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Autore: A_Typing_Heart    15/02/2022    0 recensioni
Auris. Vengono chiamati così coloro che nascono con la macchia dorata sull’ombelico, il segno inequivocabile di un potere sovrannaturale dentro di loro.
Discriminati e temuti per lungo tempo, la strada degli Auris sembra essere solo quella di diventare eroi e proteggere l’umanità, Civil Heroes.
Ma mentre Mukuro vede rivelata suo malgrado la sua natura ed è costretto a percorrere un cammino pericoloso e complicato, un gioco di poteri ancora più grandi è messo in moto dalla Ruota...
Genere: Azione, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Byakuran, Kyoya Hibari, Mukuro Rokudo, Tsunayoshi Sawada
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Al ragazzo batteva il cuore un po’ più forte di quanto fosse disposto ad ammettere mentre in ginocchio davanti a un suo coetaneo con indosso la medesima uniforme del liceo lo guardava negli occhi. Prese un respiro profondo e si scostò i capelli neri piuttosto lunghi dietro l’orecchio.

«Il mio cuore grida mentre strappo dalla mia memoria le pagine che abbiamo scritto in due… perché un destino freddo non lascia che stiamo insieme…»

Mukuro prese una pausa, poi snocciolò con più sicurezza le frasi che ormai conosceva a memoria anche se le aveva scritte in un impeto solo il pomeriggio precedente. Il suo compagno di scuola non disse una parola, ascoltando con attenzione senza schiodare gli occhi da quelli blu di lui, e dopo un lungo silenzio sorrise e si sfilò la cuffia dall’orecchio sinistro.

«È perfetta, Mukuro! Metrica perfetta, e con una musica così non è affatto un pezzo da ragazzine! Questo è il tuo masterpiece finora, hai superato persino Helldreaming!»

«Sì, sono soddisfatto anch’io del testo» convenne Mukuro, cercando di mascherare almeno un po’ lo spaventoso picco di orgoglio che sentiva.

«Come la vuoi chiamare?»

«Loveless. È così che si chiama» affermò lui senza esitazione sfilandosi la cuffia dall’orecchio destro. «Allora? La userete per il concorso?»

«Devo farla sentire agli altri, ma io voglio farlo. Questa canzone è una bomba.»

«Lo so» fece con un sorrisetto soddisfatto, mollando ogni maschera di umiltà. «Non presento qualcosa se non sono sicuro di cosa ho fatto.»

«Sì, sì, lo so, lo so… ma senti, quel pezzo famoso?»

«Uh? Di che parli?»

«Lo sai… quella che non hai ancora finito, niente da quel fronte?»

Subaru sedette più comodo contro il muro e spezzò a metà un panino farcito per dividerlo con Mukuro. Lui, come se ciò fosse una consuetudine, lo prese senza ringraziare e rimuginò sulla domanda, accigliato come ogni volta che un discorso andava a parare lì.

«Mh… non riesco ancora a inquadrare il mood di quella canzone.»

«Mh? In che senso?» bofonchiò Subaru mentre masticava.

«Non parlare mentre mangi, ti hanno forse cresciuto i maiali, a te?»

Subaru si limitò a grugnire e Mukuro scoppiò in una breve risata, poi sospirò e guardò il cielo che andava facendosi scuro. La scia rossa della cometa Solomon era un graffio sull’azzurro del cielo.

«Non so spiegare… è come se… sì, come se la musica fosse arrivata troppo presto… come se quella canzone debba essere scritta in un altro tempo della mia vita. Un pezzo che un giorno avrà il suo significato e le parole per esprimerle.»

Subaru si prese il suo tempo per masticare e deglutire.

«Ecco perché tu scrivi le canzoni per me, cazzo, sei un cazzo di poeta

«Subaru, non sono io un poeta, sei tu che sei tale e quale a un cavernicolo… solo, con in mano un microfono anziché una clava.»

«Bella immagine, forse dovrei chiedere a Kotori di farci i costumi in pelliccia per il prossimo video.»

«Di sicuro ti calzerebbe a pennello, ma dubito che il tuo nuovo look piacerebbe ai tuoi fan.»

«Questo è vero» convenne lui, vagamente deluso.

«Non mettere il broncio» fece Mukuro dopo aver staccato un boccone di panino. «Ti faccio sentire un altro pezzo. Non è ancora completo, ma ho un bel brano di musica… sto cercando un calando o un crescendo per la parte finale.»

Subaru e Mukuro consumarono il loro pasto condiviso mentre ascoltavano un altro dei brani incompiuti di quest’ultimo, ma Subaru non ne sembrò affatto entusiasta come lui sperava.

«Sì, bello, ma adesso ho in testa Loveless e quella canzone dell’altro tempo della tua vita. Voglio sentirla» protestò in tono lamentoso. «T’è arrivata la musica, fai arrivare anche il resto dal futuro!»

«Se fossi in grado di fare cose del genere mi farei arrivare dal futuro i migliori pezzi dei prossimi dieci anni e li presenterei come miei oggi, così farei soldi e gloria a palate.»

«Davvero lo faresti?»

«Certo che lo farei.»

«Anche se è scorretto? Insomma, mica li hai scritti tu.»

«Subaru, io ammazzerei qualcuno pur di non passare la mia vita sballottato su un treno per andare e tornare da un maledetto ufficio» sospirò sconsolato Mukuro. «Voglio vivere facendo qualcosa di grande. Voglio che il mio nome sia legato a qualcosa che viva più a lungo di me, e non dentro uno schedario con il mio timbro in calce a documenti di cui non frega a nessuno dopo archiviati.»

Subaru fece un sorriso tiepido, con l’apprensione scolpita nel viso piacente. Mukuro sapeva che i suoi timori erano gli stessi; i suoi genitori speravano che passata la fase giovanile il loro secondogenito si mettesse in testa di lavorare nello studio legale di famiglia. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e Mukuro fece lo stesso: i loro sguardi si incontrarono sulla scia rossa della cometa.

«Sai, Kuro… a volte vorrei essere nato con quel gene Oro di cui parlano gli Auris.»

Mukuro abbassò gli occhi di scatto su di lui, ma non incrociò il suo sguardo: l’amico raccolse la sua borsa e il sacchetto vuoto del panino, avviandosi alla recinzione abbattuta che gli permetteva di infilarsi in quel vecchio parcheggio abbandonato.

