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Autore: Andy Black    15/02/2022    0 recensioni
Continuavo a fumare e continuavo ad amare, perché era bello riempire i polmoni di zucchero filato e dimenticarsi di tutto, anche solo per qualche attimo, prima di scontrarmi con la fredda realtà, la realtà congelata, come un lunedì di dicembre alle sei e mezza del mattino, quando c’è il ghiaccio sulla macchina e finiamo per rompere i tergicristalli nel tentativo di rimuoverlo dal parabrezza. Insomma, tutto ‘sto giro per dire che le coppie normali litigano.
Litigano sempre.
In continuazione.
Perché le persone che cominciano una relazione sono entrambe alla guida di un’auto, in cui uno mantiene lo sterzo e l’altro spinge i pedali, ma uno non vede la strada e l’altro non arriva al freno e all’acceleratore.
Entrambi però vogliono arrivare a destinazione. Cioè, la cosa è importante.
Certo, capita di tanto in tanto che qualcuno approfitti solo per un passaggio, ma tant’è, la vita è così. A volte di va di culo. A volte va a finire che almeno dividono la benzina.
Io invece ero rimasto solo con le mie paure, Plutone in coda ai pianeti, lontano dal mio sole.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Plutone

Precedentemente “Manuale per smettere di fumare senza ingrassare venti chili
 
 
 
 
Un brano di Christian Marcucci



Ciao.
Mi chiamo Davide e questa è una guida per smettere di fumare.
Ora non è che io sia un professionista, uno psicologo o tutte quelle cose lì, eh… Sono solo un ex fumatore. Quasi due pacchetti al giorno, e a ventotto anni non nascondo che il fiatone dopo una rampa di scale mi faceva sentire a disagio. Insomma... cioè, abito al terzo piano di un palazzo. È stata Chiara, che vive con me, ad aiutarmi a smettere.
È stata lei la causa.
È per via sua che ho perso questo vizio.
Quindi, cominciamo. Di seguito:
 
 
Guida intergalattica per aspiranti ex-fumatori

Vuoi smettere di fumare?
 
 

E penso proprio di sì, altrimenti non saresti qui.
Io che dico a qualcuno cosa fare… già fa ridere così.
Vediamo un po’, cercando su internet trovo:
 
 
“Il consumo di tabacco è uno dei maggiori fattori di rischio nello sviluppo di malattie neoplastiche, cardiovascolari e respiratorie. Il tabagismo, malattia cronica recidivante, rappresenta uno dei più grandi problemi di sanità pubblica a livello mondiale.”.
 
 
Tabagismo. Che parola singolare.
Scusa, continuiamo.
 
 
“Fenomeno emergente è l'assunzione di nicotina attraverso prodotti del tabacco di nuova generazione e sigaretta elettronica, particolarmente importante nella popolazione giovanile per le caratteristiche di alta additività della nicotina. Fumare molto spesso e molto rapidamente diventa una vera e propria dipendenza fisica, psicologica e comportamentale. Si pensi a quanto questo comportamento diventi automatico, a quanto scandisca le routine giornaliere e accompagni stati emotivi differenti (gioia, tristezza, rabbia)”.
 
 
Allora.
Conobbi Chiara durante l’anno del reset. Sì parlo del duemilaventi.
Proprio durante il primo lockdown, quando nel sud Italia, e ancor di più nella mia virtuosissima Napoli, la paura non era dettata dall’esperienza diretta della pandemia ma da ciò che ci veniva propinato dal telegiornale. Paura mediatica, roba del genere.
A casa mia sentivamo di gente in Lombardia infetta che di notte fuggiva dalla quarantena, nei campi, per andare nei paesi vicini, e la settimana dopo dei camion pieni di cadaveri sfilavano a Bergamo come carrozzoni al carnevale di Viareggio.
Insomma, roba che tocca dentro.
Fino a quando non decisi di lasciare il nido, ho sempre vissuto con tre donne (perché una, chiaramente, non era abbastanza). In ordine di pericolosità:
 
  1. Mia madre, la Leonessa;
  2. Mia nonna, la Senatrice;
  3. Mia sorella, Prova a prendermi.
 
E io, che sono buono di natura, spesso mi trovavo a dover fronteggiare le tre fiere tutto da solo. Ma le amavo, e c’era una pandemia in atto; in quella situazione era d’uopo che non esponessi la Nina, la Pinta e la Santa Maria ai potenziali rischi virali, quindi mi vestii di responsabilità e, armato di coraggio, indossai cappottone lungo, guanti in lattice e mascherina.
FFP2, di quelle che ti segano le orecchie.
Oh, a marzo ventiventi ero l’unico ad avere quel gioiellino, nella periferia di Napoli.
Costavano 15 euro l’una ma Ciro, il mio amico nell’esercito, me ne procurò un paio.
Insomma, ero in fila davanti all’unico supermercato che aveva la pancetta affumicata a cubetti che piaceva a mia madre (e guai a portarle sottomarche che non le piacevano. Lei voleva quella sottomarca lì).
Aspettavo da quasi venti minuti, nella struttura potevano entrare solo dieci clienti alla volta e, presi dal panico covid, tutti cercavano di riempire il carrello quanto più possibile.
Dietro di me c’era una coppia di anziani, entrambi poco oltre la settantina; erano due nonni sprint, che probabilmente una volta all’anno ci davano ancora fortemente dentro.
 
- Prendi tutta la farina che puoi! – aveva ripetuto lei, più e più volte.
- Sì, Marisa, ho capito, sì. Tutta la farina del supermercato.
- Il pane ce lo facciamo noi.
- Buono così. Lo facciamo noi e non usciamo di casa.
 
Sorrisi, che tanto dietro alla FFP2 non avrebbero potuto vedermi.
In ogni caso ero così concentrato su quella coppia di fuoco che non mi ero reso conto della presenza, proprio davanti a me, di Chiara, la donna più bella che avessi mai visto mentre aspettavo in fila. Catturò la mia attenzione immediatamente. Cioè, appena mi accorsi di lei.
E onestamente, la prima cosa che le guardai fu il culo. Tanta roba.
Stava parlando al telefono. Sembrava irritata, probabilmente con qualcuno che non smetteva di infastidirla.
 
- Senti, ti ho detto di smettere di chiamarmi.
 
Parlava in maniera tranquilla ma era chiaro che fosse turbata. Non alzava la voce, non si arrabbiava, manteneva il controllo.
Indossava un giubbino di jeans, aperto su di un maglioncino bianco, di filo.
Beh, non lo sapevo ancora, dato che era di spalle. Però avevo visto quel paio di pantaloni scuri e delle Fila bianche, con delle suole parecchio alte; comunque, nonostante i quattro centimetri di zeppa, sostanzialmente quella che avevo avanti era una piccoletta.
Una piccoletta incazzata.
- Guarda, è meglio che non mi consideri più parte della tua vita. Cancella il mio numero e dimentica la mia faccia. Non farti più sentire.
Si voltò, leggermente, regalandomi uno scorcio del suo sguardo.
Di nuovo, tanta roba. Tanta, tanta, tanta roba.
 
Anzi no, di più.
 
La prima volta che vidi gli occhi di Chiara ne rimasi fulminato, che forse ebbi una vera e propria sindrome di Stendhal, col fiato nei polmoni che mi veniva a mancare, e tutto veniva peggiorato da quella dannata mascherina, che ognuno mi invidiava ma che avrei venduto immediatamente al miglior offerente.
Gli occhi, sì, dicevo, dal taglio quasi orientale, quasi a mandorla. Erano scuri e vividi, come un impetuoso mare in tempesta color noce.
Mi colpirono loro, e quei ciuffetti di capelli, di quel castano scuro, spettinati, che le baciavano la linea del volto e che sfuggivano alla coda, alta sulla testa, perché era primavera e il caldo cominciava a farsi sentire. Guardai poi la pelle del suo viso, diafana. La mascherina che indossava, quella azzurra, di carta, comune, mi celava le sue labbra.
Mi innamorai a prima vista della sua minuta perfezione, e dell’impetuosità di quella rabbia calma.
Si voltò di nuovo, mi diede le spalle. Non lo sapevo, ma ruotò gli occhi
- Va bene. Hai finito? Ti sto per bloccare.
Poi attaccò. Sbuffò, lanciò il cellulare nello zainetto di pelle nera che stringeva tra le mani e abbassò lo sguardo. Fissava le punte delle sue scarpe, bianche all’inverosimile, ma con le punte sporche. Probabilmente si erano sporcate lì, pensai.
Alzò poi la mascherina, che le era scivolata sotto al naso. Cadeva, le andava grande.
- Vaffanculo anche a questa trappola… - sbraitò, allungando gli elastici e annodandoseli dietro alle orecchie, e lì dovetti abortire una risata, perché il pensare che quella ragazza fosse così piccola da non riuscire a indossare quella gabbia per musi me la rendeva automaticamente simpatica. Cioè, a me, poi, che sono alto quasi un metro e novanta, la mascherina andava piccola.
In ogni caso mi sentì e si voltò con lo sguardo di chi ne aveva avuto abbastanza, e io spalancai gli occhi, vedendola chiedermi con le sole espressioni del volto cosa diamine avessi da ridere.
Alzai le mani, come se mi stesse puntando contro una Tommy Gun.
- I nodi. – le risposi.
- Cosa, i nodi?
– Hai dovuto fare i nodi. Alla mascherina, intendo.
- E allora? – rispose, come acido muriatico. Aveva inarcato il sopracciglio destro, incrociando le braccia e stringendole sotto al seno.
Io ero divertito ma lei non rideva. Non aveva per nulla voglia di ridere.
- E allora è divertente. – risposi, come un bambino che inseguiva un aquilone in un campo minato a Kabul. - Ti va grande. A me, la mia va piccola.
- Tu sei una bestia di due metri. E hai la mascherina dei ricchi. Sei ricco?
- Certo. Sono un principe.
Sorrise, e il fatto che la mascherina le celasse le labbra mi fece impazzire.
- Questo sì, che è un caso... peccato che io non sia per niente una principessa.
Ridacchiai di nuovo.
- Ah no?
- Assolutamente no… - ribatté, continuando a rimanere stretta nel suo abbraccio. – Anzi. Ho parcheggiato il camion qui, prima della salita.
- E riesci anche ad arrivare ai pedali?
Sorrise, poi ruotò gli occhi verso l’alto.
- Ha – ha – ha… va bene, va bene, prendiamo in giro la ragazza bassa…
Io ridacchiai, poi sentimmo entrambi il suo cellulare vibrare nella borsa. Sbuffò, rimanendo immobile. Non lo prese neppure, quel Samsung decisamente grande per le sue mani, ma assunse un’espressione unica, che ricordo ancora oggi: era spazientita.
Sfibrata.
- Uff…
- Non l’avevi bloccato? – chiesi, mentre quella vibrazione piuttosto fastidiosa s’inseriva tra gli sguardi che ci lanciavamo.
- Sì ma ha due cellulari… - rispose rapida. Poi alzò gli occhi verso di me e s’accigliò. – In ogni caso dovresti farti gli affari tuoi.
Sorrisi, poi abbassai lo sguardo e sospirai. – Vuoi un po’ di privacy nel mezzo di questo campo di concentramento? Ci saranno duecento persone, attorno a noi.
- Guarda, non mi sembra di chiedere chissà cosa…
- No, è che ho questa tendenza ad ascoltare le conversazioni altrui.
- Appunto. Non ti fai gli affari tuoi.
- Esatto.
Annuì, come se avesse acquisito una nuova consapevolezza, ma probabilmente decise che ne avesse avuto abbastanza e finì per voltarsi, mentre quella vibrazione infastidiva nel profondo ognuno dei miei cinque sensi. Anche se dopo pochi secondi cessò. Lei mi dava le spalle e pensai che non voleva che le rompessi le palle; la vidi rilassarsi leggermente, che ancora stava con le braccia incrociate.
Le riguardai il sedere, mi intimai di smetterla e diedi nuovamente un’occhiata in giro, per vivermi un po’ più consapevolmente quegli attimi di libertà, nonostante le manette di paura che la pandemia ci stava imponendo.
Il cielo sembrava più azzurro, oltre le finestre di casa.
Presi una delle mie sigarette e l’accesi, poi mi persi nelle nuvole e nelle forme che la mia fantasia gli donava, prima che la vibrazione del cellulare di Chiara mi ridestasse ancora. Sbuffai, mi sentì e si voltò, facendomi capire che non fosse colpa sua.
- E rispondi. – le dissi. – Almeno si rassegna.
Rise, forse un po’ troppo sguaiatamente, alzando gli occhi al cielo.
- Credi che gli basti così poco per rassegnarsi?
Inarcai le sopracciglia, aspettando che le venisse il colpo di genio che risolvesse il problema. Guardammo entrambi il display. FEDERICO VODAFONE, c’era scritto.
  - Allora? Forza.
E si stizzì. Appuntì lo sguardo, Se avesse potuto avrebbe rizzato i peli dietro al collo.
- Ma Allora cosa?! Chi sei?! Che vuoi?!
Mi voltai e guardai i due vecchi, giusto per un attimo, poi tornai a puntare i suoi occhi e sospirai.
- Dammi qua. – le dissi, facendo un cenno con la mano.
Appuntì lo sguardo.
- Eh?!
- Rispondo io.
- Cosa?!
- Rispondo io.
- Ma non esiste! Non ti conosco neppure, non ti darò il mio cellulare!
La vibrazione ancora le faceva tremare la mano, avvolta nei guanti di lattice. Mi fissava, non capivo se fosse la preda o la predatrice. Io intanto storsi le labbra, le misi una mano sulla spalla e le presi il cellulare dalle mani, per poi rispondere.
- Pronto. Ciao… no, sono un amico. No, non mi conosci, mi ha appena conosciuto. No, non stiamo assieme. No, non stavamo assieme neppure prima, a dire il vero non so neppure lei come si chiami, è che siamo in fila e la tua insistenza è un tantino fuori luogo… La stai turbando. Oh, non c’è bisogno di essere così maleducati. Dovresti smettere di comportarti in questo modo, non penso che ai suoi occhi tu stia facendo una bella figura…
Lei ridacchiò. Passai una mano tra i capelli e sospirai.
- No, non le ho rubato il telefono. Certo, era un po’ restia a farmi parlare con te, onestamente, non so perché, spero tu non sia uno di quelli dalla faccia brutta col T-Max che passa le domeniche fuori ai centri scommesse…
Sorrise di nuovo. Il suo sguardo si era riempito di quella luce che imparai ad amare.
- Credo che sia poco elegante costringere una donna a cambiare numero, bloccare o avere paura di girare per strada… Aspetta che ti contatti lei, se son rose fioriranno. Altrimenti sali sul tuo T-Max e cerca una bella vrenzola con le sopracciglia tatuate e le labbra molto, molto rosse.
Chiara rise di gusto, lui mi attaccò il telefono in faccia e io glielo restituii.
- Forse non gli piacciono le cafone. – la guardai. – Non mi sembri quel tipo di donna.
- Infatti non lo sono.
- E ne sono più che contento. Spero di aver risolto il problema…
Sorrise con gli occhi, di nuovo.
- Grazie. – fece.
Si presentò.
- Chiara.
Mi strinse la mano. Facemmo la spesa e una settimana dopo ci baciavamo in riva al Lago D’Averno, lei con una Beck’s tra le mani e io col cuore che mi scoppiava.

 
- FASE 1
L’auto-osservazione e la preparazione alla cessazione
 
“La maggior parte dei fumatori inizia a fumare e consolida la propria abitudine durante l’adolescenza. Ciò che può indurre un adolescente ad accendere la prima sigaretta non è solo la curiosità: il desiderio di affermare la propria identità, consolidare il proprio ruolo nel gruppo di appartenenza, trasgredire le regole, imitare persone significative della propria vita o raggiungere l’autonomia giocano un ruolo sicuramente importante.”.
 
