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Autore: laurelleghuleh    12/02/2022    5 recensioni
Parte II di "a Kei di Keiji piacciono le mani"
[sentivo di dover dire altro a riguardo, possibili spoiler post- time skip]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kei Tsukishima, Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto, Tetsurou Kuroo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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A Kei di Keiji piacciono le mani perché sa che lui se le odia.

Le odia perché le ha sempre trovate strane, e se questa può sembrare una qualità troppo soggettiva, allora diciamo che per iniziare le trova decisamente sproporzionate - una cosa che si può misurare, fattuale, vera, “E’ così. Sono sproporzionate”. Le dita sono troppo lunghe, le ossa troppo sporgenti e un po’ curve. Affusolate oltre i centimetri concessi dalla grazia, si torcono e piegano appena verso la fine. Keiji le trova raccapriccianti

Quell’aggettivo glielo aveva suggerito un ragazzino alle elementari e lui lì per lì non lo aveva nemmeno preso come un insulto. Non sapeva ancora cosa volesse dire di preciso ma quella parola faceva un suono che secondo lui ci stava bene con quegli stecchetti rancidi che si ritrovava attaccati al palmo. 

Quella è l’età in cui si impara tanto, spesso indirettamente, e ci si plasma sulle cose che si assimilano: gli effetti di quelle quindici lettere sul piccolo Akaashi non si possono contare nemmeno su entrambe le sue mani. Forse, per andarci vicini, solo su un numero illimitato di mani.

Il guaio vero e proprio non era la cattiveria in sè per sè del commento -  tanto i bambini, si sa, a quell’età sono tremendi - ma che in quel momento, a quella nuova parola, qualcuno aveva apposto un’etichetta alle sue dita. E per mettercela sopra quel qualcuno gliele doveva aver viste, doveva essersi accorto della loro deformità e doveva aver scelto quel lemma lì. 

A scuola lo facevano spesso, la maestra chiedeva “Cos’è questo?” e la classe in coro indovinava l’elefante, la casa, la macchina, il sole. E forse era accaduto qualcosa di simile, una voce squillava “Cosa sono quelle?” e tutti le vedevano, a quel punto lo sapevano benissimo, rispondevano “Le mani raccapriccianti di Keiji!” 

E il guaio forse ancor più grande era che a quella nuova parola, ne seguirono altre mille. 

Keiji era sempre stato un ragazzino in gamba, brillante ed estremamente curioso, ma di una curiosità un po’ solitaria che si esplica in quelle attività che si fanno principalmente in silenzio e con poche persone attorno, se non nessuna. Una era la lettura. I libri gli piaceva gustarseli piano, un po’ per goderseli appieno e un po’ per ritardare la vista delle sue dita che sfogliano la carta verso la prossima pagina. 

Una cosa da folli pensare che anche quel gesto così normale, addirittura insignificante, potesse essere motivo di turbamento per il piccolo Akaashi. Invece lo era e come, ma lui alla pagina dopo doveva arrivarci comunque, magari c’era un aggettivo peggiore di raccapricciante, doveva trovarlo. Quel bambino che glielo aveva suggerito chissà dove l'aveva letto…

Keiji a forza di sfogliare negli anni ha imparato anche difforme, sgradevole, obbrobrioso, grottesco, orripilante, ripugnante, poi osceno e turpe, fino a dare a quella sua caratteristica fisica un qualcosa di morale, che andasse ben oltre la pelle e le ossa.

Un giorno aveva usato uno di quei vocaboli arzigogolati per definirsele davanti a Bokuto. Lo aveva fatto distrattamente, pensando a voce alta, e di tutta risposta il suo capitano aveva aggrottato la fronte. Lui quella parola non l’aveva mai sentita, ma gli aveva fatto subito impressione. 

“Non so che vuol dire, Akaashi-kun, ma mi sembra una cosa brutta.”

“Lo è. Le mie mani lo sono.”

“Ma che vai dicendo! Tu hai le mani d’oro! Mi fanno delle alzate pazzesche! Forse ti manca veramente qualche grado…”

Keiji era rimasto in silenzio con lo sguardo scuro e Bokuto aveva capito subito che in realtà gli aveva risposto eccome. Gli aveva detto tipo “Sì, ma resta il fatto che sono brutte” o quell’altra parola strana che gli aveva rifilato poco prima.