«Piuttosto che essere il timbro in fondo a delle carte legali… io combatterei contro la natura stessa. Se solo avessi questa chance…»

Subaru stritolò la carta del sacchetto nel pugno, poi la mise in tasca e sorrise come se nulla fosse accaduto.

«Devo filare a casa. Faccio sentire Loveless ai ragazzi stasera e ti faccio sapere domattina.»

«Subaru, aspetta…»

Subaru si fermò, una gamba già fuori dal parcheggio. Quando incrociò il suo sguardo scoppiò in una risatina nervosa.

«Oh, cielo, Kuro, hai la faccia di uno che sta per dichiararsi… dimmi che non è così!»

Mukuro esitò un momento, poi tese un ghigno.

«Seh, ti piacerebbe, Matsuda-kun

«Non disdegno i tuoi occhi blu, ma sei un po’ piatto in zona tette per i miei gusti!»

Mukuro ridacchiò.

«Convinci i tuoi compagni… voglio che Loveless venga cantata da qualcuno.»

Subaru ritrasse la gamba dalla recinzione squarciata in tempi ignoti.

«Hai mai pensato di cantare tu le tue canzoni?»

Mukuro scosse la testa meccanicamente.

«Non ne sono in grado… perciò, ti prego, Subaru… realizziamo quel futuro» gli disse con la massima serietà. «Quello in cui tu sei un cantante e non un avvocato, e io scrivo per te.»

Subaru gli lanciò uno sguardo stupito, poi sorrise e sollevò la mano alla fronte.

«Sarà fatto, signore! E cominceremo con Loveless e il concorso canoro!»

Mukuro annuì convinto e Subaru se ne andò dal parcheggio, lasciandolo solo con i suoi pensieri.

Il gene Oro…

Il ragazzo alzò gli occhi sul cielo. Il tramonto precoce di quei mesi invernali lo stava tingendo di un bagliore dorato. Intorno a lui c’erano pochi rumori di strade vicine, l’aria era immota; tutto l’opposto dei suoi pensieri tempestosi.

Dopo qualche minuto di nervosa immobilità si alzò in piedi, infilò le cuffie e fece partire la base di Loveless. Era da solo in quel parcheggio, i due palazzi ai lati erano in ristrutturazione e quindi disabitati, quella zona della piccola città di Kokuyo era poco trafficata e priva di negozi che attirassero passaggio: nessuno avrebbe potuto vederlo fare quello che più avrebbe voluto fare.

Chiuse gli occhi concentrandosi solo sulla sua musica, sul testo, e lo cantò con la stessa emozione con la quale l’aveva composto e scritto. Spossato più dal tumulto interiore che dall’esibizione, Mukuro si accovacciò accanto al rottame rugginoso di una macchina con il fiato corto e gli occhi lucidi che guardavano il bagliore dorato del cielo con malcelata rabbia.

Chi potrebbe mai volere questo… essere… uno di loro?

Mentre si toglieva le cuffie si accorse che uno dei rumori di fondo era un messaggio ripetuto dal megafono di un veicolo di sicurezza pubblica: la voce femminile sembrava quasi allegra mentre annunciava l’imminente inizio della diretta nazionale per l’emergenza riguardante la cometa. A Mukuro non importava ma quell’avvenimento gli ricordò che entro un’ora l’asta online a cui aveva partecipato sarebbe finita e non aveva controllato i rilanci. Imprecò sottovoce, raccolse tutte le sue cose e lasciò il suo posto segreto dopo aver controllato che nessuno potesse notarlo sgattaiolare dal buco nella rete.

Dopo dieci minuti era senza fiato, ma finalmente superò il cancello e coprì il vialetto in due balzi buttando un piede per bloccare la chiusura della porta.

«Ehi!» sbottò la ragazza castana quando sentì la resistenza. «Ah, sei tu, Mukuro… che modi sono, mi hai fatto paura!»

«S-scusami… Kazue-oneesan…» esalò lui con il fiatone.

«Non ti sei cacciato nei guai, vero?»

«N-no… ho…»

Esitò per cercare una scusante: in teoria non aveva il permesso di usare il computer nell’ufficio se non per esigenze particolari di studio, figurarsi se poteva usarlo per comprare oggetti online.

«Volevo… tornare presto per dare una mano a Momo in cucina.»

Kazue era una splendida ventenne, una studentessa universitaria di economia e finanza, con lunghi capelli castani, forme invidiabili ben distribuite su una bassa statura che compensava con vertiginosi tacchi sensuali quanto scomodi. Se li stava sfilando nell’ingresso quando gli lanciò quell’occhiata severa e indagatrice.

«Vuoi aiutare in cucina? Tu?»

«Beh, cosa c’è che non va? Sono abbastanza grande da maneggiare un coltello» ribatté lui, non senza fastidio. «O solo perché sono un uomo non posso stare in cucina?»

«Oh, no. Sono solo sorpresa che un ragazzo come te si preoccupi del lavoro casalingo delle tutrici» osservò lei, e parve soddisfatta della risposta. «Bene, Mukuro, sono felice di vedere che inizi a crescere e a pensare al di fuori di fumetti e musica. Diventerai un uomo che vale qualcosa, tra qualche tempo.»

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo mentre riponeva le scarpe nello spazio etichettato con il suo nome. La pessima esperienza di Kazue con un padre nullafacente e alcolista le aveva lasciato un pregiudizio spietato sugli uomini che dopo dieci anni non si era ancora ammorbidito, quindi fu sorpreso di sentirsi sfiorare la testa da una carezza fugace.

«Oggi che sono tornata presto aiuterò io in cucina… vai a fare i tuoi compiti, potrai aiutare a sistemare dopo la cena.»

Mukuro annuì passivamente e le lasciò il passo nonostante la fretta. Sua sorella Kazue era lì da così tanto tempo che i ragazzi la rispettavano quasi quanto la signora Kujaku: se era nel corridoio le si cedeva il passo, se era ancora in piedi si aspettava che sedesse e dicesse loro di iniziare a mangiare prima di farlo. Questo atteggiamento aveva contribuito a rafforzare la sua idea di essere la femmina alfa, forse anche più forte della signora Kujaku in virtù della sua imposizione ferrea di educazione e disciplina.

