetto nella mano tesa verso l’altra. Era come con gli animali selvatici. Un passo alla volta, senza forzare i tempi.

Alla fine, la vagabonda le strappò il sacchetto di mano e lo aprì. L’aroma di fritto si sparse subito nell’aria, e lei iniziò ad estrarre manciate di patatine e a ficcarsele in bocca come se non ne vedesse da una vita. Ewa sorrise, senza allontanarsi. Anzi, accennò un piccolo passo di avvicinamento, e questa volta la ragazza non si ritrasse.

“Attenta a non strozzarti” rise. “E non rovesciare la bibita.”

Per un po’ rimasero così, una intenta a mangiare e l’altra in attesa, tra l’indifferenza dei pendolari che nel frattempo erano leggermente aumentati di numero. Ewa si costrinse a rimanere calma. Aveva fatto tutti i conti. C’era ancora tempo.

Alla fine, la vagabonda smise di concentrarsi sul cibo e parve notare qualcos’altro nel sacchetto. Con aria sospettosa, infilò la mano verso quello che Ewa sapeva essere un astuccio per occhiali e lo aprì. I suoi occhi si spalancarono per lo stupore, per poi riempirsi di paura mentre guardava di nuovo la donna in completo elegante che improvvisamente si era fatta pericolosamente vicina.

“Eroina” confermò pacatamente Ewa, senza scomporsi. “Prima qualità, tagliata come si deve, non quella merda che si trova per le strade di qui. Due dosi, abbastanza per farti arrivare parecchio lontano. Sono tue.”

La vagabonda si schiacciò contro il muro del corridoio, ora davvero spaventata.

“Chi cazzo sei tu? Sei della polizia?”

“Io? Certo che no!” Ewa rise di cuore. “Sono solo un persona che sa di cosa hai bisogno.”

“Non sono una drogata.” Il tono della protesta era piatto, come una frase ripetuta troppe volte che ormai sa di stantio sulla lingua.

“Ma certo che no. Puoi smettere quando vuoi eccetera eccetera.” Lo sguardo di Ewa si fece di ghiaccio.
“Parliamoci chiaro, ragazza. Ti ho tenuto d’occhio, so chi sei e di cosa ti fai. So dove vai a prendere la roba. Il nordafricano nel parchetto, intorno alle due di notte. Se fossi della polizia, lui sarebbe già in galera, e tu in crisi di astinenza in qualche vicolo. E potrebbe ancora succedere, se io lo volessi.”

La prospettiva parve spaventare la vagabonda ancora più dell’idea che una sconosciuta le avesse appena offerto della droga.

“Che cosa vuoi?” domandò con voce tremante.

“Voglio fare un accordo con te.” Ewa, ancora accucciata per terra, sfiorò con le dita l’anello che portava al medio della mano destra. “Voglio che tu diventi mia cliente. Ti darò tutta la roba che ti serve, finché campi. Roba buona, non quella merda che compri dagli africani.”

“Non posso permettermela… Io non…” La ragazza si impappinò, con le lacrime agli occhi.

“Oh, non ti preoccupare. Non la pagherai più di quanto paghi quello schifo con cui ti buchi ora.” Ewa sorrise. “Oltre, naturalmente, alla tua anima” aggiunse con tono divertito.

La ragazza ridacchiò a sua volta, ma non c’era allegria nella sua voce. “Quella mi sa che l’ho persa tempo fa.”

“Oh, non ancora, credimi. Ma se inizierai a servirti da me, sarà mia. Ma credimi, ne varrà la pena.”

Gli occhi della vagabonda sfrecciarono in giro, spaventati. Forse temeva che qualcuno dei suoi fornitori la vedesse parlare con questa sconosciuta e si insospettisse. Era chiaramente una questione di guerra tra bande per il territorio, forse questa donna era della Mafia o qualche altra associazione in cui si usavano giacca e cravatta invece che canottiere extralarge e bandane…
Ma intorno c’erano solo viaggiatori stanchi e annoiati, desiderosi solo di arrivare a destinazione, qualunque essa fosse. Nessuno prestava attenzione ad una barbona e a qualcuno talmente pazzo o sfaccendato da fermarsi a parlare con lei.

“Facciamo così.” Ewa si sfregò le mani. “Io ti lascio il sacchetto. Se non ti interessa, butta via tutto e amiche come prima. Se però decidi di usare il mio regalo, il nostro accordo sarà valido. Verrai da me a rifornirti eccetera eccetera. Ci stai?”
Le tese la mano destra.

