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Autore: e m m e    13/02/2022    1 recensioni
Quando scopre la possibile esistenza di un serial killer che abbandona cadaveri in giro per la sua città, Spider-Man inizia ad essere ossessionato dall’idea di trovarlo. Ha così inizio una caccia senza tregua per cui Peter non è psicologicamente pronto né tecnicamente preparato, e per la quale l’unico supporto incondizionato lo riceve dall’unica persona che è sempre stata pronta a darglielo: Deadpool.
Peccato che, per i due vigilanti, gli anni di lotta inizino a farsi pesanti, le spalle a piegarsi, le ragnatele a spezzarsi, i sentimenti a sfilacciarsi e il cuore… a non reggere.
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Deadpool, Peter Parker/Spider-Man
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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3. Amore accanto a te, baby accanto a te, io morirò da re


Col senno di poi, Peter dovette ammettere che, in fin dei conti, messi insieme tutti i pezzi, enumerati e analizzati tutti i dettagli, la colpa di tutto il casino in cui si era tristemente ritrovato era in realtà del tizio idiota che aveva lanciato una granata e poi pensato bene di crivellarli di proiettili. E morire nell’intento, oltretutto.

Ah, giusto, e portarsi pure Wade con lui, nella cazzo di oltretomba. Un processo che, come sempre, era stato lungo, doloroso, e assolutamente disastroso.

«Wade. No.»

Deadpool tossì. La maschera era mezza strappata quindi Peter poté tranquillamente vedere che, assieme alla saliva, arrivò anche del sangue a macchiare le labbra screpolate e deturpate dalle cicatrici del mercenario. «Ti ricordo» dichiarò quest’ultimo con una voce che avrebbe voluto essere del tutto normale e tendente all’allegro, ma che venne fuori più come un sibilo agonizzante, «che non sono un cane e non posso obbedire ai tuoi comandi. Anche se, pensandoci bene, perché no?» Gli fece un occhiolino. «Ordina e obbedisco, Spidey-baby.»

Ed ebbe perfino il coraggio di ondeggiare le sopracciglia in un gesto che avrebbe dovuto essere ammiccante, ma che, con tutto quel sangue, si rivelò solo grottesco.

«Non morire» gli ordinò allora Peter. E perché no? Testardo com’era, c’era un’ottima probabilità che Wade si sforzasse di obbedire per davvero.

Lui, Deadpool e Daredevil si erano spostati in un vicolo poco distante dalla banca, Matt si stava asciugando un piccolo rivolo di sangue che aveva iniziato a uscirgli dall’orecchio destro e Peter aveva la spalla lussata e dolorante, se non peggio. Solo che non aveva ancora avuto il tempo né la voglia di controllare, non quando era stato costretto a trascinare via con sé un Deadpool incapace di camminare, incapace di alzarsi, incapace di fare alcunché se non aggrapparsi agli ultimi scampoli di vita che gli rimanevano.

A volte a Peter sembrava di giocare a un lungo e snervante videogioco di cui non si vedeva mai la fine. Era una cosa stupida, lo sapeva bene. L’immortalità era il superpotere di Wade, quindi perché, perché, perché prendersela tanto?!

«Spiacente, ragnetto del mio cuore» affermò Deadpool rifiutandosi di tornare serio. «Temo che quest’ordine sia l’unico a cui non posso obbedire. Mi dicono dalla regia che nell’aldilà hanno organizzato un party col mio nome sopra e sarebbe molto maleducato non presentarsi. Inoltre, il fatto che io muoia adesso è funzionale alla trama, o roba del genere.»

Peter si era accucciato davanti a lui e lo fissava con le grandi lenti di Spider-Man inespressive come al solito. Se si fosse tolto la maschera i suoi occhi sarebbero stati sgranati, leggermente lucidi, l’espressione implorante. «Non morire.»