 
Già. Proprio come successe a me.
Fumavo le Merit.
Mi piaceva il loro sapore, fin da ragazzino.
Me le fece provare un mio compagno di scuola, Antonio; uno che tecnicamente reputavo più dritto di me ma che ora vive nello scantinato del padre. Quando lo rividi l’ultima volta, che erano passati cinque o sei anni dal diploma, mi ha confessato di spillare al suo vecchio cinquanta euro ogni settimana, che andava a buttare nelle slot machine di un bar poco lontano dal campo rom della ridente Giugliano.
Aveva ripetuto due volte la seconda superiore, quando lo conobbi io avevo sedici anni e lui diciotto e la gran parte delle ragazze della mia scuola che prima dei vent’anni avrebbero avuto già un bambino gli giravano tutte intorno.
Oddio, qualcuno potrebbe essere anche figlio suo.
Fatto stava che un maledetto martedì, assieme a un manipolo di compagni di classe, decisi di saltare la scuola e in particolare un’interrogazione di filosofia (Platone figlio di puttana). Aspettavo che il treno ci raccogliesse e ci portasse al centro di Napoli, poi facemmo una colletta e comprammo il Super Santos più arancione che c’era, facendo una colletta. Dopodiché organizzammo una partita a pallone contro la terza bi, che finì in disfatta al centro di Piazza del Plebiscito.
Alla fine, seduti per terra, al sole, tirò fuori dal nulla questo pacchetto da dieci di Winston Blu.
 
- Toh, te ne regalo una. – mi disse.
 
Sapevo che fumasse ma non credevo che comprasse i pacchetti. Credevo scroccasse, chessò, dai bidelli, o che le rubasse a sua madre.
Io presi quella sigaretta, rigirandomela tra le mani senza sapere cosa farne. e poi lo vidi, più grande e sicuro, che stringeva il filtro tra le labbra. Accese, prese un tiro, riempì i polmoni, chiuse gli occhi e buttò fuori il fumo.
Sembrava una ciminiera ma mi aveva appena regalato un’idea d’indipendenza fuori dal normale, e volli emularlo.
Me l’accese.
Andò a finire che quasi vomitai tutta la colazione. Ma pian piano mi piacque sempre di più, come il tono che mi dava davanti alle persone.
Io fumavo, gli altri no. Era bello.
Mi sentivo speciale, mi sentivo diverso e più maturo degli altri.
 
È che sono sempre stato una persona insicura.
 
Tornando a noi, nel passato recente, uscivo da una relazione lunga e disastrosa, piena di compromessi venuti a mancare. E quando succede così finisce che sei vuoto.
Ma sì, perché ho sempre visto questa cosa dei compromessi come se due persone che vivono accanto a due pozzi facessero continuamente avanti e indietro a svuotare un secchio della propria acqua addosso all’altro.
Capito, che fatica? È chiaro che prima o poi uno dei due dice vienitela a prendere, l’acqua, è qui.
A me successe esattamente questo. Io però continuavo a fare il mio dovere di mulo irrigatore, e finii per appassire, come da copione, proprio come una pianta delicata sotto al sole di agosto.
Rimasi senza più nulla da dare, e per questo fui lasciato al palo.
 
Fu complicato.
 
Inizialmente mi cadde addosso una quantità di domande che non credevo di riuscire a pormi. Fu quella stessa insicurezza a farmi mettere in un angolo, e a darmi la responsabilità della fine di una storia di oltre dieci anni, con una ragazza che reputavo fondamentalmente quella giusta, sbagliando, e a farmi scendere in una spirale di autocommiserazione insana in cui la causa di tutti i mali del mondo ero io.
Fumai più del dovuto, fumai cose che forse non mi servivano.
E bevvi.
Quanto bevvi, porco il clero.
Fatto stava che mi ritrovai sei mesi dopo con una concezione di me che rasentava lo zero e a Capodanno vidi un video di me col volto gonfio e paonazzo; ero totalmente ubriaco e fuori di me.
Mi feci schifo.
 
Lo raccontai a Chiara, qualche anno dopo, agli inizi della nostra relazione, spiegandole che l’uomo che aveva davanti, sostanzialmente, non era sempre stato quello.
- Naturale. – mi rispose. – Certe esperienze cambiano tutti.
- No… intendo dire che ho guadagnato parecchia sicurezza, nei due anni in cui sono rimasto da solo. Ho imparato a volermi bene e ho capito cosa serve davvero, in una relazione.
Mi guardò incuriosita.
- E cosa servirebbe?
- Comunicazione. E sforzi da entrambe le parti. Io e la mia ex non parlavamo mai. E un po’ la cosa mi preoccupa anche con te…
Appuntì il viso.
- In che senso?
- Non sei una persona… come dire… espansiva…
 
Ed era vero.
Chiara era sì bella come il sole, ma non era del tutto abituata ad avere un rapporto, per così dire, sano. Del resto, come successe a me, anche lei aveva vissuto più di una relazione atipica.
Un pomeriggio eravamo seduti al tavolino di un bar poco lontano dalle nostre zone, perché quella sera aveva una cena coi parenti e non voleva allontanarsi troppo. Era maggio inoltrato e pioveva, tirava quel vento freddo che sapeva d’ottobre, e noi avevamo deciso, chissà perché, di sederci all’esterno, accanto a tre ragazze che passavano il tempo a scattarsi selfie.
Lei indossava lo stesso giubbotto di jeans della prima volta che la incontrai e sotto portava una camicetta, nera, appena scollata. Avevamo da poco dato il primo bacio, in auto, davanti a quello che sarebbe stato il nostro tramonto. In ogni caso ordinai, io un Negroni, lei uno spritz, poi cominciammo a parlare.
Lei aveva lo sguardo basso, e quando le chiesi il perché trovò con difficoltà le parole.
- È che sto bene…
Sbattei le palpebre quattro, cinque volte. Non capivo.
- E questo sarebbe un male?
- No, non è un male… è che…
Sorrise, e il suo viso accolse quella dolcezza, ammorbidendosi. Ancora non mi guardava. Raccoglieva con l’unghia smaltata la condensa che cadeva dal bicchiere.
- Cosa?
- Non mi sono mai trovata in una situazione del genere…
Non sapevo cosa pensare, in realtà.
- Non sei mai stata bene? – domandai.
- Sì, sono stata bene… è che sei differente da ciò che ho incontrato, in vita mia. Non che abbia avuto tutte queste esperienze, eh… è che non è stato semplice aprire nuovamente le porte a qualcuno…
- Ma non credo di aver fatto nulla di straordinario, onestamente.
- Invece stai facendo qualcosa di incredibile, Davide. Ci frequentiamo davvero da poco tempo e io ancora non… ancora non riesco a capire cosa dovrebbe farmi paura di te.
 
E lì cominciai un attimo a capire che tipo di persona fosse Chiara.
Parlò di paura, e sapevo che quel mostro apparisse soltanto quando qualcosa ti avesse già graffiato nell’animo.
La guardavo in volto e si mostrava straordinariamente fragile, al contrario di tutto ciò che avevo visto fino a quel momento. Sì, perché Chiara era tendenzialmente ciò che definivo una persona libera: non c’erano concetti, pregiudizi o catene che la potessero costringere, cavalcava in ampie praterie con forza e velocità, affiancandosi a chi vedesse la vita come lei, una giornata alla volta.
Io pensavo che fosse libera, ma una persona libera non provava paura. Quella è come un’ancora, e Chiara sembrava bloccata.
- Io… io non ho nulla per cui farti paura. Non voglio spaventarti…
Annuì, poi tornò a guardarmi. – Lo so, lo sto capendo e la cosa mi… turba.
Rabbrividii.
- Perché parli di paura?
Sospirò, portò le mani tra i capelli e chiuse quegli occhi meravigliosi.
- L’ultima volta che mi sono sentita così è successo qualcosa di brutto.
Appuntii lo sguardo.
- Cioè?
- Cioè, le cose stanno diventando serie e…
- E la cosa ti spaventa?
Mi batteva il cuore. Avevo paura che volesse lasciarmi.
- No. No, assolutamente no, tu sei davvero l’uomo migliore che abbia mai incontrato… sei simpatico, dolce e mi piaci tantissimo… ma…
- Ecco che arriva la botta… - sospirai.
Mi guardò. Sorrise a mezza bocca e socchiuse leggermente le palpebre.
- Nessuna botta, stupido… ma l’ultima volta che mi sono sentita così per qualcuno è stato tutto… forse non dovrei neppure parlartene…
Aggrottai la fronte, cercando di leggere qualcosa tra le fitte trame delle sue espressioni.
- Non è così che voglio impostare questa relazione.
Annuì.
- Va bene, hai ragione. L’ultima volta che mi sono sentita così… scusami Davide, è che è strano… - fece, poi sorrise. - Credevo che tutto sarebbe finito bene. Insomma… - alzò poi gli occhi al cielo. - … all’inizio mi sembrava tutto meraviglioso. Mi aveva fatta sentire il centro del mondo e…
E io ero già sbalordito così.
Chiara non era un tipo di tante parole. Stava gesticolando, liberando un groviglio di fili neri, impiastricciati di pece, tirandoli fuori dal centro della propria anima.
- … e io ci avevo creduto. Stavo bene, lui era, e non offenderti per questo, meraviglioso…
 
Io invece mi offesi, ma non glielo dissi.
Già l’ho detto, no, che sono insicuro?
 
- … e mi sentivo proprio in questo modo, come mi sento con te adesso…
La guardai, respirai profondamente, riempiendo i polmoni e svuotandoli. I suoi occhi erano poggiati sulle mie labbra e attendevano che qualche parola vi fuggisse galeotta.
- E poi? – chiesi, disattendendo ogni aspettativa.
Abbassò di nuovo gli occhi, rassegnata, alzando poi le spalle.
- E poi nulla. Col tempo è cambiato.
- Tutti cambiano.
- Ma lui diventò l’esatto opposto di ciò che credevo che fosse...
Appuntii lo sguardo. – In che modo? – domandai, curioso.
- Cominciò a darmi per scontata, a non avere più tempo per me. Mai un’uscita fuori assieme, o un film al cinema. Una cena… che ne so, una pizza. Lui studiava, usciva con i suoi amici e le sue amiche, mentre io non potevo prendere neppure prendere un caffè. E non sapevo come fare.
- Te lo vietava?
- Non avevo tempo… Lavoravo in una cornetteria, staccavo alle sei del mattino e dormivo durante il giorno.
- Lavoravi in una cornetteria?
- Già… Inoltre era possessivo e geloso e…
- Continua… - sospirai infastidito, facendo cenno con le mani. Lei annuì, e portò dietro alle orecchie quei due ciuffi di capelli che aveva quasi sempre sugli zigomi.
- Continuo, sì… mi faceva sentire in colpa, perché non avevamo molte occasioni per stare assieme… e quindi capitava spesso che, dopo quasi dodici ore di lavoro, mi mettessi in auto e andassi da lui, al Vomero…
- Almeno a quell’ora si riesce a trovare parcheggio?
- Non ne parliamo…
Abbassò lo sguardò, sorridendo amaramente. Si sentiva una stupida, e un po’ già intuivo il suo discorso dove volesse andare a parare.
- Pareva quasi che stare assieme fosse un favore che mi stesse facendo…
Rimasi a guardare il suo sguardo basso, bagnandoci nel silenzio che creammo in quel pentagramma di pioggia. Ci guardammo, lei era sfuggente come sempre.
- Quindi… - presi le redini del discorso in mano. – Mi stai dicendo che hai paura che io cambi?
- È che mi sono sentita tradita. È come se le sue parole mi avessero presa in giro… lui si è preso ciò che voleva da me senza dare nulla in cambio… e ho lottato! Credimi!
 
Voleva piangere. Chiara parlava del suo ex e voleva piangere.
E io stavo per impazzire.
Stavamo insieme, lì, davanti ai nostri drink e a quella pioggia di maggio, e l’unica cosa che volevo era strapparle i ricordi dalla testa.
O in alternativa mandarla a fare in culo, perché io ero lì di fronte a lei e non era corretto mettersi a fare certi discorsi: soffriva per il suo ex, era palese, e io ero lì, immobile, ad ascoltare di come qualcuno che aveva perso il treno migliore che fosse mai capitato in stazione aveva poi finito per farlo deragliare.
 
Quel coglione aveva rotto Chiara.
Lei era disfunzionale.
 
- Va bene…
Il mio tono era freddo, come la pioggia che ci cadeva accanto.
E poi fu come se si fosse risvegliata da un coma ad occhi aperti, e si rese conto che davanti non avesse sua sorella, o la sua migliore amica, ma il ragazzo che le piaceva, e che indossava quell’aria stranita. Poi, dal canto mio, non credevo che tutta quella storia fosse giusta. Rodevo dentro ma, se da un lato volevo con tutta la mia forza rincuorarla e farle capire che non ero come tutti gli altri, perché gli altri erano gli altri, e io ero io, e questo già doveva bastare, dall’altro stavo cercando di reprimere con forza quella voce che mi spingeva a urlarle qualcosa del tipo:
 
È EVIDENTE CHE TU ABBIA SBAGLIATO A RIBUTTARTI IN UNA RELAZIONE! O PENSAVI CHE IO FOSSI IL CHIODO GIUSTO PER SCACCIARE QUELLO CHE TI SI È INCASTRATO CHISSÀ DOVE?! CREDI DAVVERO CHE IO POSSA CURARE I TUOI MALI?! E CHI ME LO FAREBBE FARE?! PERCHÉ DOVREI MANGIARE ANCHE LA TUA MERDA?! MA COME FACCIO A TROVARMI SEMPRE IN QUESTE SITUAZIONI DEL CAZZO?! MA PERCHÉ NON IMPARO CHE NON DEVO FIDARMI PIÙ DELL’UMANITÀ?! OGNI VOLTA SUCCEDE CHE MI VIENE RIFILATA UNA SÒLA TREMENDA?! MA CHE, PER CASO C’HO SCRITTO RECUPERO CASI UMANI SULLA FRONTE?! NO, DITEMELO, CHE SE DEVO ATTIRARE SOLO PAZZE CLAUSTROFOBICHE E EGOISTE GELOSE MI DO AL MONACISMO, E FANCULO LE DONNE E I LORO UMORI, IL CICLO E LE SUE FASI, GLI EX FIDANZATI INVADENTI E QUESTO SPRITZ DI MERDA, CHE QUI COSTA NOVE EURO E FA CAGARE!
 
Ma insomma… io non sono così.
Tutto sommato provavo pena per lei, perché la capivo.
Aveva assunto uno sguardo colpevole.
- Sei arrabbiato? – mi chiese.
- No. Cioè, non mi fa piacere che io debba trovarmi in una situazione del genere, in cui piangi per il tuo ex ma…
- Io non sto piangendo.
- No, intendo dire lamentarti.
- E neppure. – ribatté prontamente. – Ti volevo solo spiegare.
- E ci sei riuscita. Ho capito che hai vissuto tutto ciò come una violenza. Sei stata mancata di rispetto e considerazione e io, onestamente, non so come si faccia a non essere felici di stare con una donna come te. Quindi sì, comprendo le tue paure ma credo che tu non abbia considerato una cosa…
Sgranò gli occhi; attendeva trepidante che mi spiegassi meglio.
- E cioè?
- Che anche io ho le mie cicatrici. Alcune ferite non si sono ancora rimarginate e non cerco qualcuno che mi aiuti… Voglio solo andare avanti.
- Lo so… - mi fece. – E anche io…
- Ma tu hai paura. Sei intimorita da me, perché temi che possa gettarti del fumo negli occhi… io però sono cristallino. Sono sincero con te. Mi piaci e trovo che tu sia una donna interessantissima. Voglio conoscerti per come sei.
Rimase immobile. Forse non respirava manco.
Passai una mano tra i capelli. Avevo freddo.
- Non sono quel tipo d’uomo, Chiara. – continuai. - Non voglio perdere tempo con cose da ragazzini... Credo che tra di noi possa nascere qualcosa di bello e ho intenzione di coltivarlo, senza se e senza ma, a prescindere dai nostri ex o dalle nostre paure. Vorrei provarci, senza premere il piede sul freno e vedere quanto lontano andiamo.
- Anche io… è solo che è molto difficile per me, fidarmi nuovamente di qualcuno.
Le sorrisi a mezza bocca, poi le dissi ciò che avrebbe detto chiunque volesse conquistarsi un posto in prima fila nella sua vita.
- Farò in modo che succeda.
 
