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Autore: smarsties    07/02/2022    3 recensioni
[Modern!AU - Duncan/Courtney - accenni Scott/Courtney e Duncan/Gwen]
Ciò che accomuna Duncan e Courtney è che entrambi devono essere a Toronto entro sabato. Bloccati in aeroporto a Filadelfia, a tre giorni da quello che potenzialmente potrebbe essere il weekend più importante delle loro vite, si ritrovano a condividere un folle viaggio in auto verso la metropoli canadese.
Sarebbe un vero peccato se la situazione, già tragicomica di suo, si rivelasse l'occasione perfetta per far venire a galla dubbi e incertezze. Ancora più esilarante sarebbe se, nel mentre, cominciassero a provare qualcosa l'uno per l'altra.
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«Ma guarda chi si rivede! Certo che il mondo è proprio piccolo!»
A tre passi di distanza, lo sconosciuto di poco fa la fissava, con la testa leggermente inclinata e gli angoli della bocca tesi verso l’alto. C’era qualcosa in quel mezzo sorriso che le faceva prudere le mani.
«Di nuovo tu, che gioia!» esclamò con quanto più sarcasmo possibile, mettendo via il telefono. «Comincio a pensare che tu sia uno stalker.»
«Non lo sono, però ammetto che ti stavo seguendo.»
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Scott | Coppie: Duncan/Courtney
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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Tre





[ giovedì 22 aprile – Knowlton, New Jersey ]



Gwen aveva avuto la faccia tosta di provare a ricontattarlo.

Il suo messaggio giaceva in alto a tutte le altre notifiche – centinaia di commenti entusiasti sulla sua performance; Leshawna ne aveva caricato i punti salienti nelle storie, che erano state presto scovate dai suoi fan.

Il serbatoio della Prius si riempiva velocemente. La puzza di cherosene gli invase le narici.

Duncan guardava con un occhio il contatore, con l’altro l’anteprima di qualunque cosa la sua ex avesse l’urgenza di dirgli. Qualche scusa patetica, gli suggerì la sua coscienza.

Ci rimuginò su, ma alla fine sbloccò il display e aprì la chat.




1:22 pm

So che non vuoi sentirmi e hai tutto il diritto di odiarmi. Mi sentivo troppo in colpa, quindi ho deciso di troncare con Trent. Nel weekend sarò a Toronto da mia mamma e pensavo di passare a vederti, magari di scambiare due chiacchiere dopo. Non ti chiederò di riprovarci, penso che sia troppo tardi per questo. Vorrei solo chiarire faccia a faccia.




Rilesse quelle righe per tre volte, prima di bloccare numero e profili social.

Voleva venire a sentirlo suonare? Nessun problema. Ma non avrebbe passato il post-concerto a sentire i suoi piagnistei, perché non c’era assolutamente nulla da chiarire. Il tradimento aveva frantumato la fiducia che nutriva nei suoi confronti e rimettere assieme i pezzi era impossibile.

Si rese conto di star stringendo con troppa foga la pompa solo quando capì di essersi scheggiato un’unghia, ovviamente una della mano destra su cui le portava più lunghe per via della chitarra.

Il serbatoio era pieno. Rimise tutto a posto e, cacciato il portafoglio dalla tasca, si diresse verso la cassa automatica.

Eppure, c’era una parte di lui che voleva rivederla, che voleva star a sentire quello che aveva da dirgli. La parte che pretendeva una degna conclusione per quel capitolo durato un anno. La parte che, nonostante tutto, teneva ancora a Gwen.

Non l’avrebbe assecondata. Non aveva passato l’ultima settimana e mezzo a distrarsi e sopprimere il dolore, salvo poi strisciare di nuovo ai suoi piedi. Non importava quanto bella e importante fosse stata la loro relazione, meritava di portarle rancore per come aveva demolito ciò che avevano costruito.

Le porte automatiche del bar del distributore si spalancarono. Vide Courtney uscire fuori, stretta nel suo cappotto marrone. Quando fu più vicina, notò una rughetta fra le sue sopracciglia e lo sguardo pensieroso.

«Cos’è quella faccia grigia, principessa?» le domandò, inclinandosi di lato per poter cogliere degli indizi dai suoi occhi onice.

«Nulla» affermò, tremando a causa del vento freddo. «Stavo parlando con Scott.»

«E vi siete chiariti, immagino.»

Annuì, ma tutto lasciava presagire che ci fosse dell’altro.

«Hai un’unghia rotta, lo saigli domandò poi d’un tratto.

Se la guardò. Era tranciata a metà, non poteva fare altro che tagliarla e limarla a dovere.

«Devo essermela graffiata su una mattonella in bagno» mentì lui.

Ritirò dalla macchinetta lo scontrino fresco d’inchiostro. Lo ripiegò e lo infilò nel portafoglio.

«Allora, vogliamo rimetterci in viaggio?»









[ Route 81, Pennsylvania ]



«Non capisco perché privare i migliori pub della città del nostro sodalizio.»

Courtney sospirò: non ne voleva proprio sapere di demordere.