«Ehi, Spider-Man» lo richiamò Daredevil alle sue spalle. «Non è che abbia molta scelta. I suoi battiti sono… be’, non gli rimane molto. Ma è meglio così: dalla respirazione mi sembra che abbia entrambi i polmoni perforati.»

Peter non si voltò nemmeno a guardarlo. «Perché ti sei messo in mezzo?» domandò invece all’amico mezzo disteso a terra. Non lo stava toccando, non voleva fargli male, non voleva per qualche motivo aumentare la gravità della sua condizione.

«La prossima volta» fece Wade dopo un attimo di silenzio attonito, «la prossima–».

Non finì mai la frase e per l’ennesima volta Peter si trovò tra le mani un cadavere di cui era a tutti gli effetti il diretto responsabile.

«La prossima volta» ripeté il ragazzo alzandosi in piedi e osservando il corpo riverso nell’ombra. «Perché deve sempre esserci una prossima volta?»

Matt gli mise una mano sulla spalla e Peter dovette combattere l’istinto che l’avrebbe volentieri spinto a scostarla in malo modo. Non era in vena di essere consolato, non per una cosa così stupida. Passarono alcuni secondi in cui non accadde proprio nulla e fu Daredevil ad avvicinarsi e acquattarsi tra le ombre.

«Credo che sia il caso di allontanarci. Il tetto di questo palazzo dovrebbe andare bene… la polizia ha già abbastanza da fare senza che ci mettiamo in mezzo pure noi.»

Peter annuì brevemente e poi, ricordandosi che l’altro non avrebbe potuto vederlo, borbottò una risposta affermativa, per poi affrettarsi a caricare Wade sulla spalla non contusa e iniziare a scalare il muro. Daredevil lo seguì a sua volta, per una strada un po’ più convenzionale.

Peter fu il primo a raggiungere il tetto. Qualche abitante del palazzo vi aveva predisposto una piccola zona dove stendere il bucato e un’altra ancora dove piantare alcuni fiori ed erbe aromatiche. Era carino. C’era perfino una panchina scrostata che guardava verso il formicaio brulicante di luci che era Manhattan. Vi sistemò Wade il più gentilmente possibile, assicurandosi che la posizione non fosse troppo scomoda. Non che cambiasse qualcosa per il mercenario, ma cambiava qualcosa per Spider-Man. Era più facile immaginare che il cadavere di Deadpool stesse dormendo.

«Sai…» gli si rivolse Matt pochi attimi dopo, comparendo all’improvviso dalla scala antincendio. «È sempre un bello spettacolo assistere a un vostro combattimento.»

Peter emise una risata priva di vita. «Wade è convinto che sotto sotto tu ci odi.»

«Non mi fraintendere, siete stressanti da morire, e a volte mi sembra di avere a che fare con due adolescenti. Ma vedervi in azione è… molto educativo.»

«Matt, senza offesa, ma tu non hai mai visto nessuno in azione.»

Daredevil gli lanciò qualcosa che Peter afferrò al volo. Era una bottiglia trafugata dal negozio di liquori fatto a pezzi. «Per Deadpool» gli spiegò l’altro, in risposta al suo silenzio interrogativo. «Mi sembra di aver capito che quando si sveglia è meglio avere dell’alcol a portata di mano.»

«Grazie» replicò Peter con un secondo di ritardo, sentendosi in colpa per la millesima volta in quell’orribile serata. Settimana. Vita.

«Be’, è arrivato il momento per me di tagliare la corda, se non ti dispiace. Pensi di aver bisogno di aiuto?»

Spidey scosse il capo e tentò di muovere la spalla dolorante allo stesso tempo. «Mi sembra che ci siamo aiutati a sufficienza, questa sera.»

Non disquisirono affatto del bel fiasco fatto al negozio e alla banca, e per quanto riguardava gli omicidi, Peter sapeva che presto avrebbe avuto il rapporto di polizia promessogli da Matt, assieme a quello del medico legale. Non c’era altro da aggiungere se non che… «Aspetta, Matt! Cosa volevi dire quando hai detto che è… educativo vederci combattere?»