 
“In questa fase la invitiamo ad auto-osservarsi, ossia a pensare come e perché lei è diventata una persona fumatrice. L’auto-osservazione serve a rendere più consapevoli alcuni comportamenti. Bisogna sapere infatti che fumare è un comportamento costituito da un insieme di atti concatenati, spesso inconsapevoli ed automatici. Attraverso la riflessione, facilitata dagli strumenti che le proponiamo, i comportamenti automatici potranno diventare consapevoli ed essere interrotti.”.
 
 
Avevo compreso le sue paure, ma lei non conosceva le mie.
Come potevo smettere di avere paura?
 
Mi innamorai di lei alla velocità della luce, e la cosa m’imbarazza tutt’oggi. Passavamo i primi periodi nascosti in auto, perché col coprifuoco e la pandemia non potevamo stare in giro dopo un certo orario o ci avrebbero arrestati, e quindi finivamo spesso per comprare un paio di birre per poi berle nella mia auto, in luoghi appartati, dove alternavamo discorsi molto personali a vere e proprie maratone di baci, carezze e sospiri. Eravamo sempre ignari dell’orario, finivamo per saltare la cena il novanta percento delle volte e quando mangiavamo lo facevamo sempre pochi minuti prima della mezzanotte, in videochiamata.
Non riuscivamo a lasciarci e io mi sentivo finalmente appagato da quella situazione: ero coinvolto da una persona dopo tantissimo tempo e sentivo che lei fosse sulla mia lunghezza d’onda. Sembrava stessimo correndo alla stessa velocità, quasi come se riuscisse a settare il proprio battito del cuore sul mio, per farli viaggiare all’unisono. Lei era la mia droga, la sigaretta che accendevo tutte le mattine appena sveglio, quell’ultimo soffio d’ossigeno che spirava dal filtro prima che andassi a dormire. Riempiva i miei polmoni e tutta la stanza di un fumo rosa che amavo.
 
E fu terrificante rendersi conto del fatto che non avevo più difese contro di lei.
 
Mi ero innamorato di quello sguardo da cerbiatta e dei sorrisi sommessi. Amavo le sue espressioni, il suo profumo, la morbidezza della sua pelle e il colore di quei capelli. E poi, come un tredicenne, non riuscii a trattenere i miei sentimenti, una delle prime volte che ci levammo i vestiti e ci lasciammo andare, nascosti dai vetri appannati della mia macchina.
Ansimavamo entrambi, accaldata lei, sudato io, entrambi paonazzi in volto. Lei era seduta sulle mie gambe e mi fissava con quegli occhi preziosi, dal valore inquantificabile. Ricordo ancora la sua espressione, leggermente imbarazzata ma divertita e soddisfatta, poi sorrise dolcemente, e ruppe ogni anello della mia catena.
Sì, bastò che mi sorridesse.
Dio, che scemo che sono stato: le dissi che l’amavo.
 
- Come?! – rispose, colta alla sprovvista. Aveva le sopracciglia inarcate e la bocca leggermente schiusa. Ovviamente era sorpresa.
E pure io. Ma ormai avevo vuotato il sacco.
- È inutile che menta a me stesso…  - le dissi, colpevole, scostando lo sguardo. - Mi sono innamorato.
Lei sorrise, forse in un gesto istintivo di panico, e mi strinse in un abbraccio caldo e affettuoso. Mi baciava il collo, le labbra, il volto e io non capivo.
Dopo qualche secondo si staccò e mi guardò negli occhi.
- Questa… - disse, sorridendo dolcemente. - … è una cosa bellissima. E io sono contenta ma non…
Batté gli occhi, e io piombai dal paradiso all’inferno in un attimo. Sentivo l’ansia grattarmi con quegli artigli gelidi tra stomaco, polmoni e cuore e intanto percepivo il fuoco crepitare alle mie spalle, mentre tutto ciò che avevo costruito in quelle settimane bruciava al vento per via della mia voracità emotiva. Me ne resi conto da solo. Abbassai lo sguardo e lei si fermò.
- Davide... Davide. Non è successo nulla di male. Solo che io non riesco a dirti adesso una cosa del genere.
- Certo… - annuii. – Sì, certo. È naturale, sì. Tranquilla. Quando e se ci sarà l’occasione io…
- Ho i miei tempi. Ma non spaventarti…
- Va bene…
E scese dalle mie gambe.
 
“Perché si allontana?!”.
 
Sapete cos’è la psicosi paranoide?
Quello che avete appena letto.
Quello, è psicosi paranoide.
 
“Si sta rivestendo più velocemente degli altri giorni… in genere rimaniamo sempre vicini e… ora manco sorride più. L’ho impaurita… BEL LAVORO, COGLIONE! TE LA SEI LASCIATA SCAPPARE!”.
 
- Ti accompagno, si è fatto tardi… - le dissi, già a voler anticipare quel taglio drastico e netto che sicuramente, pensavo, mi avrebbe aperto in due il petto come un’autopsia. Non riuscivo a celare la mia paura, l’ansia che quella situazione comportava e la mia autocommiserazione.
Il viaggio in auto fu breve e intenso. Nessuno di noi parlò.
Frenai, misi a folle, alzai il freno a mano. Guardavo la strada davanti a me, buia e colma d’ombre scure che si alzavano sui profili delle case, illuminate debolmente da quella luna pallida ma enorme. Attesi che decidesse di muoversi, guardandola con la coda dell’occhio, senza mai spostare il volto.
- Davide.
- Eh…
- Guardami.
Ricordo che mi sentii sopraffatto. Volevo solo che quella situazione assurda finisse, correre a casa mia e stendermi sul letto, cercando di dimenticare gli ultimi venti minuti della mia vita e sperando che quelli non arpionassero gli ultimi dieci anni, facendomi ripiombare in quella spirale di merda.
Pensavo a quello, mentre le sue mani mi afferrarono il mento, costringendomi a girare il viso. I suoi occhi mi stavano letteralmente decifrando, e lo odiavo.
- Tranquillo. Ma adesso io devo pensare.
Sorrisi a mezza bocca, allontanai il volto dalla sua mano e affondai la testa nel sediolino.
Volevo morire.
- Ovviamente…
- Non saltare subito a conclusioni…
- Dovevo stare zitto…
Lei rimase in silenzio, per l’ennesima volta, mentre il mio cuore non accennava a fermarsi un attimo.
- Non preoccuparti… Riposa, stanotte. – mi sorrise.
- Tsk. Impossibile…
- Ho detto solo che devo pensare. Non ho detto nulla di che. Però evitiamo di sentirci, per cortesia.
Irrigidii involontariamente tutti i muscoli. Strinsi i denti e persi il respiro, che finì per nascondersi in chissà quale anfratto dei miei polmoni.
- Va bene. È tardi, Chiara…
Il suo sorriso si asciugò, come il mare sulla battigia. Sospirò, prese la borsa e, nel silenzio più che totale, sparì nella notte.
 
E cominciò il mio calvario.
 
Mi resi conto di avere un problema: dipendevo da lei, e non me ne capacitavo. Non la conoscevo neppure da due mesi eppure mi stava piegando, proprio come mi aveva già piegato quell’altra persona.
Tornai a casa, poco dopo cominciò a piovere.
- Perfetto…
Lasciai il cellulare sul divano, per evitare di fissarlo spasmodicamente, in attesa di quel messaggio che, ero sicuro, mi avrebbe ucciso. Infilai una felpa, perché tutto d’un tratto avevo freddo, e mi stesi, cercando il modo più rapido per addormentarmi e dimenticare tutto il resto, oltre che per anestetizzare la mente, lasciarla libera di vagare senza quelle briglie d’ansia e paura. Chi mi conosceva, però, non mi avrebbe definito una persona “spensierata”.
È che nei problemi, io, ci ho sempre sguazzato.
Ci pensavo e ripensavo, quella notte, cercando di capire per quale motivo non riuscissi mai a fare la cosa giusta per semplificarmi la vita. Mi chiedevo per quale motivo, dopo tanto tempo passato a evitare di dare fiducia a qualcuno, avessi deciso di cedere.
E seppure avessi fatto la cosa giusta, non riuscivo a immaginare la spiegazione per cui oltre a non semplificare nulla, dovessi sempre rovinare tutto.
Pensavo solo a lei, al suo profumo e alla bellezza del suo corpo e, intorno alle quattro e quaranta, mi resi conto che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei fatto l’amore con lei.
Che poi, chiamarlo amore. Lei aveva fatto solo del sesso, aveva aspettato che mi svuotassi per scendere da quella macchina e andare a farsi una bella doccia calda, che l’avesse ripulita dal mio sudore nauseabondo.
Mi facevo quasi schifo.
Passai da steso a seduto, che ormai il soffitto della mansardina dove dormivo era diventato la tela dei miei incubi, in cui si realizzava ciò che più temevo.
 
Ero da solo, di nuovo.
 
Poi tornai a pensare, chiedendomi se fosse lei che volevo, o se fosse stato solo un modo per salvarmi da quella solitudine vorace che mi terrorizzava; forse le avevo detto il falso, forse non ero andato avanti, forse proiettavo in lei le mie speranze, vedendola come la salvatrice della mia vita: Chiara era la valorosa cavaliera che mi trascinava fuori dalle fiamme che continuavano a divampare, in cui tutti i personaggi che credevo essere co-protagonisti non erano altro che comparse, traghettatori di archi narrativi che poi terminavano, e mi vedevano di nuovo solo et pensoso, in attesa di essere fulminato sulla via di Damasco.
Ero stanco.
Affondai il volto tra le mani, cominciando a piangere.
Erano quasi le sei e il sole stava bussando alle porte del cielo, mentre io non avevo ancora guadagnato un minuto di sonno da quella notte. Mi alzai, scolai mezza bottiglia d’acqua in un sorso e rimasi a guardare il cellulare, immobile.
Sbuffai, perché non c’era alcun messaggio.
 
E lì la odiai.
 
“Già. Tu sei qui a dannarti e a distruggerti il fegato con le tue stesse mani mentre lei dorme beata…”.
 
Pensai che avrei dovuto smetterla di farmi trattare così dalle donne.
Mi risedetti di nuovo sul bordo del letto, chiedendomi per quale motivo tutto quelle stesse capitando a me, guardando il cellulare e fumando quel che rimaneva del pacchetto di sigarette che avevo comprato la sera prima.
Chiara era stata solo una parentesi, la passeggera d’un treno che non sarebbe arrivato a capolinea, quindi presi il toro per le corna e, orologio alla mano, sette e mezza appena scoccate, decisi di scriverle, dicendole che quell’attesa mi aveva letteralmente dilaniato, che non avevo chiuso occhio e che mi sentivo uno stupido, condendo il tutto con toni aggressivi e malinconici.
 
Perché oh, io sono così.
Aggressivo e malinconico.
 
Insomma, alla fine di tutto quello le dissi di andare a fanculo perché non mi meritavo di stare in quel modo, soltanto perché “amavo” nel senso più puro del termine.
Come se fosse stata colpa sua, poi.
La risposta arrivò poco più di un’ora dopo, che erano quasi le nove; mi disse che doveva parlarmi e che voleva farlo da vicino ma il mio rilancio fu immediato e furente. Sentivo le tempie esplodere.
 
- “Non me ne fotte un cazzo delle tue spiegazioni. Ci conosciamo da manco due mesi, non c’è bisogno che mi lasci da vicino. Dimmi quello che devi dirmi e non farti più sentire”.
 
Guardavo come un folle lo schermo, mentre lei digitava la risposta, che non tardò: mi disse che dovevo calmarmi, che voleva parlarmi e che non voleva che le cose finissero in quel modo.
Mi fermai, dovevo cercare di gelare l’inferno che avevo nello stomaco.
 
- Quando vogliamo incontrarci? – le chiesi.
- Oggi pomeriggio andrebbe bene?
- Fino a oggi pomeriggio morirò, Chiara. L’ansia mi sta consumando.
- Va bene… esco a comprare le sigarette a mamma e passo da te.
- Già che ti trovi prendile anche a me. Le ho fumato tutte, stanotte.
 
E quindi nulla, dopo esserci dati appuntamento in un luogo tranquillo poco lontano da casa mia, mi avviai a piedi, con le mani nelle tasche e le cuffie nelle orecchie, per distendere un po’i nervi.
E fu lì che realizzai che la mia felicità non potesse dipendere da qualcun altro.
Come riusciva una ragazza così piccola e silenziosa a spaccare senza sforzo una montagna d’uomo come me?
Come poteva, senza impegno alcuno, cattiveria o rabbia, tagliarmi in due?
Pensavo di essere più resistente. Cazzo, pensavo che ciò che avevo passato mi avesse forgiato, e avesse levigato i miei spigoli, ma la verità era ben lontana.
Capii che un uomo che crolla può ricrollare, e che quando tocchi il fondo sotto c’è ancora spazio.
Si può sprofondare sempre di più.
Basta impegnarsi.
Credevo che la mia vecchia relazione avesse finito di fare danni ma la verità e che io ero la dimostrazione vivente che le cicatrici restano e, a volte, continuano a bruciare sulla pelle.
Chiara, a cui in quel momento volevo dar fuoco, non aveva alcuna responsabilità delle mie ferite. Se il bagaglio che mi portavo appresso era così pesante, beh, non era colpa sua.
 
Volevo fumare, Eminem correva nelle mie cuffie e la macchina della donna si ferma a pochi metri da me. Specchiai il mio riflesso nella carrozzeria lucida della portiera, pensando che le mie occhiaie fossero così marcate da sembrare tatuate.
Oltre i finestrini, Chiara mi fissava, con gli occhi nascosti dagli occhiali da sole. Sorrideva dolcemente, mentre il vetro si abbassava.
- Ue, bello. – mi fece. – Sali.
Il sole in quel momento mi stava scaldando, quasi come se mi stesse asciugando le ossa.
- No, grazie. Sto bene.
La sua prima reazione fu quella di abbassare lo sguardo. Inarcò le sopracciglia, umettò le labbra e annuì.
- Allora scenderò io.
Spense l’auto e mi raggiunse. Io non sapevo neppure come salutarla, se con un cenno della testa o con un forse ultimo e appassionatissimo bacio. Lei però risolse il mio problema, avvinghiandosi attorno al mio collo e baciandomi sulla guancia destra.
- Hey… - mi disse.
- Fai presto.
Mi guardò, annuì, e in sostanza mi disse che mi amava anche lei. E in pochi attimi vidi diradarsi quella solitudine fumosa che avevo provato fino a poche ore prima.
- Sono stato di merda…
- Lo posso immaginare. Scusami…
Mi baciò appassionatamente, costringendomi ad abbassarmi su di lei. La strinsi, il suo profumo inebriava i miei pensieri.
- Perché tutto questo? - poi le chiesi.
Si limitò a fare spallucce, e in quel momento me lo feci andar bene.
 
La risposta alla domanda arrivò diversi mesi dopo quando, forse un po’ affrettatamente, decidemmo di prendere casa insieme.
Col senno di poi pensai che quella mia mossa, quella rassegnazione e quella successiva richiesta di risoluzione l’avessero messa con le spalle al muro, anche perché Chiara imparò a fidarsi di me, lentamente, mostrandomi un lato di lei diverso, meno ermetico, meno erotico e più romantico.
E io, che dal canto mio non avevo mai condiviso i miei spazi con una donna, non riuscivo a non rimanere affascinato ogni giorno dal modo in cui costruiva la magia che mi scagliava addosso quando la vedevo. Il suo profumo riempiva le stanze del piccolo appartamento che avevamo preso in fitto, che cominciammo lentamente a riempire, non senza qualche difficoltà.
E tutto pareva innaturale, lei dormiva silenziosa accanto a me, sensuale e innocente, piccola e infreddolita. Quando al mattino mi svegliavo, per andare in ufficio, cercavo inutilmente di fare il meno rumore possibile, ma quella finiva per aprire debolmente gli occhi e sorridermi.
- Abbracciami. – mi diceva, prima che uscissi di casa.
Ed era la cosa migliore del mondo, il suo calore sulla mia pelle, quando dovevo prendere coraggio per affrontare il mondo.
Me la fece conoscere in un altro modo, me la fece riscoprire: sotto quella dura scorza di diffidenza viveva una donna fragile e bisognosa d’attenzioni.
 