Con cautela, la vagabonda gliela strinse. Sentì una lieve puntura quando le sue dita sfregarono contro qualcosa, forse l’anello della donna, ma niente di che. Gli aghi che usava di solito erano molto più dolorosi.

“Va bene. Ci sto” confermò.

“Ottimo!” Ewa si risollevò in piedi e si lisciò i pantaloni. “Oh, un’ultima cosa. Sei una ragazza intelligente, ma lo dirò lo stesso. Non provare a vendere quella roba o a farla vedere a chiunque sia. Perché qualcuno ti sta tenendo d’occhio. Tu non lo vedi, ma è lì che ti osserva. Quindi non pensare nemmeno a non rispettare i patti: se non ti interessa, butta via l’astuccio. Se lo usi, il contratto è chiuso. Tutto chiaro?”

La vagabonda annuì freneticamente.

“Perfetto.” Con un sorriso, Ewa si allontanò. Voltato l’angolo, estrasse un cellulare dalla tasca e accedette ad una cartella di posta elettronica anonima che aveva creato qualche settimana prima da un Internet Point. Ne aveva una discreta collezione, proprio per casi come questo.
Nelle bozze, una mail già pronta con in allegato le foto degli spacciatori nordafricani da cui la ragazza si riforniva, oltre a un dossier dettagliato di tutte le loro attività nella zona. Le ci erano voluti quasi tre giorni per metterlo insieme.
Ricontrollò tutto, poi spedì il plico alla sezione antidroga della polizia e a quella per il controllo delle gang. Era tempo di chiudere un po’ di rubinetti lì intorno.
Affrettando il passo per non perdere il treno in partenza, spense il telefono, tolse la batteria e fece cadere con nonchalance l’apparecchio nella fessura tra il convoglio e la banchina.
Nessuno udì il rumore della plastica sbriciolata sotto le ruote sotto il frastuono della metropolitana in partenza. E anche se qualcuno se ne fosse accorto, non erano certo problemi suoi.

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Lo studio di Ewa era un anonimo loft in un palazzo in centro: una sala d’accoglienza molto luminosa con poltroncine e schedari, leggermente ribassata rispetto all’ingresso, che dava direttamente sull’ufficio in cui la donna concludeva i suoi affari. Non c’era nulla che saltasse all’occhio nella mobilia: esattamente come il suo appartamento, anche lo studio sembrava uscito da una rivista di arredamento. Mobili semplici ma eleganti, superfici facili da pulire, un pavimento di marmo chiaro su cui si rifletteva la luce che entrava dalle finestre a tutta parete quando le tende leggere erano aperte: insomma, ciò che ci si aspetterebbe varcando una soglia
con accanto una targa che annunci “Ewa Hendler. Consulenze.”
Il tipo di consulenza fornita non era specificata, e per un ottimo motivo: Ewa poteva aiutare praticamente con tutto quanto.
Dietro pagamento, si intendeva.

La donna si sfilò l’anello, facendolo cadere con un tintinnio in una ciotola d’avorio poggiata su una mensola, e avviò il laptop dall’aria snella che riposava su una docking station installata sulla scrivania di legno. Poteva sembrare un’imprudenza, lasciare il computer incustodito in ufficio, ma Ewa sapeva che nessuno avrebbe potuto ficcanasare lì dentro impunemente. Il suo socio se ne sarebbe occupato.

La sua agenda digitale indicava un solo appuntamento per quel giorno, indicato semplicemente come “Speciale – 2pm”.
Perfetto: aveva tutta la mattina per cercare nuovi clienti.

Non che ce ne fosse davvero bisogno: uno degli innegabili vantaggi delle nuove tecnologie era la facilità con cui si poteva raggiungere le persone. Un tempo sarebbe dovuta ricorrere al passaparola, spargere la voce negli ambienti giusti, con circospezione per evitare di attirare l’attenzione delle persone sbagliate. Ora bastavano un paio di clic per poter piazzare annunci discreti in postazioni strategiche del web – o meglio, di quelle zone del web dove possibili clienti avrebbero guardato – con tutti i dettagli per contattarla. Tra cui l’indirizzo di una delle tante caselle di posta elettronica usa-e-getta che aveva aperto. In particolare, l’icona di una di queste lampeggiava per un messaggio non letto.
La donna lo richiamò con un paio di clic, aspettandosi la solita mail di spam. A volte ne arrivavano persino in caselle praticamente inattive come quelle.
Invece era un messaggio scritto da un essere umano. Una donna, che le chiedeva aiuto per un problema con il suo fidanzato.
Ewa iniziò a scrivere una risposta di poche righe: un appuntamento per la settimana seguente, tempo sufficiente per fare qualche ricerca e stabilire se fosse effettivamente una cliente genuina o una qualche trappola. Lo faceva per quasi tutti i clienti, ad eccezione di quelli speciali come quello di quel pomeriggio.
Per quelli, di solito improvvisava. Aveva abbastanza esperienza per potersela cavare egregiamente.