Daredevil era sul punto di andarsene, ma si voltò un’ultima volta, le labbra arricciate in un sorrisetto che avrebbe potuto dire tutto o niente, gli occhi nascosti e indecifrabili, come sempre. «Ah, be’, tu e Deadpool entrate così in sincro che ci sono momenti in cui i vostri cuori battono alla stessa velocità.» Fece una piccola pausa, come se stesse riflettendo. «Non ti dico quanto sia inquietante.»

Peter non rispose niente. Non lo salutò nemmeno. Non aprì neppure la bocca. Lui, il mago delle risposte immediate, il maestro delle battutacce, il signore delle freddure. Se ne rimase lì, come un idiota qualsiasi; lì, con una bottiglia di liquore in mano e il suo migliore amico morto di fronte a lui. Lì, come uno stoccafisso, a scrutare il punto in cui un attimo prima la figura rosso sangue di Daredevil gli aveva annunciato che il cuore di Spider-Man batteva all’unisono con quello di un mercenario immortale; e per un lungo, lunghissimo attimo Peter non fece altro che ascoltarlo, quel cuore che gli martellava contro la gola, irregolare, feroce, finché con un sospiro si sfilò la maschera dal volto e si passò un paio di volte la mano libera tra i capelli arruffati, cercando di non notare quanto gli stesse tremando.

«Ok» dichiarò a voce alta, rivolto a nessuno in particolare. «Ok, va tutto bene.»

Si avvicinò a Wade a grandi passi, posando la bottiglia di liquido ambrato accanto alla panchina e obbligandosi a guardare l’uomo lì disteso per la prima volta da quando questo aveva esalato l’ultimo respiro. A guardarlo davvero.

Pensò all’inizio della loro amicizia, anni prima, quando Peter ancora faticava a sopportarlo, quando cercava di evitarlo in ogni modo, quando Spidey era stato così tanto avviluppato nel cordoglio per la morte di Tony che ben poco era riuscito a sorpassare il muro che aveva sollevato attorno a sé. Quando, suo malgrado, si trovava a ridere per le battutacce di quel mercenario comparso dal nulla… be’, a quei tempi, ogni volta che Deadpool si faceva ammazzare in qualche avventura rocambolesca, il sorridente Deadpool, il sempre-pronto-a-far-casino Deadpool, quello stesso Deadpool che non perdeva occasione per piazzarsi al centro della scena, si assicurava sempre che a vederlo morire non ci fosse mai nessuno.

Come un cane battuto dal padrone, come un animale ferito sul ciglio della strada che sente arrivare la sua ora, Wade si trascinava via dal luogo del combattimento – a meno di non morire sul colpo, certo –, si trascinava via, si rintanava in un vicolo e lì, da solo, dimenticato da tutti, moriva.

L’unica colpa di Peter, all’epoca, era stata quella di essere un diciassettenne con la testa nascosta sotto la sabbia, di essere così tanto incazzato con tutto e tutti che solo di rado riusciva a vedere al di là del proprio naso. E nonostante quello, nonostante Spider-Man fosse lontano anni luce da una persona equilibrata in grado di aiutare e supportare un compagno, ebbene, Spider-Man era stato anche l’unico a non sopportare il fatto che Wade continuasse a morire da solo in mezzo ai rifiuti e, ancora peggio, che Wade continuasse a risvegliarsi da solo in mezzo ai rifiuti.

Ogni volta che gli Avengers – be’, i nuovi Avengers – lo facevano scendere in campo per qualche collaborazione, Deadpool era l’ultimo ingranaggio di un meccanismo che funzionava ancora a scatti e dal quale Peter si sentiva sempre più distante. Deadpool era quello spendibile, quello sacrificabile. Cazzo! Era quasi sempre chiamato appositamente per morire, per fare da esca e rimetterci la pelle. Finché, un bel giorno, con sua estrema sorpresa, Spider-Man si era reso conto che avrebbe preferito passare le proprie notti a saltare di tetto in tetto assieme a Wade Wilson alla ricerca di qualche rapinatore da quattro soldi, piuttosto che partecipare a missioni interminabili a fianco di Capitan America e Bucky Barnes.