Come tutti, del resto.
Soltanto che qualcuno non riesce ad ammetterlo a se stesso.
 
 
“Tra i motivi per cui si desidera smettere di fumare ci sono gli effetti negativi del fumo sulla salute. Ogni sigaretta contiene almeno seicento ingredienti dalla cui combustione originano oltre settemila sostanze dannose alla salute, di cui almeno settanta cancerogene. Tra le principali vi è la nicotina, alcaloide con proprietà psicoattive in grado di indurre dipendenza. In pochi secondi questa sostanza attraverso il sangue arriva al cervello dove favorisce il rilascio della dopamina, un neurotrasmettitore del cervello che genera una sensazione di piacere e gratificazione.”.
 
 
Cosa significava, per me, avere Chiara lì?
Beh, era una cosa particolare.
La cosa comportava ovviamente dei vantaggi, perché essere in quella fase zucchero e cannella e ogni cosa è bella e avere una casa a disposizione implica il fatto che i vestiti erano spesso sul pavimento.
I miei.
Ho imparato quanto precisa e puntigliosa fosse. Piegava tutto e poggiava sul comodino, poi si lasciava andare ai suoi impulsi, e la cosa mi faceva anche ridere. E poi riuscivamo a recuperare nei tempi morti tutto quello che per forza di cose non riuscivamo a viverci prima, distanti, come le chiacchiere nel bagno o i dispetti mentre uno dei due cucinava.
Insomma, ci divertivamo, se predisposti.
Le persone però non sono sempre così. Non le spegni e accendi a tuo piacimento.
Nonostante fosse lì, fosse mia e mi amasse, avevo come l’impressione che avesse sempre un piede fuori da quella casa, pronta per tornarsene da dov’era venuta.
E la cosa non era vera.
La cosa non era vera per niente, ma ciò che era successo mi faceva sentire coinvolto il cinquecento percento più di lei, dandomi la certezza quasi matematica che quello che provassi io non fosse totalmente ricambiato.
Nel senso: le persone certe cose le fanno coi propri ritmi, alle proprie velocità.
Mica potevo pretendere da lei la stessa intensità che impiegavo io?
 
Appunto.
 
Avevo paura.
La vedevo taciturna, meno entusiasta, più ermetica, chiusa.
Ballavo il tango con le paranoie e non riuscivo a capire le motivazioni di quei silenzi.
Mica ero abituato, io, ai silenzi.
Quando litigavo io urlavo, sbraitavo. Pensavo che fosse meglio a lasciare che i piatti volassero piuttosto che a rimanere zitti e scomodi.
Certo, ripeto, io sono io e gli altri sono gli altri.
Chiara ci sguazzava, in quelle situazioni. E non era colpa sua, era fatta così, ma la odiavo. Lei mi puniva per ogni nostra differenza, credevo, e l’ansia di vederle chiuderle le valige e scappare via per sempre mi divorava. Non volevo tornare a vestire quei panni d’apatia, per essere lo spettro muto e insoddisfatto di me stesso.
 
Ricordo che un pomeriggio lei avesse i nervi a fior di pelle, prima ancora che io rincasassi da lavoro. La sua giornata fu pesante, con la caldaia che non funzionava bene, e il tecnico che ci rimbalzava l’appuntamento ormai da tre giorni. Poco prima che uscissi di casa per andare a lavorare, stava urlando al telefono con sua madre, solo il padreterno sa perché; forse dipendeva dal fatto che al negozio dove lavorava le avessero cambiato i turni senza preavviso.
 
- No, Emilio! Ho bisogno di preavviso! Anche io ho i cazzi miei da fare!
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Insomma, aveva ragione.
Ma io, ignaro, che ero anche un tantino felice per una, tutto sommato, buona giornata di lavoro, al mio ritorno, invece di una ragazza contenta di vedermi, ritrovai seduta sul divano una vipera col dente avvelenato.
Mi bastò una parola fuori posto, mi lanciò un rimprovero tra i denti, sbuffò e si chiuse in se stessa.
E non mi parlò per tutta la giornata.
Ritenevo esagerate quelle reazioni ma tenevo botta, anche se odiavo ammettere a me stesso che situazioni del genere cominciarono a diventare sempre più frequenti. Quell’ottobre litigavamo tipo quattro volte alla settimana.
Ma per cazzate, eh… tipo per la tavoletta del cesso alzata, o una risposta mancata al cellulare.
Una persona normale avrebbe letto la situazione e giustificato il tutto senza andare nel panico, ma io avevo paura che mi lasciasse e quindi, invece di fare da telone d’emergenza, tipo quelli dei pompieri, finivo per diventare il gattino bloccato sul ramo più alto dell’albero.
 
Non posso né scendere né salire!”.
 
Era fine ottobre. Lo ricordo perché era passato da poco il compleanno di mia sorella e un freddo artico aveva investito la città, costringendoci ad accendere i primi termosifoni.
 
- Ci vogliono i condizionatori.
- Sì, ci organizziamo e li compriamo.
 
Lei era ritornata dal lavoro a ora di cena, come praticamente ogni sera. Io avevo messo a cucinare qualcosa, mo’ non ricordo precisamente cosa. Forse spinaci e qualcos’altro; ricordo però che lo aveva chiesto lei, in chat. Perché a lei ogni tanto venivano ‘ste voglie strane di cibo salutare.
Tipo “mhm che buono il petto di pollo scondito. Le polpette al ragù le mangiamo domani, dai…”.
Era stanca, una crema, che anche quella sera qualcuno l’aveva raccolta col cucchiaino, liquefatta. Mi aveva salutato con un rantolo, mi aveva consegnato un mezzo bacio alzandosi sulle punte e aveva appeso il cappottino nero con quella vistosa fibbia sull’addome.
La guardavo dalla cucina mentre si svestiva, nel salotto, poi sparì in camera ma la immaginavo mentre sistemava ordinatamente le sue Adidas nere nella scarpiera, levava i vestiti e li riponeva nel cesto dei panni sporchi. Sarebbe sicuramente andata a prendere il pigiama di pile più antisesso che possedeva nei suoi armadi per poi ripresentarsi davanti a me. Intanto, misi un po’ d’olio nella padella, lei mi dribblò, si chiuse in bagno e, proprio mentre la serratura scattava, sentii il rumore di una vibrazione, sulla mensola accanto al piano cottura.
Era il suo cellulare.
Lo guardai.
 
Fermati.
No.
 
Cioè, sapevo che fosse sbagliato. Io stesso mi sarei arrabbiato come un pazzo se l’avessi scoperta.
Guardavo il led che lampeggiava a intermittenza, e poi un’altra vibrazione.
 
Ma chi cazzo ti sta scrivendo, a quest’ora?
 
Mi chiedevo il perché di quei messaggi, come se fosse improbabile che qualcuno le scrivesse.
Sbuffai, calmai i bollenti spiriti e tornai a cucinare.
 
Bravo. Così.
 
Poi però vibrò di nuovo e lo feci.
E quando lessi il nome FEDERICO VODAFONE il mio sangue si raggelò.
 
Cioè, pensai, lei si sta sentendo di nuovo col suo ex?
 
Mi facevo questa e altre milleuno domande, mentre un leggero tremore investì il mio corpo nella sua intera lunghezza. Le mani tremavano, mentre inserivo il codice di sblocco dello schermo, e le dita unte lasciavano tracce che poi avrei levato sul vetro.
 
Settantottotretrentadue.
Apri la chat. Apri la maledetta chat.
 
Anche se era sbagliato, vedere quel nome quasi legittimò quella mancanza di fiducia e di rispetto che stavo mettendo in atto.
Perché, alla fine, quello era.
Chiara era strana da un paio di settimane a quella parte, parlavo con lei ma mi sembrava di catturare farfalle con un retino senza rete e le mie paure non facevano che aumentare.
FEDERICO VODAFONE era la spiegazione più dolorosa e razionale, in quel momento, al comportamento strano che stava avendo.
Gli occhi voraci raccoglievano le parole che quello le aveva inviato nel corso dei due mesi precedenti, e aveva cominciato al compleanno di Chiara, quando lui le aveva fatto gli auguri. L’aveva contattata quasi tutti i giorni, poi, per oltre quaranta messaggi, dicendole che gli mancava, che ricordava le notti che avevano passato assieme, degli attimi indimenticabili e della voglia di futuro che i due condividevano.
Lei non gli aveva mai risposto.
Poi, l’ultimo messaggio, quello appena arrivato, vedeva l’uomo ammettere di essere stato uno stronzo e di aver sbagliato completamente a comportarsi in quel modo con lei. Diceva che il suo atteggiamento era sempre stato sbagliato e che voleva potervi porre rimedio.
Voleva scusarsi e avrebbe capito se lei non l’avesse perdonato, ma in sostanza le chiedeva di andare a prendere un caffè o qualcosa di alcolico per fare due chiacchiere, come succedeva un tempo.
 
“Ma un tempo questi due scopavano, mica chiacchieravano...”.
 
E poi, come se questa cosa non mi avesse flagellato abbastanza, decisi di salire, andare indietro nel tempo praticamente, a otto, dieci mesi prima, in cui quei due si dicevano le classiche cose da fidanzati, tra mezze liti e frasi spinte, fotografie non cancellate, scollature vertiginose, addominali scolpiti e foto di viaggi infrasettimanali in posti sperduti d’Italia.
E la cosa mi faceva arrabbiare.
Era stupido, lo so, ma leggevo le parole della mia donna, identiche a quelle che diceva a me, e per qualche strano motivo non riuscivo a non odiarla.
Mi sentivo avvilito, e non riuscii a nascondere quella delusione, pari forse quasi a quella di un tradimento, quando colto con le mani nel sacco, Chiara aveva spalancato la porta del bagno.
Ora non so perché avesse aperto la porta, forse aveva dimenticato qualcosa, ma quando mi poggiò gli occhi addosso, che mantenevo il suo telefono tra le mani con l’espressione di chi aveva appena scoperto un omicidio, non poté fare a meno di spalancare occhi e bocca.
Forse aveva capito.
Indossava solo un asciugamano, avvolto attorno al seno, mentre i capelli, sciolti, spettinati, sporchi, le nascondevano il viso sciupato dalla giornata di lavoro.
- Da… Davide… Ma cosa stai facendo?
Ero imbarazzato e contemporaneamente inorridito. Guardavo il cellulare e il nome di quell’uomo, vedevo le mani di Federico stringere il corpo della mia donna e la cosa mi faceva sentire quasi evirato.
Gettai quel Samsung sul tavolo della cucina, con le labbra che mi tremavano, e la guardai negli occhi.
- Il tuo ex ti scrive da due mesi… e tu non mi hai detto nulla…
Ma Chiara, invece di gestire quella cosa, puntò il dito contro la mia evidente colpevolezza.
- Stai spiando il mio cellulare! Ma che cazzo, Davide!
- Ti scrive da… da un sacco di tempo…
La fissai per un secondo di troppo. Quella spostò lo sguardo.
- Io non ho fatto nulla, Davide…
- Ti ha appena invitato a prendere qualcosa da bere.
– E tu pensi che ci andrò?!
Passò un lungo secondo, in cui cercai di mantenere la calma e di raggiungere invano uno stato di lucidità. Tuttavia ero troppo inquinato per poterlo raggiungere. Il cuore continuava a battere a ritmi irregolari, tachicardico. Gli occhi si muovevano con difficoltà nelle orbite, zero salivazione, la lingua rimaneva incollata al palato.
- Tu avresti... avresti dovuto dirmi di lui.
-  A che scopo?! Per litigare ancora?! Non facciamo altro che litigare!
Poi persi la presa. Mi arrabbiai. Agli occhi di Chiara, la mia espressione dovette essere mutata in pochi decimi di secondo.
- E ora non stiamo litigando?! Che cazzo dovrei pensare, Chiara?! Che il tuo ex sta provando a fottere la mia donna e tu non...
- Io cosa?! Non gli ho detto nulla! Non gli ho mai risposto!
- Non l’hai nemmeno bloccato, però!
Lei rimase in silenzio, mentre io sentivo le forze venir meno, come se le gambe non mi sorreggessero. Scura in volto, con quell’espressione che aveva in viso, che voleva dire tutto e contemporaneamente niente, si avvicinò al tavolo. Sistemò meglio l’asciugamano, poi tornò a guardarmi negli occhi.
- Tu non ti fidi di me… - disse poi, portando le mani ai fianchi. – Hai controllato la conversazione col mio ex, come se ti stessi dando motivi per...
- Eri strana, Chiara. Sono settimane che non ti riconosco più…
Mi guardava negli occhi, e percepii chiaramente la frattura, lo specchio che si rompeva in mille pezzi, relegando lei, come se fosse sempre stata il mio riflesso, dall’altra parte.
Era distante, lo aveva capito. E provava dolore, mentre io volevo urlarle contro.
Lei si limitò a sospirare. Si avvicinò a me, prese il cellulare dalle mie mani e fece cenno di no con la testa.
- Io sono stanca... Sto lavorando quindici ore al giorno ma la mia paga resta una merda. Non ho un’ora libera per andare dal parrucchiere, o dall’estetista, o per fare qualsiasi altra cosa. Mi limito solo a… a lavorare e a dormire... e quando torno a casa, la sera, l’unica cosa che voglio è stendermi, perché ho passato tutta la giornata in piedi. Ecco perché ti sembro strana...
Abbassai lo sguardo, senza parlare. La sua spiegazione era più che valida, ma ciò che era successo con FEDERICO VODAFONE, per me non aveva senso. I miei occhi vacui le infersero la più tremenda delle pugnalate ma tant’era: aveva ragione, quando diceva che non mi fidavo più di lei. Lo avevo capito in quel momento e lei se n’era accorta.
Versò lacrime incandescenti dalle rime sporche di mascara dei suoi occhi, rigando le guance di nero. Distolse lo sguardo, compresse il respiro e strinse denti e pugni.
- E allora vaffanculo anche tu, Davide… - concluse, sbuffando. Si voltò, spogliandosi in mezzo al corridoio e chiudendo l’acqua della doccia.
Un minuto dopo aveva preso una borsa, l’aveva riempita con dei vestiti e mi aveva detto che sarebbe tornata a prendere il resto quando io non ci sarei stato.
 
Sbatté la porta con una forza immane, tanto che sobbalzai.
Pensai che dovessi sedermi.
Pensai che dovessi spegnere il gas, ancora acceso.
Pensai che forse avessi sbagliato, o forse no. Non capivo, e per quanto ci provassi mi sentivo in un labirinto immerso in un banco di nebbia.
 
Avevo cercato di cenare, inutilmente, e di metter su un film che mi avrebbe distratto, ma Chiara non c’era, non sapevo dove fosse, non sapevo dove sarebbe stata il giorno dopo e non sapevo se sarebbe ritornata da me.
Pensai che dovessi spegnere la testa, dormire forse mi avrebbe aiutato, ma mi mancava la sua presenza in quel letto, e il suo profumo aveva impregnato anche le pareti.
Crudele.
Non riuscivo a riposare, a farmi andare bene quella cosa, a rassicurarmi. Perché sì, perché le sue cose erano tutte lì e sicuramente sarebbe tornata, almeno per riprenderle, e forse avrebbe cambiato idea, forse avremmo parlato.
Vivevo di quella speranza, anche se sapevo quanto fosse risoluta, orgogliosa, ostinata, pronta a saltare nel vuoto e ad aggrapparsi alle nuvole pur non di non morire.
 