Quando Mukuro fu certo che Kazue non sarebbe uscita a cambiarsi si sentì sicuro e schizzò su per le scale; schivò per un pelo i due gemellini Sora e Ushiro che si rincorrevano al primo piano e guardandosi le spalle come un ladro raggiunse la stanza usata come ufficio dalla direttrice, chiudendovisi dentro.

*

Durante la cena fu molto tranquillo e decisamente allegro: l’essersi aggiudicato il pezzo all’asta senza intoppi l’aveva messo di ottimo umore – circostanza invero rara per Mukuro – e accettò di buon grado di lavare i piatti al posto della tutrice Shizuka. Mentre si arrotolava le maniche per la settima volta maledicendo i capelli che gli finivano davanti agli occhi di continuo Kazue si congedò e subito dopo la marea di ragazzini sotto i dodici anni tirò i remi in barca e lasciò che la sua irrequietezza naturale trovasse sfogo con un gioco di carte e dadi di cui nessuno sembrava sapere per certo le regole.

Il fracasso dei bambini si rivelò utile a Mukuro, che si vide finire un bicchiere in pezzi tra le dita al solo afferrarlo per risciacquarlo dalla schiuma. Perplesso ne studiò i tre grandi frammenti per qualche istante prima di occultarli in fondo alla pattumiera.

Doveva essere uno di quelli sbeccati. È facile che si rompano se il bordo è danneggiato…

Nonostante la cautela, tuttavia, anche quello che afferrò subito dopo andò in pezzi tra le sue dita e il terzo si crepò vistosamente. Con il volto più pallido che mai e un groppo in gola, depositò i cocci nella pattumiera e si tirò i capelli dietro le orecchie mentre ragionava febbrilmente.

Qualcosa non va…

Fu allora, in un attimo di inusuale silenzio dei piccoli, che riuscì a sentire qualche stralcio dalla televisione che nessuno stava seguendo.

«…molto rischiosa, perché le capacità potrebbero andare fuori controllo. Invito tutti gli Auris a non usare il loro potere finché attraverseremo la coda della cometa, o di farlo solo se strettamente necessario e con estrema cautela.»

Mukuro girò di scatto la testa verso la televisione. Era quasi completamente coperta da suo fratello Ryoma – preso a raccontare nei dettagli la sua ultima partita di tennis con un senpai – e non servì a niente cercare di superarlo con lo sguardo. Un nuovo litigio dei bambini copriva la voce e Mukuro dovette trattenersi fisicamente per non gridargli di tacere: si coprì la bocca con la mano e si appoggiò al lavandino con la sensazione che non mancasse molto al vomitarci dentro.

La cometa. È la coda della cometa.

Raddrizzò la schiena senza gesti bruschi e guardò la tavolata di ragazzi. Dai più piccoli – i gemellini – a suo fratello maggiore Isamu, c’erano quindici anni di esponenti della gioventù giapponese con i più disparati problemi famigliari che li avevano portati a venire abbandonati o allontanati dalle famiglie di origine. Attualmente, dodici ragazzi risiedevano nella casa-famiglia Kujaku di Kokuyo. Negli ultimi sedici anni sette giovani erano tornati alle loro case, nove erano stati accolti da parenti lontani e undici erano diventati adulti e indipendenti… negli ultimi sedici anni un totale di trentanove ragazzi erano vissuti dentro quelle mura. Di questi uno solo aveva un problema che poteva essere massimizzato dal passaggio di un corpo celeste.

«Mukuro-chan, che succede?»

Mukuro passò uno sguardo vacuo sul volto della più giovane delle donne che aiutavano la signora Kujaku a mandare avanti la casa famiglia. Momo aveva lunghi capelli molto fini, occhi neri e lineamenti così classici ed eleganti che quando indossava abiti tradizionali veniva puntualmente fermata per una fotografia dai turisti stranieri che visitavano le terme del parco dei ginko, la sola particolare attrazione della zona.

«Sei molto pallido… ti senti male?»

Mukuro si limitò ad annuire e abbassò istintivamente la testa quando lei si sporse per posare le labbra sulla sua fronte per sentirgli la febbre.

«Non sento febbre, ma non hai davvero una bella cera… finisco io di lavare i piatti, tu vai a dormire, riposa!»

«Scusami, Momo. Mi offrirò volontario di nuovo appena starò meglio.»

Lei gli fece un sorriso dolce.

«Ti gira la testa? Vuoi che ti accompagni di sopra?»

«No, ce la faccio da solo» la rassicurò lui, imprimendo alla sua voce un tono stanco e sofferente. «Buonanotte, Momo.»

«Buonanotte, Mukuro-chan…»

Lanciò un’occhiata alla televisione mentre usciva e intravide un uomo dai capelli bianchi che parlava a un microfono, ma non riuscì a cavarne una parola. Imboccò le scale a passi leggeri e rapidi, ma sfiorò il corrimano a malapena.

Devo fare attenzione… oggi non è un giorno normale, e se quello che ha detto vale anche per me devo aspettarmi questo livello di pericolo per tutto il passaggio della cometa… ma quanto tempo è, esattamente?

Mukuro schioccò le labbra per il disappunto verso se stesso: non credeva di essere riuscito a essere così tanto superficiale da prendere completamente sottogamba una vitale minaccia alla sua stessa esistenza. Non si era preoccupato, non si era informato… non era preparato. E uno come lui non poteva permettersi di essere impreparato, perché nessuno l’avrebbe potuto aiutare: aveva solo se stesso, il suo cervello e la sua prudenza. Una qualità che in questa circostanza aveva fallito totalmente.

Emise un altro piccolo schiocco seccato con la bocca quando vide la signora Kujaku ferma davanti all’ufficio con un pacco di ricevute: a pochi giorni dalla fine del mese era pronta a iniziare a compilare i registri delle spese per la contabilità della casa-famiglia. Avrebbe di certo scartabellato e battuto sulla calcolatrice fino a tardi.

Ritirata.

Mukuro salì un altro piano di scale, raggiunse il bagno con la vasca già piena di acqua calda e si preparò a lavarsi prima di andare a dormire. Prima del mattino non avrebbe potuto fare nessuna mossa senza correre immensi rischi.