E così, per un tempo che a guardarsi indietro pareva lungo decenni, Peter aveva inseguito un Deadpool morente in innumerevoli vicoli, stradine, parcheggi sotterranei, discariche, cimiteri di macchine, giardini privati e angoli appartati di Central Park e lì, con pioggia, neve o sole a picco, aveva aspettato la resurrezione di quello che, da noiosa presenza inopportuna, si era prima trasformato in collega di lavoro e poi, inaspettatamente, in amico.

«Resto qua» gli aveva detto Peter un milione di volte.

«Non è il mio primo rodeo, ragazzino» rispondeva Deadpool a ogni morte. Finché quel “ragazzino” era diventato “ragazzo”, e poi “Spidey” e poi “Peter” e poi “Pete”. E a volte, sempre con tono irriverente, con fare ammiccante, con una strana luce in quegli occhi azzurri che sembravano volerlo trapassare, a volte diventava “baby”, “tesoro”, “bimbo”.

Ma ogni volta Wade moriva. E ogni volta Peter rispondeva un laconico «comunque io resto qua», pur sapendo che l’altro non avrebbe potuto sentirlo.

«Karen» disse quella sera alla maschera che si era tolto dalla faccia perché aveva difficoltà a respirare.

«Sì, Peter?»

«Hai attivato il cronometro?»

«Sì, Peter. L’ordine è di attivarlo ogni volta che Wade Wilson muore.»

Peter emise un altro sospiro. «A quanto stiamo?»

«Venti minuti e trentotto secondi» replicò la vece suadente dell’AI, ovattata dalla maschera che ancora dondolava dalla mano chiusa a pugno di Spidey. «Secondo il pattern che ho calcolato basandomi sulle altre registrazioni, la resurrezione dovrebbe impiegare altri 19 minuti e quaranta secondi circa.»

Ringraziando il genio di Tony Stark che aveva pensato di dotare il suo costume di un sistema di riscaldamento interno, Peter si sedette sul cemento gelido, col gelido vento di fine novembre che gli schiaffeggiava la faccia e lo teneva sveglio. Senza riflettere posò la testa sul sedile scrostato della panchina e socchiuse gli occhi. E se la guancia sinistra di Spider-Mande finì per sfiorare le dita rigide e fredde di Deadpool, be’, nessuno l’avrebbe mai saputo.

«Resto qui» disse per l’ennesima volta, mettendosi a contare i minuti. I secondi. I battiti del cuore.

Se glielo avessero chiesto, Peter non avrebbe saputo dire quando quella strana routine aveva smesso di essere qualcosa che faceva per Deadpool e aveva iniziato a essere qualcosa che faceva per se stesso. Quando il fatto di avere un amico immortale aveva smesso di essere in un certo modo confortante e si era trasformato nell’attesa più spasmodica della vita, in un terrore puro che gli attanagliava la gola e gli impediva di respirare.  

Attese con pazienza, perché c’era ben poco che potesse fare, perché non aveva senso caricarsi Deadpool in spalla e portarlo a casa, perché aveva imparato da tempo che Wade preferiva risvegliarsi dove era morto, o a poca distanza, e soprattutto perché Spider-Man era davvero, davvero esausto. Aprì la bottiglia lasciatagli da Matt e prese un sorso, tanto per fare qualcosa. Il liquore gli bruciò la lingua, il palato, la gola. Gli scese giù nello stomaco come un pugno, come una medicina amara che si fatica a buttare giù e con una smorfia richiuse la bottiglia.

Guardando l’ora si accorse che erano passati solo quattro minuti.