Se ne stava col naso su delle mappe geografiche, trovate nello scomparto anteriore assieme alla carta d’immatricolazione dell’auto. Probabilmente erano appartenute a vecchi affittuari che le avevano scordate. Ve n’era anche una della Pennsylvania e lei s’intratteneva seguendo col dito la strada che stavano percorrendo.

«Già abbiamo spaccato con un’esibizione improvvisata» le fece notare Duncan, trafficando con l’aria condizionata. «Immagina cosa potremmo fare con una piccola setlist ben studiata!»

Era il primo pomeriggio e s’erano rimessi in viaggio da circa un’ora e mezza. Avevano percorso ottantacinque miglia, ne mancavano una ventina per raggiungere lo stato di New York. Nella migliore delle ipotesi, sarebbero arrivati a Toronto attorno all’una di notte.

«Smettila di trovare modi per rivedermi una volta tornati a casa» sorrise lei, guardandolo di sbieco. «Non credi che ti abbia già sopportato a sufficienza?»

Le ammiccò.

«Lo dici come se non mi amassi.»

Non mancò di rispondergli a tono – «No, nemmeno un po’» – ma l’uso di quel particolare verbo smosse qualcosa dentro di lei. Era evidente che fosse una frase ironica, buttata lì senza nemmeno rifletterci troppo. Ciononostante, si ritrovò a darle fin troppa importanza.

La connessione che s’era creata quella mattina, durante il duetto, era simile a quella che aveva percepito con una sola persona, Alejandro – e aveva senso che fosse stato così: erano due metà perfettamente complementari, capaci di comprendersi al volo. Era suo fratello.

Duncan, al contrario, era poco più che uno sconosciuto.

Aveva dunque provato ad imputare la colpa all’atmosfera, alla canzone, alla vicinanza. Poi la sua mente era volata al motel a Coney Island, alle chiacchiere e alle domande sempre più personali – non che si fossero raccontati granché, ma normalmente ci impiegava settimane, se non addirittura mesi, per aprirsi.

Aveva trovato una giustificazione piuttosto soddisfacente anche per quello. Parlare come due persone civili, anziché discutere per ogni piccolezza, avrebbe reso meno sfiancante la loro convivenza forzata, oltre ad aiutarli a individuare punti d’incontro. Era stata un po’ una terapia di coppia.

Le era servito, inoltre, a togliersi dalla testa il tarlo che Alejandro le aveva ficcato coi messaggi del pomeriggio precedente.

«Così mi spezzi il cuore» esclamò Duncan fintamente offeso, tamburellando le dita sul volante a tempo di Since U been gone di Kelly Clarkson.

Nel profondo, sapeva perché quella piega inaspettatamente intima la turbava, e aveva a che fare col suo fidanzato.

Il dare priorità alla sua carriera aveva mandato a monte le poche storie serie che aveva avuto. Era abituata alla solitudine e, a dirla tutta, non aveva proprio tempo materiale da poter dedicare ad un’altra persona.

Aveva cominciato a pesarle solo negli ultimi due anni: più partecipava a matrimoni di amici e conoscenti, più era palese che l’unica zitella acida rimasta fosse proprio lei.

Per questo, quando aveva conosciuto Scott, s’era sbrigata a bruciare le tappe, prima che anche lui avesse potuto vederla per quello che era: un’isterica primadonna malata di lavoro. Poi, che lui l’avrebbe venerata anche se avesse avuto tre braccia e cinque occhi era un’altra cosa!

La fatidica scintilla, però, non era mai scoccata. Si era accorta in fretta di non amarlo – o almeno, non quanto lui amava lei – ma, tutto sommato, stargli affianco le dava la sensazione di comfort e stabilità cui aveva sempre aspirato. Avrebbe potuto conviverci per tutta la vita senza troppe cerimonie. Meglio quello che essere umiliata ad ogni evento pubblico.

E andava tutto bene, fino a quando l’universo non gli aveva messo Duncan in mezzo ai piedi, e le aveva fatto capire che forse di fare sforzi e scendere a compromessi non le andava più.

«Non stai andando un po’ troppo veloce?» domandò qualche minuto più tardi, più che altro per mettere a tacere quel folle flusso di coscienza.

«Rilassati, bambolina» biascicò lui, combinando due dei termini che più le urtavano il sistema nervoso. «Il massimo è novanta e io sto andando ad ottantacinque.»

Aveva decisamente sforato il limite, ma non ci fu bisogno di controbattere perché, un miglio più avanti, i lampeggianti di una volante li abbagliarono. Sul ciglio della strada, al riparo di un grosso ombrello nero, un’agente faceva loro segno di accostare.

Duncan trattenne un’imprecazione, ignorando l’espressione compiaciuta di Courtney che celava un sonoro “te l’avevo detto”.

«Buonasera, agente» la salutò con voce vagamente filtrante, mettendo su un sorrisetto mellifluo e sbattendo le ciglia più volte del necessario.

La sua adorabile compagna di viaggiò gli tirò uno scappellotto sulla nuca.

«Patente e libretto, per favore» ordinò quella, che nemmeno si era accorta dei suoi patetici tentativi di liberarsi con una semplice ammonizione.

Mentre lui le stendeva i documenti, l’occhio vigile di Courtney cadde sul distintivo dorato che l’agente portava appuntato al petto – il suo cognome era Sanders.