*

Il trillo della sveglia riscosse solo parzialmente Mukuro dal torpore. Tirò fuori un braccio da sotto la coperta e premette il bottone, ma la sveglia produsse un agghiacciante rumore di plastica infranta e componenti metalliche che schizzavano ovunque. Atterrito Mukuro emerse dal suo caldo bozzolo solo per scoprire che la sua sveglia sembrava essere stata sfracellata da un treno in corsa.

Dannazione!

Purtroppo il rumore era stato troppo e difatti quando guardò nel letto accanto vide un paio di grandi occhi castani guardarlo da sopra l’orlo di una trapuntina rosa.

«Mukurin, che hai combinato?»

«Ho spento la sveglia» rispose lui con la maggiore naturalezza possibile.

«L’hai rotta…»

«Beh, sai… sono quelle cose con la plastica sottile. Costano poco ed è facile romperle.»

L’occhiata che lanciò alla campanella che era finita sul pavimento la diceva lunga sui suoi dubbi e Mukuro preferì sottrarsene il prima possibile: prese il plaid da sopra il suo letto, vi si avvolse come in un mantello e uscì dalla stanza.

Schivò per poco i gemellini e Shintaro che li inseguiva e salutò Ryoma meccanicamente senza quasi farci caso: stava pianificando le prossime mosse e nel mentre cercò di toccare il meno che fosse possibile o più delicatamente riuscisse; quando affrontò le scale si muoveva circospetto come temesse di mettere i piedi su una mina.

«Le brioche al cioccolato sono nostre!»

Un ragazzino dai capelli rossi scivolò lungo il corrimano superandolo e subito dopo un secondo, del tutto identico, fece lo stesso.

«Le mangeremo tutte, Mukuro!»

«Ehi! Non fate gli ingordi!»

«Dovrai levarcele già masticate dallo stomaco!»

Quasi il richiamo del suo ingrediente preferito – il cioccolato – lo distolse dalla sua accurata strategia di autoconservazione. Digrignando i denti si rassegnò a non vedere l’ombra di un dolcetto e continuò a scendere le scale con la rapidità di un anziano malfermo, conquistando una sedia in cucina solo dopo essere stato superato da tutti.

«Buongiorno, Mukuro… come ti senti stamattina?»

«Non bene» disse a Momo, stringendosi la coperta addosso. «Credo che non andrò a scuola oggi.»

Ryoma e quasi tutti i ragazzi più grandi avevano davanti riso, verdure al vapore e tamagoyaki accompagnati da tè verde; i gemelli dai capelli rossi e i bambini più piccoli avevano tutti latte speziato e brioches, donate generosamente da una panetteria sita nella strada adiacente. A Mukuro, invece, Momo servì una scodella ripiena di una sostanza marrone collosa che non riconobbe.

«Ti ho preparato la zuppa d’avena, fa molto bene a chi è malato» gli spiegò Momo con la sua dolcezza. «Ti ho messo un po’ di cacao e di zucchero per farlo più buono!»

Rianimato dalla prospettiva di un sapore dolce a colazione si armò di cucchiaio, pronto – con prudenza – ad aggredire la zuppa dall’aspetto tetro, ma venne privato di quell’innocente entusiasmo dal telegiornale che riuscì a farsi sentire benissimo nel momentaneo silenzio di un gran numero di bocche impegnate a masticare.

«Comincia oggi il transito del nostro pianeta nella coda della cometa Solomon, e ribadiamo che gli esperti hanno garantito che non ci saranno gravi conseguenze sulle telecomunicazioni né su altro genere di apparecchiature elettriche, tuttavia…»

Abbassò il cucchiaio e fissò il televisore: aveva un disperato bisogno di capire che cosa diavolo stava succedendo a causa della cometa e purtroppo vivere in una casa-famiglia rendeva difficoltoso l’accesso a internet persino in un’epoca come quella in cui era nato.

L’urlo acuto di Maya fece sussultare altri oltre a lui, ma quando la guardò vide che la sua eccitazione era tutta per lo schermo: nell’inquadratura era appena apparso un uomo dai capelli bianchi e la targhetta in sovrimpressione recitava “Wing Emperor” mentre sulla seconda riga “Coordinatore Civil Heroes, Direttore dell’Accademia Auris e rappresentante degli Auris alle Nazioni Unite”.

«Neh… che vuol dire Auris?» domandò Shintaro, con la bocca piena di dolce.

«Gli Auris sono quelli nati con un super potere!» gli spiegò uno dei gemelli rossi. «Wing Emperor è l’Auris più forte del mondo, dicono che può guarire all’istante qualsiasi ferita!»

«Ma sarà davvero il più forte? Voglio dire, se sa soltanto guarire come fanno a dire che è forte?»

«Ma quindi…» li interruppe Maya, la bimba compagna di stanza di Mukuro. «Mukurin è un Auris?»

Mukuro si bloccò mentre accostava la tazza di caffè alle labbra, soprattutto perché tutti si erano girati a guardarlo in un silenzio tombale. Il ragazzo deglutì a fatica.

«Perché dovrei esserlo, Maya?»

«Tu rompi un sacco di sveglie.»

«Rompere le sveglie non è un super potere.»

«Non dire scemenze, Maya, gli Auris fanno davvero delle cose fighissime!» esclamò uno dei gemelli, con gli occhi illuminati dall’entusiasmo. «Prendi i Grand, per esempio!»

«I grandi? Vuoi dire gli adulti?» domandò Sora.

«I Grand sono una squadra d’élite!»

«Come pretendi di spiegargli qualcosa?» lo interruppe Mukuro irritato. «Se ogni spiegazione ha parole più difficili della frase precedente? Sono bambini della prima elementare!»

«Scusi, professore» lo scimmiottò l’altro gemello.

Mukuro scambiò un’occhiata seccata coi due gemelli, poi il loro fratello più grande Eisaku sorrise con la sua espressione sempre indulgente mentre si sfilava gli occhiali.

«I Grand sono una squadra di Civil Heroes che non appartiene precisamente a nessun paese, ma viene chiamata in rinforzo dove c’è bisogno di molto aiuto… come per l’uragano dello scorso anno nei Caraibi. Lì intervenne metà della loro squadra e salvarono moltissime vite» spiegò con pazienza, mentre strofinava una lente già lucida a specchio. «Sono molto preparati, e davvero forti. Sono capitanati da un Auris molto potente.»