Tutto attorno a lui New York ululava alla luna i suoi problemi di creatura ibrida, fatta di metallo e carne, di contraddizioni, di gioie e di follie, di santi e criminali. Di piccoli orfani trovati morti nei vicoli. A loro, a lui, a Deadpool, a Matt… a tutti i vigilanti mascherati che ne pattugliavano le strade toccava la parte mostruosa della città, quella che usciva fuori di notte, che faceva casino. Quella di cui, purtroppo, non riuscivano a fare a meno.

Un colpo di tosse improvviso lo riscosse dai suoi pensieri e con un senso di stupore misto a bruciante, intenso sollievo, si accorse che Wade era tornato in vita prima del previsto.

Avrebbe voluto urlargli contro, vomitargli addosso tutto quello che sentiva stretto nel petto da mesi, forse da anni interi, ma quanto sarebbe stato egoista da parte sua? Quindi si limitò a voltarsi in fretta, ritrovandosi gli occhi grandi e sgranati della maschera di Deadpool che lo fissavano con muto dolore, incomprensione distante. Senza fare movimenti bruschi Peter allungò una mano in avanti e gli sfilò via dal volto il tessuto bruciato e mezzo distrutto. Wade e il suo sguardo trasparente lo trapassarono da parte a parte.

Peter deglutì a vuoto. «Bentornato» gli disse, perché era quello che diceva sempre, perché quella era la parte più facile e perché il silenzio, tra loro due, non aveva mai funzionato.

Wade sbatté le palpebre, passandosi poi una mano su volto, grugnendo la propria insoddisfazione. «Perché ho come l’impressione che mi sia esplosa una bomba in faccia?»

«Perché ti è esplosa una bomba in faccia.» Peter sollevò la bottiglia facendo sciabordare il liquido al suo interno. «Sete?»

Wade si sollevò a sedere con un brontolio, passandosi una mano guantata sulla testa e controllando eventuali danni non ancora sistemati, ma sembrava a posto quando accettò l’offerta con un sorriso dei suoi: storto, ampio, che gli cancellava dal volto dieci anni e ogni cicatrice. «Potrei seriamente pensare di sposarti.»

«Ah-ah. Dovresti pensare a sposare Matt: è lui che te l’ha lasciata in pegno.»

«Un pegno d’amore» gorgogliò la voce di Wade tra un sorso e l’altro. «Senza dubbio. Dio! Morire è sempre una merda per il mio povero stomaco.»

Peter gli sorrise meccanicamente, incapace di nascondere il sollievo sul volto. Non sentiva quasi più nemmeno il dolore alla spalla. «In tal caso, non credo che l’alcol aiuti.»

Deadpool si asciugò un rivolo di liquore che gli stava scivolando lungo la mandibola per andare a svanire sotto la gola, tra le pieghe dello spandex stretto attorno al collo. «Cosa ne sai tu, puritano da strapazzo?»

Peter avrebbe potuto continuare la conversazione leggera che Wade si stava sforzando di tenere in piedi, avrebbe potuto lasciar perdere, così come lasciava perdere a ogni singolo “non è il mio primo rodeo, bimbo” e ad ogni “bentornato” sussurrato nelle ore più assurde della notte e invece, invece scelse la domanda sbagliata.

«Come stai?»

Ci fu un attimo di silenzio, gli occhi di Wade che saettarono dal collo della bottiglia verso Peter e poi di nuovo sulla bottiglia. La chiuse. «Mai stato meglio, Spidey.»

Era un invito a non entrare nella caverna del mostro, a finirla lì. Un invito che Spider-Man, da quell’idiota che era, da quello stupido ragazzino che sotto sotto era rimasto, un ragazzino a cui non era mai passata la voglia innata di salvare il mondo e tutti quelli che vi abitavano, scelse di non cogliere. «Sai? Tanto per cambiare, tanto per movimentare un po’ le cose, potresti dirmi la verità.»

Wade sbatté le palpebre, fingendosi confuso, oppure confuso per davvero. «Prego?»