Io non ero così.
Io ero immobile.
 
Quella notte fumai trenta sigarette, vidi l’alba e cercai di trarne conforto. Mi lavai, cercai di chiudere il buco in pancia con qualche biscotto e un bicchiere di latte e di rendermi quanto più presentabile, perché quel giorno in ufficio c’era un appuntamento importante, il che forse fu anche un bene, perché mi distrasse da quella lama che avevo infilato nella pancia.
Quando tornai a casa, però, le sue cose non c’erano più.
 
Ebbene, quello fu un periodo strano, della mia vita.
Mi sono sempre vantato di riuscire a gestire, di saper trovare una via, un modo.
Una soluzione. Sì, ma ai problemi degli altri… Quando al centro del mirino c’ero finito io non sapevo dove sbattere la testa.
Presi una settimana di ferie, perché dovevo pensare, ma passai la maggior parte del mio tempo raggomitolato nelle coperte, con gli occhi spalancati e pieni di lacrime. Cercavo di capire perché, nonostante non fossi io quello che aveva sbagliato, mi ritrovassi in quel modo. Quali errori avevo commesso? Era lei che mi aveva nascosto quell’informazione, che aveva omesso tutto. È stata lei quella scorretta.
Vivevo con una morsa perenne allo stomaco, una ceneriera sul comodino che svuotavo ogni sera e un senso d’inadeguatezza che depistava la mia necessità machista di essere forte e strafottente, privo di crepe sentimentali o emotive.
Raggiunsi l’apice della mia disperazione quando mi resi conto di non potermi pettinare, perché io e Chiara condividevamo la spazzola.
 
- Butta la tua, che fa schifo. Usiamo la mia.
 
- Grazie tanto, stronza…
 
Spettinato, sconsolato, cercavo di fare ordine tra le macerie di Chiara, e di permettere al sole pallido di novembre di baciarmi le guance, ma nulla cancellava il mio spaesamento; ero smarrito e impotente, e avrei voluto urlarlo al mondo ma non riuscivo neppure a respirare, e respirare era importante, fondamentale, quando hai la pece nei polmoni e la bocca ostruita da vetro, sassi e mozziconi di Merit.
Dovevo respirare, dovevo soltanto prendere ossigeno, evitare di soffocare, ma era strano, lenzuola come sabbie mobili, fumo come nebbia, il silenzio come rumore, il cuore che batteva a giorni alterni e la porta di casa che diventava sempre più lontana.
Panico, dolore, fame.
Confusione.
 
Dovevo smettere di pensare.
Volevo Chiara e basta, altrimenti non avrei più dormito. Non aveva più risposto ai miei messaggi, e dopo tre telefonate andate a vuoto mi aveva bloccato ovunque.
Mi reputavo tanto forte da alzare le montagne ma, obiettivamente, riconobbi di non riuscirci più.
Ero in crisi di astinenza. Il mio corpo non rispondeva più.
 
- Macché, sono diventato un tossico, adesso?
Fu in quel momento che aprii gli occhi.
 
Che strana dipendenza era, quella?
 
Non lo sapevo.
 
Pensavo soltanto che non mi fosse mai capitato. Che l’età stesse avanzando e una progressiva paura di rimanere da solo stesse condizionando il mio modo di vedere quella relazione?
Forse stavo idealizzando Chiara? Forse avevo valutato quella donna in maniera sbagliata? Era possibile che mi stesse usando? Che mi stesse prendendo in giro, sfruttando il fatto che io avessi bisogno di lei come un eroinomane della propria dose, e che la mia necessità di sentirla scorrere nelle vene avesse posto un filtro rosa davanti ai miei occhi?
Insomma, non avevo ancora dimenticato i danni dell’amore, sapevo che nuocesse gravemente alla salute, come le sigarette che fumavo, ma la sensazione che provavo quando me ne accendevo una era stupenda. Stavo bene. Continuavo a fumare e continuavo ad amare, perché era bello riempire i polmoni di zucchero filato e dimenticarsi di tutto, anche solo per qualche attimo, prima di scontrarmi con la fredda realtà, la realtà congelata, come un lunedì di dicembre alle sei e mezza del mattino, quando c’è il ghiaccio sulla macchina e finiamo per rompere i tergicristalli nel tentativo di rimuoverlo dal parabrezza. Insomma, tutto ‘sto giro per dire che le coppie normali litigano.
Litigano sempre.
In continuazione.
Perché le persone che cominciano una relazione sono entrambe alla guida di un’auto, in cui uno mantiene lo sterzo e l’altro spinge i pedali, ma uno non vede la strada e l’altro non arriva al freno e all’acceleratore.
Entrambi però vogliono arrivare a destinazione. Cioè, la cosa è importante.
Certo, capita di tanto in tanto che qualcuno approfitti solo per un passaggio, ma tant’è, la vita è così. A volte di va di culo. A volte va a finire che almeno dividono la benzina.
Io invece ero rimasto solo con le mie paure, Plutone in coda ai pianeti, lontano dal mio sole.
 
*
 
“Chi decide di smettere di fumare deve necessariamente valutare i costi del fumare e i benefici che si ottengono smettendo:
 
Ragioni per fumare:
  • Il fumo mi rilassa e mi dà energia
  • È un’occasione conviviale, un rito quotidiano
  • Posso smettere quando voglio
  • Tanto il mondo è inquinato
  • Non saprei come farne a meno
Ragioni per smettere:
  • Sento il respiro sempre più affannato
  • Ho paura di ammalarmi
  • Voglio sentirmi libero da una dipendenza
  • Sento di dare fastidio agli altri
  • Voglio migliorare l’aspetto fisico ed estetico
  • Costa troppo”.
 
 
Beh, quella situazione era una merda.
Avevo un problema che non riuscivo ad affrontare nel migliore dei modi, perché mi serviva Chiara, volevo Chiara e l’impossibilità di averla non faceva altro che distruggermi fisicamente, mentalmente ed emotivamente.
Però, pensai, capire di avere un problema fa già parte della soluzione. Capii che il mio atteggiamento fosse sbagliato, e che effettivamente erano passati tanti, troppi giorni, perché la situazione si mettesse a posto.
Mi comportavo proprio come un fumatore. La sigaretta toglie più di ciò che dà.
Anche con Chiara mi stavo comportando in quel modo, sperando e continuando a comportarmi con lei meglio di quanto mi comportassi con me stesso.
E con questi presupposti non ne valeva la pena, perché va bene che le relazioni funzionano così, coi suoi bisogni prima dei miei, le sue paure prima delle mie, insomma, lei prima di me, ma non sarei riuscito a fumare tutto il pacchetto prima di svuotarmi completamente.
Mi comportavo male, con me stesso.
E prima non lo capivo, ma col senno di poi comprendo quanto fosse sbagliato. Dovevo accettare che l’amore fosse così, che la vita andava avanti, e potevo continuare con altre mille frasi di circostanza ma l’unica che riesco ad accettare oggi, che ne sono fuori, è questa:
 
Un errore è un errore solo se te ne accorgi.
 
Io, in quel momento, tra panico e ansia, non riuscivo a vedere la luce.
Quella la vidi soltanto qualche tempo dopo, capendo che non poteva essere la presenza o l’assenza di una persona nella mia vita a far sorgere il sole al mattino.
 
Dovevo essere io, il mio sole.
Dovevo essere io a trovare la ragione per andare avanti.
A prescindere da Chiara, dovevo essere io a sconfiggere le mie paure: i miei panni puzzavano di fumo da troppo tempo.
 
 
“La motivazione è un desiderio di cambiamento che può variare per intensità da un momento all’altro e da una situazione all’altra. Rispetto al fumo essa è collegata al grado di consapevolezza e di determinazione a proseguire o a smettere di fumare. L’intensità della motivazione a smettere di fumare è estremamente variabile poiché dipende da molti fattori: biologici, culturali, sociali. Le abbiamo fornito un aiuto per riflettere sulla paura di soffrire troppo, di non farcela, di fallire e, soprattutto un pretesto, per analizzare le sue difficoltà, le sue risorse e le alternative al fumo. Siamo giunti alla fine della prima fase dove restano solo le sigarette veramente “importanti”. Il percorso continua: per smettere completamente di fumare le chiediamo di eliminare tutte le sigarette rimaste.
Entriamo nella
 

 
 
- FASE 2
La fase d’azione
 
La fase dell’azione inizia quando lei ha deciso che è il momento giusto per smettere di fumare. Molte persone provano più volte a smettere di fumare prima di riuscirvi in modo definitivo. Da ogni tentativo si può imparare cosa aiuta e cosa può ostacolare la riuscita.
Se ora ha ben chiaro quali sono gli svantaggi del fumare e i vantaggi dello smettere e sente di aver deciso: scelga la migliore strada per cambiare.”.
 
 
La buonanima di mio nonno pareva essere molto ferrato sui detti. Nel senso che ne aveva uno per ogni occasione. A volte diventava snervante.
Quando dovevo fare la cosa giusta mi ripeteva sempre questa frase:
 
“Le buone ragioni devono far spazio a ragioni migliori”.
 
Detto questo dovevo riuscire a capire come riorganizzarmi. Insomma, la volontà di farlo c’era. Tuttavia casa mia era il mausoleo di Chiara, e tutto ciò che c’era me la ricordava.
 
 
“In questa fase è importante chiedere aiuto: comunichi la sua scelta ad amici e parenti perché la incoraggino e non fumino in sua presenza e parli con il suo medico di famiglia, con gli specialisti nel settore, chieda supporto al Telefono Verde contro il Fumo.
Utile è cambiare le abitudini: consumi i pasti in luoghi o modi diversi, beva tè al posto di caffè, utilizzi una strada diversa per andare al lavoro.”.
 
 
- Damnatio memoriae.
- Prego? – domandai, confuso.
Vincenzo era il mio migliore amico, quello con la fantasia. Lavorava in una software house, aveva lasciato la facoltà d’ingegneria informatica per il denaro rapido e onestamente non lo biasimavo, dato che probabilmente avrei fatto la stessa cosa, se avessi vissuto in una famiglia particolare come la sua. Tutte persone deliziose, eh, ma con ruoli ben definiti e personalità assolutamente asfissianti; lui soffriva la mancanza di spazio di manovra però non somatizzava, mascherava una profonda fragilità di fondo con quella che sostanzialmente definirei un’attitudine da testa di cazzo.
Quel giorno si muoveva a casa mia come se fosse appena sbarcato sulla luna. Poggiava i piedi in maniera attenta, al centro di quelle mattonelle bianche e smaltate, per poi fermarsi in mezzo al salotto e sospirare.
Portò le mani ai fianchi e mi guardò.
- Devi fare come i romani, che cancellavano il passaggio dell’esistenza di qualcuno per evitare che il suo nome venisse riportato ai posteri.
Spalancai occhi e bocca. Era palese che gli invidiassi la fantasia. E il sorriso. Vincenzo ha un sorriso meraviglioso.
- Non ho capito, Enzù…
- Questo perché sei stupido, Davide.
- Ovviamente…
- Devi dimenticare Chiara.
Gli risi in faccia.
- Ebete. – mi ammonì. – È come se il Davide di oggi facesse un favore al Davide di domani, sradicando ogni traccia di quella nana infame dalla tua vita.
- In questo caso dovrei…
E mi guardai attorno: le sue foto erano ovunque, il suo profumo aveva intriso cuscini e mobili e alcuni dei suoi gingilli abitavano ancora le mensole.
- Butta tutto ciò che non è necessario. – mi anticipò lui. – Via le foto… - e si avvicinò alle pareti, staccando le cornici dai chiodi e mettendomele tra le mani.
- Aspè, prendo una busta.
- No, mantieni, tra poco ti ci faccio saltare sopra.
Rideva. Mi stava dando del ciccione, ma andava bene così, lo conosceva da più di venticinque anni e non aveva mai smesso di prendermi per il culo. Ma se gli avessi chiesto un rene, in quel momento, se lo sarebbe stracciato a mani nude.
In ogni caso quel giorno riempimmo due buste di suppellettili e fotografie, di cose inutili e profumatori temporizzati dall’odore di frangipane.
Dannati frangipani. Casa mia sembrava un cazzo di campo di fiori.
 
Comunque, avevamo letteralmente rovesciato il salotto.
 
- Cioè? Il mobile tv di qua?
- No, Davide, di fronte.
- Ma poi ho il sole alle spalle!
- Ma se ci sei solo di sera, a casa!
Aveva una logica, anche se era sbagliato. Insomma, mi convinsi a spostare anche mobili, divani, tavolini e poltrone. Dovetti smontare le mensole, rimontarle dall’altra parte e, preso dalla foga, decisi anche di dare una mano di vernice a quella parete.
Sì, quella della tv. Un bel celeste, che mi piaceva tanto, come colore.
- Solo una parete? – mi chiese, stranito.
- Ora si porta così. Cosa vuoi capirne, tu, che hai i poster di Deadpool, nella tua stanzetta.
Mi guardò malissimo.
- Parli così solo perché Chiara il tuo non te l’ha fatto appendere.
Alzai le mani: era l’ennesimo k.o. tecnico di quella giornata.
 
Due giorni dopo casa mia profumava di brezza marina e fiori d’arancio grazie a un deodorante con temporizzatore, di quelli che spruzzavano infami nel silenzio più che totale. Una volta entrati dalla porta non avevo più la stessa impressione dei mesi precedenti.
Vincenzo aveva ragione: funzionava.
Stavo cercando lentamente di mandare al macero tutti i ricordi che avevo di quella ragazza, e intendo del quotidiano, tipo di lei che si struccava sulle punte perché lo specchio era un po’ troppo in alto, o della puzza della sua sigaretta elettronica, che era decisamente peggio dei frangipani.
O di come cucinava, coi capelli alti sulla testa, legati alla bene e meglio, scalza e con una mia maglietta addosso, fin troppo lunga.
 
 
“Ricordi che le maggiori difficoltà si evidenziano entro le ventiquattro ore dall’ultima sigaretta ed il punto più critico si verifica nei primi sette giorni. I sintomi dell’astinenza tendono ad attenuarsi dalla prima settimana ai primi trenta giorni, anche se le sensazioni di malessere possono durare anche per alcuni mesi.
 
Da Sapere:
  • Il desiderio impellente di sigaretta dura solo pochi minuti;
  • Bere un bicchiere d’acqua “spegne” il desiderio di sigaretta;
  • Distrarsi nel modo che più piace fa superare questo momento.”.
 
 
Ero sul divano, di sera, e il sole non mi infastidiva. Il Napoli giocava l’ennesima partita infame contro la penultima in classifica e io intanto pensavo che, fattivamente, fosse ancora tutto in ballo: c’erano due cose che dovevo fare con urgenza e la prima era, sicuramente, ricostruire parte di quella psiche che si era volatilizzata durante il crollo verticale del mio autocontrollo.
La seconda era implementare, capire e, soprattutto, migliorare.
Perché se non ci si evolve si rimane gli stessi e poco ci avrei potuto fare, la prossima Chiara si sarebbe potuta chiamare Francesca, Michela, Giovanna, Sabrina, o anche Ugo, e io sarei rincappato nello stesso ignobile errore.
 
“Ripeti con me, Davide: la tua felicità è solo una tua responsabilità”.
 
Quindi non ci sarebbe stata Chiara che teneva, né Francesca, Michela, Giovanna o Sabrina.
E neppure Ugo.
Quella paura che avevo di rimanere da solo era sicuramente giustificata, ma avrei dovuto imparare che la solitudine non era una punizione, qualcosa da subire soltanto passivamente; poteva diventare anche una scelta e a volte era una benedizione.
Resettare non significava radere al suolo.
Dovevo solamente recuperare la parte più lucida di me, la più brillante, nascosta sotto alla patina nera di paura e fuliggine che avevo lasciato accumulare nel tempo.
 
Io non ero quello.
Io non ero il cerbiatto impaurito.
Fanculo Bambi, io ero il cacciatore.
 