«Saku-nii, chi sono i Civil Heroes?» squittì Ushiro smettendo di ripiegare il tovagliolo in un improbabile origami.

«Sono…»

Esitò per cercare le parole giuste, abbastanza efficaci e semplici.

«Sono eroi… persone che hanno super poteri e li usano per salvare le persone e combattere i cattivi… sai, se un criminale ha anche lui dei super poteri i poliziotti possono essere nei guai, quindi si chiamano i Civil Heroes» spiegò infine, soddisfatto della semplicità della sua spiegazione. «Se ci sono super tempeste, terremoti, incendi e altri disastri loro possono intervenire meglio e rischiando meno delle persone normali.»

«Wow! Posso fare anche io il Civil Hero?»

Eisaku scoppiò in una breve risata mentre inforcava gli occhiali.

«Penso che saresti una Civil Heroine, ma comunque solo gli Auris possono… tu non lo sei, Ushiro.»

La bambina aveva già gonfiato le guance pronta a lagnarsene, ma Eisaku non ebbe bisogno dell’occhiata allarmata che Mukuro lanciò dalla sua parte.

«E poi è molto difficile diventarlo… si deve frequentare la scuola degli Auris a Mizura, che è lontana da qui, studiare tanto, fare un duro allenamento tutti i giorni e superare degli esami…»

L’interesse per la carriera di Civil Heroine di Ushiro si spense all’istante e lei tornò al suo tovagliolo malconcio. In compenso i gemelli più grandi si misero a discutere dell’addestramento degli allievi Civil Heroes – chiamati classe S – e di quello che si raccontava in rete sulle loro esercitazioni all’Accademia Auris. Mukuro, rassicurato dal fatto che nessuno avesse dato credito alle fantasie di Maya, fece per dedicarsi alla sua scodella di zuppa dolce d’avena quando si rese conto che il suo cucchiaio aveva preso la forma delle dita della mano con cui lo stava stringendo.

Fingendo un improvviso interesse per un certo Civil Hero di nome Sky Flame ficcò le mani sotto il tavolo e provò a raddrizzare il manico senza che nessuno se ne accorgesse.

*

Non essendo mai rimasto a casa da scuola prima d’ora Mukuro non aveva idea di quanto fosse silenziosa la casa-famiglia Kujaku quando tutti i suoi occupanti erano a scuola e le tutrici fuori per commissioni. La casa era quasi spettrale e gli scricchiolii delle assi del pavimento rendevano tutto molto inquietante nonostante fosse pieno giorno.

Scese le scale in fretta e arrivò alla cucina dove arraffò una tazza di caffè tiepido – con la delicatezza che avrebbe riservato a un piccolo animaletto di cristallo di Boemia – prima di appropriarsi del telecomando e iniziare a premere i tasti piano come se dovesse pungolare una coccinella senza ucciderla. Doveva riuscire a trovare una replica della conferenza, era l’unico modo per lui per sapere esattamente che cosa si sarebbe dovuto aspettare dal passaggio della cometa.

Ci volle un buon minuto prima di trovare un canale promettente e si fermò qualche secondo per accertarsi dell’argomento del servizio giornalistico: erano proprio le misure di sicurezza per il passaggio della cometa. Alzò il volume.

«Sono Agashi Izumi di Eri Channel! Permette qualche domanda, Wing Emperor?»

L’uomo a pochi metri dall’inquadratura del cameraman dava loro la schiena lasciata scoperta da un tank top allacciato dietro il collo. Quando si girò l’impatto visivo fu forte: il bianco ottico del suo vestiario sembrava ingrigito al confronto con la sua capigliatura, bianca come neve appena caduta e altrettanto scintillante, che dava l’impressione di avere anche la medesima leggerezza. Con occhi iridescenti color lilla, la pelle chiara e gli abiti candidi era una visione eterea, al punto che quasi Mukuro si sorprese quando parlò.

«Sì, se è una cosa breve» fece con un’inflessione che sembrava voler sottolineare che non era il momento adatto, avvicinandosi alla giornalista. «Siamo nel pieno dell’organizzazione.»

«Può anticiparci quali sono le misure di sicurezza per la visita del presidente francese?»

L’uomo alzò un sopracciglio e tese uno strano sorriso storto.

«Naturalmente no, lo sapete bene.»

Mukuro sbuffò, convinto che non fosse il servizio che credeva; per fortuna aveva perso di vista il telecomando abbastanza a lungo da sentire la domanda successiva.

«Vi aspettate disordini a causa della cometa?»

Il ragazzo, che aveva ficcato la testa sotto il tavolo per cercare il telecomando, si raddrizzò di scatto e colpì di striscio il bordo del tavolo. Si toccò il punto dolorante con un’imprecazione tra i denti, poi con terrore si accorse dell’irrimediabile angolo di sollevamento del tavolo. Rovesciandosi con una strana traiettoria curva – data dalla gamba appena staccatasi – abbatté la cupola di vetro del lampadario e inondò la stanza di caffè, ceramica e vetro frantumato.

Inorridito Mukuro si mise una mano davanti alla bocca, ma non bastò a soffocare una seconda imprecazione più volgare della prima.

Nel mentre, aveva perso un pezzo dell’intervista. L’uomo dai capelli bianchi stava parlando di qualcosa che non era correlato strettamente alla visita del presidente francese.

«Sappiamo bene che molti degli Auris nel mondo non si rivelano per paura di ritrovarsi emarginati… per paura di essere temuti e di essere ripudiati dalle loro famiglie, di perdere il lavoro e tutto quello che hanno. Non vorrei chiedere loro di correre questo rischio, ma devo farlo, almeno devo esortare quanti di loro abbiano poteri pericolosi a riflettere sul da farsi.»

«Ha dei consigli che vuole dare a questi Auris?»

«Noi nell'Accademia sappiamo bene che siamo stati in tanti a perdere tutto per uscire allo scoperto, ma è anche vero che successe in altri tempi… tempi bui in cui non c’erano leggi né diritti, ora è diverso… tuttavia, i cuori delle persone…» iniziò lui, fermandosi con un’espressione cupa. «Comunque se questo dovesse accadere, se doveste trovarvi isolati, voglio dire a tutti che c’è un posto qui con noi… c’è sempre un posto, qui da noi.»