Alchè, non sapendo come si strutturano le arringhe contro quelli tutta testa come il suo vice, Koutaro gli aveva semplicemente afferrato un dito. L’aveva colto dalla sua mano con l’innocenza con cui si pescano le margherite in mezzo ad un prato in fiore. Poi glielo aveva posato su una Mikasa raccattata al volo da terra, dicendogli: “Come ti pare, ma guarda come si curva bene intorno alla palla. Fatto così, ci aderisce preciso. C’hai le dita apposta per alzare, Akaashi! Dai, adesso fammi due alzate e smettitela di dire queste fesserie…”

Bokuto è sempre stato troppo buono con Keiji, così il ragazzo, come se gli dovesse qualcosa in cambio di quella sua carità, gli aveva con il tempo almeno tolto il dispiacere di mortificarsi a parole in sua presenza. Il vizio però gli era rimasto. 

Quando può se le nasconde, ne aggomitola una dentro l’altra, le stritola, le strozza, le devasta, magari prima o poi spariscono. Lo fa dietro la schiena, in tasca, o come adesso sotto al tavolo, comunque il più lontano possibile dallo sguardo altrui.

“Ho fame, senpai, portami a mangiare qualcosa” gli aveva chiesto con impertinenza Kei qualche minuto prima. Keiji c’era rimasto, “Ah, tu che hai fame, questa mi è nuova”, ma poi, condiscendente com’è, lo aveva portato senza replicare oltre a quel piccolo caffè lungo la strada, poco fuori l’uscita del museo.

Seduti ad un tavolino in disparte, lui e Tsukki chiacchierano della visita appena conclusa e del clima docile che Nagatoro gli ha concesso nel bel mezzo dell’estate. Discutevano dell’afa che invece fa in altre prefetture, del mare, di Sendai, delle gite prima del rientro, non hanno idea di come ci siano finiti ora a parlare di quell’altro discorso. Quello spinoso. 

Il biondo non vede le sue mani, ma sente che il tono di Akaashi è fin troppo disteso e composto. Tutta quella tensione deve essere altrove. 

Kei ad un aggettivo come raccapricciante non ci avrebbe mai pensato, non gli sarebbe proprio venuto in mente. Una cosa del genere non fa assolutamente parte del vocabolario che utilizzerebbe per descriverlo. Gli è lontana anni luce.

Anche a guardarlo ora, seduto di fronte a lui, con le gambe accavallate, la figura quasi ruotata di tre quarti e la colonna perfettamente allineata allo schienale, gli riesce difficile farsi scappare di bocca un lemma simile. 

Tsukishima ne pensa prima altri mille, ma anche dopo quei mille forse ne penserebbe un altro milione e mai giungerebbe a qualcosa come difforme, sgradevole, obbrobrioso, grottesco, orripilante, ripugnante, osceno o turpe.

Trova il suo modo di parlare pacato ai limiti con il rilassante. Il suo senso dell’umorismo arguto, tagliente, ma mai fuori luogo, calibrato e figlio di una mente straordinaria e unica che pensa molto, forse anche troppo, prima di sprecar fiato come fan tanti. E questo Kei lo apprezza da morire.

Non è solo quello che dice, ma il modo con cui lo fa. Il tono mai indiscreto, il tempismo e la cadenza sempre azzeccati. E il corpo lo segue. Si muove, in campo o fuori, in palestra o seduto a tavola come è ora, poi parla, mangia o semplicemente respira e Akaashi è di un’eleganza disarmante, che quasi mette in difficoltà. Qualcuno direbbe femminile dimenticandosi che la grazia non ha sesso, è assoluta e Keiji la incarna in questa sua purezza. E’ un concetto inafferrabile.

La cosa più assurda è che forse l’unico a non accorgersi di tutto ciò è il senpai stesso, e Tsukki al solo pensiero si irrigidisce sul posto. 

Lo ascolta, stregato da quella sua oratoria che incanta e non affabula malignamente come quella di un Kuroo di sua conoscenza. Lo ascolta e lo ascolterebbe all’infinito. Poi s’incanta e gli viene da pensare che Akaashi-san parla senza alcuna coscienza di sé. E questa è una cosa che li accomuna e non. 

Resta una gran differenza tra loro, lo sa e la cosa lo rende ancora più statico contro lo schienale: Kei non ha stima di sé, è pessimista e nevrotico perché ha paura; Keiji invece perchè è consapevole, realista ed estremamente umile. 