«Hai proprio una bella faccia tosta» borbottò, nel momento in cui quella si allontanò, in merito al tono che aveva utilizzato con un’ufficiale. «E smettila di guardarle il fondoschiena dallo specchietto!»

«Stavo solo controllando perché ci stesse mettendo così tanto» si giustificò lui, senza smettere di fissare. «Non c’è motivo di essere gelosa, principessa.»

Lo colpì una seconda volta.

Effettivamente, ci stava impiegando più del previsto. Non sembrava in procinto di fargli una multa. Erano, però, almeno una manciata di minuti che, china sul finestrino, si consultava con la sua collega, seduta al posto di guida. Questa teneva in mano la patente di Duncan e bofonchiava qualcosa al suo walkie talkie. Finalmente lo mise via e fece un cenno d’assenso a Sanders, che tornò da loro.

«Signor Nelson?»

«Dica pure» le sorrise lui, cortese.

«Deve seguirci in commissariato. I suoi dati anagrafici combaciano con quelli di una persona che stiamo attualmente ricercando.»









[ Commissariato di New Milford, Pennsylvania ]



L’ultima mezz’ora l’aveva passata a ripetere di non essere il Duncan Nelson che aveva rapinato una banca tre notti fa, che non teneva in ostaggio nessuna signora Wilkins, che non aveva mai messo piede a New Milford e che nemmeno sarebbe stato in grado di localizzarla su una cartina.

Se ne stava seduto in silenzio al tavolo degli interrogatori, con gli avambracci poggiati sulla superficie e le mani congiunte. Il suo sguardo, scocciato, vagava da una parte all’altra della stanza asettica. Era passato un altro quarto d’ora dalla fine dell’interrogatorio e, se inizialmente aveva trovato il tutto divertente, quel teatrino cominciava ad essere quasi patetico.

L’orologio sopra la porta segnava le cinque del pomeriggio. Avevano ormai perso quasi due ore di viaggio. Sarebbero riusciti ad arrivare in nottata solo se avessero guidato ad una velocità sostenuta, senza fare alcuna sosta.

Dalle finestrelle aveva visto passare più volte il sergente che l’aveva interrogato. Si sarebbe volentieri affacciato per gridargli se potesse finalmente togliere il disturbo, ma si contenne.

Fu solo dopo altri dieci minuti che parvero ricordarsi della sua presenza. Fece capolino da dietro l’uscio la seconda delle poliziotte che l’avevano fermato, il cui cognome aveva scoperto essere MacArthur.

«Ehi, bel ragazzone, puoi andare» lo richiamò, facendogli segno con la mano di uscire.

Scattò in piedi come una molla, sbrigandosi a seguirla prima che potessero incolparlo di qualcos’altro e trattenerlo lì per un’altra ora.

«Ci dispiace averti fatto perdere tempo prezioso, ma purtroppo questa è la procedura» gli spiegò, riconducendolo nella stanza principale. «Per di più, ci sono alcuni fascicoli incompleti e-»

«Duncan!»

Alla sua sinistra, Courtney si era appena alzata dalla scrivania di Sanders – verosimilmente, anche a lei erano state fatte alcune domande – e si faceva strada attraverso gli agenti in divisa.

«Come mai ci hai messo così tanto? È successo qualcosa? Ti serve un avvocato?»

Non era sua intenzione risultare apprensiva, così come non lo era cercare un contatto fisico con lui. Eppure, il suo primo istinto era stato quello di corrergli incontro, con un velo di preoccupazione dipinto in volto, e di allungargli una mano sul braccio.

Lui la scrutò, confuso e vagamente lusingato nello stesso momento. Nell’attimo in cui i loro occhi si incontrarono, la ragazza si rese conto di aver violato il suo spazio. Si ritrasse di scatto, come se avesse toccato una superficie bollente.

MacArthur spiegò brevemente il malinteso e a scusarsi più volte per il disagio causato. Fu allora che Duncan comprese quanto fosse realmente durato il momento precedente: un paio di istanti. Era la seconda volta in nemmeno dodici ore che un attimo di vicinanza con lei si propagandava nel suo inconscio.

«Da questa esperienza abbiamo imparato una cosa» proferì più tardi, una volta fuori dal commissariato.

L’intensità della pioggia era finalmente diminuita, tanto che non era più necessario ripararsi con l’ombrello. Tuttavia, il cielo era ancora coperto e il vento freddo non accennava a calmarsi. Gli ululava nelle orecchie e gli sferzava le guance.

«Che bisogna rispettare sempre i limiti di velocità?» domandò lei, sistemando il colletto del cappotto.

«Che di me ti importa, e pure tanto» ghignò, tirandole una leggera spallata. «Eri pure pronta a difendermi in tribunale!»

Rispose alla sua spinta con una decisamente più forte.

«È il mio lavoro» gli disse, asciutta. «E, in fondo, non ti detesto a tal punto da lasciarti alla mercé della giustizia americana.»

«Potrei quasi arrossire di fronte a cotanta misericordia!»

Soffocò una risata.

«Ho parlato col centralino dell’aeroporto di Filadelfia» gli annunciò Courtney, aprendo lo sportello e infilandosi dentro. «Non possiamo guidare questa macchina fino in Canada, ma ci permettono di sostituirla a Rochester e di pagare tutto lì.»