«Credete che la coda della cometa renderà così incontrollabili i loro poteri?»

«La cometa è passata molte volte… sappiamo che succederà, le testimonianze storiche sugli Auris non sono rare come si crede. Voglio consigliare a tutti di non fare uso dei loro poteri, e voglio che sappiano che se questo è al di fuori del loro controllo non dovranno uscire. Se potete prendete un periodo di ferie, evitate il più possibile situazioni in cui potreste arrecare danni a cose o persone.»

«Tch, la fai facile» commentò Mukuro, e guardò i resti del lampadario e il tavolo con aria colpevole. «Non è così facile quando ogni mossa è potenzialmente un pericolo per cose e persone.»

«Il suo collega Mad Horse qualche giorno fa ha accennato a un programma di contenimento, può parlarcene meglio?»

«Sì, certo, è molto importante che si sappia» replicò l’uomo dai capelli bianchi con enfasi. «Abbiamo attivato un servizio speciale che sarà attivo in ogni paese in cui esiste almeno una base dei Civil Heroes, ma anche dove non ce ne sono abbiamo inviato squadre di supporto. C’è un numero che potete chiamare a carico del destinatario per richiedere di essere controllati da noi. Uno dei Civil Heroes può assistervi per evitare che perdiate il controllo, o possiamo tenervi in una struttura adeguata per tutto il passaggio nella cometa. È un servizio del tutto gratuito e completamente anonimo

«Quando dice anonimo, intende dire che…?»

«Non ci interessa come vi chiamate» disse lui guardando direttamente la telecamera. «Non vogliamo sapere dove vivete o dove lavorate. Tutto quello che vogliamo sapere è cosa potete fare, di modo che possiamo proteggervi e proteggere gli altri. Non usiamo questo servizio per arruolare altri Civil Heroes e non diffonderemo informazioni.»

«Prenderà parte anche lei a questo programma di assistenza, Wing Emperor?»

«Sì, certamente. Il coordinamento delle operazioni del soccorso medico è impegnato in questo protocollo al massimo delle sue possibilità, e questo include anche me… ma chiunque altro selezionato per questi compiti di tutela è preparato e affidabile quanto me. Fidatevi di noi.»

Mukuro tornò a guardare gli occhi viola di Wing Emperor – così vividi persino da un vecchio televisore – che sembravano guardare proprio lui. Senza nemmeno capire perché si fidasse si lanciò sullo scrittoio all’angolo, dove la direttrice teneva corrispondenza comune e carta da lettere, e mentre la giornalista ripeteva la seconda volta il numero di telefono per contattare il coordinamento Mukuro se lo scrisse sull’avambraccio sinistro con il pennarello, ignorando il fatto che aveva quasi staccato lo sportello aprendolo di fretta.

«Per favore, quando trasmetterete questo servizio, potreste scrivere il numero in sovrimpressione?» domandò Wing Emperor, che sembrava avere molta premura che quella cosa gli fosse accordata. «È importante che venga visto bene… che le persone che ne hanno bisogno possano scriverlo o fotografarlo, è davvero fondamentale.»

«Certo, Wing Emperor… daremo alla notizia tutta la visibilità necessaria… a nome della cittadinanza la ringrazio per la cura che avete per la sicurezza di tutti anche in questo frangente.»

«Siamo felici che vi sentiate un po’ più al sicuro. Siamo Civil Heroes per questo. Servire la popolazione al massimo delle nostre capacità speciali è la nostra missione.»

Mentre Wing Emperor e la giornalista si scambiavano qualche cortesia di circostanza e “Agashi Izumi, Eri channel news” passava la linea ad altro Mukuro sollevò la cornetta del vecchio modello di telefono grigio e iniziò a comporre il numero con un tale sollievo da avere quasi voglia di ridere.

Poteva non dire a nessuno chi era. Bastava soltanto che si facesse tenere in un posto dove nessuno lo avrebbe visto distruggere mobili e muri come fossero fatti di cartone bagnato per tutto il periodo del passaggio della cometa, e poi sarebbe tornato alla casa-famiglia come se tutto fosse stato sempre normale.

Si bloccò prima di premere l’ultimo numero e abbassò lentamente la cornetta.

Non posso farlo.

Poteva anche non dire come si chiamava o dove viveva, ma lui stava in una casa-famiglia con quattro tutrici e tanti altri fratelli e sorelle. Avrebbero visto tutti che lui non c’era, che era scomparso durante il passaggio di quella maledetta cometa dopo aver distrutto la cucina, e poi…

E poi?

Sarebbe riapparso a dramma concluso, senza poter dire dove era stato. Non avendo alcun parente noto in vita sarebbe stato fin troppo ovvio a tutti i più grandi che lui era uno di quegli scherzi del genoma umano che nascevano con una voglia luccicante intorno all’ombelico. Quella voglia che scompariva in pochi giorni e che era il segno immancabile della presenza di quello che la scienza odierna chiamava gene Oro.

Mukuro si alzò la felpa e guardò il proprio ombelico. Non sapeva più quante volte l’aveva fatto aspettandosi di vedere chissà cosa, immaginando che aspetto doveva avere quella voglia dorata quando era nato, ma le uniche persone che avrebbero potuto dirglielo – i suoi genitori – lo avevano abbandonato… forse proprio dopo averla vista, quella maledizione dorata, quella mutazione che lo avrebbe reso una fonte di imbarazzo.

Non poteva farsi aiutare dai Civil Heroes. Avrebbero saputo comunque tutti quanti che cosa era. Essendo l’unico ad avere quella deviazione lo avrebbero lasciato continuare a stare lì? Avendo visto quanto diventava pericoloso durante il passaggio nella coda della cometa lo avrebbero mandato via, magari in un posto dove vivevano altri pericoli sociali come lui? Non poteva sopportarlo. Doveva pensarci da solo. Doveva stare ancora più attento, solo per un paio di settimane, e tutto si sarebbe risolto.