Tsukki si sente la versione opposta e disonesta del suo interlocutore. Questo confronto allo specchio gli dà alla testa al punto da interromperlo nel bel mezzo del discorso: Keiji solleva finalmente una mano oltre il tavolo per accaparrarsi l’ultimo bignè e Kei al volo la afferra, facendoli piombare entrambi nel silenzio più assoluto. Hanno l’impressione che anche il resto del caffè si sia arrestato insieme a loro.

“Se lo volevi così tanto, bastava chiedere, Tsukki. Sai che te lo avrei lasciato-”

“No, è tutto tuo.”

“Allora cosa.”

“Niente…” commenta in un bisbiglio Kei ispezionando la mano del senpai nella sua. La pelle è tirata qua e là, ma non ci sono tracce di sangue, forse se le stava solo grattando.

“Se non è niente allora meglio smettere di toccarci con tanta evidenza in pubblico. Non sta bene.”

“Non sta bene o ti mette a disagio?”

“La gente parla.”

“Lo dici come se a me fosse mai fregato qualcosa di quello che pensano gli altri, Akaashi-san. Credevo mi conoscessi un po’ meglio…”

“Sembri Kuroo quando fai così.” Keiji glielo dice sorridendogli con quel poco di malizia di cui è capace e Kei reagisce subito mollando la presa, “Ma fammi il piacere."

“Su, non prendertela, scherzavo, Tsukki-kun.”

“Sì, vabbè. E poi così come? Non gli assomiglio affatto.” che in testa gli suona tipo Così come? Che ho detto di strano? Era il tono? Era il modo? Era la mia faccia? Ho fatto anche io quel ghigno da pazzo? Dimmelo, l’ho fatto?

“Una volta l’ha detto anche Bokuto.” E di nuovo senza volerlo si sono entrambi ritrovati a mettersi quei due nomi in bocca. 

Kei non replica e Akaashi picchietta il tavolo per darsi il tempo e il coraggio, poi raggiunge il dorso della mano dell’altro ancora distesa sul piano e gli confessa: “Sono stato bene stamattina. Facciamolo di nuovo. Vieni a trovarmi quando vuoi, anche senza la scuola. Mi farebbe piacere.”

“Anche a me. Molto.” gli risponde il centrale senza pensarci. Gli viene naturale. Con Keiji sta bene, si sente a suo agio al punto da perdere quasi il controllo di sé, di quello che fa e che dice. Ma la cosa non lo turba, anzi.

Più tardi, tornati all’istituto Shinzen all’ora e nel punto concordati con Ennoshita quella stessa mattina, i due si salutano.

“A ripensarci bene, Akaashi-san” inizia a dire Kei guardandosi i piedi “Vorrei tanto tornare, ma non so quanto sia fattibile. Con la scuola e tutto… Il treno costa.” e con più onestà poi aggiunge “In più, non saprei cosa raccontare a mia madre…”

“Pensavo che non te ne fregasse nulla di quello che pensano gli altri, Tsukki.”

“Mf” gli sorride l’altro di risposta sbuffando dal naso. 

“Hai da fare il 20 settembre?”

“Il 20 settembre?!”

“Sì. Hai da fare?”

“E che ne so. Siamo a luglio.”

“Ottimo. Allora vieni a trovarmi.”

“Akaashi-san. Spiegati.”

“Vieni a trovarmi il 20 settembre. Ti porto a vedere una partita di Bokuto.”

“Che intenzioni hai? Non ti seguo. Vuoi che-”

“E’ il compleanno di Bo. Lui ancora non lo sa ma pare che proprio quel giorno giocherà a Tokyo. Mi inviterà, sono certo. E…”

“E tu non vuoi andarci da solo.”

Keiji annuisce con decisione e Kei non ha il cuore di dirgli di no. Per la prima volta nella sua vita si mette nei panni di qualcun altro e se li sente propri. Quei due mesi volano e ancor prima di accorgersene il ragazzo si ritrova dentro quel palazzetto, c’è un fischio fortissimo e la partita si conclude. 