Duncan impostò il navigatore. Dalla posizione attuale, Rochester distava centoottantuno miglia che, a causa di qualche rallentamento per dei lavori in corso, avrebbero percorso in poco meno di tre ore e un quarto. Se non si fossero fermati nemmeno una volta, sarebbero arrivati per le nove di sera. Da lì, Toronto non era distante.

Al pensiero che il finale si avvicinasse sempre più, provò un improvviso ed ingiustificabile moto di tristezza. Le ultime due settimane erano state sì estreme, ma anche a dir poco imprevedibili e tornare alla quotidianità, dopo tutte le avventure vissute, si stava rivelando più difficile del previsto. Da qualche parte nel suo cervello, una vocina perentoria – che somigliava fastidiosamente a quella di Bridgette – gli urlò di riprendersi, ‘ché era adulto e, come tale, aveva delle responsabilità.

«È stata una lunga giornata» sospirò, allacciandosi la cintura e mettendo in moto. «Pensavo che potremmo fermarci in un’area di camping per riposare qualche ora. Possiamo viaggiare di notte e arrivare a Rochester domattina all’alba. Così evitiamo anche una buona porzione di traffico.»

«Sì, sono d’accordo» lo colse in contropiede lei. «Tornare con qualche ora di ritardo non farà di certo la differenza. Insomma, saremo comunque a casa prima di pranzo!»

Lui non rispose. Alzò il volume della radio e lasciò che fosse Bless this acid house dei Kasabian a riempire il silenzio.

«Ad ogni modo, se avessi rispettato i limiti, non ti avrebbero fermato e adesso saremmo già a Rochester» gli fece notare una volta entrati in autostrada. «Ergo, è tutta colpa tua.»

Non l’avrebbe mai ammesso, ma un altro motivo per cui non voleva ancora concludere quell’avventura era Courtney.









[ Lighthouse Landing Campground, Marathon, New York ]



Duncan non riusciva a capire quando avesse cominciato a vederla sotto una luce diversa. Un secondo prima era una signora di mezz’età intrappolata nel corpo di una giovane, che lo rimproverava per piccolezze come intromettersi in conversazioni altrui, o staccare per mezzo istante le mani dal volante durante la guida; un secondo dopo era una bellissima donna dal carattere forte ed indipendente, capace di tenergli testa come nessun altro era mai riuscito a fare.

Con un orecchio teneva il filo delle storie assurde che Izzy ed Eva gli stavano raccontando, annuendo ed interagendo quando necessario; con l’altro origliava la disquisizione che Courtney e Noah stavano avendo sulla produzione letteraria del primo Novecento – ogni singola parola che usciva dalle loro bocche era aramaico, ma avrebbe potuto ascoltarla dibattere animatamente di argomenti che la appassionavano per ore.

«E quindi abbiamo aiutato Eva a bucare le ruote del motorino della sua ex» ridacchiò Izzy, in conclusione di una storia di cui aveva a malapena capito l’incipit.

«Ci hanno beccato con le mani nel sacco» aggiunse l’altra donna, spostando le fette di pane abbrustolite dalla griglia ad un piatto di plastica, e cospargendole d’olio. «Ma è stato allora che la nostra amicizia si è consacrata.»

Spostò la sua attenzione sul trio, il più insolito che aveva avuto modo di conoscere. Izzy, Noah ed Eva, rispettivamente una cartomante, un insegnante di letteratura inglese e una personal trainer, si erano conosciuti ai tempi del liceo e non avevano mai perso i contatti. Almeno una volta l’anno, impegni personali permettendo, si ritrovavano e guidavano per un intero weekend ovunque la macchina li avrebbe condotti.

Dovevano aver notato che anche la loro accoppiata era parecchio peculiare, perché non avevano nemmeno fatto in tempo a parcheggiare affianco al loro furgoncino, che subito li avevano invitati a cenare con loro.

«Voi due, invece?» chiese Izzy, spostando lo sguardo da lui ad un punto poco più dietro – gli altri due si erano riavvicinati, richiamati dal profumo della cena ormai pronta. «Come vi siete incontrati?»

Duncan allungò un braccio verso la borsa frigo e vi cacciò una lattina di birra. Strappò via la linguetta e bevve un sorso.

«In aeroporto a Filadelfia, nemmeno quarantotto ore fa. E mi ha subito urlato contro.»

«Se lo meritava» precisò prontamente Courtney, che s’era accomodata alla sua sinistra, addentando una fetta di pane ed olio. «Si è comportato da maleducato.»

«Per buona parte della giornata di ieri mi ha apostrofato anche con altri epiteti poco carini, come irresponsabile, incosciente, pervertito, idiota, pallone gonfiato…»

«Tutti termini che lo descrivono alla perfezione».

«E poi è caduta sotto il mio incantesimo» terminò, poggiandole una mano sulla spalla – in un gesto del tutto amichevole, ma una voce nella sua testa gli chiese se non stesse attraversando, ancora una volta, qualche confine immaginario. «Adesso mi adora.»