Mukuro alzò gli occhi blu sul tavolo ribaltato della cucina, chiedendosi come poteva rimediare al lampadario rotto. Decise di occultare i pezzi della tazza, rimettere il tavolo a posto, pulire e raccontare di aver rotto il paralume di vetro con una palla o qualcosa del genere. Per lo scrittoio invece si domandò se non fosse il caso di chiuderlo alla bell’e meglio e sperare che nessuno incolpasse lui anche di quello.

«Bene.»

Cercò di schiarirsi le idee e di farsi coraggio colpendosi sulla faccia come spesso aveva fatto in analoghe situazioni, ma visto che controllava tanto poco la sua forza decise di farlo estremamente piano, come un test di controllo. Sebbene si fosse appoggiato le mani sulle guance più che schiaffeggiato sentì male come se lo avessero colpito con una pallonata.

Imprecò sottovoce guardandosi le mani infastidito. Non aveva mai capito perché fosse dotato di una tale forza mostruosa se non era nemmeno in grado di sopportarla: il suo corpo non era assolutamente più robusto, più resistente o meno soggetto al dolore di quello di chiunque altro, e questo lo aveva obbligato a contenere la sua forza per evitare di danneggiarsi da solo. Non soltanto aveva un potere che non voleva, ne aveva anche uno da idioti, e per giunta male assortito.

Sbuffando contro quelle che dal suo punto di vista erano colossali ingiustizie afferrò il tavolo dal bordo con la punta delle dita, come una persona avrebbe afferrato un delicato abito o disegno a carboncino appena creato, e lo sollevò raddrizzandolo. Trattenne rumorosamente il respiro accorgendosi che una delle gambe era quasi staccata. Sempre con cautela ma senza il minimo sforzo sollevò il tavolo alto sopra la testa con la mano sinistra e con la destra toccò la gamba danneggiata.

«Oh, ma dai, gli dèi ce l’hanno con me o che cosa?» borbottò, indispettito e sconsolato. «Come la sistemo adesso?»

Mukuro sbuffò ancora e si massaggiò la fronte con la mano libera, del tutto ignaro di come dovesse sembrare assurdo a chiunque vederlo strizzarsi le meningi mentre sollevava un tavolo da sedici posti come fosse un ombrellino da borsa.

«Mu… kuro-chan?»

Il cervello, i polmoni e il cuore di Mukuro sembrarono fermarsi tutti nello stesso momento. Girò di scatto la testa e vide che la direttrice della casa-famiglia, la signora Kujaku, e una delle tutrici, Ayaka, erano sulla porta della cucina e lo guardavano a occhi spalancati. Atterrito si girò verso di loro aprendo la bocca per dire qualcosa, ma lo spigolo del tavolo abbatté la credenza a vetro con un gran fracasso. Fece un passo indietro, ma così facendo piantò quello opposto nel televisore. Quello mandò qualche scintilla prima di cadere e schiantarsi a terra. Mukuro aveva la gola del tutto secca e si affrettò a depositare il tavolo, che tuttavia si inclinò dal lato zoppo.

«Mukuro… chan… che cosa…?»

«Non… non sono stato io.»

«È un Auris!» strillò Ayaka, puntandogli l’indice addosso.

«No!»

Mukuro non aveva la minima idea di come poter smentire cosa era, dato che lo avevano appena visto sollevare un enorme tavolo di legno come fosse stato un album da disegno e usarlo per distruggere la cucina, ma le loro espressioni spaventate erano proprio la cosa di cui aveva avuto più paura nella sua vita. Sogni in cui si vedeva cacciare via dalle persone che vivevano con lui erano una costante di tutta la sua esistenza. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non vedere mai il giorno in cui il suo segreto veniva mostrato al resto del mondo, e invece era già arrivato.

Non può essere vero… quattordici anni a custodire quel segreto… tutto rovinato da una maledetta cometa!

«Mukuro-chan non può essere un Auris…» mormorò la direttrice, confusa.

«E invece sì! Quando… quando è arrivato… quando era piccolo rompeva di tutto! Abbiamo sempre pensato che fossero stati i ragazzi più grandi, o dato la colpa al fatto che avevamo mobili di seconda mano, ma… Kujaku-san, lo avete visto, proprio adesso!»

Gli occhi della direttrice dissero chiaramente a Mukuro che si era arresa all’evidenza dei suoi sensi. Nessun ragazzino avrebbe potuto sollevare con una mano sola quel tavolo fatto di legno pieno. Pesava più di qualsiasi ragazzino delle scuole medie, più di una donna di statura e corporatura media. Nessun liceale avrebbe potuto spostarlo da solo, anche trascinandolo, figurarsi sollevarlo con una mano e sbatterlo qua e là.

Mukuro si strinse il braccio destro con tanta furia da graffiarsi.

«Mukuro-chan… non ti preoccupare della cucina, i danni saranno sistemati…» gli disse dolcemente la signora anziana, facendo un passo verso di lui. «Ma tu… è per la cometa, vero?»

«Posso controllarlo!» esclamò subito lui. «Si tratta solo di qualche giorno! Posso controllarlo, posso restare a casa in disparte e nessuno lo saprà! Dirò che sono ammalato e…»

Il cuore che prima sembrava fermo batteva ferocemente contro il costato. Sapeva benissimo dove voleva andare a parare quel preambolo. Volevano mandarlo via, sotto sorveglianza dei Civil Heroes, e così tutti quanti avrebbero saputo che lui non era come loro. Che era l’unico diverso, l’unico ad avere quella spaventosa mutazione, che poteva impazzire e sfondare una parete, o lanciare contro di loro un’automobile se solo avesse voluto farlo.

A onor del vero Mukuro stesso non aveva idea di quale fosse il limite della sua forza. Quando era bambino aveva sollevato un’utilitaria con uno sforzo non dissimile dal sollevare un grosso cocomero, ma da allora aveva solo cercato di contenerla, mai di testarla. Dal modo in cui si manifestava quel giorno era intimamente convinto di essere tanto forte che se si fosse impegnato sarebbe riuscito a sollevare un aereo.

«No, non puoi controllarlo» sospirò la direttrice con l’afflizione nella voce e nello sguardo. «Se potessi farlo non avresti fatto tutti questi danni… non c’erano più stati incidenti inspiegabili o danni a cose nuove, mobili rotti, crepe nei muri e porte distrutte… crescendo hai imparato a controllarla…»

«Kujaku-san… non… non mi mandi via… la prego, la prego…»

«È per la sicurezza di tutti… guardati intorno, Mukuro-chan. Tu dividi una stanza con due bambini.»