Akaashi gli ha appena detto all’orecchio che qualcosa bolle in pentola, sembra ci siano dei tipi importanti fra gli spalti. Forse solo degli sponsor o addirittura dei manager. Lui però è troppo distratto per dargli peso. Tra la folla non cerca quei volti noti, forse visti in tv o su qualche rivista. C’è una sagoma che lo tormenta, strizza le palpebre e si sistema meglio la montatura sul dorso del naso ma gli è impossibile mettere a fuoco. C’è troppa luce e c’è troppa gente. Pensa di aver visto male o che la sua sia solo una brutta ossessione, di quelle dure a morire.

Una capigliatura improponibile, difficile da confondere. Un ghigno smagliante che si noterebbe tra mille. Una posa sbilenca, da debosciato. Tutto gli torna, pensa di sapere chi sia quel tipo metri più in là, diametralmente opposto a lui, ma Tsukki per ora si convince di essere solo in preda all’euforia del momento. Il match è stato così coinvolgente da avergli fatto perdere la testa ed addirittura immaginarsi Kuroo Tetsuro in mezzo agli spalti. Che sciocchezza, non può essere. Potrebbe in realtà, in fondo sono a Tokyo, ma per ora finge che non lo sia.

Le parole di Keiji non lo avranno mosso, distratto com’era, ma quel fischio finale gli impone quasi d’istinto di alzarsi in piedi e scattare il prima possibile verso le uscite di sicurezza. Se non si sbrigano saranno sommersi dalla calca e per arrivare a Koutaro ci vorrà una vita.

L’ex capitano del Fukurodani lo aveva notato appena messo piede in campo. Si era imparato a memoria il biglietto dell’amico, quindi sapeva esattamente dove cercarlo. E comunque, una volta individuato tra la folla, non gli aveva tolto di dosso quegli occhioni d’ambra nemmeno nel vivo dell’azione. 

Bokuto era e continua ad esser fatto così: lo vede e ha la certezza immediata che riuscirà a dare il 120% di sé. Basta che continui a fissarlo, a gridargli in silenzio “Akaashi, hai visto che parallela assurda che ho fatto???”, “Sono il più forte Akaashi, hai visto???”, “Akaashi, hai visto???”, “Mi hai visto??” e tutto filerà liscio come l’olio. 

Lo aveva fatto anche in tutti quei mesi di assenza e km di mezzo, gliene aveva urlate di ogni comunque, figuriamoci ora che ce lo ha di nuovo lì, così vicino che gli sembra di poterlo toccare con un dito.

Koutaro, finita la partita, un secondo dopo quel fischio, si precipita verso le gallerie sperando di anticipare il suo ospite. Quest’ultimo però lo prende in contropiede: non è da solo e Kei gli cammina un metro davanti, quasi a fargli da scudo.

Bokuto - che la malizia non sa nemmeno dove stia di casa - non ci legge nulla e viene solo travolto dall’euforia di rivedere il suo caro, vecchio megane-kun. E con quella a sua volta ci investe il povero malcapitato, stritolandolo in un abbraccio fino a sollevarlo da terra. Tsukishima non oppone resistenza, non avrebbe senso e non ne sarebbe capace. Con quel poco di ossigeno che gli resta esala un disperato “Tanti auguri, Bokuto-san. Bella partita”.

Lui lo molla e lo ringrazia energicamente, poi ripropone lo stesso schema anche al suo Keiji. “Scusami se ho salutato prima Tsukki, ma quando mi ricapita una cosa simile? Non lo vedo da una vita!”

Akaashi in quell’abbraccio contrae il viso in un sorriso un po’ sofferto, non è più abituato a quella stretta. E’ sul punto di picchiettargli la spalla e chiedergli di lasciarlo andare, ma crede di esser disposto a patire oltre. Prega per altri cinque minuti, forse un’ora, forse anche per sempre. Rischierebbe anche di rimanerci secco pur di rimanerci, almeno.

Purtroppo Koutaro è conscio della sua invadenza, a differenza di un anno fa, del liceo, e adesso sa perfettamente quando fermarsi, anche se allo stesso modo gli pesa lasciarlo andare. 
A malincuore lo fa e poi si rivolge al biondo. Si volta verso di lui e l’immagine in sè per sè lo fa sentire scomodo. Quel qualcosa che percepisce fuori posto però non è intorno a sé, ma dentro. Si sente sorpreso, Keiji gli suggerirebbe stupito, allibito

No, Akaashi-kun, sono stato preso alla sprovvista, sono… Triste.”