«Non è così, ma lasciamoglielo credere» ribatté lei, girandosi in sua direzione, senza reagire a quel tocco.

A quanto pare, no.



* * *



Avevano mangiato e bevuto, e continuato a scambiarsi racconti più o meno divertenti, mentre il cielo diventava sempre più scuro, senza nessun astro ad illuminarlo – erano tutti nascosti dietro i nuvoloni grigi. Dopo cena, avevano fatto qualche partita a carte, fermandosi prima che il clima potesse diventare esageratamente competitivo.

Poi, verso le nove e mezza, il simpatico terzetto aveva cominciato a smontare baracche e burattini – volevano arrivare a Rhode Island prima dell’alba, avevano spiegato – e Duncan si era trovato nuovamente solo con Courtney e un mucchio di pensieri che stava facendo il possibile per sopprimere.

In piedi in riva al laghetto, con una sigaretta ormai consumata per metà fra le labbra, la guardava passeggiare avanti e indietro qualche metro più in là, nel frattempo che parlava al telefono con un’amica. Sorrideva genuinamente.

E lui non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.

Coi tratti latini e le curve sinuose che si ritrovava, non poteva negare di esserne rimasto fisicamente attratto da subito. Quello che avrebbe continuato a negare fino alla nausea era che non c’era nulla di più.

La morsa allo stomaco ogni qualvolta era nei paraggi era uno stupido scherzo del suo inconscio.

Non provava alcun tipo di sentimento romantico per Courtney.

E, anche se fosse, lei era praticamente sposata.

Finalmente distolse lo sguardo e incominciò a passeggiare, evitando i pantani di fango. L’ululare del vento fra gli alberi della foresta circostante si mischiava al chiacchiericcio degli accampamenti più vicini. Nonostante avesse smesso di piovere da un paio d’ore, il petricore impregnava ancora l’aria.

Ci mise un po’ a distinguere i passi, prima affrettati e poi sempre più regolari, alla sua sinistra. Courtney l’aveva affiancato e camminava in silenzio, le mani in tasca a ripararle dal freddo e la chioma color cioccolato leggermente spettinata.

Le allungò la sigaretta, come tacito invito a favorire.

«No, grazie» rispose lei con tono piatto.

«Puoi andare a riposare, se vuoi» sentenziò, prima di riavvicinarla alla bocca e concedersi un tiro. «Posso guidare io fino a Rochester, tanto non ho sonno.»

«Sono a malapena le dieci di sera» gli fece notare. «Nemmeno io ho sonno.»

«Beh, qui non c’è granché da fare. Hai qualche idea?»

«Camminare, parlare.»

Proprio quello che stava cercando di evitare.

«Ci siamo alzati all’alba, come fai ad aver voglia di parlare?»

La cartina s’era ormai consumata.

«L’hai detto tu, non ci sono molte opzioni» ribatté lei, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «A meno che tu non voglia – che so – gettarti nel lago ghiacciato.»

«Potremmo limonare» buttò lì, accompagnando alla proposta un sorrisetto pervertito.

La sua mente non smetteva mai di meravigliarlo, andava in fretta e furia verso le soluzioni più sconce e indecenti – e lui, da bravo impulsivo, non filtrava i suoi pensieri prima di dar loro voce.

Per fortuna, Courtney colse l’ironia dietro le sue parole e rise di gusto. Peccato che lui non fosse completamente certo di star scherzando.

«Ok, hai vinto. Parliamo.»



* * *



Parlarono talmente tanto che percorsero il bagnasciuga avanti e indietro un paio di volte – Duncan, nel frattempo, aveva fumato altre due sigarette. Poi, stanchi, si erano riavviati verso la macchina, aprendo il bagagliaio e accomodandosi sul bordo, nell’unico spazio non occupato dalle valige.

Il vento s’era acquietato, ma la temperatura era sempre più ghiacciata – ben sotto la media stagionale, non sembrava di stare in primavera – e molti si erano ficcati nei propri autoveicoli per riscaldarsi. La maggior parte di questi doveva star già dormendo; il resto si intratteneva in svariati modi – come la coppia nella Ford parcheggiata tre o quattro metri più indietro: i finestrini erano coperti con fogli di giornale e indumenti, e l’autoradio trasmetteva ballate romantiche ad un volume adeguatamente alto da coprire altri tipi di rumori, ma anche da non dar fastidio al circondario.

«Ma come si fa a scopare con I don’t wanna miss a thing in sottofondo?» proruppe ad un certo punto Duncan, distratto dalle note che provenivano da quella direzione.

«Immagino tu sia uno di quelli con una playlist per certe situazioni» commentò distrattamente Courtney, lo sguardo fisso sullo schermo del cellulare. L’aveva preso solo per controllare i social ed eventuali notifiche prima di spegnerlo, così da non consumare inutilmente la batteria.

«Ho una playlist per ogni situazione» specificò. «È ovvio che ne abbia anche una da mettere durante il sesso – e di certo non contiene brani completamente inadeguati come quella loro.»

Si accese la quarta sigaretta della serata sotto lo sguardo contrariato della ragazza.

«Questo tuo vizio finirà per ammazzarti.»

Rispose avvicinandosi alla sua faccia e cacciando una piccola nuvoletta di fumo passivo dalla bocca; lei si voltò di scatto, tossendo una maledizione e svariati insulti.