Un pizzicorino sopra l’orecchio destro la interruppe, spingendola a grattarsi con l’unghia curata. Si fermò con il dito a mezz’aria, come stupita.

Di già? si domandò.

Tese l’orecchio verso la sala d’aspetto. Nessun rumore, a prima vista nulla fuori dall’ordinario ma quello era un tipo di silenzio particolare. Qualcosa che negli anni lei aveva imparato a riconoscere.

“Hai già chiuso il contratto, Narciso?” chiese alla stanza vuota.

Nessuna risposta. Non ce n’era bisogno.

La donna ricominciò a digitare sulla tastiera, completando il testo della mail e spedendola attraverso un paio di server sicuri per rendere irrintracciabile l’indirizzo di origine. Era più un’abitudine che una vera preoccupazione: era convinta che quella cliente non fosse una trappola. Mentre preparava la risposta aveva dato una scansione veloce alle varie pagine Facebook, profili LinkedIn e account Twitter che corrispondevano al nome riportato in calce alla mail, e aveva trovato una possibile corrispondenza. Ragazza, giovane e bionda, alcune fotografie con un tizio dall’aria poco raccomandabile di circa cinque anni più vecchio di lei, bassa estrazione sociale e livello di educazione… In breve, esattamente quello che si era aspettata leggendo la mail. Scorrendo i post, si trovavano messaggi di almeno cinque amiche
diverse, note di eventi a cui era andata, video di gattini condivisi insieme a faccine sorridenti, tonnellate di test insulsi tipo “Quale tipo di dolcetto sei?” e chi più ne aveva più ne metteva.
Troppo sfaccettato e imperfetto per essere un profilo fasullo. Troppe persone con cui aveva scambiato messaggi per settimane per poi sparire nel nulla. Troppi errori nelle parti scritte.

Una volta finita quella ricerca preliminare, afferrò un telecomando dal primo cassetto della scrivania, scivolò sulla sedia girevole fino a trovarsi nell’angolazione giusta di fronte alla porta e accese un televisore al plasma che dominava la parete della sala d’aspetto. Lo sintonizzò sulle notizie locali e lasciò scorrere i titoli ascoltando lo speaker con un orecchio mentre si occupava di un po’ di contabilità. Alla fine colse quella che poteva essere la notizia che le interessava; interruppe ciò che stava facendo e alzò il volume.

“… la circolazione sulla linea della metropolitana è tornata regolare dopo quanto accaduto questa mattina quando una ragazza è finita sui binari ed è stata travolta da un treno. Al momento non si hanno dichiarazioni degli inquirenti, quindi non sappiamo se si sia trattato di un suicidio o di un tragico incidente…”

Ewa riabbassò il volume. Per tutti i diavoli, questa era stata facile. A saperlo non si sarebbe sbattuta a preparare quel dossier. La ragazza doveva avere il cervello più fuso dalla droga di quanto si fosse aspettata.

“Che dici, Narciso? Potrebbe essere un nuovo record?” domandò alla stanza vuota.
Nessuno rispose, ovviamente.
 
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Alle due spaccate, il suo appuntamento si presentò alla porta. Ewa accolse un uomo che indossava un completo elegante ma spiegazzato, come se ci avesse dormito dentro. Si trascinava dietro una ventiquattrore, tenendola tra la braccia come se fosse stata la cosa più preziosa della sua vita. Era spettinato e con larghe borse sotto gli occhi iniettati di sangue. Chiaramente non riposava bene da parecchio tempo.
Quel tizio l’aveva contattata tre giorni prima, per email, chiedendole un appuntamento urgente per un problema che, a suo dire, non poteva aspettare. Non aveva dato generalità, e l’indirizzo email era fasullo e generico, aperto solo pochi giorni prima.
Ewa non apprezzava i clienti così, potevano portare un sacco di problemi, ma il tipo si era presentato come la conoscenza di un suo vecchio contatto e aveva richiesto la massima urgenza e discrezione. Una veloce telefonata al contatto in questione aveva confermato la storia, anche se il vecchio faccendiere si era rifiutato di divulgare informazioni sull’uomo.
Non che Ewa ne avesse chieste.
Chi faceva troppe domande non durava a lungo in quell’ambiente.