 
“Si distragga dal desiderio di fumare. Parli con qualcuno, faccia una passeggiata, beva un bicchiere d’acqua o mastichi una gomma o una caramella. Riduca la tensione. Faccia esercizi di respirazione, un bagno, ginnastica oppure legga un libro. Beva molta acqua e altri liquidi non zuccherati e mangi più frutta e verdura che contengono vitamine e sali minerali.”.
 
 
E così decisi di darmi da fare; mi iscrissi in palestra, persi gli ultimi chili e andai da un nutrizionista, che mi strutturò una dieta che probabilmente mio nipote di sei anni avrebbe rifiutato di mangiare, poi frequentai un corso di cucina, per imparare a preparare meglio ciò che probabilmente mio nipote di sei anni avrebbe rifiutato di mangiare.
Ah, e decisi di diminuire con le sigarette.
Inizialmente fu drastico, ma ho avuto la fortuna, nel tempo, di vivere della mia determinazione.
Ora, se dico no è no.
 
Certo, di tanto in tanto ancora vedevo lo spettro di Chiara girare per casa. Sognavo la sua risata e i suoi occhi, belli come il sole, poggiati su di me.
Qualche volta fissavo il cellulare, il suo numero, sperando che mi avesse sbloccato. Combattevo con la voglia di cercare il suo nome su Instagram, per vedere il suo volto, e affondare di nuovo le mani in quel ricordo caldo e piacevole, ma poi mi fermavo.
Dovevo andare avanti.
Cominciai a lavorare sul fatto che dovessi accettare la sua assenza, ma delle volte soccombevo alla malinconia e ai ricordi. Di tanto in tanto trovavo un suo codino per casa, o mi tornavano per la mente, dal nulla, cose insensate che riconducevo a lei, al suo aspetto, ai suoi modi di fare, a quelli di essere.
Il mio approccio non funzionava del tutto. Cioè, a volte toppavo, ma ero certo che col tempo ce l’avrei fatta.
Ero sicuro che, proprio il tempo, sarebbe stato un galantuomo.
 
 
“Il tempo è un suo alleato. Non si scoraggi.”.
 
 
Appunto.
Infatti, anche se sgomitando, arrivai a marzo. Stavo meglio.
Avevo riacquisito sicurezza e voglia di fare e il ricordo di Chiara non era più così nitido. Certo, alcuni suoi aspetti erano ancora vivi nel mio quotidiano ma avevo imparato ad accettarli, cercando di evitare farmi assalire dal malessere.
Qualche volta capitava ancora, eh, ma cercavo di sgonfiare il panico, mi accendevo una sigaretta, chiamavo gli amici, andavo a correre. Insomma, cercavo di distrarmi in tutti i modi, e una sera in cui l’ossigeno sembrava essere liquido, in cui tutto pareva più languido e pesante, decisi di chiamare i miei amici.
 
- Aò, annamo a pijà er gelato?
 
*
 
Enzo mi aspettava in macchina da un paio di minuti. Ascoltava una noiosissima canzone dei Mumford and Sons e la cantava ad alta voce, mentre la musica evadeva da quella Panda color bianco porcellana, sforzandosi di passare attraverso i vetri appannati.
Pioveva leggermente, le note di chitarra e la voce stonata del mio amico si sentivano fin dall’androne del palazzo da cui stavo uscendo. Affrettai il passo, dato che avrei avuto certamente una lavata di capo dalla signora Parisi, primo piano, appostata con ogni temperatura e situazione metereologica al suo balcone, come la migliore delle vedette; dotata persino di binocolino, avrebbe sicuramente fatto una cattiva recensione delle mie frequentazioni durante il prossimo ritrovo delle vecchie del palazzo, che si teneva a cadenza settimanale fino a notte inoltrata.
 
“Musica ad alto volume, auto bianco cesso. Stonato assai”.
 
Oh, Enzo è stonatissimo.
Insomma, salii in auto abbastanza infreddolito e lui reagì come sempre, abbassando la voce e offrendomi il pugno. Glielo battei e ci muovemmo.
- Ciro e Jean ci aspettano lì. – mi fece, rapido e conciso.
- Sì. Ma lì dove?
- Prime, a quanto pare.
Guardai l’altro, stranito.
- Sì, hanno deciso loro.
 
È che né io né lui eravamo tipi da locali del genere. Ci piacciono cose un po’ più raccolte, un po’ più tranquille. Difatti dopo un’ora, equamente divisa tra percorrenza, traffico e difficoltà di parcheggio, arrivammo a destinazione, ed Enzo era scuro in volto.
- Sei una merda. – mi disse. Alché lo guardai confuso.
- Che cazzo vuoi da me?
- Guarda cosa mi costringi a fare… - mi rinfacciò, suscitandomi il sorriso. Lo vidi sistemarsi meglio il suo giubbino a quadri, da boscaiolo, poi chiuse l’auto e si avviò.
- Mica ho scelto io, il posto, Enzo. Per me andava bene anche il solito bar.
- Infatti sei una merda perché non devi sentirti male, che non so mai che fare e finisco per farmi trascinare in questi locali di merda.
Il volume era altissimo. Il locale era gremito di gente che, nonostante green pass e mascherine non avevano alcuna voglia di chiudersi nuovamente in casa.
E infatti Ciro diceva una cosa essenziale:
 
“Non è che sul posto di lavoro non rischi il contagio. Allora, se posso prenderlo anche a lavoro, tanto vale che io viva la mia vita spensieratamente. Se lo prendo lo prendo, stop.”
 
Ebbi da ridire, ma la cosa finì lì. Non è ancora stato contagiato, fortunatamente.
In ogni caso, ci facemmo spazio a spallate verso l’ingresso e un buttafuori largo quanto era alto ci si para davanti.
- Lista? – chiese.
Finii per guardare Enzo, cercando nei suoi occhi una risposta ovvia, che chiaramente non conosceva neppure lui.
- Ciro? – rispose il mio amico. Beh, più che rispondere fece una domanda.
Gli occhi del tipo col foglio in mano si illuminarono.
- Ah, certo! Mi aveva detto che sarebbero venuti due ragazzi con l’aria spaesata.
Ridacchiai.
Ci misurò la temperatura e ci fece entrare, e l’unica cosa che riuscivo a pensare fu che Chiara avrebbe sputato dal naso qualsiasi cosa stesse bevendo se mi avesse visto in quel posto, che io vivo di cose tranquille, musica soffusa, luci delicate e conversazioni comprensibili, almeno all’orecchio.
Invece lì era tutto tunz-tunz e fari spastici, che spostavano doppi fasci di luce bianca, blu, verde e rosa lungo tutta la sala, gremita di gente. Vincenzo mi faceva strada, poggiando i piedi su quel pavimento lucido, anche se azzeccaticcio, perché qualcuno aveva probabilmente rovesciato un drink. Superammo un gruppo di ragazze che festeggiavano un addio al nubilato e ci fermammo, proprio al centro della sala. Pochi secondi dopo vidi Ciro e Jean sventolare in alto la mano.
Il primo aveva il solito sorriso bonario sul volto, una camicia bianca sbottonata completamente, a fantasia floreale, un pantalone aderente stracciato sulle ginocchia, forse un jeans, forse nero, forse blu scuro (con quelle luci non riuscivo a capire nulla) mentre Jean (letto alla francese), pareva fosse l’angelo prescelto, dato che un fascio di luce bianco lo stava illuminando già da venti secondi. Indossava una giacca di pelle che gli avevo visto mille volte addosso, ma che gli stava sempre bene, e una t-shirt chiara.
Hollister.
Li raggiungemmo, entrambi mi strinsero in un caldo abbraccio, e quest’ultimo si avvicinò al mio orecchio.
 
- La bionda coi ricci. Tutta tua.
 
Non che avessi un particolare feticismo per quella categoria, che in realtà non avevo chiesto nulla. Quando allungai l’occhio, per capire, vidi due ragazze, di cui ora non ricordo assolutamente nulla, anonime e annoiate, sedute accanto a un tipo che conoscevo già ma di cui non mi veniva in mente il nome, e che per giunta si era ripresentato quando gli avevo detto di non ricordarmi di lui (perché lui si ricordava di me).
Ma nulla, ciò che aveva detto era entrato e uscito rapidamente dalla mia testa, quindi per comodità lo chiamerò Moschino, perché di quella marca era la sua maglietta. Indossava un paio di occhiali da sole, dalle lenti a goccia e le stanghette bianche, poggiate sui capelli, neri e impomatati. Aveva un sorriso splendente, e una settantina di denti in bocca.
Poi c’era Alice, fidanzata di Ciro e ottima amica di Chiara.
Si era alzata, guardandomi come se avessero appena ammazzato il mio cucciolo davanti ai miei occhi; aveva un sorriso gentile, quasi materno. Mi aveva dato un bacio sulla guancia poi si era voltata, stringendomi il polso. Si era sistemata il ciuffo ramato, che spesso le cadeva davanti agli occhi scuri e poi fece le presentazioni: salutai boh, mah e Moschino, battei loro il pugno e sorrisi educatamente.
- Davide. – dicevo intanto. – Piacere.
- E lei è Daria, una mia amica. Ragazzi, loro sono Davide ed Enzo.
Era la riccia, la bionda. Battei il pugno anche a quest’ultima, chiedendomi se fosse a conoscenza che un’amica della sua amica era la mia ex fidanzata.
Jean, che conoscevo letteralmente dalla nascita, capì. Puntò su di me quegli occhi azzurri come il cielo, limpidi e puliti, fissandomi torvo.
- Non davidare. – mi disse tra i denti.
- Sta davidando? – domandò Enzo, dandomi uno schiaffo dietro la testa.
- Ma cosa?! – esclamai.
Daria ridacchiò, che forse aveva già capito l’intenzione dei nostri amici di accoppiarci.
 
Cielo, che brutta espressione. Accoppiarci.
Manco fossimo cani.
 
La guardai, quasi a scusarmi dei modi rozzi di quelli, ma lei voltò subito lo sguardo, fissando altro.
Allora, Daria era effettivamente una ragazza molto carina, dal sorriso bianco come il tubino che indossava e dai capelli, come già detto, ricci e biondi. Nonostante fosse marzo la sua pelle era ambrata. Un paio di occhiali tondi, in realtà molto semplici, gli era poggiato sul naso.
Incerto sul da farsi, mi ci sedetti accanto.
Diciamo che non brillai di simpatia, quella sera.
A un certo punto della serata, Moschino e le ragazze si alzarono e andarono a ballare, verso il centro della sala. Io, Ciro, Vincenzo e Jean rimanemmo lì, a sorseggiare tre Negroni.
Tre, sì, Enzo è astemio.
 
- Per me una Fanta.
 
- Allora? – aveva chiesto Ciro, avvicinandosi un po’ di più, cercando di sovrastare con la voce quella di Bob Marley in quel remix tecno di Sun is Shining. – Quando Enzo mi ha detto che eri giù e che volevi uscire un po’ ho pensato subito che anche quell’amica di Alice… come si chiama…
- Seh, come si chiama… Lo sai bene, come si chiama! – esclamò Jean, ridacchiando. – Se non ci fosse stata Alice…
Ciro indossò l’espressione più sdegnata che avrebbe potuto avere.
- Ma che vuoi?! Io non ho fatto nulla!
- Sì, vabbè, zitto. – lo interruppe l’altro. – Comunque è carina. Poi ti guardava spesso, anche mentre non parlavi. È già fatta.
- Già fatta. – scimmiottava Vincenzo.
- Ragazzi, non lo so… - sbuffai. - … Cioè, sto bene, la gran parte delle volte, e tutto sembra andare per il meglio, mi sento in forma, sto ottenendo ciò che volevo, sto raggiungendo i miei obiettivi ma…
Tutti e tre mi guardavano gesticolare, in silenzio, cercando di capire dove volessi andare a parare.
- Ma? – domandò Enzo.
- A volte la penso e vorrei che non fosse finita così…
Jean sbuffò e ruotò gli occhi verso l’alto.
- Frà… e che palle. Sono passati quasi sei mesi, la vita va avanti. È inutile starci male…
- Non è che è inutile starci male… - riprese proprio Vincenzo. – È che ci vogliono dei tempi tecnici per riprendersi…
- Eh, ma questi tempi tecnici sono troppo lunghi! – esclamò il primo, allargando le braccia, plateale come sempre. – Stai così per una donna e il mare è pieno di pesci!
Ciro s’imbruttì.
- Ma che cazzo c’entra?! Ognuno fa come si sente! Lui ha convissuto, con Chiara, mica se l’è scopata per mezz’ora e poi l’ha mandata a cagare! Ha dei sentimenti, per lei!
Il tunz-tunz rimbombava forte nelle nostre casse toraciche, quando io, Vincenzo e Jean ci guardammo per un momento, esterrefatti. Fu il secondo ad anticipare tutti, leggendoci nella mente.
- Ha detto una cosa troppo intelligente e profonda: forse c’era qualcosa nel suo drink…
Ridemmo ancora ma alla fine misi le orecchie in folle e sorseggiai passivamente il resto del mio Negroni, pensando che effettivamente quello che servisse, forse, era gettare il cuore oltre l’ostacolo e dare una possibilità al mondo di fare pace con me.
 
E il mondo effettivamente smise di guardarmi male. Quella sera mi portai Daria a casa, e fu strano, perché sentire il profumo di un’altra donna in quelle lenzuola, passare le mani tra i suoi capelli, baciare labbra che non erano le sue e toccare un corpo differente non poteva essere altro che strano.
Non ero pronto.
Cioè, non si è mai pronti, ma per nulla, però la vita è così, che t’insegna a nuotare spingendoti oltre i bordi della barca a remi di tuo zio, in mare aperto, e che tu affoghi o meno impari quasi sempre una lezione.
E quindi mi tuffai.
Poi, se ve lo state chiedendo, io Daria l’ho anche frequentata, per un paio di mesi. Forse tre, ecco, non ricordo.
Non è durata.
Certo, bella ragazza, molto solare, simpatica, ma la verità era che Daria cadeva dal cielo come una bomba all’idrogeno e creava una confusione che per i più era divertente, ma che non faceva altro che sottolineare quanto io non fossi pronto per un’altra persona, le sue abitudini, le urla e le grida, altre cose da fare, altre cose da accettare che non mi erano mai appartenute.
 
Quindi va bene, il mondo aveva fatto pace con me ma io no. Io continuavo a guardarlo male.
 
Daria non mi serviva e me ne resi conto con una lucidità terrificante, quando vidi uno spazzolino rosa dalle setole intonse accanto al mio, Dio solo sapeva da quanto tempo.
La chiamai subito dopo, lei era, boh, forse dalla madre. Tornò quasi subito, mise in una busta le cose che aveva lasciato lì e aveva sbattuto la porta, scappando come se la stessero rincorrendo i cani.
Non passò poi molto tempo, prima che ricevessi quella telefonata.
 