«Avremmo potuto essere noi due, Court» proferì con tono amaro, indicando con un gesto fugace della mano la Ford. «Ma tu hai preferito parlare.»

Gli tirò un pugno sull’avambraccio.

«Sto per sposarmi» gli ricordò poi, ma con la voce ridotta ad un bisbiglio, come se in realtà volesse rimembrarlo a se stessa.

Duncan era lì lì per chiederle se ci fosse qualcosa che non andava, ma, se l’avesse fatto, avrebbe finito col saltare a piè pari il confine immaginario. Un conto erano i flirt innocenti e i contatti casuali, che davano un semplice assaggio di cosa ci fosse al di là; un altro era condividere i propri sentimenti, essere brutalmente onesti l’uno con l’altra e mutare definitivamente la loro relazione – perché, e questo lo sapevano entrambi, era indubbio che la conclusione sarebbe stata quella. E non poteva essere quella.

«Posso farti una domanda?» cominciò Courtney, un po’ titubante. «Non serve andare nel dettaglio, se non vuoi.»

Stava per arrivare una domanda parecchio personale, era palese dal modo in cui aveva tastato subito il terreno. Pareva avessero stipulato un tacito accordo: incamminarsi lungo il sentiero, senza però inoltrarsi troppo.

«C’è qualcosa che ti penti di aver fatto?»

La sua mente corse subito ad un particolare evento – a distanza di quattordici anni, la vergogna e la rabbia per se stesso erano sentimenti non ancora estinti, motivo per cui i fatti per filo e per segno li conoscevano in pochi. Eppure, nonostante si fosse concesso qualche attimo per pensare ad altro, le parole cominciarono ad uscire fuori come un fiume in piena.

«Quando avevo quindici anni, c’era questo ragazzo più grande che era il sogno erotico di metà scuola – punk, teppista, pieno di piercing e tatuaggi, ribelle, probabilmente comunista… insomma, il tuo tipoammiccò in direzione di Courtney, che alzò gli occhi al cielo – e sfortunatamente pure il mio. Avevo un buon rapporto col fratello, quindi non fu difficile avvicinarmi a lui. Presto ho scoperto che faceva parte di alcuni circoli viziosi, e questo lo fece apparire ancora più succulento ai miei occhi – non giudicarmi, ero un ragazzino!

«Finii per caderci anch’io, solo per potermi far vedere da lui sotto una luce diversa. Ci volle un po’, ma alla fine ottenni quello che volevo. Era una relazione puramente carnale, dubito che abbia mai provato quello che io provavo per lui. Ma – di nuovo – ero solo un ragazzino, non mi interessava sapere se fosse innamorato o se mi usava solo per svuotarsi le palle. Ero comunque felice.»

Si distrasse a guardare la cartina della sigaretta bruciare rapidamente fra le dita, mentre tirava via coi denti una pellicina dal labbro inferiore. Era arrivato il momento clou e stava cercando il modo migliore per narrarlo; Courtney lo comprese e lo guardò, incoraggiante.

«Una domenica sera mi ha portato in una concessionaria di West Hill, dicendo che solo io potevo aiutarlo, ma che non potevo fare domande di alcun tipo. Abbiamo scavalcato il cancello, mi ha fatto forzare la serratura di una decapottabile e mi ha chiesto se fossi in grado di metterla in moto senza chiave. I vicini avranno avvertito il trambusto, perché mezzo secondo dopo esserci immessi in strada ci siamo trovati gli sbirri alle costole. Abbiamo tentato di seminarli, ma un’altra volante ci ha tagliato la strada e ci hanno circondati. Lui ha fatto un annetto di carcere, io un paio di mesi in riformatorio.»

Provò a leggere l’espressione sul volto di lei, ma era completamente impassibile. Non sembrava sul punto di volerlo giudicare, né di commiserarlo – aveva anzi la sensazione che una minuscola parte del suo cervello stesse pensando ad altro.

«In conclusione, sono stato un enorme coglione» disse con tono asciutto, schiacciando la punta della paglia sul bordo del bagagliaio e alzandosi per poterla gettare nel portacenere dell’auto. Era posizionato fra i sedili anteriori, proprio davanti al cambio. «Ma, alla fine, meglio il rimorso che il rimpianto» aggiunse poi a voce alta, richiudendo lo sportello e tornando ad accomodarsi accanto a Courtney, che aveva seguito i suoi movimenti con lo sguardo. «La mia filosofia di vita è non tirarsi mai indietro. Mal che vada, toccherà mettere qualche pezza in futuro. Meglio quello, che pentirsi per tutta la vita di non aver colto l’attimo.»

«Ogni azione ha delle conseguenze» gli fece notare, come se avesse tralasciato il più importante dei dettagli. «Non sempre si può mettere una pezza.»

«Vero, in alcuni casi è necessario qualcosa di più ampio. Una benda, un tendone–»

«Tu non sai proprio cosa voglia dire assumersi le proprie responsabilità, non è vero?»

La frecciatina lo colpì appieno. A ferirlo fu la consapevolezza che, dietro ad una frase dettata dall’impulsività, ci fosse un alone di verità.