Ewa fece accomodare nel suo ufficio l’uomo, che emanava un leggero odore di sudore e dava l’impressione di essere invecchiato di parecchi anni molto velocemente, chiuse la porta e provò a offrirgli un bicchiere d’acqua, che l’altro rifiutò nervosamente. Si guardava intorno con occhi sbarrati, e sembrava una volpe braccata dai cani.

La donna si sedette sulla propria sedia dall’altro lato della scrivania, incrociò le dita e assunse l’aria più professionale che poteva, anche se in cuor suo avrebbe voluto semplicemente sbattere fuori il tizio e dimenticarsi di tutta quella storia.
Dopo essersi guardato intorno nervosamente ancora una volta, finalmente l’uomo si decise a parlare.

“Lei mi deve aiutare, signorina.”

Ewa strinse le palpebre.

“Signora, prego. E io non devo fare proprio niente.”

L’uomo reagì come se l’avessero schiaffeggiato. Prima che potesse riprendersi, Ewa proseguì.

“Però posso aiutarla. Probabilmente, anzi sicuramente. Ma lei mi deve dire qual è il problema e cosa vuole da me. E soprattutto, deve capire che tutto ciò che farò per lei avrà un prezzo.”

“Certo, certo.” L’uomo cercò di riprendersi. “Il pagamento non è un problema” assicurò.

“Ne è sicuro?” Ewa sollevò un sopracciglio. “Non tutti sono disposti a pagare ciò che chiedo. O hanno la possibilità di farlo.”

“Il pagamento non è un problema” ripeté lui con più sicurezza. “Le darò ciò che chiede.”

“Molto bene.” Ewa si appoggiò allo schienale della sedia. “Allora mi racconti cosa le serve.”
 

Una volta aperta la diga, l’ometto si rivelò molto più che disposto a parlare. Probabilmente cercava solo un modo per liberarsi dello stress accumulato.

“Quindi, riassumendo.” Dopo quasi mezz’ora, Ewa decise di averne avuto abbastanza. “Lei ha sottratto fondi dai conti personali dei suoi capi. Non voglio sapere di quanto si sta parlando, né chi siano i suoi capi. Quello che le serve è che io la faccia sparire. Corretto?”

L’uomo, che per tutto il tempo si era rifiutato di dirle il proprio nome, annuì vigorosamente.

“Mi faccia arrivare a Panama. Da lì in poi me la posso cavare da solo, ho dei contatti. L’importante è che nessuno lo venga a sapere. E che sia fatto in fretta.”

“Nessun problema.” Mentre parlavano, Ewa aveva già elaborato un piano di massima. Le solite cose: un set di documenti fasulli, un paio di depistaggi – il classico biglietto aereo per l’Asia con nome fasullo prenotato maldestramente con una carta prepagata sarebbe andato bene – oltre che, naturalmente, il biglietto autentico recuperato in maniera più discreta. Non avrebbe retto ad un controllo approfondito, ma probabilmente avrebbe dato all’uomo un paio di giorni. Ewa aveva la sensazione che non li avrebbe usati, ma era sempre meglio mostrarsi professionali.
Espose il suo piano all’uomo, che annuì freneticamente.

“Mi fido di lei, signora. La prego, sono nelle sue mani.”

“Non se ne pentirà,” lo rassicurò lei. Non ne avrai il tempo.

Con movenze sicure, la donna inserì alcuni dati nel computer e premette un tasto. Dal mobile alle sue spalle iniziò a spandersi un ronzio leggero, mentre la stampante laser si occupava di mettere nero su bianco i dettagli del loro accorto. Era un contratto standard, un formato che la donna aveva usato innumerevoli volte negli ultimi anni.
Quando anche l’ultima pagina fu pronta, Ewa voltò la sedia ed estrasse con cautela il plico dallo sportello per poi pinzarlo con una graffettatrice e porgerlo verso l’uomo.

“Ecco qui. Una sigla in calce ad ogni pagina ed una firma in fondo” indicò. L’altro parve titubante, ma allungò lo stesso la mano per prendere il blocco di carta.