-
- Alice?
- Che cazzo hai combinato?
- Prima che cominci a parlare…
- No, Davide! Non stavolta! Ti ascolto sempre, lo sai, sono sempre d’accordo con te e ti giustifico sempre, per ogni cosa! Ma Daria è una donna stupenda e non posso capire il tuo comportamento!
Mi fermai e guardai il cellulare, come se dall’altoparlante qualcuno mi avesse infilato un dito nell’orecchio.
- Ma di che stai parlando? – domandai. Quella mi rispose nervosa.
- Lei non ha fatto nulla di male, partiamo da questo presupposto! Non ha sbagliato nulla! Anzi!
- Sì, lo so, lo so, ma non potevo continuare…
- E non pensi di averle dato dei segnali contrastanti?! Non credi di averle lanciato un messaggio sbagliato, con le cene fuori, i pomeriggi a casa, il week-end di Pasqua fuori, i fiori, gli orecchini…
- … io… sentivo di fare così, Alì. Non l’ho fatto mica per portarmela a letto. Del resto ci sono riuscito la prima sera, con lei…
- Cioè, avevi bisogno di una donna che si sentisse la tua fidanzata, avevi bisogno di fare gesti romantici e di colmare i tuoi vuoti, in modo che, una volta che ti fossi sentito meglio, l’avresti messa alla porta, giusto? Sei una testa di cazzo!
Quelle parole mi colpirono forte, come una pallonata in volto. Recuperai la ragione, cercando di mettere assieme le parole per risponderle, ma non volle neppure farmi aprire bocca.
- No! Non provare a dire niente! E io che credevo che questi comportamenti non ti appartenessero!
- Ma…
- Lei si è affezionata a te, tu lo sapevi, hai fatto una corsa folle verso la costruzione di qualcosa di serio e poi uno spazzolino ti ha terrorizzato!
Le parole di Alice suonavano come una platea giudicante col pollice verso. Rimanevo immobile, a fissare il mobile della cucina col cellulare attaccato all’orecchio, cercando di capire se mi fossi macchiato davvero di ciò di cui venivo accusato.
E forse sì. Forse era vero. Forse l’avevo illusa.
- Senti… Il fatto è che… - sbuffai, poi passai una mano tra i capelli, voltandomi. - Ho avuto paura, Alice.
La lingua mi si fermò. Battei le palpebre una decina di volte, cercando di schivare i jab dei miei sensi di colpa.
- Lo so, Davide! È l’unica cosa che ho capito! Ma paura di cosa?! Ti ha messo fretta?!
- No, no… anzi. Lei è sempre stata così genuina…
- E allora?! Cosa c’è che non va?!
Respirai pesantemente, probabilmente Alice dovette allontanare l’orecchio dal cellulare.
- Ancora Chiara, Dà? Ma non eri andato avanti?
- Sì, Alice. Io…
- E perché c’è ancora Chiara, in ogni tua azione?! Ogni cosa che dici, che fai, è sempre tutto per Chiara! Lei è andata avanti, vai avanti anche tu!
 
 
“Può capitare che ricominci a fumare. Non si scoraggi perché le ricadute fanno parte di questo cambiamento. Probabilmente questo aspetto la fa sentire in colpa ed afflitto, tuttavia dai fallimenti e dalle ricadute si può imparare molto. Ricordi che le ricadute possono essere delle risorse per conoscere meglio le sue debolezze e quindi per affrontarle in modo adeguato.”.
 
 
Eh, ma non ero d’accordo.
Certo, la vecchia versione di me non avrebbe mai messo una donna come Daria alla porta, anzi, avrebbe ringraziato il cielo di avere avuto un’altra possibilità di sentirsi amato da qualcuno. A questo bisognava aggiungere che Alice avesse ragione, quando diceva che Chiara fosse ancora una ferita aperta.
Ma stavo cicatrizzando.
Stavo guarendo.
 
- Non è così. Ho semplicemente capito che certe persone non sono fatte per stare assieme. Daria è stupenda ma non era la donna per me.
- Invece, in questo momento Daria avrebbe potuto darti ciò di cui hai bisogno e aiutarti a uscire dal fango!
- Ma non esiste proprio! – mi alterai, strillando al mio cellulare. – Per quale motivo avrei dovuto usare Daria?! Non credere che debba comportarmi sempre come se qualcuno mi aiutasse! Non posso pagare in eterno il conto di esser stato abbandonato da tutti!
- Ma cosa c’entra?!
- Eccome, se c’entra! Io sono speciale! Devono essere gli altri a ringraziare di avermi nella loro vita, non devo essere io a piangere la loro assenza!
- …
L’avevo colpita. In qualche modo avevo spento l’incendio.
- Io non intendevo dire nulla di tutto ciò…
- E cosa intendevi dire, di preciso?! Chiara cosa c’entra?! Daria è Daria e Chiara e Chiara! Ho capito che nessuno deve decidere al posto mio cosa fare della mia vita! Non deve essere l’ansia di rimanere da solo a farmi scegliere una persona! Tu parli di fango, ma sai cosa ho passato, quando ce l’avevo al collo?!
- Lo so…
Sospirai. Ero eccessivamente alterato e non aveva senso prendermela con Alice.
Abbassai i toni.
- Daria non è la donna per me. – feci. - E io rimarrò single fino a quando non avrò abbastanza fiducia in me stesso, in modo da non dover dare a qualcun altro la responsabilità di farmi sentire sicuro di ogni mia scelta.
- Hai ragione…
- Hai pensato, prima di telefonarmi, che forse non avevo l’energia sufficiente per condividere qualcosa con qualcuno, in questo momento?
- Certo… - aveva ribattuto lei. - … ma questo non fa che riportarmi a Chiara.
- Non è stata lei a prendere la mia energia. E anche all’inizio, forse ho scelto lei perché avevo paura del silenzio che ora c’è in questa casa. L’ho amata, sinceramente, ma ora non voglio fare di nuovo lo stesso errore… voglio che a cancellare questo vuoto sia una persona con cui crescere definitivamente.
- Sì, l’ho capito…
- Mi dà fastidio pensare di essere schiavo di me stesso. Odio pensare che abbia scelto di stare con una donna solo perché questa dovesse mettere a posto il casino che ho dentro.
- Daria lo sapeva… - rispose, dopo qualche secondo. – Aveva capito che tu avessi particolari necessità… emotive, ecco.
- E questo non è giusto. Io non voglio dare alla persona che ho affianco la responsabilità di “aggiustarmi”.
- Ma tu non sei rotto, Dà… tu sei…
- No, Alice, sono rotto. – risi. – Sono stato rotto per anni e non sono mai stato abbastanza bravo da ripararmi da solo. Ho sperato che chi venisse poi potesse mettere una pezza... ma non è giusto. L’ho capito tardi e ho provato a rimediare. E non mi sentirò di merda perché non ho trascinato Daria a fondo.
- … Mi dispiace.
- No, non preoccuparti.
 
Alice attaccò e mi lasciò di nuovo da solo coi miei pensieri.
Poggiai il telefono sul tavolo e annuii. Ero fiero di me, perché alla fine non mi ero perso né mi ero dato alibi.
Ero uscito dal mio bozzolo.
Ero migliore.
 
“La proposta di seguire un percorso personale e autonomo è solo uno dei metodi per smettere di fumare. Gli studi hanno dimostrato che maggiore è il supporto di cui si dispone, più è alta la probabilità di smettere di fumare in modo definitivo. Il supporto specialistico si basa su diverse strategie:
  • Terapia Farmacologica:
tra le Terapie Farmacologiche troviamo la Terapia con i sostitutivi della Nicotina (NRT), il Bupropione e la Vareniclina.
 
  • Sostegno Psicologico:
Tra il sostegno psicologico troviamo: terapia cognitivo-comportamentale e counselling professionale individuale. Le Terapie cognitivo-comportamentali ed il counselling professionale (vis à vis e telefonico) facilitano il confronto sulla propria esperienza, aiutano ad acquisire sicurezza ed a rafforzare le motivazioni. Nelle terapie di gruppo, alle strategie cognitive e comportamentali si aggiunge la condivisione dei problemi e delle motivazioni con altri fumatori.”.
 

 
- FASE 3
Mantenimento
 
 
“Sei riuscito a smettere di fumare! Puoi esserne molto orgoglioso: finalmente potrai goderti il benessere! Anche se riaffiora il desiderio di accendere una sigaretta dovrai impegnarti a non fumare.
Nel caso dovessi avere una ricaduta, ricorda che è abbastanza frequente nei primi periodi di cessazione. Quindi NON SCORAGGIARTI!
Non essere troppo severo con te stesso, non è né una sconfitta né un fallimento. La ricaduta può fare parte del percorso, rimani fermo sulla decisione di non fumare e riprendi da dove hai lasciato: stabilisci subito una nuova data di astensione totale e utilizza al meglio le strategie finora apprese.”.
 
 
- Eccolo qua- È arrivato. – aveva esclamato mia madre.
 
Luglio aveva pulito il cielo dalle nuvole e aveva riscaldato l’ambiente.
Era da un po’ di tempo che non tornavo al nido ma nulla era cambiato.
Quella domenica ci sarebbe stata la finale degli europei di calcio e la mia famiglia era in fermento. I miei zii, come accadeva in questi momenti, convergevano tutti a casa e quando mia nonna aveva i figli e i nipoti sottomano viveva le tre fasi della senatrice:
 
  • Si lamentava;
“Ora dovrò cucinare per venti persone! Sono vecchia! Non ce la faccio più a cucinare! Ho cucinato per sessant’anni! Basta con questi pranzi!”.
Sostanzialmente questa parte iniziale terminava quando mia madre e mia sorella le davano una pacca sulla spalla e cominciavano a programmare il menù, rendendosi partecipi dell’epopea.

 
  • Dirigeva;
“Tu ti metti a fare questo, tu ti metti a fare quello e chiama quell’altro che deve andare a comprare questo, codesto e quello.”.
Sì, diceva letteralmente a tutti cosa fare. Lo chef stellato ti seguiva in ogni movimento (forse in maniera maniacale) perché o’rraù s’adda fa comme dice a’tradizione. Del resto è una nonna.
In questa fase generalmente si rompevano gli equilibri e mia madre le ruggiva qualcosa addosso, che probabilmente le avrebbe portate a litigare per settimane.

 
  • Faceva la madre e la nonna;
“Assaggia questo, vedi. L’ho fatto io. È buono. Dividilo anche con tua sorella. Non ti preoccupare, non è finito, c’è n’è ancora una pentola intera. Mamma mia, e che fame che hai! Posa il pane! Mangia di meno! Bevi piano, che l’acqua è fredda!”.
Controllava ogni cosa, ansiosa e impaurita che il solito boccone troppo grande facesse affogare i miei cugini più piccoli. Ci riempiva e ci rimproverava di essere pieni, polemizzando su qualsiasi cosa si potesse prendere in esame.
Oh, mia nonna è perfetta per questo.
 
Anche quel giorno la cucina era in fermento. Mi avvicinai a mia madre e a mia sorella, entrambe sedute al tavolo, entrambe coi capelli alti sulla testa, perché accaldate. Indossavano delle canottiere; quella di mia madre era scura, perché non aveva altri colori nell’armadio, mentre mia sorella ne usava sempre una bianca, a righe verticali, macchiata di qualcosa proprio al centro. Cercai di baciarle ma mi allontanarono subito dopo.
 
“Sei bollente. Siamo sudate. Invece di fare lo stronzo dacci una mano”.
 
Che bella, l’atmosfera di casa mia.
Il ragù di mia nonna pappuliava, era quasi pronto, mentre lei urlava al telefono con qualcuno che no, non dovesse essere preparato in quel modo, lo strudel. Arrivò poco dopo, coi capelli rossi e spettinati, come sempre, zoppicando dignitosamente verso la cucina, dacché quell’anca non le dava tregua. Mi salutò col classico “Uè uagliò”, poi proseguì la sua sfilata sbilenca.
Mia madre mi guardò, come per avvertirmi.
 
“Oggi sta come una pazza”.
 
- Bene… - dissi poi. – Vi trovo in forma… - feci, cercando di aprire un discorso. Mia sorella inarcò le sopracciglia, avvicinandomi la ciotola piena di cime e foglie dei friarielli.
- Stiamo a dieta… - fece proprio mia madre. – Io non sto mangiando niente.
- Ieri si è mangiata le patatine… - ribatté invece mia nonna, ancora girata di spalle.
- Eh, ma due. Due non fa niente.
Ridacchiai, finii, tagliai il pane e grattugiai il parmigiano. Lentamente casa di mia madre si popolò.
Passai un pomeriggio tutto sommato tranquillo, mangiammo, litigammo, prendemmo il caffè e i più si addormentarono sui letti e i divani, mentre i ragazzi giocavano in giardino col cane e in poco tempo, in quella stanza così piena di gente, rimanemmo soltanto io e mia sorella.
Indossava soltanto una cuffietta, nell’orecchio destro, mentre insaponava la grande pentola che aveva cibato la mia famiglia.
- Stai meglio… - disse, dal nulla, con quella voce cristallina e acuta, al limite del fastidio. Essere svegliati da mia sorella è la cosa peggiore che esista.
Io la guardai, che continuava a lavare i piatti, con le mani insaponate e un ciuffo di capelli che la infastidiva costantemente.
- Grazie. – le dissi, sistemandoglielo dietro le orecchie. – Le cose stanno andando bene…
- Alla fine ce l’hai fatta.
Assunsi un’espressione di circostanza, mentre ascoltavo il ticchettio del grande orologio alle sue spalle, quello coi limoni di porcellana, che pesava seicento chili, souvenir di una domenica in quel di Sorrento, dove mio nonno ci portò tutti a mangiare fuori per il suo compleanno.
Lo ricordo ancora, quel giorno. Ero piccolo, era febbraio. Festeggiavamo anche il compleanno di mio figlio e del nostro vicino di casa. Nati tutti quel giorno.
- A fare cosa?
Mi guardò, per un attimo, poi tornò a guardare avanti.
- A non affondare. Per come sei fatto tu…
- Lo so. – chiosai. Ma mia sorella aveva voglia di andare più in profondità.
- Alla fine non è stato come con la tua ex. Qui ci sei addirittura andato a convivere, il coinvolgimento emotivo è stato maggiore.
Ridacchiai, cercando con lo sguardo la paletta.
- Che avrei dovuto fare? Tagliarmi le vene?
- Come minimo. Tu sei l’essere più teatrale del mondo.
- Dopo tua madre.
- Dopo tua madre. - ripeté lei. – In ogni caso mi fa piacere… proprio ieri ho sentito Chiara.
Mi fermai immediatamente, come se mi avessero levato la spina.
- No Robbè, non ho capito.
Annuì, sorrise anche, come se già sapesse dove sarei andato a parare.
- Io e lei eravamo amiche anche prima, non ci vedo niente di male.
- No. Sì, no, sì, no, ma infatti, non c’è problema.
- Sì, no, sì, no… tutto bene? – sorrise.
 
Che alla fine la vita continua. Siamo come degli hotel di lusso con ampie porte girevoli, con gente che entra e gente che esce, in costante attesa del ricco nullafacente coi soldi che decide un giorno di acquistare la suite presidenziale, quella sopra a tutto, sopra a tutti.
Quella con la bella vista, insomma.
 
E io, finalmente, l’avevo capito.
 
- Sì, Roby... Tutto bene. – sorrisi, genuinamente. - Come se la passa?
 
 
“Ora il percorso è finito!
 
Nel caso tu non sia riuscito a smettere di fumare seguendo questa guida hai comunque imparato strategie utili per riprovare quando ti sentirai nuovamente pronto.
 
Se hai avuto difficoltà a smettere da solo non ti demoralizzare!
Seguire un percorso in autonomia è solo uno dei metodi per smettere di fumare. Maggiore è il supporto di cui si dispone, più alta è la probabilità di raggiungere l’obiettivo.”.
 
 
E fottesega se la suite presidenziale fosse stata usata già più di una volta. Potevo urlare al mondo che il mio cuore non si fosse rotto né dopo la prima né dopo la seconda caduta nel burrone dell’incertezza.
Guardavo mia sorella spazzare e sentivo di aver ritrovato fiducia.
Ero di nuovo pronto ad amare, a dare fiducia a una nuova Chiara; ero una persona nuova.
 
Ma volevo che la mia nuova Chiara fosse Chiara.

 
 
“Puoi chiedere aiuto ad uno specialista.
Chiama il Telefono Verde contro il Fumo 800-554-088, per intraprendere un percorso personalizzato oppure essere orientato presso un centro antifumo.
 
I Centri Antifumo sono servizi che offrono percorsi specialistici efficaci per smettere di fumare. Si tratta di strutture appartenenti al Servizio Sanitario Nazionale (SSN), al privato sociale o alla Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori (LILT).
Gli interventi offerti presso i Centri Antifumo sono in genere trattamenti integrati ovvero composti da terapie farmacologiche (sostituti della nicotina-NRT, Bupropione, Vareniclina, Citisina) e da interventi psicologici individuali o di gruppo (counselling, intervento psicoeducativo, psicoterapia, ecc.), che prevedono la presenza di diverse figure professionali (medici, psicologi, infermieri ecc).
L’elenco aggiornato dei Centri Antifumo presenti sul territorio nazionale viene pubblicato nella “Guida ai Servizi Territoriali per la cessazione dal fumo di tabacco” realizzata annualmente dall’Istituto Superiore di Sanità.”.
 