La guardò dritto negli occhi, che riflettevano un certo disagio. Si era pentita di quel giudizio nell’istante in cui aveva lasciato la sua bocca. Era inoltre turbata, e non per la visione di pensiero differente dalla sua, ma perché la sua mente era vagata verso differenti lidi. Non si premurava nemmeno di nasconderlo.

Per tutto il tempo le loro braccia non avevano fatto altro che sfiorarsi, costretti entrambi in uno spazio ristretto. Duncan sembrò notarlo solo allora. Ne approfittò per muovere la mano verso la sua e poggiare le dita sul dorso.

«Duncan…»

Le sue labbra vibravano in maniera quasi impercepibile, lasciavano presagire che era sul punto di aggiungere dell’altro. Poi, però, scosse la testa e la lasciò scivolare sulla spalla di lui, sospirando.

Egli rimase paralizzato, ignorando il cuore che aveva preso a battere un po’ più in fretta. Solo dopo un minuto buono si azzardò a far scivolare la punta delle dita lungo tutto il braccio, risalendo fino alla scapola ossuta. Appoggiò la mano sulla parte alta della schiena, continuando a carezzargliela e sentendola rilassarsi sotto il suo tocco.

Provò l’impulso di volerla attirare ancor più verso sé, di stringerla contro il suo fianco e immergere la guancia fra i suoi capelli. Durò giusto il tempo di ricordare che era praticamente sposata.

«Forse dovremmo provare a dormire un po’» constatò, picchiettandole gentilmente la spalla per farla alzare.

Il suo battito cardiaco tornò regolare.



* * *



Sette minuti a mezzanotte.

Duncan cambiò nuovamente posizione, stavolta accomodandosi per bene contro il poggiatesta, alzando appena il mento. Chiuse gli occhi.

I pensieri presero a vorticare nella sua scatola cranica.

Era a circa cinquecento chilometri da casa.

Sabato sera si sarebbe esibito davanti ad un discografico.

Gwen sarebbe stata lì.

Courtney.

Li riaprì trenta secondi dopo, più frustrato che mai.

Recuperò il cellulare dal portaoggetti e prese a scorrere la bacheca di Instagram. Sperava che la noia lo colpisse in fretta, e con essa anche il sonno. A meno che non avrebbe trovato l’interruttore per spegnere il suo cervello, non sarebbe successo presto.

Buttò uno sguardo allo lo specchietto retrovisore. Rannicchiata sui sedili posteriori, Courtney dormiva beatamente, il petto che si alzava e abbassava ad intervalli regolari. Non aveva tolto il cappotto e teneva attorno alle spalle una sua vecchia felpa, che le aveva lanciato senza troppe cerimonie quando s’era accorta che stava battendo i denti.

Attento a non far il minimo rumore, si infilò le scarpe da tennis consunte e scese dalla macchina. Di camminare non aveva voglia e aveva già assunto fin troppa nicotina. Si appoggiò mollemente alla carrozzeria, desiderando di potersi scaldare con dell’alcol.

O col calore del corpo di lei contro il suo.

La vibrazione del telefono lo richiamò prima che l’immagine potesse tingersi di erotismo.

Non si premurò di leggere il nome del contatto.

«Pronto?»

«Pensi che tutto questo sia un gioco?»

La voce di Chase suonò come un sibilo velenoso. Lo colse di sorpresa, a tal punto che aveva allontanato il ricevitore dall’orecchio.

«Dopodomani sera ci giochiamo un contratto discografico e tu, invece di muovere il culo e portarlo qui alla velocità della luce, stai cazzeggiando in un altro Stato.»

«Non sto cazzeggiando.»

«E allora come lo spieghi il concertino di stamattina? O il picnic? Noi qui a sputare sangue e tu in vacanza!»

Si sentì montare dalla collera.

«In vacanza! È da ieri che guido sotto un cazzo di diluvio universale! E, come se non bastasse, il destino ha deciso di trasformare il tutto in una commedia degli equivoci – mi ha fermato la polizia credendo che fossi un rapinatore della zona!»

«Quindi è per questo che in due giorni sei stato capace di fare solo metà strada? Non c’è nient’altro – o nessun altro – che ti distrae?»

Era palese a chi si stesse riferendo e quale implicazione avesse il verbo distrarre.

Cominciò ad alterarsi sul serio.

«Cosa staresti insinuando?» tuonò minaccioso. «Dillo ad alta voce, se hai il coraggio.»

Chase sbuffò. Quando riprese la parola, si era tranquillizzato.

«In questi giorni Ziggy ha provato anche le tue parti» lo informò con lo stesso tono che avrebbe usato per raccontargli un pettegolezzo. «Non è di certo te, però all’occorrenza potrebbe essere una buona alternativa.»

Duncan si fece scappare una risata di scherno.

«Non starete mica pensando di sostituirmi con lui!»

Ziggy – che per qualche motivo arcano nessuno chiamava col vero nome – era il fondatore dei Der Schnitzle Kickers e, prima che arrivasse lui, ne era stato anche il cantante. Non era male, ma era poco più che mediocre e troppo simile ad altri timbri già presenti sul mercato, quindi era stato confinato ai cori e alla chitarra ritmica – e lì sì che era un mostro!