“Non si preoccupi,” continuò la donna. “Si tratta solo di una formalità. Come vede a pagina 5, la descrizione del servizio indica solo la prenotazione di un viaggio e l’assicurazione che nessuno la disturberà fino a quando l’aereo non sarà in volo. Niente che possa far risalire a lei. Piuttosto, vorrei che leggesse con attenzione la parte sui pagamenti. Pagina 8 e successive.”

L’uomo scorse rapidamente il plico. “Rimborsi spese, una quota di centomila dollari per i suoi servizi… E questo cosa…” mormorò, prima di alzare lo sguardo. “È uno scherzo?” chiese.

“Assolutamente no. Quello è un contratto legale e vincolante.” Ewa si mostrò sicura di sé. Di solito era sufficiente. “C’è qualche problema, per caso?”

L’uomo esitò. Riportò lo sguardo sul documento, come se volesse assicurarsi di non aver letto male.
“No, nessun problema” cedette alla fine. Riappoggiò il mucchietto di fogli sul pianale della scrivania e iniziò a siglare minuziosamente gli angoli di ciascuna pagina, usando una penna che Ewa gli aveva allungato. Ad un tratto sobbalzò e un’imprecazione gli sfuggì dalle labbra serrate.

“Va tutto bene, signore?” La donna finse stupore, come se non sapesse cosa era appena successo. Come se non fosse successo altre innumerevoli volte.

“Mi sono tagliato con la carta” disse l’uomo in tono di scuse. “Credo di aver sporcato un foglio…”

Non un foglio. Ha sporcato pagina 9.

“Nessun problema” lo rassicurò Ewa. “Questo non rende il contratto meno valido. Le prendo subito un cerotto; lei intanto finisca pure.”
La donna finse di frugare un po’ nell’ultimo cassetto della scrivania, che in realtà conteneva solo una confezione di corte bende adesive apposta per quelle occasioni. Quando giudicò fosse passato un conveniente lasso di tempo, tirò fuori un cerotto in confezione singola e lo passò al cliente, che nel frattempo stava finendo di firmare l’ultima pagina.

“La ringrazio molto.” L’ometto tentò un sorriso, ma il risultato ricordò più una smorfia da colica. Lei ricambiò il sorriso, avvicinò a sé il plico e lo scorse velocemente.

“Bene, il contratto è chiuso” disse alla fine. “Lei si accomodi pure in sala d’aspetto, mentre io mi occupo del resto.”

 
Ad Ewa ci vollero meno di un paio d’ore per sistemare tutto quanto. Per prima cosa, scattò una foto all’ometto e la applicò su una serie di documenti – patente, passaporto e un codice di sicurezza sociale appartenuto ad un reduce di guerra morto investito un paio di mesi prima – tanto convincenti quanto fasulli. Utilizzando i dati del padre dell’uomo, acquistò un biglietto aereo per Kuala Lumpur sul volo in partenza alle 8 di quella sera da un aeroporto minore; poi, utilizzando un canale molto più sicuro, prenotò a nome della sua nuova identità un posto su un volo per Panama City che partiva alla stessa ora dallo scalo principale della città.
I luoghi affollati erano sempre meglio per chi non voleva farsi vedere, aveva imparato. Cercare di evitare sguardi indiscreti finisce sempre per attrarne: meglio immergersi nella folla e diventare uno dei tanti volti anonimi nella fiumana.

Quindi chiamò una serie di compagnie di taxi e preparò una serie di trasferimenti per tutta la città: dopo aver annotato orari, luoghi concordati e numeri delle macchine che sarebbero venute a prenderlo, fece rientrare l’uomo e gli consegnò i suoi nuovi documenti.

“Partirà dall’angolo tra mezz’ora su un taxi QML. Qui c’è il numero. L’autista la scaricherà alla stazione dei pullman di fronte alla stazione centrale: lei fingerà di dirigersi al terminal, ma si limiterà ad attraversarlo per raggiungere il lato opposto, dove troverà un taxi della YC ad attenderla. Dovrebbe avere circa dieci minuti di gioco, a seconda del traffico. Se non lo vede, resti in una zona di passaggio vicino al terminal: si guardi pure intorno quanto vuole, dopotutto sta cercando il suo taxi. La fretta e il nervosismo vanno benissimo, ma cerchi di non sembrare spaventato. Una volta sul secondo taxi, avrà circa quaranta minuti di strada prima della fermata successiva…”

Spiegò il tutto due volte, poi fece ripetere l’intera sequenza all’ometto per essere sicura che avesse memorizzato tutto correttamente.