«Ti ho fatto una domanda, mi aspetto una risposta.»

L’aria si riempì d’improvvisa tensione e le spalle di Peter tornarono a fare male, a pulsare dolorosamente strette nella morsa del suo stress, dell’ansia mal trattenuta. Al contrario suo, Deadpool sembrò quasi sciogliersi sulla panchina su cui era ancora seduto, allargò le gambe e si accomodò sullo schienale. C’era stato un tempo in cui rimanere così tanto a volto scoperto lo avrebbe fatto impazzire. Per fortuna almeno quel problema sembrava essere risolto.

«Sissignore, signor Spider-Man» ironizzò Wade con un tono di voce che aveva perso ogni briciola di calore. «E che tipo di risposta gradisce, questa sera?»

«La verità sarebbe un piacevole diversivo, una volta tanto.»

D’improvviso Wade gli fu quasi addosso, completamente sporto in avanti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, le labbra strette in una linea dura e gelida. Si era mosso con rapidità estrema, con l’abilità che lo rendeva il mercenario più famoso e richiesto d’America. Peter non diede alcun segno di disagio e i suoi sensi di ragno, come sempre, rimasero muti e inattivi.

«Non puoi gestirla, la verità, ragazzino.»

«News flash» replicò Peter stringendo i denti con forza. «Non sono più un ragazzino da qualche anno, Deadpool.»

Wade gli rivolse una smorfia. «Dice di non essere un ragazzino solo chi si comporta da ragazzino.»

«Se decidi di farti ammazzare per me» continuò il vigilante con estrema calma, o almeno con un tono di voce che avrebbe voluto simularla, «non mi sembra che chiedere una risposta sincera alla domanda “come stai?” sia chiedere troppo.»

L’altro si fece indietro e Peter si chiese se potesse in effetti sentire quanto il cuore gli batteva, quanto quella discussione lo stesse spingendo oltre il limite, oltre quel muro accuratamente eretto per tenere tutto fuori, tutti fuori.

«Hai ragione» sbottò Deadpool incrociando le braccia sul petto. «La prossima volta lascerò che sia il tuo bel culo a saltare in aria, così poi sarò io a chiederti “come stai?”. A no, aspetta, non potrò farlo… perché quando il tuo culo salta in aria, è un addio per sempre, ka-boom, adieu, auf Wiedersehen

Spidey schizzò in piedi come una molla. Avrebbe voluto tirargli un pugno in piena faccia e al contempo sentiva il bisogno di allontanarsi da lui il più velocemente possibile prima di fare qualcosa di cui si sarebbe pentito. «Non ti ho mai chiesto di morire per me.»

Troppo stupito per fare alcunché se non rimanere lì seduto e seguire i movimenti sconnessi di Spider-Man, Wade aggrottò la fronte. «E che cazzo vorrebbe dire? Muoio per un sacco di gente, Spidey. Ti direi che tu non sei niente di speciale, ma sappiamo entrambi che sarebbe una bugia bella e buona e ho promesso a Babbo Natale di fare il bravo, quest’anno.» Poi, vedendo che Peter si era limitato ad allontanarsi un po’ per posare la fronte contro il freddo metallo di un palo della struttura per stendere il bucato, Deadpool continuò più gentilmente: «Senti, lo so che sei stressato per questo casino dei fratelli Spencer, lo so che il fatto che nessuno degli Avengers voglia aiutare ti manda ai pazzi. E capisco anche che sei distratto e che la gente distratta compie passi falsi. Si dà solo il caso che nel nostro campo compiere passi falsi porti spesso all’altro mondo. Ma, ehi! Per fortuna hai sempre con te il tuo amichevole mercenario immortale di quartiere!»

Al tono di voce non curante usato da Wade, Peter si voltò piano, le mani strette a pugno, il cuore che gli rombava nel petto senza tregua, nella testa la voglia di fare qualcosa di stupido, oh così stupido. Si obbligò a rimanere immobile e quasi non registrò il fatto che anche Wade si era alzato in piedi e aveva compiuto qualche passo verso di lui e lo scrutava con aperta curiosità.