 
Così, il giorno dopo, lunedì, durante la pausa pranzo, decisi di andare a trovarla.
Certo, avrei voluto avere una motivazione un po’ più plausibile per poter entrare in quel negozio di intimo femminile, ma tant’era.
 
“Mi serve un tanga. È per mia madre. Di quelli comodi.”.
 
Varcai la soglia del negozio e un getto d’aria fredda m’investì rapido.
Sentivo quell’ansia frizzantina solleticarmi le spalle, che volevo essere lì e contemporaneamente su un pianeta lontano, caldo e solitario.
Tipo le Maldive.
Sì, non è un pianeta, lo so, ma non fa niente.
Insomma, entrai e passai una mano tra i capelli, con gli occhiali da sole poggiati sul naso che obiettivamente lì dentro non servivano, quindi li levai, li fissai sul colletto della camicia, anzi no, nel taschino della giacca, che mi davano più l’impressione dell’uomo sicuro, bello e impossibile, anche se in quel momento stavo cercando la mia femme fatale, e sapevo che sarei finito ucciso.
Sorpassai un espositore di reggiseni succinti, pieni di pizzo e fiocchetti, che probabilmente anche la stessa Chiara avrebbe acquistato, mentre con gli occhi cercavo il suo volto, le sue labbra, i suoi capelli scuri.
I suoi occhi dal taglio orientale.
E di tutte quelle ragazze sfatte e scocciate, truccate alla bene e meglio perché il caldo di quel luglio (che poi era quasi agosto) le stava sciogliendo, solo una, dietro la cassa, attirò la mia attenzione.
Era lei.
Era Chiara.
La sua pelle era dorata. Aveva tagliato i capelli, ora le cadevano accanto al volto e sulla fronte. Aveva la frangetta, che le si poggiava poco oltre le sopracciglia. Gli occhi, quegli occhi meravigliosi, mi fissavano spudorati e diventavano autostrade per la sua mente: c’era sorpresa, in quegli occhi, c’era paura. C’era rabbia, in quelle perle scure.
Le labbra erano rapprese, a cercare di trattenere ogni parola superflua. Perché non mi avrebbe dato la soddisfazione di rompere il ghiaccio.
No, era offesa con me, lo si leggeva in faccia, nonostante tutto quel tempo lontani, senza dirci una parola.
- Succede perché non ti sei sfogata. – le dissi, dal nulla.
S’accigliò. Incrociò le braccia sotto al seno.
- Di cosa parli?
- Di questo. Di questa tensione. – le risposi.
- Credi che non mi sia sfogata con nessuno di quanto tu sia stato coglione, Davide?
Ridacchiai, abbassai lo sguardo. La linea del mio sorriso s’intristì rapidamente.
- No. Intendo con me. Non mi hai detto le tue ragioni, non mi hai bruciato con la tua rabbia. Sei rimasta in silenzio, indignata, ti sei girata e sei andata via. Hai preso le tue cose da casa come una ladra, mentre non c’ero…
- Non volevo incontrarti.
- Ti sei presa pure la spazzola.
Fece spallucce.
- Che ci fai qui? – mi domandò, sfuggendo ai miei occhi.
- Devo comprare un tanga.
Appuntì il viso, assumendo un’espressione di schifo.
- E tu hai il coraggio di venire qui a comprare dell’intimo per un’altra donna?
- No, è per me, mi sono dato allo spogliarello.
Ebbe un moto di spirito, cercò però di trattenere il sorriso perché non voleva darmela vinta.
Poi una ragazza, una sua collega, le si avvicinò. Mi guardò torva, che probabilmente mi aveva riconosciuto, e poi le chiese qualcosa riguardo una famosa fattura di maggio che non si trovava.
Chiara le rispose qualcosa riguardo il registro elettronico, le diede dei dati d’accesso ma non ricordava la password.
- Dovrebbe essere scritta nel libretto rosso accanto ai cataloghi. Tipo all’ultima pagina. – fece, vedendola andare via. Poi si voltò verso di me, con ancora le braccia incrociate. – Io starei lavorando. Quindi, a meno che quel tanga non ti serva davvero, sparisci.
- Lo voglio leopardato.
E allora sorrise.
- Il tigrato ti starebbe meglio. Ma non abbiamo la tua taglia.
- Oh, che peccato… vuol dire che stasera mi limiterò alla foglia di fico.
- Giovane Adamo.
Feci una smorfia. – Mica così tanto giovane… Comunque passavo qui e… e volevo sapere come stessi.
Slegò le braccia, si rilassò. Abbassò lo sguardo e allungò il lembo destro della bocca, assumendo una smorfia che non riuscivo a definire. Sembrava triste.
No, perplessa.
Poi si voltò, prese il suo zainetto e vi estrasse quella sigaretta elettronica che puzzava di morte, avvertì Melissa che sarebbe andata in pausa e mi disse di seguirla.
Uscimmo fuori, la fame che avevo fino a quel momento era sparita, ci sistemammo all’ombra, in un vicolo tra due palazzi, un po’ più isolati dalla fiumana di gente che perenne scorreva su via Toledo.
- E quindi? – disse, prendendo un tiro dalla sua sigaretta. Incrociò di nuovo le braccia; quella cosa me la faceva sentire distante.
- E quindi nulla, te l’ho detto. Volevo sapere come stessi.
Fece spallucce. – Tutto uguale. Sono tornata da mia madre ma sto cercando un nuovo appoggio. Forse, con delle colleghe, affittiamo un appartamento in zona ospedaliera.
- Scenderesti con la metro, dal Vomero.
- Sì, il progetto è quello. Sono stanca della periferia. Torno a casa e non so che fare, non c’è nulla, non ho voglia. Invece qui scendi e sei al centro di Napoli. Sai, almeno una birra, compagnie nuove… ragazzi.
Mi guardò, poi, come a testarmi. Io mi limitai a ridere di sottecchi.
- Non avresti problemi neppure in periferia, con quelli.
- Lo so.
Calò di nuovo il silenzio. Prese un tiro, mi gettò il fumo in faccia e mi fissò.
- Ti piace il mio nuovo taglio?
Annuii rapido.
- Non credevo potessero starti così bene, i capelli corti.
- E la frangia? – aggiunse. – Ti piace?
- Sì. Come mai hai… - indicai poi la pettinatura. - …tagliato?
Lei spostò lo sguardo sul muro dietro di me, facendo cenno di no con la testa e alzando le spalle, giusto per un attimo.
- Credo che… che avessi bisogno di un cambiamento.
Risi. – E hai tagliato i capelli?
- Sei un uomo, certe cose non le puoi capire. Ero stanca di vedermi in quel modo, di vedere quella… quella persona allo specchio.
Prese un altro tiro di sigaretta elettronica, poi divenne ciminiera e sparì per un attimo dietro a una nube di fumo che odorava di tabacco essiccato, prima di continuare.
- Ma non voglio parlarne, onestamente. Tu invece? Ti vedo cambiato.
- Sotto molti aspetti, a dire il vero.
- Come te la stai passando?
Sorrisi.
- Perché non te lo fai raccontare stasera, a cena?
Appuntì di nuovo lo sguardo, ma stavolta sembrava quasi divertita.
- Hai una faccia tosta incredibile.
Annuii spudoratamente.
- Eh, senza faccia tosta non si ottiene nulla.
Lei si limitò a sorridere debolmente.
- E che vorresti ottenere, scusa? Io e te siamo già stati assieme e abbiamo visto che è andata male. Non siamo fatti per stare assieme, non siamo compatibili. Tu non ti fidavi di me.
- Sì, quello… il fatto del telefono. Ecco, vorrei scusarmi. So che è passato quasi un anno, ma non ne ho mai avuto l’occasione. Tu non hai fatto nulla, non c’entravi nulla con tutta quella storia e io non dovevo guardare il tuo cellulare.
Sbuffai, portai le mani ai fianchi, sentendo il tessuto della camicia sotto le dita. Ero sudato, avevo caldo e il cuore stava per esplodere.
- Non ho avuto mai la possibilità di dirtelo. – conclusi.
- Non mi hai mai cercata.
- Ho avuto una buona motivazione e se vuoi te le spiegherò, ma stasera. A che ora passo?
Lei prese un altro tiro, l’ennesimo, poi mi catturò nel suo sguardo.
 
- No.
 
Mi aveva rifiutato.
E mi veniva quasi da dire qualcosa tipo in che senso no, sono qui davanti a te e ti ho chiesto scusa, mi sono reso ridicolo, ho fatto il primo passo. Hai idea della faccia di tutte quelle ragazze quando ho chiesto un tanga? Non so neppure se hanno capito che scherzavo, quando dicevo che faccio gli spogliarelli. Però tutto ciò che riuscii a fare fu pronunciare il labbro inferiore, leggermente, e annuire.
- Va bene. Okay, va bene. Non preoccuparti.
Lei mi guardava divertita.
- Stasera non ci sono, c’è l’inaugurazione del bar di un amico, vicino largo Banchi Nuovi. Io sarò lì, se vuoi.
Annuii.
- Okay. Chi è? Lo conosco?
Fece cenno di no, prese l’ennesimo tiro dall’Iqos, forse lo fece un po’ più lungo dei precedenti, poi levò la sigaretta e la buttò per terra.
- No. Non lo conosci.
- Va beh. A che ora?
Si era voltata, facendo per rientrare nel negozio.
- A piacere tuo. Ma non fare tardi, che non mi trovi.
Poi sparì oltre l’uscio. Sorrisi. Amavo quell’atteggiamento che aveva, anche se era un atteggiamento del cazzo. Tornai in ufficio senz’aver pranzato, ma elettrico come una dinamo.
 
 
“Telefono Verde contro il Fumo
800.554088
Servizio anonimo e gratuito attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 10.00 alle ore 16.00
 
Sostiene i fumatori che desiderano smettere di fumare
Orienta presso i Centri Antifumo sul territorio nazionale”.
 
 
Guidai, quella sera, cercando di non farmi influenzare dall’eccitazione.
Parcheggiai con difficoltà immani, pensando erroneamente che fosse comunque lunedì e che nessuno scendesse il primo fottutissimo giorno della settimana, ma avevo dimenticato che fosse il ventisei luglio e che la gran parte dei ragazzi se ne importavano davvero poco del giorno della settimana. Beh, comunque, mi fermai in zona museo, rischiando il verbale (che poi NON ho preso – voglio sottolinearlo).
Era mezzanotte, che non significava né presto né tardi, per quel contesto. Jean e Ciro non scendevano prima di quell’ora, solitamente, quindi pensai di fare in quel modo.
Mi divincolai col muso stretto nella mascherina attraverso i vicoli più caratteristici del centro storico, raggiunsi piazza Bellini e scesi, evitando grosse porzioni di folla che bevevano birre e spritz, che fumavano allegri e urlavano, talvolta in maniera troppo accesa. Raggiunsi il posto prefissato senza neppure sapere dove andare, e rendendomene conto solo allora.
 
“Vicino ai Banchi Nuovi è poco indicativo. Può essere anche Bologna.”.
 
E quindi chiesi in giro se ci fosse un bar che stesse inaugurando proprio quella sera, e la risposta di tutti fu una: Cocomò.
Era un locale estremamente piccolo, infatti tutta la gente era riversata fuori, per strada. Tutti, ma proprio tutti, stringevano tra le mani un bicchiere con un drink arancione, che probabilmente doveva essere una sorta di cocktail di benvenuto, o qualcosa del genere.
E in mezzo a quelle mille persone io cercavo solo i suoi occhi e le stelle che contenevano.
Poi la trovai, accanto a un ragazzo, che sorrideva giuliva, probabilmente già ubriaca, che col lockdown aveva perso (e anche io) ogni resistenza alcolica.
Indossava un top color pesca, con le spalline sulle braccia, una gonna bianca e un paio di sandali col tacco, scuri, che aveva abbinato alla cintura e alla pochette, che stringeva nella mano libera. La sua pelle ambrata riluceva alle luci del porticato sotto il quale stava.
Era stupenda.
Ed era affianco a un altro, un tipo secco allampanato, forse più alto di me, forse no, con una t-shirt nera a tinta unita e un jeans strettissimo, che gli avrebbero regalato entro la fine della serata una torsione testicolare.
Lei rideva e io ero geloso.
Respirai.
 
“Stai calmo, giovane maschio. Sei migliore di così.”.
 
Le passai alle spalle, volevo anche io quel drink arancione (che si rivelò essere davvero un cocktail di benvenuto). Lo presi, mi misero una corona di fiori al collo e mi dissero che la mia camicia di lino bianca fosse troppo chiusa.
- Sarà… - feci, sbottonandola quasi tutta. Uscii, lei era ancora lì, rideva come una sciocca e mi limitai semplicemente a passarle accanto e a sbatterle addosso.
- Scusami, non ti ho vista… - dissi subito. Lei si voltò, già sapeva che fossi io ma mi snobbò.
- Tranquillo. – si limitò a dire, tornando a parlare con quel tipo, senza considerarmi.
 
“Mi tratta come uno sconosciuto.”.
 
Ma io non perdo così facilmente.
- … Oh, ma guarda un po’ i casi della vita! Chiara! Non ci vediamo da almeno… dieci anni! – esclamai, vedendola spalancare gli occhi. Mi gettai su di lei, abbracciandola e dandole un grande bacio tra la guancia e la bocca.
Amavo il suo odore.
- Ehm… Davide? Vero? – rispose, dubbiosa sul da farsi. Credo che il tizio che aveva affianco stesse ringhiando.
- Sì! Davide Guglielmi, quinta acca! Non ci vediamo dai tempi della scuola! Come te la passi?!
- … Sì, ricordo. Bene…
- E lui è? Il tuo ragazzo? – chiesi, falso e cortese, stringendogli la mano. – Sono Davide, Davide Guglielmi, compagno di scuola della tua Chiara.
- Matteo. Todaro. No, in realtà non stiamo…
- Ah, cielo, che gaffe! – esclamai, accentuando un po’ di femminilità nei miei atteggiamenti. – Oh, ma non preoccuparti, lei non mi interessa…
Chiara inarcò le sopracciglia e mi guardò, spostando lentamente il volto.
- A me piace… altro… - feci, facendogli l’occhiolino.
Lei sorrise, lui trovò la scusa più stupida del mondo per salutare e ci lasciò da soli, in mezzo a mille persone.
Mi guardava divertita, con la cannuccia di quel drink dolce e alcolico stretta tra i denti e gli occhi da predatrice.
 
Ce ne andammo immediatamente, tornammo a casa mia.
Pochi giorni dopo tornò a essere casa nostra. Risistemò il salone e le sue cose, rimise la spazzola al suo posto, tornò a cucinare coi capelli legati e una mia maglietta, fin troppo lunga, e nient’altro sotto.
 
- Ora tutto è tornato al proprio posto… - le avevo detto, una domenica mattina.
Aveva dormito stesa su di me, con le coperte fino alle spalle. Poi si era svegliata e aveva cominciato a giochicchiare coi peli del mio petto.
- Sono felice di essere tornata qui… - disse, con la voce compressa dal sonno
- Anche io.
- È stato strano… - fece poi. – Tutto era diverso... la casa, l’odore… anche la luce di questo posto… e poi tu. Anche tu… sei cambiato anche tu.
Sorrisi sommessamente, poi riempii i polmoni. L’aria sembrava più buona.
- Io… io ho solo smesso di fumare.
 
 
 
 
 
 
 
Informa sulla legislazione in materia di tabacco
Sensibilizza agli effetti del fumo attivo e passivo sulla salute.
 
www.iss.it/dipendenze
telefono.dipendenze@iss.it
   
 
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