«Nessuno vuole sostituirti, D. Sarebbe solo per sabato, nel caso in cui tu non faccia in tempo a tornare.»

«Allora sarebbe meglio rimandare tutto» sentenziò glaciale. «Senza di me ci sono ottime possibilità che non firmiate nulla.»

Sapeva già che, a mente lucida, si sarebbe pentito di quell’ultima dichiarazione.

«Vola basso, rockstar» lo riprese il suo bassista, accigliandosi nuovamente. «Non sei indispensabile.»

«Ne riparliamo domenica mattina.»

Riattaccò senza dargli possibilità di replicare, borbottando una bestemmia a denti stretti.

Non riusciva a scacciare di mente la sensazione soffocante di essere stato pugnalato alle spalle per la seconda volta in meno di due settimane. Probabilmente, l’indomani sarebbe risultata essere solo una crudele e distorta visione dettata dalla rabbia. Fino a quel momento, si sarebbe sentito tradito.

Guardò Courtney attraverso il finestrino, per accertarsi che stesse ancora dormendo. Successivamente, voltò le spalle all’auto e s’incamminò in direzione dell’uscita.

Aveva bisogno di liberarsi di quei grattacapi.

Aveva bisogno di bere.









[ La notte fra il 22 e il 23 aprile – Marathon, New York ]



Il bottino della serata: un occhio pesto, un labbro spaccato e le nocche sbucciate. Aggiunta bonus: era ubriaco fracido.

Non doveva andare così, i piani erano prendere una leggera sbronza e tornare indietro. Ma, un drink aveva tirato l’altro e delle sequenze successive aveva solo fotografie sbiadite – Warning dei Green Day cantata in coro con il barman e un altro tizio, la lingua di uno dei due nella sua bocca, il suo pugno sulla mascella di un brutto ceffo.

Duncan trascinava il suo corpo devastato lungo un viale residenziale, convinto che l’avesse percorso all’andata. O forse non c’era mai passato prima. Dopotutto, non ricordava minimamente come fosse arrivato in città – però ricordava una moto. Che si fosse fatto dare un passaggio?

Non importava, perché erano le due e mezza del mattino e non avrebbe avuto la stessa fortuna per il ritorno.

Cercò l’app delle mappe sul suo cellulare, sforzandosi per ricordare il nome del campeggio. Distava quattro miglia dalla sua posizione, il che significava un’ora e mezza di cammino. Per di più, la batteria era al dieci percento; si sarebbe scaricata prima di arrivare.

Fu colto da un giramento di testa.

Si accasciò contro un muretto. Si sedette con le gambe contro il petto e si massaggiò le tempie, ricordando cosa dovesse fare.

Doveva tornare indietro.

Avvicinò due dita alla bocca, intenzionato a vomitare per evitare di sentirsi troppo male durante il tragitto.

Lasciò ricadere il braccio lungo il fianco, troppo stremato per farlo.

Le ferite bruciavano.

Il sangue secco gli macchiava metà mento.

Gli arti erano intorpiditi.

Doveva riposare un po’.

Lasciò che le palpebre si chiudessero, facendosi cullare dal silenzio tombale della città addormentata.

All’improvviso, gli si accese un campanello d’allarme.

Era a circa cinquecento chilometri da casa.

Era ubriaco e semi cosciente.

Se non si fosse alzato, avrebbe finito col collassare.

Courtney.

In un attimo di improvvisa lucidità, si fiondò alla ricerca del suo numero nella rubrica. La chiamò, ma dopo nemmeno uno squillo partì la segreteria telefonica. Provò con un messaggio, ma la sua vista era annebbiata e non riusciva a distinguere le lettere sulla tastiera. Quindi, pigiò in basso a destra il tondino azzurro col microfono.

«Court» cominciò, con tono di voce strascicato. «Ho bisogno di aiuto».












Angolo dell’autrice

Ricordate quando ho detto che il primo capitolo era stato un parto? Ecco, mi rimangio tutto: scrivere questo è stato mille volte peggio.

E volete sapere la parte divertente? Nella mia testa, era già pronto dai tempi del prologo. Il problema è stato mettere nero su bianco le mille idee che avevo, ed erano talmente tante che ho dovuto pure tagliare le scene superflue. L’unica sequenza cui non avevo pensato è quella in commissariato, nata a seguito di un aneddoto raccontato a lezione dal mio prof di letteratura anglo-americana.

Però, adesso siamo qui e ce l’abbiamo fatta.

Ci tenevo a dedicare un po’ di spazio a Duncan, perché le mie fanfiction sono sempre molto più Courtney-centric, e c’erano un paio di dettagli che volevo delineare – in origine avevo pensato a molte più cose, magari vedrò di inserire quelle meno inutili prossimamente.

A tal proposito, ho già cominciato a mettere mano al capitolo quattro e potrebbe volerci più del previsto – ancora una volta, ho un sacco di spunti da rimettere in ordine. Certamente, questi due continueranno a negare l’ovvio fino alla fine.

Ah, e l’audio di Duncan avrete modo di “sentirlo” tutto più avanti nel racconto.

Detto ciò, alla prossima! xx

  
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