Mukuro si strinse le braccia contro il petto quasi come se la direttrice stesse cercando di arpionarlo come un grosso, pericoloso cetaceo.

«Wing Emperor lo ha detto più volte, l’ho visto al telegiornale!» esclamò Ayaka, quando l’anziana donna parve incerta. «Ha detto che l’influenza della cometa rende difficile a loro controllarsi, è per questo che ora fa così… potrebbe… Kujaku-san, anche se riuscisse a non far male ai bambini li spaventerebbe a morte! E i danni? Copriamo appena le spese, come ripagheremo altri danni di quest’entità?!»

Quando vide la signora Kujaku annuire Mukuro capì che non aveva alcuna speranza di convincerla a non farlo controllare a vista. Dopotutto era un pericolo per cose e persone, come aveva detto Wing Emperor.

«Allora… che cosa dovremmo fare con lui…?»

Mukuro provò un fiotto d’ira bollente, l’equivalente emotivo di uno spruzzo di lava. Tirò un calcio allo scrittoio e quello andò a sfasciarsi contro il muro, spargendo per l’ingresso pezzi di legno, fogli, penne, inchiostro nero a schizzi e graffette. Le due donne lo guardarono, questa volta decisamente atterrite.

«Non… NON PARLATE DI ME COME SE FOSSI UN RANDAGIO!» urlò loro contro con tutta la voce, tutta la rabbia e tutta la disperazione che aveva. «Non sono un cane che aspetta sotto il portico che voi decidiate se farlo entrare in casa o cacciarlo via a calci! Sono una persona! La stessa persona che avete cresciuto qui dentro per sedici anni!»

«Quel ragazzo… quel ragazzo non avrebbe mai preso a calci dei mobili e non ha mai gridato contro le sue tutrici» disse la signora Kujaku, pallida in volto. «Ora… chiameremo i Civil Heroes. Sii ragionevole, Mukuro-chan.»

Nonostante Mukuro stesso avesse pensato di farsi controllare da loro per paura di combinare esattamente il tipo di guai che aveva combinato, non poté non interpretarlo come un tradimento.

Strinse i pugni e corse verso la porta senza guardare nessuna delle due donne. La spalancò scardinandola, uscendo nel gelido mattino senza voltarsi indietro; corse come fosse inseguito da soldati armati e svoltava in una strada o un’altra solo per evitare il più possibile le persone che lo notavano. Purtroppo non era plausibile che non dessero almeno un’occhiata a un ragazzo che correva a perdifiato e per di più scalzo.

«Ehi!»

Quando Mukuro si sentì apostrofare con quel tono che interpretò come aggressivo sussultò. Era il solito agente con i baffi che vedeva sempre al cabinotto di sicurezza quando passava da quelle parti, eppure in quel contesto la sua mente vedeva in lui solo un nemico.

«Calmati» gli disse lui, notando il suo nervosismo. «Che ti è successo? Da cosa stai scappando?»

«Non si avvicini a me!»

Mukuro alzò le braccia, ma sapeva di non poter nemmeno sfiorare un essere umano o avrebbe rischiato di ucciderlo. Il suo primo istinto quando l’agente tentò di afferrargli il polso fu di balzare indietro fuori dalla sua portata, ma urtò qualcosa di duro con la schiena e si fece male.

«Ahia!»

Il suo gemito fu seguito da un lamento metallico. L’agente guardò qualcosa al di là della sua spalla con stupore che mutava in terrore e alla fine Mukuro si girò appena in tempo per vedere il lampione che aveva urtato schiantarsi sulla carreggiata con un fracasso di vetri e metallo. Purtroppo fu nulla in confronto al fragore dell’auto grigia che per evitarlo andò a impattare a tutta velocità un veicolo parcheggiato. A quel frastuono e alle urla che l’accompagnarono Mukuro si coprì istintivamente le orecchie e strinse gli occhi.

«Dannazione!»

L’agente di polizia accorse per prestare soccorso ai passeggeri dell’auto. Mukuro abbassò lentamente le mani osservando con orrore il disastro che aveva causato: l’asfalto danneggiato, il lampione abbattuto, le due vetture coinvolte avevano vetri infranti e lamiere accartocciate, il veicolo che aveva sterzato stava prendendo fuoco.

Che cosa ho fatto… che cosa ho fatto?

Con il respiro corto per la corsa e per la paura Mukuro voltò le spalle alla devastazione di cui era autore e schizzò via; s’infilò in un vicolo angusto per allontanarsi dall’agente e dal luogo del disastro, e le gambe lo portarono inconsciamente nel posto in cui si sentiva al sicuro. Non poteva fare il giro e rischiare di essere visto, quindi decise di spiccare un salto per passare sopra la recinzione metallica: vorticò scomposto senza alcun controllo aereo del proprio corpo e impattò di schiena sulle lamiere con un’acuta fitta di dolore.

Gli ci volle parecchio per ricollegare la mente a qualcosa che fosse diverso dal dolore della caduta. Quando vi riuscì si rese conto di essere caduto sul cofano della vecchia utilitaria verde che era abbandonata lì da molti anni, la stessa che da piccolo aveva sollevato per testare quanto fosse forte. Da allora aveva nuove ammaccature, più ruggine e meno pneumatici, ma vedere quel triste relitto al momento era quasi confortante: nessuno aveva mai trovato lui e Subaru dentro quel perimetro.

Sono nei guai. Devo… devo pensare a qualcosa. Dove andare, che cosa fare… mi serve un piano.

Sentire il rumore lontano di pale di elicottero lo allarmò. Era vero che non erano mai stati trovati per via della recinzione alta, dell’accesso poco visibile e dei palazzi vuoti intorno, ma era anche vero che se l’avessero cercato dall’alto sarebbe stato facile vederlo.

Mentre il rumore cresceva d’intensità Mukuro balzò giù dal cofano, si buttò a terra e rotolò sotto un vecchio furgoncino con le scritte scollate dal tempo. Pur se facile preda del freddo e della paura, non poteva far altro che aspettare.

   
 
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