«Non hai la minima idea di cosa voglia dire per me, vero?» si arrischiò a dire alla fine, perché non ce la faceva più. Spider-Man era stanco e non gli importava che l’intera conversazione che stavano avendo viaggiasse su due binari completamente diversi. Era quasi sempre così, con Wade.

Wade, la cui espressione cambiò repentinamente, il cui sguardo accogliente si fece asciutto, quasi tagliente. «Ah, sì, posso solo immaginare quale tortura cinese sia per te vedermi morire e tornare in vita! Oh no, fatelo smettere, vi prego! Morte per interposta perso– EHI!»

Non era facile interrompere Deadpool quando iniziava una delle sue tirate, e non era facile farlo soprattutto quando la tirata era dovuta a frustrazione mista a rabbia e confusione. Eppure Peter, da quell’esperto del carattere di Wade Wilson che era diventato, ci riuscì con estrema abilità.

Invece di tirargli un pugno come forse sarebbe stato meglio, fece l’altra cosa che aveva cercato di trattenersi dal fare per tutto quel tempo e per innumerevoli resurrezioni precedenti. Mosse due passi traballanti verso Deadpool, registrando a malapena di star calpestando tutte le piantine aromatiche amorevolmente piantate dagli inquilini di quel palazzo, si spostò quasi barcollando, ma si spostò in ogni caso, lo afferrò per la tuta rosso-nera, aggrappandosi a un pugno di spandex, cercando di evitare le eventuali macchie di sangue e sporcizia e lo tirò verso di sé con decisamente più forza di quella che sarebbe stata necessaria. E così, invece di tirargli un pugno, lo baciò.

Non fu niente di delicato, perché erano entrambi arrabbiati per cose diversissime, perché erano entrambi frustrati da anni di mordi e fuggi, anni fatti di allusioni che non conducevano mai da nessuna parte e di una tensione alle volte positiva e alle volte negativa che viaggiava tra di loro alla velocità della luce e che la maggior parte della gente non notava o fingeva di non notare. Per Peter fu come una vertigine, gli parve di lanciarsi giù da un grattacielo senza la sicurezza delle ragnatele, senza nessuno a poterlo afferrare o trarre in salvo. Gli parve di scende sott’acqua senza sapere dove fosse il sopra e il sotto, con l’aria che gli bruciava nei polmoni e il cuore che, bum-bum-bum, batteva al ritmo delle onde distanti.

Durò pochissimo tempo, i secondi necessari a Wade per rendersi conto di quello che stava succedendo, aprire le labbra, emettere un sospiro scioccato e sollevare una mano, forse per spingere Peter via da lui, forse per mettergliela tra i capelli, tirarselo addosso, qualcosa, qualsiasi cosa.
Ma Peter si fece indietro, rapido, scattante, i suoi sensi di ragno che per la prima volta da quando conosceva Wade gli bombardavano le sinapsi con l’avvertimento “scappascappascappa”.

«Oh no» esalò con voce flebile, il sapore di alcol lieve ed esilarante sulla lingua, la sensazione della pelle di Wade, ruvida, bollente, che non lo lasciava andare. «Oh, nonono.»

«Pet–»

Ma Peter non rimase lì a sentire quello che Wade aveva da dire – Wade, con i suoi occhi azzurri sgranati, le pupille dilatate, la mano sporta verso di lui come a chiamarlo a sé –, perché, da quel codardo che era, da quell’egoista che si era appena dimostrato, saltò giù dal tetto e fuggì verso casa.

E quindi, in fin dei conti, a pensarci davvero bene, la colpa di tutto il casino in cui Spider-Man si era ritrovato era, in effetti, solo di Spider-Man.



Note: il titolo di questo capitolo è tratto da Morirò da re, dei Måneskin 
  
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