“Non si preoccupi,” lo rassicurò alla fine, “il mio socio sarà sempre con lei. Non lo vedrà, ma si fidi. Lui vedrà lei. E in caso di necessità interverrà.”

L’altro passò i successivi dieci minuti a spargere ringraziamenti per tutto l’ufficio, con la sua vocetta tremula e sottile. Insistette perfino per aggiungere un 10% di mancia alla tariffa concordata, che fu accreditata su uno dei molti conti di Ewa. Di lì a poche ore, i soldi sarebbero spariti in un dedalo di trasferimenti internazionali, acquisti di titoli ed obbligazioni e versamenti a ONG inesistenti.

Mentre accompagnava il proprio cliente alla porta, Ewa si domandò quante persone come lui avesse visto nel corso della propria vita. Disperati pronti a fare qualunque cosa, a rinunciare a qualunque cosa, pur di vedere i propri problemi sparire.
Senza rendersi conto che al peggio non c’è mai fine.

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Quando rimise piede in casa, quella sera, erano passate da poco le otto. Una volta che l’ometto si era congedato, la donna si era premurata di coprire qualsiasi traccia che potesse collegarlo a lei e ripristinare le proprie risorse.
Prima di tutto i soldi, ovviamente. Poi le telefonate, effettuate da cellulari diversi che erano stati prontamente distrutti. Ne avrebbe dovuti acquistare altri a breve. Ewa aveva registrato nuovi indirizzi email, ciascuno da un diverso internet point in giro per la città, si era procurata un appuntamento per aprire un nuovo conto in una grande filiale in centro (faceva sempre passare almeno sei mesi da quando apriva un conto a quando iniziava ad usarlo, in modo che le registrazioni delle telecamere fossero sovrascritte e gli impiegati avessero dimenticato la sua faccia) e aveva ripulito l’ufficio da ogni possibile impronta digitale.

Alla fine, solo il contratto era rimasto. Ma quello non poteva farlo sparire. Non ancora, almeno.
In compenso, prima di uscire aveva notato che l’anello che quella mattina aveva gettato nella ciotola sulla sua scrivania era scomparso. Una persona qualsiasi avrebbe sospettato del cliente, dato che nessuno a parte loro due era entrato nell’ufficio per tutto il giorno.
Ma Ewa sapeva perfettamente che era stato Narciso ad occuparsene. Non aveva idea di quando fosse successo, ma ormai aveva imparato a non porsi domande di quel genere.

La donna rientrò a casa seguendo lo stesso percorso di quella mattina. La ragazza della stazione era scomparsa, ovviamente, ma le transenne della polizia erano ancora lì.
Il tempo di preparare una cena veloce, e il pizzicore tornò. Questa volta era leggermente più avanti, verso la fronte, proprio dove il ciuffo rosso si fondeva nella frangetta nera e curata. Nello stesso momento, il silenzio nell’appartamento cambiò leggermente di qualità.

“Deduco che l’aereo era in orario” dichiarò Ewa alla stanza vuota.
Nessuna risposta ovviamente. Solo un silenzio soddisfatto, come quello attorno ad un gatto che abbia appena divorato un bocconcino particolarmente succoso.
Durò un solo istante, poi scomparve e tutto tornò come prima. Una volta fatto l’orecchio, è incredibile quante qualità di silenzio ci sono.

La donna si alzò dalla sedia, sparecchiò e poi accese il televisore sul canale delle notizie 24 ore.
In primo piano, appena arrivato in agenzia, l’annuncio che un aereo di linea era precipitato pochi minuti dopo essere decollato verso il Sud America. Le dinamiche dell’incidente non erano ancora chiare e i soccorsi erano ancora sul luogo, ma già si contavano più di venti morti. Ewa non ebbe bisogno di scorrere l’elenco delle vittime identificate: sapeva già che il nome che le interessava era sulla lista.

“Un altro contratto terminato con successo” mormorò, rivolta al quadro. “Un altro passo verso
la tua libertà, amore mio.”

Si diresse in bagno per fare una doccia, e come sempre osservò il proprio riflesso allo specchio. Sfiorò il ciuffo ramato con le dita: ogni volta che consegnava un’anima al suo signore, uno dei capelli cambiava colore, ritornando alla tonalità con cui era nata.
Presto, anche le ultime tracce di rosso sarebbero sparite.
Era solo questione di tempo.
 
   
 
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