“Malinconico?”

“No. Non lo so. Triste.”

“Allora come te la passi, Tsukki?” gli chiede piazzandogli una cinquina sulla spalla.

“Non mi lamento.” risponde Kei con aria distratta.

“Tu che non ti lamenti? Allora è cresciuto davvero il nostro megane-kun. Sentito, Akaashi, non si lamenta più il ragazzo. Te lo ricordi invece come frignava ogni volta che si allenava con noi?”

“Era un modo di dire. E comunque io non frigna-”

“Oh, invece frignavi eccome.” squilla una voce alle loro spalle. E senza voltarsi se la figurano già tutti la bocca da cui quel verso è uscito. “E questo non mi va, e questo non lo faccio, e questo non lo so fare, e adesso me ne vado, e lasciatemi stare, e… Continuo?”

“No, facci un piacere e piantala.” Sono lontani i giorni in cui Kei mostrava ancora un po’ di rispetto a Tetsuro.

“Dai, Kuroo, lascialo in pace. E pure tu, Bokuto-san.” si inserisce a quel punto Keiji.

“Non è cambiato proprio niente, eh. Akaashi sempre troppo protettivo con Tsukki e sempre troppo formale con Bo.”

“Sì, infatti, Akaashi, te lo avevo già detto che puoi anche fregartene degli onorifici, non siamo più a scuola. Chiamami Bokuto o solo Bo o come ti pare insomma, dai.”

“Va bene, va bene, però lasciatelo in pace comunque. Mi fate venire l’ansia, ce l’ho trascinato io qui, almeno non fatelo pentire di avermi accontentato.”

“Tsukki, pure tu sempre il solito. Sei tremendo. Vieni a Tokyo e non mi dici niente. Ma ti pare?” riprende la parola Tetsuro.

Ma il centrale del Karasuno gli replica con un dato di fatto, “Mi ha invitato Akaashi-san.”, come per dire "Avevo da fare. E avevo da fare con qualcun altro".

“E che vuol dire?!? Pure tu, Akaashi, non mi dici niente, ma che amico sei?”

“Ero certo saresti venuto a vedere Bo.”

“Se vabbè…” si lamenta a mezza bocca Kuroo, portandosi con stizza le mani sui fianchi.

Koutaro invece è ancora fermo a quel nomignolo con cui per iscritto Keiji lo aveva chiamato spesso in passato, ma che di persona, in presa diretta, non aveva mai sentito. E’ stordito, non riconosce l’orda di compagni di squadra in arrivo. Lo prende, lo assale da dietro e lo nasconde in un abbraccio di gruppo. Tutti insieme gli cantano una stonatissima filastrocca di buon compleanno, rimbombano nel corridoio e fino a fuori il palazzetto.

Akaashi lo perde di vista e, spaesato, viene vinto da un’improvvisa fitta alle costole. Vorrebbe chiamarla nostalgia, invece è invidia. E altro che verde, è nera pece, assoluta. La riconosce subito e questa volta non tenta di darle un altro nome. Lo punge in mezzo allo sterno e di scatto si irrigidisce. Si mette in una posa apparentemente composta, con le braccia incrociate dietro la schiena.

Kei d’istinto gli si fa ancora vicino e gli afferra le mani. Lo spazio tra i due è minimo, ma Kuroo li vede. Gli occhioni d’ambra di Bokuto si allarmano, sbucano tra le teste dei suoi compagni e li vede pure lui. Poi si volta verso l’amico Tetsuro che lo aveva già cercato un secondo prima con il medesimo disorientamento.

Credevano entrambi di avere tutto, ma in quel momento si ricordano di non avere più niente. A Kuroo la felpa della Todai*, indossata solo per fare il gradasso, adesso va stretta. Bokuto si dimentica del suo compleanno e che tra gli spalti uno dei manager del Black Jackal vuole parlare con lui. 

Si sentono come due ragazzini al parco a cui qualcuno ha appena bucato il pallone. Il tempo di giocare è finito.
 


*Todai, abbr. di Tōkyō Daigaku, Università di Tokyo. Dal manga non si sa di preciso in quale università Kuroo sia andato, nè se ne abbia mai frequentata una. Così, seguendo anche un po' le mie ff preferite in cui la questione si è presentata, ho deciso di inserire questa.

   
 
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